Scrap-book dal Web. Il caso di Giulio Regeni

Foto LaPresse - Parisotto Valter 12/02/2016 Fiumicello - Udine ( ITA) cronaca Funerale di Giulio Regeni Nella foto: Epigrafe Giulio Regeni a Fiumicello Photo LaPresse - Parisotto Valter 12 February 2016 Fiumicello - Udine (ITA) news Funeral ceremony of Giulio Regeni In the pic: Epigraph of Giulio Regeni

Propongo questo scrap book  innanzitutto per la gravità del fatto, ma anche per altri due motivi  contingenti:  – evitare che il post “I Quaderni di Italo II” venga ulteriormente appesantito da commenti su temi diversi da quelli previsti dall’autore; – render conto anche sul  sito del materiale finora raccolto sul caso Regeni in POLISCRITTURE FB. [E. A.]

4 febbraio alle ore 22:58
SEGNALAZIONE

“Giulio Regeni aveva paura per la sua incolumità”
Il ricercatore italiano trovato morto al Cairo aveva scritto più volte per “il manifesto” e, dati i suoi contatti con l’opposizione egiziana, aveva paura per la sua incolumità. Lo aveva anche espresso in alcune email
RADIOPOPOLARE.IT

Giulio Regeni arrestato con 40 oppositori e torturato per due giorni all’oscuro di Al Sisi
Andrea Purgatori, L’Huffington

http://www.huffingtonpost.it/2016/02/05/giulio-regeni_n_9169926.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001

Gli aguzzini si sono spaventati e si sono liberati del cadavere o lo hanno fatto su ordine dei superiori gerarchici. messi in moto dal presidente in persona? Di sicuro, la notizia dell’arresto di due persone non spiega ancora nulla di quelle 36-48 ore di agonia patite da Giulio Regeni. Dove? Come? Per mano di chi? E negli ambienti di governo egiziani sta già cominciando a circolare la voce tutta autodifensiva che questo delitto abbia sì un connotato politico, ma nella forma di una trappola organizzata da pezzi degli apparati di polizia o del Mukhabarat legati all’opposizione (i Fratelli musulmani) per sabotare le relazioni con l’Italia e in particolare il nostro ruolo nel negoziato tra Tripoli e Tobruk. Un intrigo troppo grande per spiegare un semplice, efferato assassinio per il quale, si dice al Cairo, pagheranno solo le ultime ruote del carro. Perché del vero regolamento di conti già aperto nel sistema degli apparati di sicurezza non sapremo mai nulla.

CI SI CHIEDE SPESSO: MA COSA FANNO GLI INTELLETTUALI? ECCONE UNO…

“Giulio [Regeni] era uno dei più brillanti studiosi dell’Università di Cambridge. Da studioso marxista, si era occupato da tempo dei movimenti operai in Medio oriente.

A 17 anni era andato a studiare in New Mexico per poi trasferirsi in Gran Bretagna. Nel 2012 e nel 2013 ha vinto due premi al concorso internazionale dell’Istituto regionale di studi europei per ricerche sul Medio Oriente. Da mesi si era trasferito al Cairo per condurre la sua ricerca dottorale.”

(http://ilmanifesto.info/uno-studente-gramsciano…/)

Uno studente gramsciano appassionato di movimenti operai
ILMANIFESTO.INFO

 6 febbraio alle ore 9:29

1.
Caro Ennio, ma questo ha pagato con la vita il suo coraggio e la sua posizione teorica e politica, ma quanti si pongono sullo stesso piano?

2.
Ennio Abate
…, questo giovane fino a una settimana fa non era un “eroe”, era uno dei tanti intellettuali sconosciuti che testardamente faceva il suo lavoro serio contro i rassegnati o i cinici o i lamentosi. Chi se ne fotte che tanti altri “non si pongono sulla stesso piano” suo? Importante è allearsi con quelli che non sono né rassegnati né cinici né lamentosi.

“Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.”

  6 febbraio alle ore 10:56
SEGNALAZIONE

“Ma nulla, purtroppo, può sfamare gli avvoltoi che hanno infierito in queste ore su Giulio Regeni. Quegli avvoltoi che vivono nella Rete e che lo hanno arruolato nei servizi segreti italiani coprendo la sua vita di fango, come a giustificare la sua morte. Purtroppo a questi bassifondi dell’informazione siamo abituati perché, come abbiamo scritto, siamo un giornale di frontiera che ha già vissuto sulle sue povere ma robuste spalle altri drammi e tragedie, sempre e solo legate all’impegno politico e giornalistico, al dovere di testimoniare. E così è stato anche nella terribile vicenda di questo ragazzo che aveva appena iniziato a scrivere per noi perché considerava «un piacere poter pubblicare sul manifesto», considerandolo «il giornale di riferimento in Italia», come scriveva nelle mail.

Oggi il suo corpo viene restituito al nostro paese. E mentre cominciano a emergere particolari sulle torture subite, il dittatore egiziano si mostra cortese e comprensivo verso il governo italiano messo nel grave imbarazzo di ritrovarsi il cadavere di un giovane italiano mentre discute di affari con il nostro ministro dello Sviluppo economico. L’incidente va archiviato, magari con la punizione esemplare di qualche poliziotto (si parla di due arresti). Uno di quelli indicati da Mona Seif, nota attivista dei diritti umani, autrice di un appello agli stranieri di non recarsi in questo momento nel suo paese dove «qualsiasi poliziotto di qualsiasi grado si sente in diritto di detenere e magari torturare chiunque cammini per strada».

Il caso Regeni va dunque risolto il più rapidamente possibile, così da riprendere presto le normali, anzi, le privilegiate, relazioni tra l’Egitto e l’Italia. Un punto fermo della nostra politica internazionale, una corsia preferenziale sullo scacchiere mediorientale, specialmente in vista di probabili, ravvicinati interventi militari in Libia, con il dittatore Al-Sisi schierato dalla parte giusta. Si chiama real-politik.

(http://ilmanifesto.info/il-dolore-e-gli-avvoltoi/)

 6 febbraio alle ore 12:18
SEGNALAZIONE

Ecco invece il commento di uno di quelli che la sanno più lunga degli altri:

La morte di Giulio Regeni
Giochi pericolosi
di Carlo Gambescia

“Volete sapere cosa ne pensiamo? Niente di che. Il “brillante studente”, giocava a fare l’inviato d’assalto. Con tutta l’ingenuità dei vent’anni. Ed è finito, magari per qualche domanda sbagliata fatta alla persona giusta, nella rete di una polizia sotto pressione, che non scherza, o peggio ancora dell’antiterrorismo egiziano. Il resto è cronaca. Purtroppo.
E ora l’Italia che deve fare? Di certo, chiedere spiegazioni e ragioni del perché della morte misteriosa e violenta di un suo cittadino. Tenendo però sempre presente due cose: uno, che l’Egitto, piaccia o meno, è nostro alleato nella lotta armata, ad esempio in Libia, contro il fondamentalismo, guerra che l’italia si guarda bene dall’intraprendere; due, che l’attuale regime politico, non ha matrice sicuramente liberale, però fa da diga all’offensiva islamista in Medio Oriente. Quindi protestare, ma con juicio. E soprattutto, non dare spago alla canea anti-istraeliana prossima ventura, in cui di solito spicca, quando si dice il caso, proprio “il manifesto”; canea, sempre pronta a scorgere ovunque lo zampino d’Israele. Altro stato, mai dimenticarlo, nostro alleato, di fatto o di diritto, nella lotta contro il fondamentalismo.”

(http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/…)

 6 febbraio alle ore 13:42

SEGNALAZIONE (ripresa dal profilo di Giuseppe Muraca)

La madre di Regeni: Giulio voleva collaborare, il Manifesto disse no. Diffusa una dichiarazione attraverso l’avvocato di famiglia: non fu mai considerato. La replica del quotidiano: quel pezzo era in attesa di pubblicazione.
di Andrea Pasqualetto

«Giulio non collaborava con Il Manifesto, avrebbe voluto ma non lo hanno considerato…». Lo scrive testualmente Paola Deffendi, la madre di Giulio Regeni, in una mail inviata a un amico di famiglia, Fabio Luongo, al quale ha chiesto di diffondere la dichiarazione, dopo aver letto sui giornali italiani della collaborazione di suo figlio con il Manifesto. «Il quotidiano ha oggi pubblicato un articolo di Regeni usando il suo nome e cognome nonostante lui, nel proporre il servizio di carattere sindacale dal Cairo avesse espressamente chiesto che fosse usato lo pseudonimo per problemi di sicurezza», ha aggiunto l’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini. Al Manifesto hanno spiegato che l’articolo in questione era in attesa di pubblicazione. Nel frattempo però Regeni aveva proposto lo stesso servizio, critico nei confronti del governo di Al-Sisi, al sito Nena-news.it, agenzia di stampa del Vicino oriente. E il sito l’aveva pubblicato, con lo pseudonimo di Antonio Drius.
Corriere della Sera, Cronaca.

6 febbraio alle ore 16:04
SEGNALAZIONE

Regeni era un agente segreto?
Scritto da: Gianni Petrosillo (05/02/2016)
(http://www.conflittiestrategie.it/regeni-era-un-agente…)

Ecco un commento che basandosi su un sospetto rischia di presentarlo come un dato già accertato:

A leggere gli articoli della stampa sulla tragica vicenda che ha portato alla sua morte, si riceve l’impressione che il suo, proprio come afferma Petrosillo, fosse l’‘identikit’ perfetto dell’agente segreto. Secondo quanto riferiscono i giornali, sottolinea Petrosillo, egli era anche un collaboratore del “manifesto”, alla cui redazione inviava articoli sul Vicino Oriente firmati con uno pseudonimo e caratterizzati da un orientamento politico ostile al regime di Al Sisi e vicino alla variegata opposizione egiziana, non esclusa quella rappresentata dal fondamentalismo islamico più oltranzista. In sostanza, se si considera l’equazione tra la politica estera statunitense nel Vicino Oriente e la simulazione della guerra all’ISIS, si può ipotizzare che Regeni fosse un agente filoamericano al servizio dell’Occidente. Il “manifesto”, un giornale non nuovo a coinvolgimenti nelle ‘spy story’, come dimostrato dal sequestro della giornalista Giuliana Sgrena in Iraq, che costò la vita all’agente segreto italiano Nicola Calipari nel 2005, ne era a conoscenza? In caso affermativo, dovrebbe spiegare ai suoi lettori il significato di queste sue iniziative che si pongono in un contrasto stridente con la propria ispirazione politica; se invece la redazione del “manifesto” non era a conoscenza del ruolo svolto da un suo collaboratore, ancorché occasionale, meglio sarebbe per essa cambiare mestiere.
Insomma, Giulio Regeni è morto a soli 28 anni, probabilmente a causa delle torture e delle sevizie inflittegli dai servizi di sicurezza di Al Sisi, mentre svolgeva la missione che gli era stata affidata. La stessa imbarazzante polemica, sorta tra i famigliari del giovane e la redazione del “manifesto” sulla tardiva pubblicazione di un articolo da lui inviato, rende più densa la coltre di ambiguità che circonda una vicenda di per sé tragica, ma anche tutt’altro che indecifrabile. Sorge allora spontanea la domanda: è possibile che Regeni non lavorasse unicamente per i servizi segreti italiani? Una domanda che chiama in causa, anche su questo terreno minato, la questione della sovranità nazionale, poiché legittima il sospetto che il ruolo dei nostri servizi segreti (così come quello del nostro paese nella competizione imperialistica) possa essere quello dell’asino che porta sulla groppa la botte di vino, ma beve l’acqua. È prevedibile che queste domande, queste ipotesi e questi sospetti siano destinati a restare senza risposta. Meno problematica sembra essere invece la risposta, giustamente formulata qui, a chi afferma che la mitica testata di Luigi Pintor e Rossana Rossanda si è ormai ridotta, da lunga pezza, a svolgere, in un sistema dove il potere si sceglie e si costruisce le sue opposizioni, il ruolo sussidiario di “agenzia” di propaganda imperialista per signorini ‘radical-chic’.
 6 febbraio alle ore 20:21

DAL PROFILO DI STEFANO GUGLIELMIN

Stefano Guglielmin ha condiviso il post di Sergio Pasquandrea.
19 h ·
Pietà per i genitori che leggono le torture subite dal figlio e disprezzo per uno Stato come l’Italia che ancora non tergiversa con un partner in affari. Rottamare l’ipocrisia, prego!

Sergio Pasquandrea
20 h ·
cito dalla Repubblica di oggi, pag. 10:

“Le lesioni sul corpo di Giulio (Regeni) (compresa quella letale al midollo spinale con la frattura di una vertebra cervicale) provano che l’omicidio ha una mano e un movente politici. (…) Nella loro raggelante crudeltà, le sevizie infllitte al ragazzo hanno un inequivocabile format dell’orrore. Proprio degli interrogatori che le polizie segrete riservano a coloro che sono vengono ritenuti ‘spie’, come nel caso di Giulio. (…)
A Giulio Regeni sono state strappate le unghie delle dita e dei piedi. Sono state fratturate sistematicamente le falangi, lasciando tuttavia intatti gli arti inferiori e superiori. E’ stato mutilato un orecchio. (…) I boia hanno infierito su un inerme. Lo hanno apputno lavorato alle mani, ai piedi e quindi al tronco. Colpendolo ripetutamente al torace, alle costole, alla schiena (…).
Anche il colpo di grazia ha le stimmate degli interrogatori da ‘squadroni della morte’. Chi era di fronte a Giulio, in quel frangente probabilmente seduto o legato su una sedia, gli ha afferrato la testa facendola ruotare repentinamente di lato oltre il punto di resistenza.”

cito sempre dalla Repubblica di oggi, pag. 11:

“Il ministro degli Esteri: (…) Non abbiamo inviato un pool di investigatori al Cairo per mettere qualcuno sotto tutela ma perché lavorando insieme possiamo scoprire prima la verità. (…)
Noi abbiamo chiesto e ottenuto che al Cairo funzionari investigativi del Ros e della polizia possano partecipare alle indagini egiziane. (…) L’Egitto è un nostro partner strategico e ha un ruolo fondamentale per la stabilizzazione della regione.”

…e sento una profonda, lancinante, vergognosa discrasia.

9 febbraio alle ore 9:16

SEGNALAZIONE Da un commento sul sito di Aldo Giannuli:

Ammettiamo, sempre per un attimo, l’ipotesi di un’uccisione per errore. Se all’epoca del primo contatto con i funzionari degli Esteri e i servizi segreti italiani fosse già stato ucciso, tutto quanto dichiarato dopo, fino al giorno stesso del ritrovamento, ovvero comunicati ufficiali del tipo “Lo studente italiano scomparso, Giulio Regeni, non è detenuto da alcun organo dell’Interno, forze dell’ordine, Sicurezza nazionale, Servizi di indagine” ( http://www.ansa.it/…/farnesina-scomparso-italiano-al…) rappresenterebbe solo fumo negli occhi per guadagnare un po’ di tempo e cercare un modo per uscire da quello che – a questo punto – potrebbe essere ANCHE stato un errore.

Ma ammessa e NON CONCESSA questa ipotesi, resta sempre l’uso improprio, la strumentalizzazione, che di tale errore sarà fatto nei giorni futuri e di cui si cominciano a intravedere i primi momenti: un “casus belli” inesistente, ma dalla risonanza mediatica sufficiente a far detonare i micidiali ordigni della macchina da guerra che si sta preparando contro un Egitto, quello di Al-Sisi, impegnato in un pericoloso doppio gioco fra sponda americana e russa e con quel famoso giacimento di cui l’Italia è, sarebbe, la principale beneficiaria fra gli Stati esteri. Del resto, è dal famoso arsenale chimico di Saddam che ci hanno abituato a questi mezzi, così come ci hanno abituato all’impiego strumentale dell’enorme potenziale simbolico dato dal ritrovamento di cadaveri, dalle false fosse comuni di Timisoara in avanti. Proprio per questo, perché un corpo morto non parla ma “dice” molto, persino quello che gli si vuol far dire, occorre che le perizie accertino con la massima precisione possibile l’intera dinamica dell’accaduto. Le “mani esperte” che hanno seviziato il povero Giulio costituiscono un macabro quanto noto marchio di fabbrica, che in quanto noto (e quindi facilmente riconducibile a esecutori materiali) POTREBBE anche essere stato cinicamente apposto in un secondo momento.

Anche perché, errore per errore, a quel punto non sarebbe stato più conveniente far sparire il cadavere, anziché FARLO trovare in quello stato in un fosso a dieci giorni dalla scomparsa? Per questo, a questo punto, mi risulta difficile escludere qualcosa. La mia mente va al povero Arrigoni: ma Vittorio è stato assassinato in maniera più “lineare”, da criminali che potevano permettersi quello e altro (nulla infatti è stato fatto contro Israele). E dopo la sua morte, non c’è stato tutta la risonanza mediatica che c’è ora; ci mancava poco che la versione ufficiale fosse: era un estremista, se l’è cercata. Ancora meno inchiostro è stato speso per il povero Andrea Rocchelli (http://www.cesura.it/contributorsDettaglio.php…), altro testimone scomodo barbaramente ucciso a Sloviansk dal “fuoco amico” del fantoccio Poroschenko e delle squadracce naziste al soldo dei suoi amici oligarchi. Anche qui, nulla contro questi signori, anche qui, tutto messo a tacere col rientro della salma.

(http://www.aldogiannuli.it/giulio-regeni/#comments)
9 febbraio alle ore 9:23

SEGNALAZIONE. TRE COMMENTI DA “CONFLITTI E STRATEGIE”

Gianfranco La Grassa Says:
febbraio 8, 2016 at 4:28 pm

era stato (probabilmente) reclutato perché brillante giovane ingegnoso o è diventato così brillante perché già reclutato? Il principale personaggio di “mani pulite”, considerato più che brillante magistrato, era entrato in magistratura con un concorso in cui una manina provvidenziale gli aveva evitato la quasi sicura bocciatura. E sappiamo perché è diventato magistrato, facendolo poi passare per il “reuccio” della manovra politica di liquidazione di un regime – per averne uno di ancora più obbediente agli Usa, con il Pci e il ceto intellettuale uscito dal ’68 sugli allori – contrabbandata per operazione di “pulizia morale”. Quell’uomo era evidentemente già scafato; il povero giovane friulano non ha probabilmente avuto tempo di fare sufficiente esperienza. E certo chi lo ha usato (se risultasse vera la supposizione che si sta facendo da più parti) è piuttosto ributtante. Tuttavia, che serva – sempre nel caso che le supposizioni siano vere – di insegnamento ad altri giovani un po’ troppo entusiasti e poco attenti ai pericoli rappresentati dai “volponi” utilizzati in certi ambiti.

ws Says:
febbraio 8, 2016 at 7:59 pm

va aggiunto che anche nei “servizi” ( e pure polizie) del “terzo mondo” non e’ “professionale” eliminare qualcuno cosi'( e intorno al cairo c’ e’ un deserto dove far sparire qualunque cosa ) a meno che proprio non si volesse creare un ” caso ” pubblico .
E in un “caso” voluto ci sono solo le due ipotesi che ho postato prima .

Gianfranco La Grassa Says:
febbraio 8, 2016 at 9:30 pm

mi sembra più credibile la seconda. E ricordare Calipari mi sembra appropriato, anche se allora si era stati molto più furbi ed era stato fatto passare per “incidente”, senza uso di una brutalità selvaggia. Qualche cretino, anzi, voleva far credere che si intendesse in realtà uccidere la Sgrena, meno ancora di una quaquaraqua. Del resto, è del tutto possibile che il ragazzo non avesse affatto rapporti con i Servizi, e fosse quindi un personaggio irrilevante in tal senso; tuttavia, è servito egualmente di monito per chi avesse altre idee simili e magari coperture migliori. Ammazzarlo in quel modo – e non far sparire il corpo e tutto – non mi sembra però mossa abile. Permangono quindi molti dubbi in merito alla faccenda. Mi sembra strano che dei Servizi si comportino così.

(http://www.conflittiestrategie.it/regeni-era-un-agente…)

 9 febbraio alle ore 9:27

SEGNALAZIONE Depistaggio di al-Sisi
di Giuseppe Acconcia

Stralcio:

Dagli ambienti di avvocati e difensori dei diritti umani in Egitto emerge che Giulio si trovava nel momento sbagliato e nel posto sbagliato quel terribile 25 gennaio, quinto anniversario dalle proteste, quando è scomparso. Probabilmente non lontano da piazza Tahrir e in una riunione a porte chiuse o all’aperto insieme ad almeno quaranta persone. È possibile che in quel momento sia stato fermato insieme agli altri e che in quanto straniero abbia destato sospetti. A quel punto è partito in Egitto il passaggio da un posto all’altro di detenzione fino al luogo degli interrogatori e delle torture. Gli ambienti dei sindacati indipendenti, frequentati da Giulio per motivi di ricerca, sono da tempo infiltrati dai servizi segreti militari e civili.

Questo tentativo di impossessarsi del dissenso da parte dei militari è successo in tante circostanze e modi diversi negli ultimi cinque anni. Un esempio lampante è il movimento Tamarrod (ribelli) che è stato forgiato dai militari per costringere l’ex presidente, Mohammed Morsi, alle dimissioni e che ha giustificato agli occhi dell’opinione pubblica il golpe militare del 2013. Le cellule del gruppo, nato come una raccolta firme, erano costituite proprio da giovani pagati dai militari. Da allora ogni forma di dissenso è stata impedita. Soprattutto all’interno delle fabbriche e tra i sindacati indipendenti. Prima di tutto i sindacati filo-governativi hanno visto spegnersi la loro spinta per i diritti dei lavoratori e in seguito le infiltrazioni di Intelligence hanno riguardato anche gli altri gruppi registrati o informali che sono sotto la lente di ingrandimento del regime.

È possibile che Giulio sia stato tradito da uno dei suoi contatti e che fosse attenzionato. Questo ha prolungato l’arresto trasformandolo in tortura e morte lenta che sarebbe sopravvenuta giorni dopo l’arresto. Perché non è stato lanciato subito l’allarme sulla scomparsa di Giulio? In un’intervista al manifesto l’attivista, Mona Seif, ha spiegato che è una prassi consueta aspettare prima di dare notizia pubblica della scomparsa di un congiunto.

Questa attesa tuttavia potrebbe essergli stata fatale. Nel momento in cui il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, si è attivato, cioè il 31 gennaio, per chiedere spiegazioni al suo omologo egiziano, poco dopo il cadavere di Giulio è stato fatto ritrovare in un fosso in condizioni atroci. Qui si è aperta la ridda di voci e depistaggi. Dall’incidente stradale all’atto di criminalità comune sono le spiegazioni che prima di ogni altre sono state date in pasto ai media per spiegare la morte di Giulio.

L’ultimo tentativo delle autorità egiziane è quello di avvalorare la tesi dell’omicidio a sfondo omosessuale. Secondo questa ricostruzione fasulla il corpo di Giulio sarebbe stato trovato nelle terribili condizioni di cui sopra per il giro di persone che frequentava. Addirittura i due arrestati poche ore dopo l’omicidio sarebbero proprio due persone omosessuali, in seguito rilasciate. Giulio Regeni potrebbe aver ricevuto l’attenzione dei Servizi anche per la sua affiliazione con l’Università americana del Cairo (Auc). Sono tanti i ricercatori europei che fanno riferimento all’istituzione accademica Usa in Egitto.

Tanto è vero che dopo la diffusione della notizia della morte di Giulio Regeni, dall’Auc è arrivata la richiesta a tutti i ricercatori, studenti e dottorandi che avrebbero dovuto recarsi in Egitto di fare marcia indietro e di non andare nel paese per ragioni di sicurezza.

(http://ilmanifesto.info/depistaggio-di-al-sisi/)

9 febbraio alle ore 9:45

Cristiana Fischer

tecniche professionali di tortura
re un povero giovane che ha
senza sapere informazioni escluse
dalla conoscenza del potere.
la tortura costringe il torturato
a entrare con la mente nei percorsi
paranoici dei torturatori a soddisfare
il loro brancolare estraneo al popolo
da dominare. La vittima
che si identifica con il potere è testimone
della sua meritata ignoranza e cecità per non svelare
questa distanza è inevitabilmente ucciso.

9 febbraio alle ore 19:21
SEGNALAZIONE

Dell’Egitto. E di noi
di Ida Dominijanni, giornalista
(http://www.internazionale.it/…/egitto-italia-giulio-regeni)

STRALCIO:

Siamo nel pieno di una guerra globale di cui non conosciamo nemmeno le pedine a noi più prossime.
Scopriamo che cos’è il regime di Al Sisi solo in seguito a questo massacro, avendone ignorato tutti gli altri finora e avendo finora consentito al governo italiano di trattarlo senza contestazione alcuna come un alleato necessario e prezioso.
Nella più completa insipienza della complessità dello scenario mediorientale, ci accontentiamo della logica secondo la quale “il nemico del mio nemico è mio amico”, una logica che in quella come in altre parti del mondo non ha mai prodotto nulla di buono, senza neanche chiederci se i nostri presunti amici siano, al fondo, assai simili ai nostri nemici.
Ci si può fidare del terrorismo di stato di Al Sisi per combattere lo stato terrorista dell’Is?
Si può continuare a pensare che le dittature possano fare da argine al fondamentalismo?
Se in Italia esistesse un’opposizione, sarebbero buone domande da porre con una certa fermezza al governo.
[…]
La disumanizzazione, si sa, è il costo di qualunque guerra, il prezzo della violenza illimitata che ogni guerra scatena. Ma questo non ci esime dall’analizzare le modalità specifiche in cui si produce in questa guerra, che sempre più assume i caratteri di una guerra civile globale. Dove tutte le vittime sono vittime civili casuali, e lo status di casualties si estende fino a diventare regolarità. E dunque non è affatto un caso che a rimetterci la vita siano giovani studiosi e attivisti come Giulio Regeni o, fatte le dovute differenze, Valeria Solesin.
Ha ragione chi in queste ore giudica insopportabile la retorica dei “giovani italiani all’estero” da cui è avvolta la loro morte. Non solo perché sono precisamente i giovani lavoratori della conoscenza a cui l’Italia del precariato intellettuale perenne non dà alcuna prospettiva di lavoro e di vita.
Ma anche perché sono giovani globali, che lavorano sulle e nelle contraddizioni del mondo globale e perciò stesso sono i più esposti alle loro esplosioni. Sono, in altri termini, gli anticorpi dell’ignoranza e del cinismo in cui nella provincia italiana restiamo pigramente avvolti, e immeritatamente autoassolti dalle tragedie di un presente che ci assedia senza svegliarci.
Dobbiamo loro qualcosa di più di un lutto momentaneo: quantomeno, che questo lutto resti aperto fino a un sia pur parziale, sia pur vano risarcimento.

11 febbraio alle ore 21:18
SEGNALAZIONE

NON ABBIAMO CAPITO NULLA DELLA GENERAZIONE DI GIULIO REGENI
di Fulvio Scaglione

Ma in questi giorni abbiamo sentito di tutto, troppo. Di volta in volta la memoria del povero Regeni è stata sballottata tra chi lo descriveva come un attivista per i diritti dei lavoratori egiziani e chi gli cuciva addosso i panni dell’agente segreto.
Tra chi lo voleva giornalista impegnato, pronto a correre i rischi del reporter da prima linea, e chi gli rimproverava di essersi ingenuamente andato a cacciare in un Paese come l’Egitto, governato col pugno di ferro da una giunta militare e da anni scosso da tensioni quasi incontrollabili.
È stato il tumulto dell’indignazione e dell’offesa ma, se possiamo dirlo, alla fine non ci abbiamo fatto una gran figura. Perché in tutto questo nazionalismo da quattro soldi compreso, sono stati rari i momenti in cui ci siamo ricordati che Giulio Regeni era prima di tutto un giovane italiano. Il che, Egitto o non Egitto, faceva comunque di lui il membro di una categoria particolare.
In Italia, quando si hanno i suoi 28 anni, sono quasi quattro su dieci le possibilità di essere disoccupati, il doppio della media europea. Per questo tanti di questi ragazzi emigrano: 101.297 italiani hanno lasciato il Paese nel 2014, il 7,6 per cento più che nel 2013. Partiti, dicono le statistiche, anche e soprattutto da quel Nord più felice (o meno infelice) di cui Regeni era originario.

(http://www.tpi.it/…/verita-giulio-regeni-cosa-successo)

13 febbraio alle ore 17:19

SEGNALAZIONE.

Della serie “cosa non si farà in nome della lotta al terrorismo” (titolo mio)

CARLO FORMENTI – Guerra al terrorismo e democrazia: la franchezza di Sergio Romano

Sergio Romano è una delle firme più intelligenti, oltre che prestigiose, del Corriere della Sera. Il suo maggior merito consiste nell’essere un esponente di quel realismo politico altoborghese che non si nasconde dietro un dito, allorché si tratta di affrontare temi che implicano l’analisi di interessi in conflitto e rapporti di forza, tanto sul piano interno quanto su quello internazionale. È, per intenderci, uno di quei liberali vecchio stile che non negano l’esistenza della lotta di classe e della competizione fra imperialismi e, invece di sproloquiare di principi e valori, “interesse generale” e altre motivazioni ideologiche, non nascondono la propria appartenenza di parte e spiegano come, al loro parere, tale parte dovrebbe agire per difendere e promuovere i propri interessi.

Così dopo il coro di sdegnate condanne, di ipocrite richieste di “fare piena luce”, di inviti a trovare e punire i colpevoli, ecc. che media e politici hanno intonato dopo l’assassinio di Giulio Regeni da parte della polizia del regime di Al Sisi, ecco finalmente qualcuno che dice la verità: sappiamo benissimo di chi è la responsabilità, ma i nomi dei colpevoli non li sapremo mai, né mai otterremo giustizia perché non è interesse del nostro Paese alzare troppo la voce nei confronti di un regime alleato qual è quello di Al Sisi. Abbiamo forse preteso che il governo britannico rendesse conto delle criminali violazioni dei diritti umani commesse nel corso della lotta al terrorismo irlandese? Abbiamo chiesto conto agli Stati Uniti dell’orrore di Guantánamo e delle torture della Cia dopo gli attentati alle Torri Gemelle?

La guerra, sembra dirci Romano parafrasando il presidente Mao, “non è un pranzo di gala”, tantomeno la guerra a un “nemico assoluto” (di questi tempi tornano non a caso di attualità le categorie di Carl Schmitt, pensatore che non fu certo un campione di democrazia) qual è il terrorismo. E in guerra, si sa, capita di dover arruolare alleati imbarazzanti. Al Sisi è un macellaio, ma è anche una diga contro l’estremismo islamico in Nord Africa (Erdogan, potremmo aggiungere, e certi regimi dell’Est Europa sono neofascisti, ma svolgono un importante ruolo antirusso).

E allora? Accetteremo quel che è successo senza fare nulla? Proprio così ci fa capire Romano, anche se, in coda all’articolo, non può esimersi dal tributare a sua volta un omaggio ai valori: “Questo non significa che i metodi del governo egiziano debbano essere necessariamente (pensate alla sublime ironia di questo avverbio …) condonati. Oggi più che mai abbiamo il diritto di dire al Cairo che non si vince una guerra, sia pure contro il peggiore e il più crudele dei nemici, senza il sostegno dell’opinione pubblica. È una legge democratica a cui neppure l’Egitto può sottrarsi”.

Detto altrimenti: democrazia vuol dire salvare la forma e ottenere il consenso della pubblica opinione. Del resto gli “elitisti” del primo Novecento – Mosca, Pareto e Michels – e dopo di loro Ludwig von Mises, lo hanno chiarito da un pezzo: la democrazia non è un fine ma uno strumento per selezionare chi comanda.

(http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/…)

15 febbraio alle ore 11:58

SEGNALAZIONE
Quel sapore complottistico in certe ricostruzioni della morte di Giulio Regeni
di Marina Calculli

http://www.huffingtonpost.it/…/quel-sapore…

STRALCIO:

Quello che davvero in questi giorni fa male alla nostra intelligenza è la speculazione sui fatti e sui dettagli che emergono dalle indagini di Roma. Ne sono usciti rinvigoriti due filoni letterari piuttosto in voga su una certa stampa del nostro paese: quello delle insinuazioni complottistiche e quello delle congetture campate in aria.

Giulio era una spia dei servizi italiani – congettura ripresa da autorevoli testate che al contempo ironizzavano sul fatto che il ricercatore mandasse i suoi articoli al Manifesto. Seppur decaduta presto, lasciando tracce qui e lì, l’insinuazione (basata, ricordiamolo, su nessuna prova tangibile) non si presta ad essere liquidata come innocente speculazione da buontemponi. Per dirla più direttamente: nel recinto dell’accorato patriottismo italiano, quanto vale un giovane che indaga sull’attivismo sindacale in un paese straniero, nel bel mezzo di una lunga e faticosa trasformazione politica? Al di là della speculazione, resta infatti intatta la retorica del “se l’è andata a cercare” – prevalsa proprio perché Giulio, contrariamente a quanto si sbandiera, non era affatto “uno di noi”: Giulio non pensava – come ormai è stato deciso di farci pensare – che al-Sisi è comunque il meglio che l’Egitto possa produrre per la “nostra sicurezza”. Quando l’ex ministro degli esteri Terzi rimandò in India i due Marò, accusati di omicidio, l’Italia si sdegnò di fronte al timore, sotteso alla decisione della Farnesina, di una vendetta commerciale da parte di Delhi che sembrava fosse prevalso sulla vita dei due connazionali. Adesso una parte consistente dell’opinione pubblica italiana ha già assolto il regime egiziano e accettato di buon grado la rinuncia di Roma a far della morte di Giulio una faccenda politica.

La seconda congettura è quella delle infiltrazioni dell’islamismo radicale nei servizi d’intelligence egiziani. Oltre all’assenza totale d’indizi (anche qui), colpisce che “l’islamismo radicale” cui si fa riferimento sia spesso quello della Fratellanza musulmana: definizione di per sé molto problematica. La Fratellanza, pur essendosi distinta per incapacità di governare il paese tra il 2012 e il 2013, ha pur sempre prodotto il primo parlamento e il primo presidente democraticamente eletto dell’Egitto repubblicano. La sua categorizzazione come ‘gruppo terrorista’ dopo il golpe militare del 2013 che depose Mohammed Morsi, fu il frutto di pressioni strategiche di un altro grande alleato dell’Occidente, l’Arabia Saudita, a sua volta protettore dell’Egitto di al-Sisi e finanziatore del colpo di stato contro Morsi. La casa dei Saud ha un problema di rivalità politica e strategica con i Fratelli Musulmani, che peraltro vede – se proprio vogliamo addentrarci negli aspetti dottrinari – come ‘troppo liberale’. Circa la congettura, basterà dire che non si è spinto fino a questo punto neppure il Cairo, sempre pronto a far della Fratellanza il capro espiatorio di tutti i mali del paese. Il ministro degli interni egiziano si è limitato a dire che la brutalità dei suoi servizi di sicurezza non è che una maldicenza messa in giro dai Fratelli Musulmani per screditare il governo di al-Sisi.

La terza, e più recente, strada complottistica si basa sul fatto che le informazioni di cui Giulio era entrato in possesso fossero state passate al suo supervisor di Cambridge e, quindi, potrebbero essere filtrate al di fuori dell’ambito accademico. La pista vorrebbe far intendere che Giulio è stato forse vittima di un complesso network di spionaggio britannico, con cui erano collusi i suoi professori di Cambridge. C’è, insomma, un passaggio concettuale dal “se l’è andato a cercare” al “sarà stato incastrato”. Anche qui, è bene sottolinearlo, si tratta – fino ad ora e salvo colpi di scena – di pura speculazione e non di analisi di fatti concreti, che peraltro ignorano la prassi comune a qualsiasi dottorando di comunicare i dati della propria ricerca al suo supervisor.

Le teorie del complotto servono in genere a complicare un quadro semplice per non mostrare quello che pare ovvio a tutti. La realtà, nella maggior parte dei casi, disarma proprio per la sua banalità. Khaled Fahmy, uno dei più grandi studiosi e conoscitori dell’Egitto contemporaneo, ha fatto notare come la paranoia dei servizi di sicurezza egiziani, da cui Giulio è stato verosimilmente torturato a morte, potrebbe facilmente aver spinto la catena di comando – volontariamente e meno – oltre un punto di non ritorno: un punto, cioè, oltre il quale era impossibile restituirci Giulio vivo e testimone ‘occidentale’ della realtà delle carceri egiziane.

 

 

78 pensieri su “Scrap-book dal Web. Il caso di Giulio Regeni

  1. Oggi, nel blog di Gianluigi Magri su Formiche, pennellate di genericità per un quadro di complesse sfumature, così da indurre alla rassegnazione. http://formiche.net/2016/02/18/regeni-morte-stampa-ipotesi-servizi/

    “Personalmente ritengo che Regeni non lavorasse per i Servizi, ma sicuramente i suoi report sono stati oggetto di interesse anche per l’intelligence. Del resto i centri di analisi politico-strategica e le ong sono tra i maggiori fornitori di notizie per le “barbe finte”.
    Certo non si deve generalizzare, ma tra le ong, oltre a molti esperti spesso eroici e a qualche sprovveduto, ci sono soggetti che hanno rapporti molteplici e “fluidi” e soprattutto nei centri di analisi politico-strategica figurano spesso esperti di intelligence.
    Rimane da chiedersi se sia giusto che giovani volonterosi vengano mandati allo sbaraglio da qualche ong un po’ improvvisata o che, come nel caso di Regeni, un giovane e bravo ricercatore svolga ricerche di cui i suoi referenti accademici non hanno forse colto l’alto grado di pericolosità.
    È un dubbio lacerante ma destinato a rimanere senza risposta.

  2. Regeni lavorava per una azienda privata di intelligence. Nel board, a fare da testimonials, ci sono John Negroponte (ex CIA, gran brutta persona) e John McColl (ex MI6). I suoi prof di Cambridge ci lavoravano anche loro, e utilizzavano i graduate students e i ricercatori come manovalanza a basso prezzo. Queste agenzie private di intelligence sono, tranne le più direttamente collegate con i servizi di informazione statali quali ad es. Stratfor, delle mezze truffe, che si fanno pagare a caro prezzo informazioni di secondo e terz’ordine abbagliando gli acquirenti con nomi di prestigiosi pensionati dell’intelligence. Siccome lavorano per soldi, mica si danno la pena di addestrare gli agenti sul campo. Regeni infatti, a quanto risulta dalla semplice lettura dei giornali, non era stato neanche minimamente addestrato: per esempio, risulta dai giornali che nei giorni precedenti il suo sequestro, agenti della sicurezza egiziana erano passati a casa sua per chiedere informazioni su di lui. Probabile che Regeni neanche lo sapesse, perchè non s’era creato una rete di sicurezza nella sua abitazione (basta pagare qualcuno dei vicini e il portinaio, non ci vuole James Bond); oppure l’ha saputo e l’ha sottovalutato. Ignoranza e sottovalutazione in un contesto come l’egiziano, dove il governo è sottoposto a tensioni politiche interne e internazionali enormi, e mentre sono in ballo poste economiche e politiche immense (è stato scoperto un enorme giacimento di petrolio nelle vicinanze e vanno firmati i contratti per l’estrazione, e in Egitto c’è il canale di Suez) sono l’equivalente di un tentato suicidio, come sedersi a prendere l’aperitivo in corsia di sorpasso in autostrada. E’ andata come è andata. Secondo me è anche possibile che sia accaduto questo: che gli inglesi (stavolta il SIS) l’abbiano bruciato apposta, d’accordo con una fazione dei servizi egiziani, per compromettere i rapporti tra governo egiziano e italiano (l’ENI è il pole position per l’estrazione nel giacimento di cui sopra). Me lo fa pensare il facile ritrovamento del cadavere: se doveva essere solo un avvertimento agli italiani, gli egiziani non lo avrebbero reso pubblico, avrebbero fatto sparire Regeni e avrebbero fatto arrivare ai servizi italiani la notizia indirettamente (“Smettetela di dare fastidio”).
    Il succo della cosa è che quei bastardi dei prof di Cambridge hanno abbindolato Regeni con la prospettiva di carriera accademica e soldi, e magari anche con la spolveratina ideologica desinistra di lavorare per “la democrazia” (v. la posizione pro primavere arabe, totalmente idiota, del manifesto). Regeni c’è cascato perchè era ingenuo, ambizioso, e non capiva una cippa di quel che stava facendo. In più, stava facendo un lavoro molto pericoloso senza avere un addestramente minimamente adeguato, come uno che pilota un 747 dopo aver fatto un corso per corrispondenza della scuola radioelettra. Fossi suo padre prenderei il primo aereo per Cambridge e manderei a raggiungerlo i bastardi ipocriti, avidi e senza onore che lo hanno buttato nella gabbia dei leoni.

      1. scordavo: il responsabile dell’agenzia di intelligence per cui raccoglieva dati Regeni è David Young, il capo dell’équipe di coglioni che andarono a scassinare gli uffici del Partito Democratico al Watergate e si fecero beccare. La San Vincenzo, sì!

    1. Scusi signor Buffagni, quali sono le fonti da cui attinge per affermare che regeni lavorasse indirettamente per un’agenzia privata d’intelligence, e sapere i nomi di chi guadagnava dalle sue informazioni ?

      1. Caro signor Cortesi,
        se legge il mio commento del 21 febbraio trova i link a due articoli de “La Stampa” dove si parla dell’agenzia privata di intelligence per la quale lavoravano Regeni e alcuni tra i suoi professori di Cambridge.
        Io lessi la notizia qualche tempo prima sulla stampa estera, non rammento se sul “Telegraph” inglese o su un giornale americano.

  3. Allora, proviamo a mettere un po’ di punti fissi in questa vicenda.

    VERITA’ – Quella la si è capita subito: è stato preso da qualche squadra dei servizi di sicurezza egiziani e sistemato a quel modo; che un generale ai vertici della polizia locale butti fuori un’ipotesi come quella dell’incidente stradale, è troppo idiota perfino per un popolo come l’italiano, abituato a bersi cinquant’anni di depistaggi (quasi) senza fiatare.

    – Tutte le ipotesi alternative o complementari a questa (spionaggio; tentativo di far saltare certi rapporti politici o economici con l’Italia; avvertimento di nuovo all’Italia, riguardo al ruolo che sta giocando in Libia, non proprio a fianco delle pedine che là hanno gli egiziani) stanno in piedi; e lo rimarranno, finché – probabilmente in maniera trasversale – una di queste non verrà confermata con sufficiente chiarezza. Anche l’ipotesi di uno sgambetto ad Al-Sisi regge; e diventerebbe ancor più plausibile, se le forze di polizia locali collaboreranno senza tentennamenti e col massimo impegno con gli investigatori italiani: cosa che, però, non sembra avvenire.

    – Di sicuro chi l’ha preso, non ha sbagliato persona: voleva proprio lui e voleva fargli quello che gli ha fatto. Come è già stato spiegato da altri – nei brani riportati nel post – chi si trova di fronte ad uno sbaglio del genere, o fa volare gli stracci, per cercare di salvare la faccia, o uccide e fa scomparire il cadavere; oppure lo fa ritrovare, ma nel mezzo di una messinscena che faccia davvero pensare a un suicidio, a un incidente o cose del genere.

    – L’ipotesi spionistica non è assolutamente da scartare, checché ne dica chiunque; a cominciare dalla famiglia, dalla quale Regeni non si sarà certo accomiatato, dicendo “Ciao mamma, vado in Egitto a fare la spia”. Ma nessuno vorrà ammetterla, direttamente e almeno fin quando non dovesse essere controproducente negarlo.

    In ogni caso, Regeni sapeva quello che stava facendo; magari lo sapeva e lo faceva male (come ha spiegato qualcuno, sempre nei pezzi qui sopra), ma non era lì per caso. E questo a prescindere se fosse fra i “buoni” (cioè sinceramente interessato a dare il suo contributo alla situazione di quel Paese), o più o meno in malafede, lavorando per conto terzi.

    GIUSTIZIA – Direi che è meglio scordarsela…

    Da una parte abbiamo uno Stato del Terzo Mondo, che non si è ancora dotato di una legge contro il reato di tortura; che ha campato di depistaggi su operazioni contro la sua propria popolazione per oltre un ventennio; che è stato ed è in prima fila nel processo di polverizzazione dell’area geografica che va dall’Africa mediterranea e sub-sahariana al Medio Oriente (passando per il Corno d’Africa), a favore degli interessi delle ben note mafie economico-finanziarie.

    E, accanto ad esso, sdegnati, gli Stati Uniti: che di quel processo di polverizzazione sono gli attori principali; che qualche anno fa non esitarono a rapire una persona sul territorio di uno Stato ufficialmente sovrano, per poterla mandare proprio in Egitto a farla torturare per benino; e che di Al-Sisi sono i principali sponsor.

    Chi pensa che da parte di costoro ci sarà un reale impegno ad ottenere giustizia, è – per usare un eufemismo – di un candore pericoloso a sé e agli altri. Per usare un eufemismo.

    Credo che solo una potente pressione economica (una credibile minaccia di far saltare gli accordi economici in ballo), potrebbe smuovere qualcosa in Egitto. Ma dubito che ci sia, da parte del Governo italiano, la reale volontà di arrivare a ciò; e, anche se ci si arrivasse, potrebbero volare lo stesso i soliti stracci, lasciando più o meno nell’ombra i mandanti di questa triste vicenda.

  4. …di tutti i brani pubblicati nel post sulla morte di Giulio Regeni, a colpirmi è stato soprattutto quello che riferisce il pensiero di Sergio Romano, perchè più cinico non si può. .Infatti sembra sostenere che sia consentito insabbiare la verità, rinunciando a far luce su un delitto atroce, in caso occorra difendere l’interesse della propria parte, la ragion di stato insomma…Inoltre siccome così si fa spesso, e porta diversi esempi, allora è diventato un costume…L’unica riserva, se mai, è di non “scandalizzare” troppo l’opinione pubblica ( tra le altre quella di noi “babbei” che ora ne parliamo) perchè in politica serve averne il sostegno…Oddio non sono idee nuove, eppure forse neanche il principe di Macchiavelli ci era arrivato… Così il povero Giulio Regeni, che senza dubbio si era esposto con le sue idee e il suo operato, viene torturato ed ucciso per “il buon scopo” di un avvertimento o di una provocazione e diventa la pedina di un gioco al massacro di grandi proporzioni. Se facciamo coincidere il principio di realtà con quello di giustizia, allora possiamo anche gettare la spugna…

    1. Romano non dice che “è giusto così”, dice che “è così” (Romano non crede alla giustizia trascendente e neanche alla giustizia storica).
      Non è consolante, ma è la verità. Il mondo della politica internazionale, cioè il mondo della forza, è davvero così.

    2. Ma se tu, Annamaria, consideri che Giulio, in gran misura manipolato e usato, faceva già parte di una guerra, come ha spiegato Buffagni, in quanto lavorava per una agenzia di intelligence, allora occorre considerarlo come vittima di questa guerra.
      Oggi, scrive Fabio Mini in Soldati, Einaudi 2008, è
      “il tempo *della* guerra, perché in questi ultimi anni essa è diventata l’idea portante di ogni attività umana, di ogni posizione politica, di ogni prospettiva futura. La guerra pervade il pensiero e lo monopolizza. Invade la politica, la diplomazia, assorbe l’economia e blocca ogni attività che non sia utile o strumentale ad essa. Blocca lo stesso pensiero della pace…” pp.6-7.
      E, in un altro libro, Perché siamo così ipocriti sulla guerra?, Mini scrive:
      “Il termine ‘umanitario’ esprime di per sé ipocrisia da quando ciò ciò che si chiamava correttamente diritto bellico è diventato diritto umanitario” p.29.
      All’inizio di quest’ultimo libro aveva scritto:
      “Sappiamo che è stato Sun-tzu, nel V secolo a.C., il primo stratega a dire chiaramente che l’essenza, il Tao, della guerra è l’inganno” p. 6.
      Se è così, se siamo nel tempo *della* guerra, allora Regeni, ingannato, ha fatto parte di un inganno, ed è caduto come doppiamente vittima di guerra.
      Romano mi pare ragioni in un ambito vicino a questo.

    3. Si potrebbe anche specificare che “non è consentito insabbiare la realtà”, andrebbe corretto in “la gente permette che venga insabbiata la realtà”. Se la libertà di ognuno termina dove comincia quella dell’altro, bisogna riconoscere che la gente, col Potere, il confine della propria libertà lo sposta parecchio indietro…

  5. …sì, certo Sergio Romano si attiene alla descrizione della realtà, non dice che è giusto, tuttavia il rischio, secondo me, è di adattarvisi troppo…Sono d’accordo che nel nostro tempo *della* guerra, della guerra per eccellenza, che più mistificante non si può, l’inganno si sia moltiplicato, veli su veli, più di sette, a coprire la verità…Se li strappi sembra che si autorigenerino come i capelli serpenti della medusa. Chi oggi indaga sull’omicidio di Giulio, soprattutto penso agli amici, incontrerà resistenze insormontabili…

  6. TRE APPUNTI

    1.
    Sì, ci vogliono indurre alla rassegnazione. Questo è l’obiettivo strategico perseguito da sempre e con strumenti più raffinati che in passato. E conservare l’incertezza sui dati reali degli avvenimenti (nel caso l’uccisione di Regeni) è una delle armi della propaganda. Che senso ha allora chiedersi se sia giusto o non giusto che «giovani volenterosi vengano mandati allo sbaraglio da qualche ong» (improvvisata o meno)? Mi pare una questione secondaria. Farei attenzione ad un altro aspetto che è a monte dell’evento: può un giovane (in questo caso ricercatore) che *ha bisogno* di trovare lavoro non “fidarsi” di chi glielo può dare, non sottostare alle condizioni che gli vengono poste/imposte (come devono fare quasi tutti i disoccupati, anche per lavori meno qualificati)? Non vorrei allargare troppo il discorso, ma il fatto è che stiamo (quasi tutti) dentro rapporti (e non solo di lavoro) che controlliamo in misura minima. Chi comanda decide a nostra insaputa. Per es. di far lavorare i suoi operai con l’amianto, anche dopo che era nota la sua nocività. E si potrebbero fare tanti altri esempi a riprova dell’asimmetria dei rapporti tra che decide e chi può decidere solo di *vendere la sua forza lavoro* (intellettuale o manuale). Perciò io vedrei Giulio Regeni innanzitutto come un giovane che aveva bisogno di lavorare. Non trascurerei questo dato, passando a stabilire se era ingenuo o furbo, se era consapevole del gioco più grosso ( o “sporco”) in cui entrava.

    Sì, ci vogliono indurre alla rassegnazione. E quindi dovremmo dirci *in partenza* (a mo’ di esorcisma? o per non rischiare disillusioni?) che non sapremo mai la verità? E in effetti, la verità su Piazza Fontana, sul caso Moro ( e tanti altri eventi) non l’abbiamo saputa, non la sappiamo. E forse la si saprà quando sarà diventata inerte o non avrà l’effetto che avrebbe avuto se fosse stata svelata a ridosso degli eventi tragici, quando c’erano forze politiche più o meno organizzate che la cercavano. E sappiamo pure che, quando accertata (genocidio degli armeni, degli ebrei, ecc.) verrà negata o rimessa in discussione. E allora? Ci rassegniamo?

    2.
    Certo, chi ha più informazioni (di me, di noi) sa che «queste agenzie private di intelligence» hanno – semplifichiamo – una doppia faccia: culturale e “democratica” per il pubblico ( i “babbei”?), segreta e più o meno “massonica” per gli “addetti ai lavori”. Ma il problema da porci può essere quello ( o solo quello) della maggiore o minore serietà professionale o della maggiore o minore rapacità dei loro gruppi dirigenti («lavorano per soldi, mica si danno la pena di addestrare gli agenti sul campo»)?
    Mi chiedo, forse da ingenuo: se non lavorassero solo «per soldi» o se addestrassero «gli agenti sul campo», potremmo essere più tranquilli? I loro scopi strategici non andrebbero chiariti o spesso smascherati?

    « Probabile che Regeni neanche lo sapesse, perché non s’era creato una rete di sicurezza nella sua abitazione… oppure l’ha saputo e l’ha sottovalutato». Mi chiedo: ma un giovane deve e può subito sapere i segreti di un mestiere, di una professione? Può essere da subito uno scaltro volpone?
    Possiamo definire davvero l’azione che Giulio Regeni svolgeva in Egitto come « un tentato suicidio, come sedersi a prendere l’aperitivo in corsia di sorpasso in autostrada»? E concludere con un « E’ andata come è andata»? Che è un po’ come dire che se l’è andata a cercare… Un po’ come era andata a cercarsela Vittorio Arrigoni in Palestina (Cfr. https://www.poliscritture.it/vecchio_sito/index.php?option=com_content&view=article&id=148:ennio-abate-lettera-a-un-giovane-morto-invano-per-una-pace-che-non-ci-sara&catid=1:fare-polis&Itemid=13).

    Non so stabilire quanto pesi l’ideologia (di sinistra o di destra) nella scelta di carriera dei giovani d’oggi (e dello stesso Regeni). Neppure mi sento di dire che tutti i professori di Cambrige siano dei «bastardi» che «hanno abbindolato Regeni con la prospettiva di carriera accademica e soldi». Queste affermazioni mi paiono sovrapposizioni ideologiche ad una realtà che *forse* è più complicata.
    La questione nuda e cruda che però mi sentirei di porre è ancora questa: chi ha bisogno di lavorare ed, essendo giovane, ha anche delle ambizioni (da condannare di per sé?), sta comunque in una posizione di bisogno, non è già scafato in partenza, non necessariamente è un avventuriero o un incosciente (« uno che pilota un 747 dopo aver fatto un corso per corrispondenza della scuola»); e oggi più di ieri non ha alle spalle un sostegno *teorico-politico* che lo aiuti a muoversi con più consapevolezza nelle «gabbie dei leoni» in cui con tutta probabilità si verrà a trovare ( e non solo se va in Egitto, ma anche se resta qui in Italia). Il che rimanda al problema della consistenza o meno del “bagaglio politico” che questi giovani hanno ricevuto in Italia.

    3.
    Interroghiamoci pure sui vari dati che man mano affiorano sulla vicenda tragica di Regeni. Ma io non mi sento bravo a fare l’investigatore né l’analista geopolitico. Cose comunque importanti se mirate ad un progetto politico chiaro e condiviso. A me, per ora, preme capire se Regeni era/poteva essere un mio potenziale giovane alleato o interlocutore con cui discutere. E se la sua ricerca era iscrivibile in un progetto per contrastare quanti indirizzano il mondo verso una maggiore sottomissione ai loro voleri di dominio. Oppure se era consapevole di lavorare contro questo possibile progetto; e quindi al servizio di quelli che lo vogliono affossare o reprimere sul nascere. (Senza escludere una sua eventuale ambivalenza, che non dovrebbe però assegnarlo d’ufficio nel ruolo di “spia”, come mi pare vari commenti tendono a fare).

    «GIUSTIZIA – Direi che è meglio scordarsela…»? E , scordandocela, che facciamo? I Sergio Romano in miniatura? Non ci riusciremmo: anche il cinismo non si acquisisce con un corso di aggiornamento rapido, perché quello vero nasce da posizione di potere e da una solida educazione al comando. Posso ammettere che dobbiamo scordarci che la giustizia verrà dai democratici (Usa o nostrani) o da una «potente pressione economica (una credibile minaccia di far saltare gli accordi economici in ballo)» del governo italiano. Il bisogno di giustizia a me pare oggi nelle stesse pessime condizioni in cui si trova il bisogno di lavoro. Sono però cose irrinunciabili per chi vive in certe condizioni. E se la geopolitica alla Sergio Romano dovesse insistere a dimostrare che non contano nulla, facciamo a meno anche di questa sua geopolitica. O troviamone una capace di sanare l’abisso tra teoria e bisogni della gente comune.

  7. I vestiti dell’imperatore. Le vesti sfarzose del principe dicono bellezza&potenza. Giulio amava il suo lavoro, condivideva gli sforzi di organizzazione e di lotta dei lavoratori. Condivideva i propositi di ricerca e rigore della sua università, credeva forse che il prestigio dell’istituzione lo proteggesse al Cairo. Era così convinto della serietà del suo lavoro che lo proponeva al Manifesto, giornale di sinistra, dei lavoratori, delle lotte e della libertà. Però usava un nome falso, era avvertito di rischi e pericoli. Il valore del suo lavoro prevaleva, i valori della nostra cultura e della istituzione occidentale per cui lavorava lo avrebbero rivestito di un manto protettivo, il manto dell’invisibilità, invulnerabilità degli occidentali per le buone ragioni dei diritti e del lavoro. Invece lo hanno trovato, il suo corpo nudo sotto le vesti splendide dell’ideologia, dei diritti.
    Ragiono sulla rassegnazione. Ennio la correla a verità e necessità: “può un giovane (in questo caso ricercatore) che *ha bisogno* di trovare lavoro non ‘fidarsi’ di chi glielo può dare, non sottostare alle condizioni che gli vengono poste/imposte (come devono fare quasi tutti i disoccupati, anche per lavori meno qualificati)?” Giulio doveva lavorare e non sapeva abbastanza sui suoi capi. Oppure credeva nello splendore delle vesti del potere, nell’ideologia di cui si avvolge?
    Ci sono diversi gradi nella rassegnazione: alla menzogna e alla verità. Non è vero che dopo il grido del bambino: l’imperatore è nudo!, il popolo lo abbia bastonato e deposto. A volte sì, a volte ha solo visto, rassegnato alla bruttura, il corpo nudo del potere. Molti quel corpo nudo lo conoscono, il board della agenzia per cui lavorava, forse alcuni professori. Quel corpo forse Giulio non ha saputo vederlo.

    Chi ha bisogno di lavorare, scrive Ennio “oggi più di ieri non ha alle spalle un sostegno *teorico-politico* che lo aiuti a muoversi con più consapevolezza nelle ‘gabbie dei leoni’ in cui con tutta probabilità si verrà a trovare”. Ma la politica non è *data*, teoria pronta da riattivare, è una verità nuova da cercare e affermare. Infatti le teorie sono note, però non si sostanziano col presente reale.

    Verità e giustizia. Entro in un discorso difficile, perché vero e bene sono concetti trascendentali, ma non lo è giusto. Sono due concetti di natura diversa e lo spiego così: io so che cos’è vero, e lo affermo anche se non è riconosciuto, lo so lo stesso però, come ha detto anche Pasolini. Anzi oggi di verità ce ne sono così tante che si annega nel mare, indifferenziato e torbido, di verità chiare o limacciose. Ma in realtà non importa, “io so”, molti sanno ugualmente, se vogliono.
    Invece la giustizia è un contenzioso, è un accordo, un punto di mezzo tra interessi, è volta per volta, a seconda di come le regole di procedura permettono di accordarsi. Quindi si avrà la giustizia che si sarà riusciti a ottenere, con la *forza della persuasione*. Tra due potenze, due stati nel caso di Giulio, che impegneranno le rispettive ragioni. La politica della giustizia in questo caso è più vicina alla forza che alla verità.

    1. Caro Ennio,
      Regeni era uno che aveva bisogno di lavorare, e ci siamo. Era anche uno che lavorava nell’accademia, dove di rado si incontra di persona l’oggetto dei propri studi (il mondo reale). Io sopra parlo di “ingenuità” di Regeni e di “prof bastardi” perchè a occhio e croce, le cose si sono svolte come segue.
      Regeni studia sociologia a Cambridge. Viene mandato al Cairo (alla American University, un celeberrimo centro di reclutamento dell’anglosfera per la classe dirigente egiziana e non solo). Lì fa ricerche di sociologia “embedded”, dice la malefica sua prof inglese (di origine araba, dal nome). Cosa vuole dire “embedded”? Vuole dire che non va in archivio e basta, ma frequenta ambienti sociali i più vari, registra posizioni politiche e progetti, prende indirizzi e telefoni, nomi di leader, etc. I prof di Cambridge vendono queste e altre informazioni all’agenzia privata di intelligence, che le ridistribuisce tra i suoi clienti. Regeni non so se ci avrà preso qualcosa, magari sì magari no. Il punto però è che queste informazioni che prendeva Regeni sono anche la materia prima per chi organizza “rivoluzioni colorate” et similia. Le rivoluzioni colorate funzionano così: che prima si fa leva sulle opposizioni liberali e occidentiste, poi si gioca la carta vera (perchè la linea di faglia vera sta lì): la carta etnico-religiosa. L’impero britannico la carta etnico-religiosa contro i nazionalismi arabi e non solo la sta giocando da un duecento anni, non è una cosa nuova.
      Non lo so se Regeni provasse simpatia ideologica per le “opposizioni democratiche”; probabile che sì, visto che voleva scrivere sul Manifesto, che si è illustrato per l’appoggio a queste iniziative politiche (sciagurate). Secondo me è una ideologia disastrosa, ma questo nel caso è il meno. Il più è questo: che nè Regeni aveva capito da solo, nè i suoi mandanti gli avevano spiegato, che stava partecipando in prima linea a un’azione di guerra coperta (destabilizzazione) contro il governo egiziano. In guerra ci si fa male, molto male. E’ poi quasi certo che ci lasci la pelle se ci vai senza una minima preparazione, se passeggi lungo la linea del fuoco con il gelato in mano. Ora, perchè Regeni non ci sia arrivato da solo non lo so. Magari perchè da giovani ci si sente invulnerabili, magari perchè uno studioso non è un uomo d’azione, che ne so? Ma i suoi mandanti, invece, lo sapevano eccome. E allora, ecco perchè sono dei bastardi: perchè non si manda allo sbaraglio i subordinati, restandosene in poltrona col termosifone che ronfa. Gran porci!
      Poi il gioco è quello, e quello sarebbe anche se fosse spuntato il sol dell’avvenire. Però chi lo gioca deve sapere che lo gioca, ed essere in grado di giocarlo.

  8. E’ da più di un decennio che i giovani, futuri giornalisti, devono improvvisarsi blogger specializzati su temi che, poi, dopo che hai saltato parecchi pasti, si riveleranno utili per grandi media. Conoscevo Baldoni , altra vittima di qualche anno fa, e ho un amico che solo adesso è entrato in un grande giornale (una dozzina d’anni da free non pagato), ma dopo essersi inventato, e a sue spese pagato, molti viaggi in oriente. Sì, i giovani hanno bisogno di lavorare, e sono bravi se si ostinano a volere quel che desiderano, invece di adattarsi a prendere quel niente che capita. Bravo Regeni! povero ragazzo.
    Quel che non capisco è perché sia stato torturato. Se volevano eliminarlo a scopo di avvertimento o che altro, perché strappargli le unghie? Gli aguzzini non volevano solo dargli una lezione e fermarlo nelle sue ricerche, volevano estorcergli delle informazioni; probabilmente nomi e luoghi di rivoltosi che forse lui conosceva in via non ufficiale, insomma le sue fonti e i contatti. Questo è lavoro per servizi segreti, sì ma quali?

    1. A occhio e croce, sono stati i servizi egiziani a torturare e uccidere Regeni. L’interrogatorio serviva a ottenere i nomi dei suoi contatti, e forse anche le intenzioni dei suoi mandanti (che probabilmente Regeni non conosceva, motivo più che sufficiente per spiegare la ferocia delle torture: se ti chiedono una cosa che non sai, come fai a confessare? e come fa l’interrogante a esser certo che davvero non sai? deve spingersi al punto da poter dire, “se lo sapeva me l’avrebbe detto di sicuro”).
      Il fatto che siano stati gli egiziani a ucciderlo non vuol dire che l’ordine è partito dal governo egiziano. Intanto, di polizie più o meno segrete ce ne sono tante. Poi, un’eventuale operazione inglese ha potuto svolgersi così (pura ipotesi): gli inglesi fanno arrivare informazioni mezze vere mezze false su Regeni: lavora per gli inglesi (vero) è un personaggio importante che sa cose decisive (falso). Magari fanno filtrare l’informazione a una polizia egiziana che ha bisogno di fare bella figura o di fregare un corpo concorrente. Questi lo rapiscono, lo interrogano, ci vanno giù pesante perchè sono sicuri che ne valga la pena, e quando capiscono che li hanno fregati e Regeni non sa un gran che, sono arrivati troppo in là e devono ucciderlo comunque. Poi danno incarico a qualcuno di farlo sparire (magari proprio a quello che gli ha passato l’informazione farlocca) ma quel qualcuno è l’infiltrato degli inglesi che lo butta a lato strada e lo fa ritrovare.

  9. Ho letto quasi per caso ciò che avete scritto sul caso di Giulio Regeni. Nel suo caso, come in infiniti altri prima e in quelli che inevitabilmente si verificheranno in futuro, si può solo dire che passeranno rapidamente nell’archivio della storia come una piccola increspatura senza lasciare alcun segno.
    Questo è quello che ci insegna un’esperienza ormai fin troppo lunga.
    In questo caso però c’è un aspetto che mi ha più del solito intrigato. L’intollerabile forma di manipolazione. La creazione della vittima utile a dare una ragione di sopravvivenza a certa sinistra che radicale fu forse decenni fa e che ora ripete stancamente la sua parte nel teatrino della politica. La manipolazione di stato che ripete infinitamente il proprio gioco … un gioco che dovemmo pur conoscere ma che incredibilmente appare sempre nuovo.
    Da questo punto di vista la lettura che ci viene offerta da Buffagni mi sembra degna della massima attenzione. Può non piacere alle anime belle ma ci indica come stanno le cose. Il problema è che in nome del superamento delle ideologie abbiamo perso per strada la nostra capacità di leggere la realtà.
    Non è che si dovrebbe riprendere a ragionare criticamente sulle cosiddette “rivoluzioni colorate”, sulla cosiddetta “primavera araba”, sul proliferare di ONG di ogni tipo e colore spesso strumenti di occhiute regie, sulle forme di espansione del fondamentalismo religioso dagli anni ’80 in poi del secolo scorso. Forse realizzando una inchiesta su questi temi, separando il grano dalla zizzania, riusciremmo a capire il senso di quello che ci succede intorno senza dover ogni volta ricadere in una qualche forma di commedia moralistica
    Ciò che abbiamo completamente perduto e che i giovani più di noi ovviamente non possono avere è la capacità di pensare la realtà da un punto di vista diverso. Un punto di vista di minoranza forse debole numericamente ma forte come razionalità. E’ completamente scomparsa l’idea stessa di una alterità sociale mentre negli ultimi vent’anni sono scoppiate un numero di presunte rivoluzioni da far invidia a un campionato di calcio.
    Non solo sarebbe forse il caso di domandarsi una buona volta e senza finire vittime della manipolazione delle diverse cricche di potere chi ha fomentato le varie guerra che punteggiano il Medio Oriente.
    Tante domande poche risposte e tutte strumentali a un disegno di stabilizzazione del potere e dei privilegi. Il potere rimane i morti passano e nulla resta davvero se non un lieve vibrare di suoni nell’aria.
    Quando uniremo le nostre intelligenze per guardare in faccia quello che è il nostro nemico senza rincorrere di volta in volta i suoi fantasmi?

  10. Provo a rispondere alle affermazioni e/o a ciò che si chiede Ennio.

    “Che senso ha allora chiedersi se sia giusto o non giusto che «giovani volenterosi vengano mandati allo sbaraglio da qualche ong» (improvvisata o meno)? Mi pare una questione secondaria. ”

    Forse su questa vicenda sì; ma non dimentichiamoci che molte ong fanno da sponda, se non a servizi segreti, a imprese impegnate a raccogliere dati più o meno sensibili per analisti a livello di geostrategie e geoeconomie. Come nel caso di Regeni, appunto.

    ” Chi comanda decide a nostra insaputa. Per es. di far lavorare i suoi operai con l’amianto, anche dopo che era nota la sua nocività. …… Perciò io vedrei Giulio Regeni innanzitutto come un giovane che aveva bisogno di lavorare. Non trascurerei questo dato, passando a stabilire se era ingenuo o furbo, se era consapevole del gioco più grosso ( o “sporco”) in cui entrava.”

    Sarebbe interessante sapere, quanti di quegli operai hanno continuato tranquillamente a lavorare all’amianto, malgrado si diffondessero notizie sempre più precise sulla sua pericolosità… Tanto per dire che, bisogno di lavorare o meno, una persona dovrebbe ragionare un pochino sui rischi a cui potrebbe andare incontro. Oltre che fare qualche riflessione sul piano etico. Ma – per come viene presentato Regeni – mi sembra che fosse capacissimo di fare entrambe le cose; sia che credesse davvero in quelle rivoluzioni farlocche che sono state le “primavere arabe”, che se avesse lavorato per qualche servizio d’informazione. Certo che, nel primo caso, le sue capacità di giudizio sarebbero state appannate un bel po’ dalla sua superficialità.

    Volendo ampliare il discorso a un’osservazione che fai più avanti, cioè alla capacità di scelta in presenza di un bagaglio “teorico-politico”, non mi sembra che quando c’erano tali bagagli, giovani e meno giovani non abbiano preso meno cantonate di adesso. Non dimentichiamoci,che questi basi si appoggiavano a loro volta su ideologie: che – come dico spesso – sono l’oppio dei popoli.

    “E quindi dovremmo dirci *in partenza* (a mo’ di esorcisma? o per non rischiare disillusioni?) che non sapremo mai la verità?”

    Personalmente ho già scritto che la verità in questo caso è chiarissima; e lo è anche negli esempi italiani che tu citi. Il problema è, semmai, in quanti si siano messi i paraocchi (ideologici, da vigliaccheria, ecc.), per non vederla. Quindi un’ipotetica rassegnazione non c’entra nulla.

    “A me, per ora, preme capire se Regeni era/poteva essere un mio potenziale giovane alleato o interlocutore con cui discutere. E se la sua ricerca era iscrivibile in un progetto per contrastare quanti indirizzano il mondo verso una maggiore sottomissione ai loro voleri di dominio. Oppure se era consapevole di lavorare contro questo possibile progetto; e quindi al servizio di quelli che lo vogliono affossare o reprimere sul nascere. ”

    Bella domanda, che difficilmente potrà avere una risposta: solo se si potrà sapere con certezza per chi e come lavorava, si arriverà a una conclusione al riguardo.

    «GIUSTIZIA – Direi che è meglio scordarsela…»? E , scordandocela, che facciamo? ….. E se la geopolitica alla Sergio Romano dovesse insistere a dimostrare che non contano nulla, facciamo a meno anche di questa sua geopolitica. O troviamone una capace di sanare l’abisso tra teoria e bisogni della gente comune.”

    Ce la scordiamo, non nel senso che facciamo un’alzata di spalle e si va a dormire; ma nel senso che lavoriamo per una società (quanto grande non importa), nella quale ce ne sia una qualche forma. Alla scala alla quale si riesce ad operare. E – purtroppo o per fortuna – qui la geopolitica non c’entra nulla, trattandosi di un’azione pratica in un raggio piuttosto e giocoforza limitato.

    1. No, non lo conoscevo. Ho letto ora il suo articolo. In parte concordo, in parte no. Secondo me più che plausibile l’ipotesi del coinvolgimento del MI6 (adesso si chiama SIS).

      Meno plausibile l’ipotesi del coinvolgimento dell’Aise e soprattutto di un rapporto organico di Regeni con i servizi inglesi e/o italiani.
      E’ vero, a quanto mi dicono, che i servizi d’informazione italiani, dopo la sciagurata riforma e sostituzione del vecchio personale con il nuovo, sono molto peggiorati da tutti i punti di vista, anzitutto professionale: opera di D’Alema, il Signore si ricordi di lui al momento buono .

      (Inciso: uno degli errori più gravi della riforma è stato smettere di pescare i quadri dalle FFAA, mentre l’addestramento e la selezione militari sono indispensabili se si vogliono quadri adeguati al servizio di spionaggio e controspionaggio. Esempio, Calipari. Io non credo a complotti o rappresaglie degli americani. Calipari, ottimo funzionario di polizia, è morto coraggiosamente proteggendo la Vispa Teresa Sgrena perchè, non avendo formazione militare, ha fatto un errore blu in zona di operazioni. Al momento di esfiltrare la Sgrena, ha privilegiato la velocità del mezzo, perchè dove non si combatte, è effettivamente più sicuro fare così: la cosa importante è arrivare a destinazione sicura prima che l’opposizione riesca a organizzare una risposta e a intercettarti. In zona di operazioni, invece, e specialmente in quella zona di operazioni, salire in automobile civile e andare sparati = disegnarsi un bersaglio sul cofano, e infatti l’hanno centrato. E’ un errore che io, pur non essendo nè James Bond nè von Clausewitz, non avrei fatto mai. Bastava prendere un autoblindo, andare a 40 kmh, e oggi Calipari sarebbe vivo e vegeto e potrebbe illustrare alla Sgrena alcune realtà fondamentali del mondo e della politica internazionale).

      In sintesi io non credo, non voglio credere che Regeni avesse un rapporto organico con l’Aise perchè se è vero, l’Aise andrebbe subito gettato nelle fiamme dell’inferno in toto. Posso, con uno sforzo, credere a un rapporto diretto di Regeni con il SIS, perchè Regeni non era un cittadino britannico e quindi per definizione expendable (i servizi inglesi sono celebri per la loro cattiveria abissale e il loro cinismo terrificante in un mondo dove i chierichetti non allignano). Però il SIS non aveva nessun bisogno di reclutare Regeni; più pratico e sicuro usarlo a sua insaputa, tanto c’erano i suoi prof di Cambridge e dell’American University del Cairo a fargli fare quel che doveva fare, e quindi tutto sommato lo ritengo improbabile. I servizi d’informazione usano abitualmente il metodo della leva lunga (stare il più lontani possibile dal personale che usano, utilizzando intermediari).

      Regeni NON era un agente segreto, in qualsivoglia modo si voglia intendere questa definizione. Regeni non era un agente segreto perchè un agente segreto, a qualsiasi livello di preparazione, NON può fare gli errori che ha fatto Regeni.
      Se vogliamo restare nel verisimile, Regeni era un ricercatore che è stato impiegato sul campo dai suoi professori. I suoi professori avevano sicuramente un rapporto diretto con l’agenzia privata di intelligence per cui lavoravano. Avevano sicuramente un rapporto o diretto, o indiretto attraverso l’agenzia privata, con il SIS. Poi magari anche i suoi professori non si rendevano pienamente, emotivamente conto di quel che stavano facendo fare a Regeni, perchè un conto è andare sul campo, un conto fare analisi a casa propria: anche l’analista militare più spregiudicato, se non ha visto mai un morto ammazzato, se non si è mai sentito fischiare nelle orecchie una pallottola, stenta a mettersi nei panni del soldato in zona di combattimento. in questo campo, tra la teoria e la pratica c’è la stessa differenza che passa tra un manuale di educazione sessuale e un rapporto sessuale vero e proprio.

      Il fatto è che a Regeni non gliel’hanno raccontata chiara. Non gli hanno detto, versione A: “Giulio, ti mandiamo sul campo a raccogliere dati in vista di una destabilizzazione del governo egiziano, siamo certi che ci andrai volentieri perchè gioverà alla tua carriera e perchè così combatti per la democrazia, il progresso e il bene del popolo egiziano.” Se gliel’avessero detto, magari Regeni, che non era stupido, ci pensava un attimo, si domandava a quali rischi andava incontro, quali coperture gli assicuravano sul campo, chiedeva di essere addestrato a un mestiere che – lo avrà visto, qualche film di spionaggio! – sapeva non essere di tutto riposo, etc.

      Gli hanno invece detto, versione B: “Giulio, sei proprio bravo, perchè non approfondisci la tua ricerca entrando nel vivo della dialettica sociale egiziana? Gioverà alla tua carriera e darai un contributo al progresso sociale in Egitto.” Regeni non ha tradotto la versione B nella versione A, ha pensato che tutto sommato faceva solo della ricerca sociologica, anche più interessante e coinvolgente; che essendo straniero e occidentale, coperto da importanti istituzioni quali le università di Cambridge e American del Cairo, dalle diplomazie italiana, americana e inglese era al sicuro, ed è andato sulla linea del fuoco senza aver mai sparato un colpo neanche al poligono, senza aver visto una pistola tranne che in TV, e senza sapere sul serio che quella era la linea del fuoco: perchè in una guerra coperta, la linea del fuoco è la strada sotto casa, l’edicola dove compri il giornale, il bar dove fai colazione la mattina.

      Così ha fatto una fine atroce, lasciando nella mente dei suoi genitori un’immagine di orrore senza nome che non si spegnerà mai finchè resteranno vivi e gli angoscerà la veglia e il sonno, per sempre.

      Questo, grida vendetta al Cielo. Dio maledica i responsabili di questo schifo.

        1. Domanda di una sprovveduta: perché La Stampa schiarisce la scena a questo modo? Per chi, contro chi, dato che altri giornali di informazione invece restano più sulle generali?

          1. Si vede che “la Stampa” risponde a interessi che sono contrari alla destabilizzazione. Sono interessi americani (delle fazioni “vecchia scuola” kissingeriana, guardi per esempio cosa dice Luttwak del caso Regeni) e israeliani (delle fazioni, grazie a Dio maggioritarie, che non vogliono l’apocalissi totale in Levante: veda qui la politica molto defilata che tiene Israele nella guerra siriana, hanno preso accordi, evidentemente, con la Russia garantendo la non ingerenza e forse anche qualcosa in più).
            Se salta il governo egiziano, vanno al potere le forze collegate alla Casa di Saud e alla fazione neocon americana, e si aprono le porte dell’inferno, esattamente come se cade Assad, e Daesh o chi per lui prende Damasco.
            A due passi da lì, oltre al canale di Suez, ci sono 20.000 uomini russi, che non verranno mai abbandonati dal loro governo. Se la situazione degenera, visto che i russi non sono in grado di proiettare la forza sufficiente a 1.000 km di distanza, devono ricorrere a lanci di missili dal Caspio e dalle loro navi, e forse anche ad atomiche tattiche, per proteggere i loro soldati.
            Sintesi, la stabilità del governo egiziano, piaccia o non piaccia Al Sissi (ricordo però che in Egitto l’esercito comanda da 40 secoli), è la chiave di volta di quel minimo di equilibrio che alcuni sciagurati vogliono compromettere senza avere un’idea lucida di quel che dovrebbe succedere dopo. Il quadro in cui operava Regeni era questo. Il quadro in cui deficienti come i giornalisti del manifesto criticano la mancanza di diritti umani in Egitto è questo (tra l’altro non hanno notato il fatto che chi parla di “diritti umani” sono esattamente quei pazzi che vogliono aprire l’ultimo sigillo da quelle parti, che non sono lontane da casa nostra). Non si rendono conto? Non fanno apposta? Sarà, ma io la trovo un’aggravante, come l’ubriachezza nei fatti di sangue.

  11. Servizzi de Servizzi Segreti

    In Itallia nun conti più le vorte
    che li Servizzi eremo deviati
    e nun ostante le riforme e svorte
    certi segreti nun se so’ svelati.

    Che in Eggitto la verità le porte
    pò spalancà pe dicce che so’ stati
    quelli dellà a condure Giullio a morte,
    purtroppo è sogno de li disperati.

    Si te succede che in democrazzia
    pe sti Poteri c’è la copertura
    denanzi a quarsevoja porcheria

    de bombe co le straggi e de congiura
    drent’ar Palazzo o fora pe la via,
    figurete ‘ndo’ c’è na dittatura!

  12. Ennio, Berlinguer che era Berlinguer oltre cortina c’ando’ una volta e lo incidentarono gli amiconi del regime. Le pare che un pischello possa andare a far ricerche sull’opposizione dello stato libero d’Egitto nello stato libero d’Egitto? Sono robe che si possono scrivere qui su Facebook, sui blog letterari e nelle tesi di laurea d’Occidente per fare semi-carriera nel 2016. Sono sicuro che nel raggio di 500 metri dall’abitazione di Regeni e di tutti noi semi-carrieristi 2016 c’e’ almeno un caso umano o qualcheduno solo, malandato o vecchio piu’ bisognoso di aiuto degli oppositori egiziani. Vale il medesimo discorso di altri casi del passato, dalla Alpi alla Sgrena a Baldoni e alle due signorine cooperanti. In questo caso, il sangue del povero Regeni scorre fra le mani di chi lo ha mandato in Egitto a fare le ricerche, quindi probabilmente gli inglesi che volevano la tesi per fare la loro semi-carriera 2016 nel publish-or-perish occidentale. I quali inglesi, stia sicuro, ora se ne strafottono amabilmente mentre Renzi, a guaio fatto, deve far finta di litigare con l’Egitto per salvare la faccia… Ah, se l’avessero tenuto vivo, quei brutali cattivoni, un accordo si poteva trovare, un riscatto si poteva pagare……..

  13. E’ con profonda tristezza che mi sento d’accordo sull’intervento di G. Toffoli del 19.02. ore 19.07 (e a seguire quello di A. Rizzi) senza trascurare gli apporti significativi di R. Buffagni.
    In particolare cito questi due passaggi:
    a) *Il problema è che in nome del superamento delle ideologie abbiamo perso per strada la nostra capacità di leggere la realtà.
    Non è che si dovrebbe riprendere a ragionare criticamente sulle cosiddette “rivoluzioni colorate”, sulla cosiddetta “primavera araba”, sul proliferare di ONG di ogni tipo e colore spesso strumenti di occhiute regie…?* (G. Toffoli)
    b) *Quando uniremo le nostre intelligenze per guardare in faccia quello che è il nostro nemico senza rincorrere di volta in volta i suoi fantasmi?* (G. Toffoli)

    Perché tristezza? Perché ho sempre più spiccata l’impressione che siamo come galline recintate in un grande pollaio: ogni tanto qualcuna (o più di qualcuna) di noi viene presa e portata ad una fine immonda. E nel pollaio allora si crea tutto un brusìo, ogni pollo che dice la sua, poi, passato il momento ‘caldo’, tutto torna come prima.

    Che lo si voglia o no, oggi siamo di fronte ad una guerra che si esplicita su due livelli: uno è quella ‘tradizionale’, guerreggiata ma con armi sempre più sofisticate che mirano a proteggere sempre di più l’aggressore rendendolo ‘distante’ emotivamente e fisicamente dai massacri che compie; e l’altra, che sta prendendo sempre più piede, è quella di ‘intelligence’, che opera nei territori, tra la gente, manipolando notizie, facendo serpeggiare la paura per cui ognuno si sente spiato e possibile oggetto di denuncia. Le esperienze delle ‘primavere arabe’ sono state, a questo proposito, degli ottimi ‘battistrada’ (con gli esiti destrutturanti che abbiamo visto e continuiamo a vedere). E’ come iniettare delle parti cancerogene all’interno delle popolazioni, far perdere la loro identità e quindi renderle sempre più malleabili. I ‘civili’ non sono più le parti della società da proteggere bensì da ‘usare’. Questa è stata la “innovazione” della II Guerra Mondiale!

    *Guardare in faccia quello che è il nostro nemico*, chiede Toffoli.
    Oggi questo non è così facile anche perché non si riconosce più secondo gli schemi tradizionali: sistema capitalistico (fonte di tutti i mali), sfruttamento (idem), ecc. ecc. Gli strumenti che abbiamo per leggere la realtà sono sempre più obsoleti: non serve più porsi la domanda se l’incauto martire avesse o meno bisogno di lavorare e che, pertanto, avendone magari bisogno, diventa automaticamente vittima del più bieco sfruttamento che gioca sulla sua pelle.
    Credo che il primo nemico stia nella nostra resistenza a far funzionare il pensiero, il pensiero critico.

    R.S.

    1. “Credo che il primo nemico stia nella nostra resistenza a far funzionare il pensiero, il pensiero critico.”

      Quanta verità in questa semplice frase, Signora…

      La maggioranza di noi ha delle fette di salame grosse centimetri sugli occhi; che non ha alcuna intenzione di togliersi, nemmeno in occasione delle elezioni comunali, figurarsi se si deve ragionare su Egitto e Medio Oriente… Ho anche l’impressione che, se qualcuno gliele togliesse all’improvviso e di forza, moltissime di quelle persone impazzirebbe.

      So che un discorso del genere può far apparire la ricerca di un cambiamento come impresa senza speranza; ma non dobbiamo dimenticare che basta un 30% di persone motivate, decise e unite per cambiare radicalmente una società; o per crearne una nuova. Col che si torna alla maledetta questione che sollevo sempre io, tutte le volte che ne ho l’occasione: possibile che non si trovi il modo di unirle, tutte queste “forze sane” della Nazione?

    2. Cara Signora Simonitto,
      concordo. Secondo me, un criterio facile e performante per capire chi è il nostro nemico principale c’è. Chiedersi: chi è un centro di ordine? Chi è un centro di disordine? Ecco, i centri di disordine sono nostri nemici, il più grosso e il più disordinato è il nemico principale; e viceversa.
      Quando dico “ordine” parlo terra terra: un minimo di ragionevolezza, di corrispondenza tra dichiarazioni e azioni, di pensiero delle conseguenze, di principi accettabili umanamente. Sembra una cosa da poco, ma se uno si guarda in giro, vede che non è affatto così.

  14. La frase “resistenza a far funzionare il pensiero critico” viene dopo quella “non è così facile” guardare in faccia quello che è il nostro nemico. Ecco che il pensiero critico vuol dire conoscere, prima ancora che riconoscere, perché “gli strumenti che abbiamo per leggere la realtà sono sempre più obsoleti”.
    Questo per l’operare di un secondo livello, quello della guerra di ‘intelligence’ che manipola, impaurisce, e fa perdere identità.
    Altro che togliere le fette di salame, è di occhiali che c’è bisogno, da sole per schermarsi gli occhi dagli abbagli, e di visori notturni per cogliere i bagliori soffocati dal piombo che copre il reale.

    1. Sì, ben venga tutto il resto, ma rimango dell’idea che togliersi le fette di salame dagli occhi sarebbe – per i più – già sufficiente.

      Per riallacciarmi a quanto scritto in breve da Buffagni poco sopra (sul come comprendere chi sia il “nemico”), non ci vogliono occhiali o visori notturni, per capire se un premier, che appoggia apertamente l’ingresso della Turchia nell’Europa, faccia l’interesse del popolo italiano o di chi ha creato e si sta servendo dell’ISIS.

  15. Scusami, Rita, se prendo spunto soprattutto ( ma non solo) dal tuo ultimo intervento per tirar fuori la mia insoddisfazione!
    Se oggi non è così facile «guardare in faccia quello che è il nostro nemico», anche perché – aggiungi – « non si riconosce più secondo gli schemi tradizionali: sistema capitalistico (fonte di tutti i mali), sfruttamento (idem), ecc. ecc» e «gli strumenti che abbiamo per leggere la realtà sono sempre più obsoleti», perché darci la zappa sui piedi ancora una volta affermando che «il primo nemico [sta] nella nostra resistenza a far funzionare il pensiero, il pensiero critico»?
    E poi che pensiero critico è quello che – troppo metaforizzando a mio avviso – si limita a fare una caricatura di noi stessi e di quelli nelle nostre condizioni, presentandoci/li « come galline recintate in un grande pollaio: ogni tanto qualcuna (o più di qualcuna) di noi viene presa e portata ad una fine immonda. E nel pollaio allora si crea tutto un brusìo, ogni pollo che dice la sua, poi, passato il momento ‘caldo’, tutto torna come prima»?
    La tristezza passi, ma il masochismo o il sarcasmo da intelligentoni, che – vedo – riprende anche Rizzi («La maggioranza di noi ha delle fette di salame grosse centimetri sugli occhi; che non ha alcuna intenzione di togliersi») mi paiono esercizi sterili.
    E ancora: affermare che siamo di fronte a una guerra «‘tradizionale’, guerreggiata» e ad una di «‘intelligence’, che opera nei territori, tra la gente, manipolando notizie, facendo serpeggiare la paura per cui ognuno si sente spiato e possibile oggetto di denuncia», ma non poter indicare un qualche che fare è proprio il pensiero critico che ci serve? O è ancora un aggirarsi a tentoni?
    Ho sbagliato a ricordare che Regeni aveva «bisogno di lavorare» e che questo bisogno, se un giovane lo vuole realizzare oggi, gli può costare anche la vita? Può darsi.
    Ma, allora, che dovrebbero fare i giovani (o noi) per superare la nostra «resistenza a far funzionare il pensiero»? Ed è proprio tutta resistenza a far funzionare il pensiero? Ma se anche quelli più acuti e ancora pensanti devono riconoscere che «gli strumenti che abbiamo per leggere la realtà sono sempre più obsoleti»? Forse non non si tratta solo di “resistenza”, visto che gli “strumenti” non s’inventano di botto o s’improvvisano se te li hanno tolti o tu li hai “rottamati”…
    Forse – mi chiedo – dovremmo seguire dei corsi accelerati di strategia geopolitica. Si coglierebbero così tanti piccioni con la sola fava “geopolitica” (appunto). Eviteremmo sia «la creazione della vittima utile a dare una ragione di sopravvivenza a certa sinistra che radicale fu forse decenni fa e che ora ripete stancamente la sua parte nel teatrino della politica» (Toffoli), sia la coltivazione della nostra “anima bella” sia i miraggi «sulle cosiddette “rivoluzioni colorate”, sulla cosiddetta “primavera araba”, sul proliferare di ONG di ogni tipo e colore spesso strumenti di occhiute regie, sulle forme di espansione del fondamentalismo religioso dagli anni ’80 in poi del secolo scorso»?
    Malgrado l’età sarei disposto ad iscrivermi. Ma se « pensare la realtà da un punto di vista diverso» significa seguire gli impeccabili e ben più dei miei informati ragionamenti di Buffagni (e lo dico senza ironia), che sicuramente non cadono nella « manipolazione delle diverse cricche di potere che hanno fomentato le varie guerre che punteggiano il Medio Oriente», quale il che fare – per me, per noi – che da essi deriva?
    A me pare che derivi solo una presa di distanza da alcuni “polli” più o meno a noi prossimi. E cioè un ridursi a criticare certuni che, da «deficienti come i giornalisti del manifesto» o da « pazzi che vogliono aprire l’ultimo sigillo da quelle parti, che non sono lontane da casa nostra», insistono sulla «mancanza dei “diritti umani” (debitamente virgolettati da Buffagni) in Egitto; e un ridursi ad approvare se non ad applaudire la posizione di Sergio Romano o dell’impagabile faccia di bronzo statunitense Luttwak, che ci danno lezioni perfette di quel “lucido realismo” (che ci annichilisce invece di scuoterci).
    O quale che fare deriva dai ragionamenti di Rizzi? Che « bisogno di lavorare o meno, una persona dovrebbe ragionare un pochino sui rischi a cui potrebbe andare incontro»? Che tutte le « ideologie […] sono l’oppio dei popoli»? ( Ma se, persino Marx, che la religione così definì, riconosceva che quell’oppio purtroppo funzionava pur danneggiando i suoi consumatori e poteva essere sostituito soltanto da mutamenti delle reali condizioni di vita degli uomini e- aggiungerei – non solo dalla geopolitica?). Che dobbiamo lavorare « per una società (quanto grande non importa), nella quale [ci sia] una qualche forma [di giustizia»]? E chi poi dovrebbe lavorare a questa indefinita prospettiva? «Un 30% di persone motivate, decise e unite per cambiare radicalmente una società»? Tante sarebbero, dunque le « “forze sane” della Nazione?».
    Per finire. Se pure G. La Grassa, che seguo sempre con attenzione, in uno dei suoi ultimi scritti dice :
    « In attesa di individuare (e chissà se e quando sarà possibile) una teoria sufficientemente unitaria e compatta della (ultra)diversificata formazione sociale globale – e riferendosi per il momento a quella sua parte che è la formazione dei funzionari del capitale e per non più dei prossimi 20-30 anni – fisserei l’attenzione, del tutto provvisoriamente, su due obiettivi di analisi: le funzioni e ilivelli di reddito. Le prime individuano soprattutto la segmentazione (orizzontale) di detta formazione sociale; i secondi la dividono (verticalmente) in più strati, indicando inoltre quali contengono il maggior numero di individui (gli strati “bassi” o “inferiori”) e quali il minor numero (strati “superiori”). La dinamica oggettiva della riproduzione capitalistica complessifica (anzi complica) la società, moltiplicando sia funzioni che livelli di reddito; diversamente però da quello che pensano certi anticapitalisti scolastici, in certi periodi la differenza tra strati superiori e inferiori si accentua, in altri si attenua. […] è difficile spingersi oltre queste notazioni di “buon senso”. Ne riconosco esplicitamente il limite, per così dire, sociologistico; e tuttavia ritengo necessario compiere questi primi passi al fine di liberarsi di quella nefasta idea di un movimento della società oggettivamente dicotomico, che ha illuso i comunisti circa la semplicità di una rivoluzione mondiale ormai prossima a compiersi, condannandoli alla sconfitta e ad una sopravvivenza ormai simile a quella degli anarchici.» ( http://www.conflittiestrategie.it/vogliamo-ripartire-cioe-ricominciare-a-pensare-di-glg ), vuol dire, secondo me, che noi dobbiamo continuare per forza a fare *il meglio possibile* i “polli” nel recinto, mentre i poveri Regeni dovranno continuare a rischiare la pelle consapevoli o inconsapevoli. Per lui la famiglia ha chiesto non fiori ma opere di bene. Per noi chiederei non sarcasmo ma più critica dialogante.

  16. Caro Ennio,

    fai bene ad “immazzarti” (neologismo che ho coniato fresco fresco a partire dalla imitazione di Carla Fracci da parte di Virginia Raffaele che ha giocato sull’ambiguità del suono ‘cazzo’- ‘mazzo’).
    Ammetterai che ci sono delle ‘resistenze’ (giustamente Cristiana scrive: *Ecco che il pensiero critico vuol dire conoscere, prima ancora che riconoscere, perché “gli strumenti che abbiamo per leggere la realtà sono sempre più obsoleti”*).
    Quando ci furono le ‘primavere arabe’ ci sono stati su Moltinpoesia (non ho qui i riferimenti precisi) dei pensieri e delle discussioni che ti vedevano molto perplesso a cogliere gli equivoci che ci stavano dietro quei movimenti e che oggi si percepiscono molto più chiaramente anche se non del tutto, ma che allora alcuni di noi denunciavano già. Non puoi – non si tratta di buttare via il bambino con l’acqua sporca – non riconoscere che c’è un * proliferare di ONG di ogni tipo e colore spesso strumenti di occhiute regie* su cui non c’è alcun controllo. E che quindi “bisogna avere orecchio” e seguire la ‘realtà’ per quanto mistificata possa essere, piuttosto che seguire i nostri desideri e i nostri sogni.
    Se devo essere sincera, nemmeno io mi aspettavo un cambiamento di tale fatta nel mondo in cui ho a che fare, ma non approvo né il masochismo (la mia immagine dei polli serviva più a scuotere che a piangersi addosso) né il sarcasmo da intelligentoni. Se poi pensiamo agli intelligentoni, come non correre con il pensiero a tutti quelli che, facendosi anche delle fortune economiche e di immagine attraverso le critiche e le satire, indicando in Berlusconi la sentina di tutti i vizi e di tutte le nefandezze, hanno distolto l’attenzione lasciando che il ‘cosiddetto sistema’ rovesciasse sulle spalle di noi tutti il suo ‘smaltimento rifiuti’, che è ciò con cui ci stiamo confrontando oggi e a fronte del quale nessuno mette virgola?

    Se il ‘lucido realismo’ ti annichilisce allora che cosa dobbiamo fare? Inventarci una realtà edulcorata? Dobbiamo fare come in quel brutto film di Benigni “La vita è bella”? Una turlupinatura?

    Tu dici: *Ma, allora, che dovrebbero fare i giovani (o noi) per superare la nostra «resistenza a far funzionare il pensiero»? Ed è proprio tutta resistenza a far funzionare il pensiero? ma non poter indicare un qualche che fare è proprio il pensiero critico che ci serve? O è ancora un aggirarsi a tentoni?*
    Non voglio mettermi qui a fare la maestrina però il pensiero critico viene prima del poter indicare da quale parte andare, se accettare delle proposte, o delle visioni del mondo, ecc. ecc.. E questo soprattutto in una situazione di incertezza, di transizione i cui parametri non sono chiari. “Critico” proprio perché mette in ‘crisi’ ciò che ‘apparentemente’ sembra chiaro e lampante. Stimola a guardare i retroscena, a far tesoro dell’esperienza, non solo di quella che viene dalla ‘nostra parte’ ma anche e soprattutto di quella che viene dall’altra parte sia che si tratti di Buffagni, Romano o Luttwak o vattelapesca. Questo è cercare (sottolineo ‘cercare’) di evitare di cadere nella ideologia che ipostatizza l’esistente. So bene che la religione ‘serve’, la ideologia ‘serve’ ma non posso, nei limiti del possibile, non emanciparmi da quella dipendenza.

    No, non hai sbagliato a parlare in un certo modo di Regeni, dei giovani ecc. eccetera ma temo che sappia troppo da populismo riscaldato.

    Ancora tu scrivi: *Ma se anche quelli più acuti e ancora pensanti devono riconoscere che «gli strumenti che abbiamo per leggere la realtà sono sempre più obsoleti»? Forse – mi chiedo – dovremmo seguire dei corsi accelerati di strategia geopolitica. Si coglierebbero così tanti piccioni con la sola fava “geopolitica” (appunto).*
    Certo che no! Non ci possiamo inventare di botto un pensiero teorico!
    Nessun pensatore si è “svegliato una mattina, oh bella ciao, oh bella ciao, ciao ciao e ha trovato l’invenzion!”. Marx, che era Marx, ci ha dovuto faticare un bel po’.
    Io credo che ciò che ti tormenta, e non solo te, ovvio, sia il cambiamento di paradigma, di occhiali con i quali si guardano le dinamiche sociali: tu le guardi attraverso la lotta antitetica tra il polo capitalistico e il polo degli sfruttati. Quel modello, pur rimanendo di fondo, non è più quello che muove. Non so se sarà il modello strategico (anche perché si stanno perdendo sempre più, e non a caso) le identità nazionali, o che altro. So solo che non è più quello. Bisogna capire che cosa sta succedendo.
    Questo non vuol dire che, nel mentre * noi dobbiamo continuare per forza a fare *il meglio possibile* i “polli” nel recinto, mentre i poveri Regeni dovranno continuare a rischiare la pelle consapevoli o inconsapevoli*.
    Non vorrei essere ‘crudele’ o cinica, ma non posso accettare che qualcuno si arroghi il diritto di dire che fa delle cose per la mia libertà o per il mio bene. Non sono più una bambina! Vorrei essere io a lottare per la mia libertà. Perché da lì il passo per le guerre umanitarie è breve!

    R.S.

  17. Rita scrive: “Però il pensiero critico viene prima del poter indicare da quale parte andare”. Distinguo: se devo mangiare o curarmi o non perdere la casa, il pensiero critico viene *dopo*. Se devo difendere il posto di lavoro o la consistenza della paga, idem.
    E se devo difendere lo sviluppo economico del sistema paese (in cui posso trovare un lavoro)?
    Se devo difendere gli interessi complessivi della maggior parte dei miei concittadini rispetto a una classe politica che ci vende a padroni più grandi? Se quindi devo difendere il mio paese dalla spoliazione, o peggio, dal tradimento che trasformerà me e quelli come me in mercenari per gli interessi di altri stati? Non occorre un pensiero critico *prima* di combattere?
    Che mi faccia capire se è vero che ho un paese, o sono cittadina del mondo, o europea, o cristiana, o una individua portatrice di diritti, o di bisogno di lavorare, libera, sciolta, con qualcosa da offrire: capacità, forza fisica, corpo…
    Qui il pensiero critico viene *prima*, per attrezzarmi a contrattare, a allearmi, a difendermi o attaccare.
    E per capire e agire ho bisogno di analisi di molti generi: individuare chi comanda, la sua strategia, i suoi interessi. Il complesso di teorie comprese nella dizione “marxismo” mi servirà senz’altro, valuterò come.
    Ma, prima di tutto: dove sono, in che contesto, con quali pericoli e prospettive? Mi occorre non solo un pensiero critico, ma ben di più: una capacità di analisi a breve medio e lungo termine, forse anche un sapere storico (ma di che tipo?), delle idee antropologiche e psicologiche, e abbastanza chiarezza sul ruolo degli scienziati rispetto ai soggetti e alle forme del dominio (scienza e capitali, scienza e guerra, scienza e ideologia, usw).
    Qui non basta il pensiero critico, qui la faccenda si fa pesante, qui occorre tanto pensiero costruttivo, immaginazione, logica, razionalità, volontà.
    Concludo: è esattamente in questo momento che ci troviamo, in cui mi trovo e credo molti altri, quello della costruzione di un sapere vero, e questo richiede i molti e il confronto.

  18. “…se devo mangiare o curarmi o non perdere la casa, il pensiero critico viene *dopo*…” (Cristiana), purtroppo è vero e vale moltissimo per i giovani. Spesso anche chi tra loro aveva costruito il proprio pensiero critico poi è costretto, nell’operare delle scelte, ad accantonarlo per sopravvivere. A proposito mi viene in mente una giovane piena di ideali ( figlia di un’amica), giornalista di piccole testate che ad una ad una ha visto chiudere, scrittrice di bellissimi racconti spesso premiati, che, arrivata a quarant’anni senza un lavoro, si vede costretta ad accettare di occuparsi di pubblicità…o tornare, con il suo compagno, dalla mamma. Facile diventare “polli” frementi e incattiviti, purtroppo sempre polli…Ma anche per chi dispone di un minimo “garantito” di sopravvivenza non è facile dare seguito a questo pensiero critico. Chi ci prova può soccombere davanti ad una realtà schiacciante e mostruosa, come penso sia capitato a Giulio Regeni. Comunque per quell'”altra” realtà, che sia già stata sperimentata o solo ipotizzata, vale la pena fare qualcosa e “questo richiede i molti e il confronto” (Cristiana)

  19. @ Simonitto

    Cara Rita,
    non è che io non veda o non vedevo dietro/dentro/sopra/accanto/sotto i movimenti ( ’68, primavere arabe, ONG, quel che volete) gli equivoci possibili, le infiltrazioni sicure, le manipolazioni preordinate professionalmente. Su questo non c’è alcuna mia “resistenza”. Qualcosa la vicenda di Pinelli, di Valpreda, delle Br ha insegnato a quel che mi resta della mia “anima bella”. E ogni volta che mi spunta un desiderio o un sogno, mi basta vedere il mio conto in banca già prima della fine mese per sentire il rombo infame della “realtà”.
    Ho deciso però di evitare (per quanto possibile), ritenendoli reazioni del tutto vane, il piangermi addosso e lo sputo rancoroso dall’alto in basso/ dal basso in alto/in orizzontale. Non invidio perciò chi ha fatto «fortune economiche e di immagine» (prendendosela con Berlusconi o, all’inverso, coi “comunisti”). Né invoco contro di loro la giustizia divina o il Grande Vendicatore.
    Cerco di andare al sodo, al “che fare”. E, in ogni incontro con singoli o gruppi, mi propongo (per quanto possibile) di capire se quella persona o quel (sedicente spesso) gruppo può essere mio *interlocutore* o mio *alleato* in *qualcosa* che si potrebbe fare insieme ( fosse solo una discussione, una collaborazione a un blog, un lavoro di ricerca) per non arrendersi e disperare.
    Il «lucido realismo» di Romano o dei geopolitici in genere mi “annichilisce”, sì. Ma non perché io sia soltanto o soprattutto un sognatore o voglia sostituirlo con una «realtà edulcorata». È che sono convinto di una cosa non dimostrabile, che rientra nella *scommessa* a cui siamo sempre costretti, quando ci inoltriamo in territori non familiari, nei quali dobbiamo per forza muoverci senza strumenti (o con strumenti di fortuna o con strumenti “vecchi” e “superati”. Quale? Questa: abbiamo bisogno di un realismo che non *naturalizzi* (o salti, o presenti in modo neutro) i rapporti sociali diseguali in cui ci troviamo. Che non ce li presenti come ovvi, insuperabili, naturali, appunto. Cosa che fanno di solito i Romano e quasi tutti i geopolitici.
    Penso perciò che quella che tu hai chiamato «resistenza a far funzionare il pensiero» non sia soltanto indice di ignoranza o ottusità, ma almeno in parte – altra scommessa – *resistenza a far funzionare il pensiero secondo le regole imposte dai dominatori*. Secondo, cioè, la loro visione del mondo. O anche, se vuoi, secondo le regole della *scienza dei dominatori*.
    Potrò «far tesoro dell’esperienza, non solo di quella che viene dalla ‘nostra parte’ ma anche e soprattutto di quella che viene dall’altra parte sia che si tratti di Buffagni, Romano o Luttwak o vattelappesca» a una condizione: di non dimenticare mai che l’esperienza che essi mi offrono (o spesso m’impongono) non coincide in pieno con la mia, perché porta i contrassegni spesso non facili da decifrare del dominio entro la cui cornice è stata elaborata. Ed è perciò utilizzabile solo se *tradotta*, *rilaborata*, “adattata* alle nostre esperienze, sì, di dominati.
    Specie quando, soprattutto nel campo delle scienze della natura più che in quelle cosiddette umane, non considera gli aspetti storici, sociali, religiosi, individuali. (Anzi è scienza proprio in quanto ne astrae), Essa non è mai del tutto ripulita dalla « ideologia che ipostatizza l’esistente». Lo è, certo, in misura appena minore della religione, della sociologia, della storia, ma lo è.
    D’accordo che si debba tentare di emanciparci dalla ideologia o dalle ideologie. Ma questo vale per tutti in misure diverse: anche per gli scienziati o per quanti riconoscono (me compreso) il primato alla scienza su ogni altro sapere vecchio o nuovo.
    L’ideologia troppo spesso, buttata dalla porta, rientra dalla finestra. Althusser ce l’aveva spiegato. E anche Gramsci, pur operando in una gabbia di pensiero idealistica e con una forte diffidenza verso la scienza del suo tempo (piattamente positivista, in verità), l’aveva a suo tempo intuito. E aveva cercato di proporre un mezzo salto (che a lui pareva in avanti), una sorta di “pedagogia di massa” che tenesse conto dei dominati. Perciò – penso io – aveva proposto la costruzione di un’ideologia proletaria: sia per contrastare quella borghese (illuministica) e quella conservatrice (religiosa) allora dominanti; e sia per – dico sempre io – avvicinare quelle che ai suoi tempi definiva *classi subalterne* (operai e contadini soprattutto) verso la realtà (che a lui pareva più leggibile con gli strumenti del pensiero moderno: illuminista-marxista-leninista per Gramsci…).

    E arriviamo alla nostra « situazione di incertezza, di transizione». Per dire velocemente che: 1. non capisco perché sia «populismo riscaldato» aver ricordato che il giovane Regeni era un ricercatore, il quale, per lavorare, doveva stare al gioco dei suoi “datori di lavoro” o barcamenarsi come poteva in mezzo ai rischi, da Buffagni così ben illustrati; 2. i “non teorici” (giovani, gente comune, ecc.), in attesa che il nuovo Marx tiri fuori (non di botto) un pensiero teorico all’altezza dei tempi, farebbero bene a seguire all’incirca gli esempi di resistenza di cui parlò lo storico E. Thompson studiando la formazione della classe operaia inglese ai tempi della rivoluzione industriale; 3. non sono tormentato dal «cambiamento di paradigma» (tanto da aggrapparmi come un disperato a Marx), ma non vedo nel «modello strategico» un paradigma che tenga conto di quanto ho detto sopra a proposito del realismo di cui avremmo bisogno. (Ma su Marx, da salutare o portarsi dietro nei nostri tentativi di capire il mondo in caotico mutamento, spero di aprire presto una discussione a più voci qui su Poliscritture).

  20. Caro Ennio,
    stralcio qualche brano di un articolo del prof. Enrico Moretti pubblicato su ” la lettura “del corriere ( lo so, non è “il Manifesto “, e neppure il ” Foglio quotidiano”, lo so, ma io bazzico questi giornali e lo scrivo senza ironia, credimi )
    di questa settimana intitolato :

    “la creatività è il vero capitale” .

    “……….. negli anni 80 e 90 una delle imprese high tech più innovative era la Kodak
    con 72 mila dipendenti…………

    oggi la kodak non esiste quasi più …….. ha ridotto il numero di impiegati del”80%
    rispetto al 1990 e ha abbassato i salari.

    ……….l’area attorno alla sua sede storica un tempo brulicante di attività e commerci, oggi sembra un città fantasma ………….

    ……dal 1985 ad oggi il numero degli operai in America ( ed anche in Europa ) si è dimezzato ………

    ……nel 1990 la differenza di salario tra i dipendenti più retribuiti ( gli ingegneri ) e quelli meno retribuiti ( gli operai ) era del 50%.

    …la cose sono cambiate profondamente nel giro degli ultimi due decenni..
    ……il salario medio iniziale di un ingegnere neoassunto è di 10.000 $ al mese e può crescere molto rapidamente in base alle capacità ed alla creatività…………

    e…….grandi aziende quale Facebook acquistano aziende al solo scopo di acquisire le persone che hanno ideate le tecnologie di tali aziende.

    E qui l’autore fa l’ esempio di Zuckemberg che ha comprato un’azienda per assicurarsi i 12 ing. progettisti al prezzo complessivo di 47 milioni di $, ovvero di 4 milioni di $ per dipendente.

    E aggiunge ancora l’articolo
    ” ..quanto Carlo Marx scriveva il Capitale, il valore aggiunto della produzione industriale nelle economie occidentali proveniva principalmente dal capitale composto da macchinari e infrastrutture………………

    la forza operai era numerosa ed omogenea e il fattore economico più prezioso era il capitale fisico…..

    e la conclusione è
    “………… nei prossimi decenni queste dinamiche si rafforzeranno e si diffonderanno…….i luoghi in cui si fabbricano fisicamente le cose seguiteranno a perdere di importanza, mentre le città popolate da lavoratori interconnessi e creativi diventeranno le nuove fabbriche del futuro.

    Quindi, la riflessione che rivolgo a te come persona colta, del pensiero profondo e molto serio, è :
    ” ma ha ancora senso cercare di leggere il presente economico alla luce di autori che hanno sviluppato il loro pensiero quasi due secoli fa ? ”

    E non solo in economia, credo valga questa obiezione, ma la possiamo estendere a tutti i campi del pensiero, anche in filosofia o letteratura, e su questi temi non voglio insegnare nulla a te che mi sei maestro.

    Credimi, anch’io penso quasi con nostalgia agli anni 50 e 60, ma Di Vittorio è scomparso da decenni, Vittorini e la sua rivista sai anche tu che fine hanno fatto, e Trentin, e tanti altri compagni di strada hanno seminato le loro speranze ma i frutti ora li stanno lentamente distruggendo, perchè adesso siamo incastrati, letteralmente, in una prigione economica chiamata Europa che condiziona la vita di tutti e dalla quale non potremo mai uscirne se non a prezzo molto caro, e quel famoso ” sol dell’avvenire ” non sorgerà mai più perché la rivoluzione chi la farà ?

    Scusami la banalità dell’intervento ma non ho potuto ” chiamarmi fuori ” di fronte alla tua risposta così ben articolata alla signora Simonitto.

    Forse riconoscere la sconfitta di tante speranze non è poi un atteggiamento così sconfortante, ripensiamo alle guerre di indipendenza dell’800 a Mazzini, ed a tutti gli altri, e poniamoci la domanda ” ma chi era Luciano Manara ? o chi era Silvio Pellico ? ( è ciò che mi chiedo ogni volta che uscendo di casa, visto che questa via l’ho accanto ed in una ci abito pure )

    con affetto
    luigi

    1. Se poi si riuscisse ad ammettere che tale sconfitta delle speranze, è stata dovuta ad illuministico fideismo nelle ideologie, sarebbe un ulteriore passo avanti.

      E lo sarebbe stato pure per Manara e Pellico.

  21. @ Paraboschi

    Caro Luigi,
    ma perché il riconoscimento della sconfitta delle nostre speranze deve essere accompagnato dal ripudio della *nostra* storia?
    E perché mai, essendo scomparso il capitalismo nella forma studiata da Marx, quel suo *modo di studiarlo* (non le sue affermazioni legate alla storia di quel suo tempo o le sue conclusioni o “previsioni” o “attese”) dovrebbe essere, come si dice, obsoleto o del tutto superato?
    Lo stesso G. La Grassa, che nello scritto da me citato nel commento del 21 febbraio 2016 alle 19:54 , pur sostiene che di fronte ai mutamenti in corso : «non si può però rispondere semplicemente rispolverando “il suicida”, il vecchio marxismo», riconosce che deve comunque « essere ripreso lo *spirito* di Marx» (almeno questo!); poiché «non ci si può certo limitare al micragnoso liberalesimo, cioè all’individualità fondante la struttura delle relazioni sociali (tra presunti “eguali”), né ripiegare semplicemente sulla comunità o sulla Nazione, ecc.». E – novità per me rispetto a precedenti sue affermazioni – ammette «che il discorso delle *classi* sia sempre rilevante»; a patto – precisa – che si comprenda che «la dinamica capitalistica non semplifica la *classificazione* [nella dicotomia netta delle due classi contrapposte: borghesi e proletari], anzi la complica sempre più»; e che sarebbe meglio, invece di parlare «troppo spesso di “classi”», di discutere « più genericamente al momento [cioè in questa fase di transizione e confusione o indecifrabilità della attuale società], di «gruppi e raggruppamenti sociali».

    Su queste questioni la nostalgia di un certo passato, che pareva pieno di speranze, proprio non c’entra ( o è sotto controllo, almeno da parte mia).
    E poi, a meno di non essere neo-futuristi o neo-avanguardisti, neppure è vero che, in filosofia o in letteratura o in altri campi del pensiero, ci sbarazziamo di autori « che hanno sviluppato il loro pensiero quasi due secoli fa» o anche più.
    Non facciamo riferimento a Aristotele, Platone, Dante, ecc? Non si è detto e ridetto che i classici ( ognuno ha i suoi o si sceglie i suoi, come ognuno ha i suoi genitori, ma si sceglie anche i suoi padri o le sue madri “spirituali”) funzionano per la loro *inattualità*, per il loro essere *marziani* rispetto al tempo in cui noi siamo “incastrati”?
    E siccome queste cose – e dagli! – le ha dette meglio di me il solito Fortini, anticipo qui sul sito il 6° pezzo della rubrica «Nei dintorni di FF» che ho già pubblicato qualche settimana fa su “Poliscritture FB”:

    NEI DINTORNI DI FRANCO FORTINI (6)

    Comunque Marx…
    (In vista di una panoramica a più voci su Marx e marxismo da pubblicare sul sito di POLISCRITTURE)

    MARXISMO
    di Franco Fortini

    Quelli che hanno la mia età Marx l’hanno letto alla luce delle
    nostre guerre. Hanno sempre sentito chiamare marxista chi le
    potenze delle armi, del profitto o del potere avevano voluto
    ridurre al silenzio. «E tu come li chiami i popoli oppressi o uc-
    cisi in nome di Marx?», mi si chiederà ora; forse supponendo
    che non abbia trovato il tempo, finora, di chiedermelo. Ri-
    spondo che sono dalla mia parte. Li conto insieme a quelli che
    dal Diciassette, quando sono nato, sono nemici dei miei nemi-
    ci, a Madrid come a Shanghai, a Leningrado come a Roma, a
    Hanoi, a Santiago, a Beirut … I cacciatori di «bestie marxiste»
    (cosi si esprimono) devono sempre aver avuto difficoltà ad ap-
    prezzare le differenze teoriche fra marxiano, marxista, sociali-
    sta, comunista, bolscevico e cosi via.
    Mi spiegherò meglio, per loro beneficio. C’è una foto russa,
    del tempo della guerra civile: un plotone di morti di fame,
    in panni ridicoli, cappellucci alla Charlot in testa, scarpe slab-
    brate; e a spall’arrn i fucili dello zar. Questo è marxismo. C’è
    un’altra foto, Varsavia 1956, un giovane magro, impermeabile
    addosso, sta dicendo nel microfono, a una sterminata folla
    operaia che il giorno dopo l’Armata rossa, come a Budapest,
    può volerli morti o deportati. Anche questo è marxismo. Con
    chi queste cose dice di non capirle, di marxismo è meglio non
    parlare neanche.
    Un certo numero di italiani miei coetanei sparve anzitempo
    dalla faccia della terra, combattendo borghesi e fascisti. Gra-
    zie a loro se le forze dell’ordine volessero perquisirmi, potrei
    mostrare che sui miei scaffali invecchiano le opere di Marx, di
    Lenin e di Mao, senza temere, ancora, di venire trascinato alla
    tortura e alla fossa com’è accaduto e ogni giorno accade a po-
    che ore di aereo da casa nostra. Dieci o quindici anni fa poco è
    mancato che la civica arena o il catino di San Siro non acco-
    gliessero, come lo stadio di Santiago del Cile, le «bestie marxi-
    ste», So chi mi avrebbe aiutato, in quel caso: non sarebbero
    stati davvero quelli che mi conoscono perché hanno letto i
    miei libri. E ora approfitto di queste righe per salutare Alaide
    Foppa, mia collega di letteratura italiana a Città di Messico.
    La conobbi anni fa. In questi giorni ho saputo chi l’ha ammaz-
    zata, in Guatemala. Anche questo è marxismo.
    Cominciai nel 1940 col «Manifesto», per consiglio di Giacomo
    Noventa e Giampiero Carocci; senza alcun entusiasmo. Capii
    poi qualcosa da Tročkij e Sorel. Durante la guerra vissi in fan-
    teria un buon corso di marxismo pratico. A Zurigo, nell’in-
    verno 1943-44, non so quanti libri lessi, riassunsi e annotai,
    che parlavano di socialismo e di materialismo storico. Si face-
    va fuoco di ogni frasca, allora. Un opuscolo in francese, ricor-
    do, mi fu molto utile; l’aveva scritto un tale che firmava con
    lo pseudonimo, seppi poi, di Saragat. L’apprendistato com-
    prendeva testi anche troppo disparati: Malraux e Rosselli, Vie-
    tor Serge e Silone, Mondolfo e Eluard …
    A guerra finita vennero letture meno selvagge: le opere sto-
    riche («Le lotte di classe in Francia»,« Il diciotto brumaio», «La guerra civile in Francia»), parte della «Sacra famiglia, i primi capitoli, splendidi di genio e forza sintetica, della «Ideologia tedesca, i due volumi del primo libro del «Capitale: e a partire dal 1949 quei «Manoscritti economico-filosofici» del 1844 oggi tanto derisi e che mai hanno cessato di stupirmi per la loro capacità di
    guidarci da Hegel fino ai giorni che ancora ci aspettano; e
    di dirci parole di incredibile attualità. E altro ancora.
    Dopo vent’anni di diatribe storico-filologiche sul primo e il
    secondo Marx; dopo Lukàcs e Sartre, Bloch e Sohn-Rethel,
    Adorno e Althusser, Mao e gli amici torinesi di «Quaderni
    rossi», a quelle pagine non ho più sentito il bisogno di tornare
    se non nei termini di cui parla Brecht in una poesia intitolata,
    appunto, «Il pensiero nelle opere dei classici»:
    Non si cura
    che tu già lo conosca; gli basta
    che tu l’abbia dimenticato …
    senza l’insegnamento
    di chi ieri ancora non sapeva
    perderebbe presto la sua forza rapido decadendo.
    Non stiamo commemorando la nostra giovinezza. Anche se
    fondamentale, quel pensiero non è se non un passaggio dell’i-
    ninterrotto processo che porta da luce a oscurità poi ad altra
    luce, e dal credere di sapere al sapere di credere. Se ne compo-
    ne (come quella di chiunque) la nostra esistenza. O per la
    gioia dei più sciocchi dovremmo ripetere qual che ci sembra
    di aver detto sempre e cioè di non aver creduto mai che il pen-
    siero di Marx potesse fungere da chiave interpretativa del
    mondo più o meglio di quanto lo faccia, ad esempio, la poesia
    dell’ Alighieri? Una educazione alla storia ci faceva almeno in-
    travvedere quel che era stato detto e fatto ben prima e sarebbe
    stato detto e patito molto dopo di noi.
    Quando, per l’Italia, almeno dal 1900, data del libro di Croce,
    ci viene ogni qualche anno ripetuto che quella di Marx è filo-
    sofia superata, non ho difficoltà ad ammetterlo; sebbene subi-
    to dopo domandi che cosa significa superare la filosofia di PIa-
    tone o di Kant. Quando ci viene spiegato che la teoria marxia-
    na del valore o quella sulla caduta tendenziale del saggio di
    profitto sono manifestamente errate, non ho difficoltà ad am-
    metterlo; anche perché mai l’ho impiegata per capire come va-
    dano le cose di questo mondo. Quando mi si dimostra che l’i-
    dea, certo marxiana, di un passaggio dalla preistoria umana al-
    la storia mediante la fine della proprietà privata, dello Stato e
    del lavoro alienato, si fonda su di una antropologia fallace e
    senz’altro smentita dai «socialismi reali», apertamente lo rico-
    nosco; anche perché ho sempre attribuita la figura d’un pro-
    gresso illimitato all’ errore che afferma la indefinita perfettibi-
    lità dell’uomo, un errore illuministico-borghese che Marx eb-
    be a ereditare.
    Ma quando mi si dice che la teoria delle ideologie è falsa, che
    la lotta delle classi è una favola e che il socialismo è una utopia
    senza neanche l’utilità pragmatica delle utopie, chiedo allora
    un supplemento di istruttoria. Primo, perché il pensiero epi-
    stemologico contemporaneo, dalla critica psicanalitica del
    soggetto fino alla semiologia, conferma la fine d’ogni imme-
    diata coerenza fra parola, coscienza e realtà, come fra mondo
    e concezioni del mondo; secondo, perché a tutt’ oggi è difficile
    negare – e lo si sapeva ben prima di Marx -l’esistenza di inin-
    terrotti conflitti di interessi tra gruppi umani per il possesso
    dei mezzi di produzione e la ripartizione del prodotto sociale;
    conflitti determinati dai modi del produrre e determinanti
    l’assetto, o lo sconvolgimento, dell’intera società. Per quanto
    è del terzo ed ultimo punto, convengo volentieri che esso rin-
    via ad una persuasione indimostrabile.
    La volontà di eguaglianza e giustizia pertiene alla politica solo
    grazie alla mediazione dell’ etica e della religione. Marx non ne
    ha data nessuna ragione migliore. Indipendentemente da ogni
    mito perfezionista, credo si debba continuare a volere (un vo-
    lere che implica lotta) una sempre più sapiente gestione delle
    conoscenze e delle esistenze. Il «sogno di una cosa» è la realiz-
    zata capacità dei singoli e delle collettività di operare sul rap-
    porto fra necessità e libertà, fra destino e scelta, fra tempo e
    attimo.
    Il movimento socialista e comunista si è fondato per cent’an-
    ni su quel che si chiamava l’insegnamento di Marx. Ne era
    parte maggiore l’idea che il passaggio al comunismo dovesse
    essere conseguenza dello sviluppo delle forze produttive, della
    industrializzazione e della crescita della classe operaia; e com-.
    piersi con una pianificazione centralizzata. In questi nodi di
    verità e di errore si è legato il «socialismo reale». Oggi gli esiti
    del passato ci impediscono di guardare al futuro. Sono esiti
    tragici non solo per cadute politiche, economiche o culturali
    né solo per costi umani; ma perché, anche al di fuori dei paesi
    comunisti, il «marxismo reale» ha accettato il quadro mentale
    del suo antagonista: primato della tecnologia, etica della effi-
    cienza, sfruttamento dei più deboli. Sembrano falliti tutti i
    tentativi per uscire da questa logica: massimo quello cinese.
    Eppure, Bloch dice, non è stata data nessuna prova che quella
    uscita sia impossibile. L’eredità marxiana è divisa: una metà è
    la nostra, l’altra é deil nemici del socialismo e comuni-
    smo, sotto ogni bandiera, anche rossa.
    Quanto alla mente geniale morta cent’ anni fa, è anche grazie ad essa che è stato ridimensionato il ruolo delle grandi personalità e dei loro sepolcri. Però ho visitato con commozione a Parigi il Muro dei Federati, a Nanchino la Terrazza della Pioggia di Fiori o dei Centomila Fucilati; mi fosse possibile, andrei a onorare i morti dei Gulag: sono tutti di una medesima parte, tuttavia parte; non ipocrita bacio tra vittime e carnefici. Marx ci ha infatti insegnato a capire una volta per sempre quale opera implacabile gli ignoti, gli infiniti vinti vincitori, compiano entro le società che preferirebbero ignorarli ed entro di noi; quali cunicoli scavino, quali fornelli di mina preparino anche in coloro che li odiano per aver voluto qualcosa che interi popoli oppressi continuano, morti e vivi, a volere.
    Tutta la storia umana, ci dice, deve essere ancora adempiuta
    interpretata, «salvata». E o lo sarà o non ci sarà più – sappia
    mo che è possibile – nessuna storia. O ti interpreti, ti oltre
    passi, ti «salvi» o non sarai esistito mai.
    L’amico di Federico Engels non è stato davvero il primo a
    dircelo. L’ultimo sì. E meglio ancora ogni giorno lo dice,
    oscuro a se stesso, «il movimento reale che abolisce lo stato di
    cose presente» («Ideologia tedesca», 1845-46, I, a). Anche questo è marxismo.

    1983

    *In “Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di Paolo Jachia, Editori Riuniti, Roma 1991, pagg.145 – 149)
    L’articolo apparve su Corriere della sera il 29 marzo 1983

  22. Caro Ennio, l’automazione distrugge milioni di posti di lavoro e quasi tutti li distruggera’ a breve. Rimarranno attivi pochissimi supercreativi che opereranno su scala globale. Che faranno gli altri 7-8-9 miliardi di umani? Qui politicamente si arriva al sussidio universale, un comunismo di consumatori realizzato o un gulag di poveracci, secondo ideologia. Basta impiccarsi col lavoro e colpevolizzarsi della sua crescente scarsita’, ci si batta perche’ multinazionali e governi non drenino denaro verso I paradisi fiscali. Il M5S e’ sostanzialmente il nuovo partito comunista, quello dei non elite non acculturati non destinati a nulla cioe’ quasi tutti noi. Saluti.

  23. Permettimi Ennio, mi permetta Luigi, si parla di Marx e di risorgimento perché? Perché si parla del vuoto, nel vuoto, proprio oggi Fagan ha scritto, ultima riga dell’ultima nota, la capacità di autoinganno delle masse è infinita. Ah la bella concretezza di Buffagni, di Romano, che trattano di Stati reali, di servizi di intelligence… di corpi, di azioni, di tradimenti, dolori, cose vere che accadono. E noi qui a citare, a immaginare, a ricordare, per sentirci reali almeno così, nella fantasia… Cosa sta succedendo? Che cosa stringiamo afferriamo tra le mani? Nemmeno più la penna e la carta, solo un dito e impulsi elettrici, e questa memoria e parole che appaiono magiche e contemporanee, pensate e subito visibili… e meno materiali dell’aria stessa… di una levità, impressionante.

  24. Rispondo a ‘spot’.

    Cristiana, 22.02 h. 9.13

    ****Distinguo: se devo mangiare o curarmi o non perdere la casa, il pensiero critico viene *dopo*. Se devo difendere il posto di lavoro o la consistenza della paga, idem.****

    Annamaria, 22.02 h. 12.09

    **** Spesso anche chi tra loro [giovani] aveva costruito il proprio pensiero critico poi è costretto, nell’operare delle scelte, ad accantonarlo per sopravvivere****

    Quando l’esercizio della psicoanalisi aprì ad un panorama più ampio rispetto a quello riservato a fruitori aristocratici, nobili, ricca borghesia e affini, da parte delle malelingue si disse che goderne era un puro lusso borghese. Ribadendo così che il pensare (perché poi quello è il fine della psicoanalisi, permettere di rendere pensabile e comunicabile ciò che al momento non lo è) è solo prerogativa dei ricchi, dei potenti perché gli altri, essendo presi dalle incombenze immediate, non possono permetterselo, non hanno tempo né modo per farlo! Eh, già! Oggi, poi, che di problematiche ce ne è una al giorno! E chi ha tempo per pensare! E così si ‘agisce’, seguendo gli impulsi che ci assillano e guardando, di conseguenza, le cose alla distanza più prossima. In questo modo – a cui siamo stati anche portati – si rischia di essere sempre in emergenza e pertanto giustificabili. Ma così non cambierà mai nulla.
    C’è un tempo ‘prima’, che è quello della formazione in cui si dovrebbe imparare a leggersi e a leggere il mondo circostante. E, ovviamente, poi continuare negli anni e con le esperienze. E’ una specie di addestramento necessario, come giustamente afferma Buffagni dal cotè militare. Perché quando arriverà il momento dell’emergenza critica dovrò saper scegliere velocemente, con tutti i rischi che ne conseguono.

    Luigi Paraboschi
    22.02 20.35

    **** la forza operaia era numerosa ed omogenea e il fattore economico più prezioso era il capitale fisico….. (Marx)****
    ****” ma ha ancora senso cercare di leggere il presente economico alla luce di autori che hanno sviluppato il loro pensiero quasi due secoli fa ? ”****

    E’ alla luce dell’oggi che comprendiamo meglio il senso delle sviste che Marx non poteva certo vedere quando pensava ad una classe operaia ‘omogenea’.
    Ennio Abate
    22.02 h. 18.14

    **** E ogni volta che mi spunta un desiderio o un sogno, mi basta vedere il mio conto in banca già prima della fine mese per sentire il rombo infame della “realtà”.

    Non invidio perciò chi ha fatto «fortune economiche e di immagine» (prendendosela con Berlusconi o, all’inverso, coi “comunisti”). Né invoco contro di loro la giustizia divina o il Grande Vendicatore.
    Cerco di andare al sodo, al “che fare”.***

    Non ne facevo un problema economico: desiderare un mondo diverso non ha a che vedere né con il possedere un pingue conto in banca né con la limitazione del *rombo infame della realtà*.
    Nello stesso tempo diffido dalla spinta al “che fare”, senza un minimo di preventivato pensare.

    **** E, in ogni incontro con singoli o gruppi, mi propongo (per quanto possibile) di capire se quella persona o quel (sedicente spesso) gruppo può essere mio *interlocutore* o mio *alleato* in *qualcosa* che si potrebbe fare insieme ( fosse solo una discussione, una collaborazione a un blog, un lavoro di ricerca) per non arrendersi e disperare****

    E’ il metodo del cercare proseliti che non mi convince. Ovvero: “io ho una idea e cerco qualcuno con cui condividerla e portarla avanti”. Benissimo. Ma la ritengo una modalità poco adeguata alla ricerca sociale.
    Altro metodo: “io ho un problema che non so come risolvere. Mi metto in ascolto. Magari vengo a scoprire che mi stavo ponendo un falso problema o lo ponevo nei termini sbagliati e stavo imboccando una strada cieca”. Questo mi va meglio perché mi apre la mente a pensare e non a chiudermi in una costruzione che parte già ideologizzata.

    **** abbiamo bisogno di un realismo che non *naturalizzi* (o salti, o presenti in modo neutro) i rapporti sociali diseguali in cui ci troviamo. Che non ce li presenti come ovvi, insuperabili, naturali, appunto. Cosa che fanno di solito i Romano e quasi tutti i geopolitici ****

    Meno male che la diseguaglianza c’è e che da questa nasce il conflitto e che da questo si costituisce la storia. Il problema non è la diseguaglianza bensì come viene gestito il conflitto.

    **** non dimenticare mai che l’esperienza che essi mi offrono (o spesso m’impongono) non coincide in pieno con la mia, perché porta i contrassegni spesso non facili da decifrare del dominio entro la cui cornice è stata elaborata****.

    Le esperienze degli altri non possono mai essere coincidenti *in pieno* – e per fortuna, proprio per favorire il lavoro della ‘diversità’ – . Quanto al dominio in cui sono inscritti, ognuno ha le sue stigmate: importante è riconoscerle.

    R.S.

  25. “Ah la bella concretezza di Buffagni, di Romano, che trattano di Stati reali, di servizi di intelligence… di corpi, di azioni, di tradimenti, dolori, cose vere che accadono” (Fischer)

    Bene, chi vuole ammiri pure la “bella concretezza” di chi schiaccia, uccide, intriga perché dispone di Stati reali, di servizi di intelligence, ecc..
    Per Fagan la capacità di autoinganno delle masse è infinita?
    Per me, invece, è autoinganno quest’ammirazione.
    Che introduce a una scelta realistica: quella di stare con i potenti, i dominatori, di accettare il *loro* realismo.
    Che non è l’*unico*.
    C’è un altro realismo, disconosciuto e disprezzato. È quello dei “fessacchiotti” alla Regeni o di quanti non capirebbero o non starebbero alle regole del gioco. È pure quello di chi, come il sottoscritto, insiste a citare, immaginare, ricordare Marx, il risorgimento, la storia di quanti si sono opposti a chi li voleva schiacciare.
    Ma è il vuoto! È stare nel vuoto! Questo realismo non può esistere. Il realismo è uno, quello dei dominatori. E non può stare nel vuoto. Tant’è vero che dispone « di Stati reali, di servizi di intelligence… di corpi, di azioni, di tradimenti, dolori, cose vere che accadono».
    Ma il vuoto è davvero vuoto? Non è forse reale anch’esso?
    Per poter parlare « del vuoto, nel vuoto», non si deve essere *reali* e “concreti*? Magari in una dimensione diversa e contrapposta alla «bella concretezza». Magari in una “brutta concretezza”. Che però è intransigente e non si fa cancellare la storia da cui provengo/proveniamo. Né i bisogni miei e di altri come me.
    Poi si vedrà. È una scommessa.

    1. A ENNIO

      Lo stato presente delle cose presenti
      e la memoria della storia
      la pensione la teoria
      gestalt e fenomenologia
      la libreria tutte le opere di le lezioni
      le lotte le guerre in televisione
      stanno tornando gli uccelli colorati e cantano
      sparsi pochi alla volta con le migrazioni
      gli albicocchi fioriti la gatta è malata
      i vecchi muoiono e i giovani fanno cazzate
      i decisori decidono anche per me.
      So tutto e ancora imparo
      ma non conto nulla se non per i miei amici e i miei discendenti
      a loro dico tutto quello che so e loro per me fanno lo stesso
      in questi cristalli d’aria respiro
      e penso a chi respira in aria sporca
      intanto aspetto
      qualcosa.

      p.s. @ Rita: naturalmente sono d’accordo con l'”addestramento necessario” che viene prima delle scelte. Il pensiero critico che viene *dopo* a cui pensavo sono le nuove teorie di cui abbiamo bisogno come del pane (che non rinnegano o abbandonano le vecchie, questo lo dico anche a Ennio, che infatti giustamente si conforta con le posizioni -critiche ma propositive- di GLG).
      @ Ennio: “ah la bella… “, apprezzo la tua reazione, ma equivochi, e lo dimostri quando usi il termine “ammirazione”.

    2. Ma dio santo, Ennio, sei proprio umano!

      Ai miei alunni spiego – attraverso l’alternarsi dei Movimenti artistici – che l’uomo si comporta in maniera bipolare: sceglie una strada, si accorge (o crede di accorgersi) a un certo punto che è sbagliata e – contrordine, compagni!! – butta via tutto e va nella direzione opposta. Fino a quando non si accorge (o crede di accorgersi) che è sbagliata pure quella e si rifugia nel “si stava meglio quando si stava peggio”: riprendendo in un modo o nell’altro la formula precedente.

      Così non va da nessuna parte, non progredisce (a meno che tu non voglia limitare il progresso alle questioni tecnico-scientifiche; ma anche qui ci sarebbe da discutere); un po’ questo accade per forza di cose, ma non è un caso se da almeno 3.000 anni l’umanità non progredisce.

      Allora, ma perché se uno guarda oggettivamente la realtà (alla maniera di Buffagni o anche mia, che almeno ci provo), uno deve schierarsi coi potenti?

      Vogliamo studiarci un po’ di fisica quantistica (per i pragmatici…) , o puntare sulla creatività (per gli altri) e uscire da ‘sto maledetto bipolarismo?

      Tu tiri fuori San Carlo (Marx). Sì, il suo metodo di analisi sarà stato anche valido, ma son passati quasi duecento anni e le dinamiche sociali, gli “ingredienti” della società sono cambiati. Quello che non è cambiato è che da una parte ci sono individui “fuori etica”, che perseguono interessi che non vanno verso il bene comune, dall’altra una massa di persone che non vuole (solo in qualche caso non può) prendere coscienza della situazione.

      E questo anche grazie a San Carlo: che avrà anche avuto un gran metodo di analisi, ma i cui risultati hanno contribuito alla grande, a mantenere questa situazione. Perché alla fine ha solo detto: “Contrordine, compagni: i cattivi sono loro e i buoni, noi”. Quanto fossero buoni, puoi andare a chiederlo ai figli e ai nipoti dei soldati dell’Armata Rossa, deportati in Siberia perché entrati in contatto per un po’ con gli americani.

      E forse questo esempio non ti piacerà: ma finché non capiremo che quello che in Italia s’è chiamato fascismo, in Germania si chiamò nazismo, in U.R.S.S. si chiamò leninismo e stalinismo, in Cina maoismo e così via, non ne usciremo.

  26. Caro Ennio,
    perchè poi “il realismo” sarebbe “uno, quello dei dominatori”? Io questa non l’ho capita.
    O meglio, se mi metto nei tuoi panni la capisco. Però, scusa, prova una volta a uscire dai tuoi panni e a metterti, non in quelli dei “dominatori”, ma in quelli di chiunque voglia agire nel mondo. Come fai a non essere “realista”? Marx pensava di essere realista eccome; il movimento comunista, pure. E lo sono stati, eccome se lo sono stati. Poi si è scoperto che non erano ABBASTANZA realisti: cioè che la realtà, degli uomini e del mondo, era diversa da quella che immaginavano.
    Nota che questo capita, prima o poi, a TUTTI i realisti, perchè la realtà è più grande e più profonda e più sorprendente e più imprevedibile di quel che chiunque sappia immaginare.
    Il problema del realismo è proprio questo: che il realismo può accecare, esattamente come acceca l’utopismo. L’utopista si acceca perchè crede alla sua utopia, il realista si acceca perchè crede di aver capito (e dominato, qui il dominio ci sta di sicuro) tutta la realtà.
    L’unica precauzione che si può adottare, nel maneggio del realismo, è quella di sapere che si tratta di uno strumento indispensabile sì, ma molto, molto, molto rozzo, impreciso, primitivo.
    Se questo uno lo sa, lo sa sul serio, allora forse anche il cinismo e la cattiveria – che sono spesso effetti collaterali del realismo, questo è vero: come l’innocenza sanguinaria e l’ipocrisia lo sono dell’utopismo – non gli diventeranno obbligatori.
    Agire politicamente nel mondo importa agire nel mondo della forza, ed entrare nella dinamica della lotta per la potenza. Non agire politicamente nel mondo importa subire il mondo della forza, ed entrare comunque, come oggetti e non come soggetti, nella dinamica della lotta per la potenza. Il mondo della forza è il mondo della tragedia. Nel mondo della tragedia, la cosa più sensata da fare per non perdersi e per non condurre a perdersi chi ci seguisse è non inorgoglirsi, non diventare arroganti, continuare a ripetersi che non sappiamo tutto, non controlliamo tutto, non dominiamo tutto. E’ difficile? Sì. E’ impossibile? No.
    Qualche giorno fa ho visto una intervista alla portavoce del Ministero degli Esteri russo. E’ una intervista impressionante per i contenuti, e soprattutto per il tono (e per il fatto che la portavoce parla in russo invece che in inglese come fa abitualmente, segno certo che vuole controllare anche le sfumature di quel che dice).
    E’ questa: https://www.rt.com/shows/in-the-now-summary/332766-zakharova-syria-media-propaganda/
    Con una velatura diplomatica sottilissima, la portavoce si rivolge all’Amministrazione statunitense e la implora di smettere l’escalation di propaganda + fatti compiuti sul terreno contro il governo russo, che equivalgono a una mobilitazione in vista della guerra (la signora allude addirittura a una situazione apocalittica, di fine del mondo). E conclude dicendo che i russi sanno per esperienza diretta della generazione dei padri e dei nonni che cosa sia la guerra, una guerra tremenda combattuta sul proprio territorio (mentre gli americani non lo possono sapere). “Quando c’è la guerra”, dice la signora, “non ci sono più il bene e il male: c’è solo la guerra”.
    E’ una frase che mi ha colpito profondamente. E’ falsa, se la si intende alla lettera: anzi, in guerra le scelte morali si presentano nella loro forma più immediata, frequente, tragica, a tutti. Ma se si intende lo spirito nel quale è stata pronunciata, dice una verità profonda, e profondamente realistica: dice che la realtà è quella cosa terribile e maestosa che mette fine a tutte le nostre illusioni.

  27. Caro Alberto Rizzi, anche tu sei molto umano, e da bravo insegnante hai una risposta per tutto (o quasi). Dei fascismi=nazismi=stalinismi scrisse già Simone Weil addirittura nel ’34 (Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi edizioni, 1983). Del maoismo no, perché era morta, ma sottoscriverebbe credo. Ma lei partiva da premesse alte, trascendenti se non propriamente religiose.
    Invece gli storici hanno indagato, Nolte, Furet, e sai le discussioni in Italia nei ventanni della 2 repubblica! Ma bisogna tenere conto anche del negazionismo, e del liberismo economico trionfante, gran sostenitore di un individualismo a 360°, opposto alla peste delle ideologie.
    Oggi che la miseria -ideologica!- del liberismo appare tale, e da più parti *anche* da destra si corre a invocare e speronarsi con la Politica, oggi occorre ragionare, non accontentarsi di una storia descritta come avanti tutta con svolte, e farsi domande più che accontentarsi di liquidazioni.

    1. Brava, ci sei cascata anche tu… (ti do del tu, visto che ti sei rivolta così a me e che mi va benissimo).

      Il liberismo è solo un’altra etichetta, un altro “ismo”, non un’alternativa ad essi. Semmai i liberisti hanno capito, che possono pure levarsi le maschere: la maggioranza è ormai così rincoglionita, da credere che i loro musi da coccodrilli, siano belli come le maschere che hanno indossato finora.

      Quanto al negazionismo, non è un’ideologia: è un mezzo che usano certi nostalgici, per rimettersi in gioco.

        1. Vedi tu, il risultato non cambia: si vive in un mondo di specchi (costruito apposta, ovvio) e su questi specchi, che la maggior parte delle persone ha molto cari, si va a sbattere.

          Colgo l’occasione per precisare meglio: forse quello che viene chiamato oggi “liberismo” è LA ideologia per antonomasia. Quella che si è nascosta dietro le altre, per poter fare meglio il proprio gioco; fino a non averne più bisogno (almeno di quelle usate nel secolo scorso) per continuare a farlo.

    1. Il tag ‘ aguzzini’ era riferito agli assassini di Regeni. Che cosa c’entra Gambescia? Proprio non capisco…

      P.s.
      Ho scritto questo commento sul sito di Gambescia:
      Gentile Carlo Gambescia,
      davvero non capisco come il tag ‘carnefici’ inserito nel post sul caso Regeni e riferito – mi pareva inequivocabilmente – ai torturatori e assassini di Regeni, possa essere accostato al suo nome. Possiamo avere pareri diversi e partire da impostazioni diverse nella lettura dei fatti, ma mai mi permetterei di offenderla così gratuitamente.
      Ennio Abate per Poliscritture

      1. Gentile Ennio Abate, sono un collaboratore del blog di Carlo Gambescia.
        Premettendo che non intendo tediare oltre (mi rendo conto dell’off-topic), il qui pro quo sembra sia nato dal tag unico (univoco?) posto, pur doverosamente, in testa d’articolo.
        Non so se l’architettura del vostro sito consenta tag multipli, tuttavia sarebbe stato quantomeno auspicabile porre i “citati” in testa e le “keywords” in coda, proprio per evitare fastidiosi fraintendimenti.
        Le auguro buona serata e buon lavoro.

        Carlo Pompei
        Legale rappresentante di LINEA quotidiano

        1. Gentile Carlo Pompei,
          i tag – e lo può verificare su tutti i post – vengono posizionati in automatico e io ho competenze elementari sul piano tecnico. Chiederò consiglio al webmaster che ogni tanto ci dà una mano. Comunque considero risolto lo spiacevole equivoco.
          Cordiali saluti
          E. A.

          1. Grazie Carlo (Pompei), ma non dovevi disturbarti.

            “Comunque considero risolto lo spiacevole equivoco” . E qui sbaglia signor Ennio Abate, perché l’ultima parola spetta al mio avvocato. Con il quale mi incontrerò, per consigliarmi, nei prossimi giorni. Quindi se avrà di nuovo mie notizie sarà per vie legali.
            Carlo Gambescia

  28. @ Giuseppe C

    Caro Giuseppe, troppo determinismo nella tua visione. Non mi pare che il M5S possa essere «il nuovo partito comunista». Almeno se uno dà un’occhiata meno frettolosa alla storia del fu PCI.

    @ Simonitto

    La psicanalisi era nata in ambienti borghesi. I primi fruitori furono davvero « aristocratici, nobili, ricca borghesia e affini». So dei tentativi (incerti e discutibili pare) di W. Reich di praticarla anche in ambienti proletari. L’unico che a me pare ripropose, attorno al ’68 e a muso duro, ai suoi colleghi psicanalisti il problema dei dislivelli nell’uso di questo sapere, che aiuta a « rendere pensabile e comunicabile ciò che al momento non lo è», fu Elvio Fachinelli, per quanto io ne sappia.
    Nel sito che tempo fa segnalai (http://www.inconscioecivilta.it/) il problema mi sembra tenuto presente. Resta il fatto che *veramente*, *oggettivamente* « gli altri [ i non ricchi, i non benestanti, i precari, i disoccupati, ecc], essendo presi dalle incombenze immediate, non possono permetterselo, non hanno tempo né modo per farlo».
    Cosa? Non il pensare (le forme di pensiero sono varie, dalle più informali alle formalizzate…), ma un pensare “strutturato”, “dialogico”, “disteso”. Quello che *forse* in un momento di emergenza potrebbe aiutare a scegliere.
    È un immenso problema questo. Quanti in qualche misura sono nelle condizioni di pensare di più e meglio si trovano più o meno a stretto contatto con quanti pensano male, diversamente, in modi incomprensibili, non comunicativi, “cretini”, “sciocchi”, “con le fette di salame sugli occhi”, ecc.
    Che fare? Lo sport più diffuso tra i “pensanti” ( i “colti”) è il disprezzo, lo snobismo per i (supposti) non “pensanti” ( o “semicolti”). Ma spesso i “non pensanti” o i “diversamente pensanti” comandano e hanno persino più consenso. Che fare?

    Le «sviste» di Marx le vediamo. Purtroppo fatichiamo a vedere le nostre.

    « Non ne facevo un problema economico». E perché no? Ho l’impressione che, perseguitati dai fantasmi dell’”economicismo”, non riusciamo manco più a ragionare di economia. Né a rimediare in qualche modo ai nostri “problemi economici”!

    Non spingo al “che fare”. Pongo ( me innanzitutto, ma anche ai “pensanti”) il problema del “che fare”.

    Non capisco perché tu definisca ‘proselitismo’ il mio tentativo di «capire se quella persona o quel (sedicente spesso) gruppo può essere mio *interlocutore* o mio *alleato* in *qualcosa* che si potrebbe fare insieme».
    Non capisco perché questo mio intento di valutare distanze e vicinanze dal mio interlocutore ( cosa che con tutta probabilità fa anche lui nei miei confronti) escluda l’ascolto.
    Non capisco perché in questa nostra interlocuzione, in cui entrambi cerchiamo di valutare se, appunto, possiamo essere (subito o col tempo) *alleati*, cioè condividere *alla pari* «*qualcosa* che si potrebbe fare insieme )» siavrebbe (solo da parte mia?) « una costruzione che parte già ideologizzata».
    Ma avessi gia io, in partenza, un’idea del ««*qualcosa* che si potrebbe fare insieme», cosa ci sarebbe di così insidioso nel proporlo al mio interlocutore?
    Per il semplice fatto di esporgli la mia idea, lo prevaricherei, lo renderei gregario, lo plagerei, gli impedirei di dirmi che che non è d’accordo con me?
    Ora, per quanto detto sopra sui pensanti/non pensanti o diversamente pensanti e sui dislivelli reali che esistono tra individui e gruppi sociali, mi sento di aggiungere che non vedo nulla di male nel «cercare proseliti».
    Sì, credo ci sia bisogno di ricostruire una pedagogia, una didattica, un *convivio* divulgativo, una comunicazione persino sloganistica e fessbucchiana (ma intelligente e ragionata), una militanza, dei luoghi d’incontro e di cooperazione.
    E se fossi convinto ( da solo o con pochi altri di cui mi fido) di avere o di poter lavorare a definire un buon progetto di ricerca e persino di azione, in cui spendere tutto quello che si ha (il meglio e persino il peggio di sé) per – come diceva Fortini in alcuni suoi versi – « cercare i nostri eguali osare riconoscerli / lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati/ con loro volere il bene fare con loro il male / e il bene la realtà servire negare mutare» non esiterei.
    Farsi responsabilmente guida di mezzi sonnambuli, degli incerti, degli “abituati ad obbedir tacendo” e simili per uno scopo, che valga la pena di perseguire e che può risvegliarli (e risvegliarmi/ci), mi pare tuttora, malgrado le sconfitte di esperienze simili e la vecchiaia, una buona cosa.

    « Meno male che la diseguaglianza c’è e che da questa nasce il conflitto e che da questo si costituisce la storia. Il problema non è la diseguaglianza bensì come viene gestito il conflitto».
    Non capisco. Se la diseguaglianza c’è, o essa è un bene o è un male o un «meno male».
    Bisogna decidersi. Chi la vede come un bene, la vuole aumentare. Chi la vede come un male, la vuole abolire o almeno diminuire. Chi la vede come un «meno male», sorvola e pensa ad altro.
    A cosa? Al «conflitto» (magari strategico, lasciando ai preti o agli amministratori i micro conflitti).
    Ma questo conflitto, che c’è (quando c’è veramente e non è un fuoco di paglia), in che modo va gestito?
    Va portato al suo estremo ( che so: la guerra)? Va gestito per non renderlo distruttivo? E va gestito senza uno scopo da raggiungere o in vista di uno scopo da raggiungere? Anche qui bisognerebbe chiarire e decidersi. (Aggiungerei anche il problema: chi lo deve gestire…).

    P.s.
    Poi rispondo agli altri commenti.

  29. @ Ennio
    Velocemente.
    a) L’esempio della psicoanalisi lo avevo fatto per segnalare una ideologia diffusa che si riverberava anche su quello ‘strumento’: ‘pensare’ sarebbe un privilegio delle classi abbienti perchè se uno ha da faticare tutto il giorno non ha ubbie (come se il pensare fosse una ubbia!). Certo che ci fu E. Fachinelli (e anche tutta la Scuola Psicoanalitica Argentina), ma non era quello il senso del mio discorso bensì sottolineare quanta confusione viene fatta tra il ‘pensare’ (che è un processo di costruzione della mente) e l’uso che ne viene fatto.
    Per questo non sono d’accordo quando tu scrivi: *Lo sport più diffuso tra i “pensanti” ( i “colti”) è il disprezzo, lo snobismo per i (supposti) non “pensanti” ( o “semicolti”)*. Oltretutto c’è differenza tra ‘pensanti’ e ‘colti’: si può essere colti senza che a questo si accompagni un pensiero. Una persona che ha raggiunto un certo livello di pensiero può criticare o diffidare ma non disprezzare: a che titolo, poi!
    b) Sul ‘proselitismo’, il discorso sarebbe troppo lungo per cui rinvio ad altra occasione. Confermo però la necessità di *ricostruire una pedagogia, una didattica, un *convivio* divulgativo*.
    c) Sulla diseguaglianza. Tu scrivi: *Non capisco. Se la diseguaglianza c’è, o essa è un bene o è un male o un «meno male».
    Bisogna decidersi. Chi la vede come un bene, la vuole aumentare. Chi la vede come un male, la vuole abolire o almeno diminuire. Chi la vede come un «meno male», sorvola e pensa ad altro*.
    Rispondo che ‘in sé’ non è né un bene né un male. Dipende dai punti di osservazione.
    Agli schiavisti andava ‘bene’, agli schiavi, no. Allora dobbiamo prendere parte per gli schiavisti, in quanto essa è un bene oppure fare il contrario “solo perché essa è un male”?
    Sinceramente mi riesce più difficile stabilire l’esistenza della eguaglianza per quanto Shakespeare, ne Il Mercante di Venezia, si sforzi (con ironia) di farla apparire nell’inimitabile monologo dell’ebreo Shylock: “se ci pungete, non piangiamo? se ci fate il solletico, non ridiamo? se ci avvelenate, non moriamo?”.
    Sulla gestione dei conflitti. Le domande che tu poni (*Va portato al suo estremo ( che so: la guerra)? Va gestito per non renderlo distruttivo? E va gestito senza uno scopo da raggiungere o in vista di uno scopo da raggiungere? Anche qui bisognerebbe chiarire e decidersi. (Aggiungerei anche il problema: chi lo deve gestire…)* presuppongono che si sappia più di quanto attualmente si sa. Ad esempio dove porterà il continuo depauperamento dell’Europa e degli Stati (Nazione ?) che la compongono?
    R.S.

  30. …@Rita… secondo me, le circostanze della vita sparigliano un po’ quel “prima” per costruire il proprio pensiero e il “dopo” per agire di conseguenza. Il pensiero si forma attraverso lo studio e la cultura, ma più direttamente sul campo dell’esperienza per tentativi ed errori, per riflessioni, per pause di meditazione, per ripensamenti e nuove partenze, agendo, anima e corpo, su se stessi e sugli altri e nella storia che è di tutti. Il percorso del pensiero sembra sempre trovarsi a metà strada, pur procedendo, la strada essendo infinita. La psicanalisi può fornire uno strumento valido, preventivo o curativo, di conoscenza e di comunicazione, quindi di risoluzione dei problemi non solo personali, ma non è accessibile a tutti, finchè permangono situazioni di fame e di miseria… La fuga di donne e uomini dalla guerra con i cosidetti ” complessi” non c’entra niente . Oppure no?

  31. Mi spiace di aver tirato in ballo la psicoanalisi per esemplificare una dinamica legata alle difficoltà rispetto al pensare: invece di fare chiarezza ho creato ancora più confusione.
    Me ne scuso con i lettori.

    R.S.

  32. @ Fischer ( 23 febbraio 2016 alle 9:41)

    «Destini generali» (Fortini) contro blanda, opaca quotidianità. Il tutto riassunto in quel «So tutto…ma non conto nulla» (con consolazione in coda: «se non per i miei amici e i miei discendenti») e nell’attesa di «qualcosa». Ma non capisco se questo sarebbe il mio ritratto o il tuo autoritratto. Propendo per la seconda ipotesi: io vedo conflitto tra A e B e non attendo «qualcosa» ma la cerco anche rispondendoti).

    P.s.
    1. Le posizioni di GLG non mi confortano affatto. La prospettiva di stare a guardare – freddi, vigili e critici – se arriva «qualcosa» dallo scontro tra «decisori» (dominanti e subdominanti) mi fa sentire come un malato sul letto d’operazione che osserva le mosse di chirurghi sadici che sbraitano tra loro.

    2. Se non c’è «ammirazione» c’è “palpitazione”:

  33. @ Rizzi (23 febbraio 2016 alle 9:44)

    Pensa ad uno che in casa sua fa o sente fare discorsi su Dio santo, su “siamo umani” o “restiamo umani”; e nel frattempo segue pure «l’alternarsi dei Movimenti artistici»; e, in aggiunta, sfoglia un saggio di psicologia sul bipolarismo della mente e del cuore (umani, ovviamente); e trova il tempo per occuparsi (seriamente, ovvio) di fisica quantistica. E con una mente così sgombra dall’ideologia, legge distrattamente un commento irritante di un certo Abate. Decide di rispondere. Ecco, risponderà così come tu hai fatto qui. Presentandomi come uno che ce l’ha con chi « guarda oggettivamente la realtà»; e che *per questo* (perché oggettivo), io vedrei schierato coi «potenti». Sempre per distrazione crederà di aver a che fare con uno che ha sostituito «dio santo» con « San Carlo (Marx)». Ma come? Non sa che è un “santo” obsoleto e che proprio non funziona più? Sì, ai suoi tempi, « il suo metodo di analisi sarà stato anche valido, ma son passati quasi duecento anni e le dinamiche sociali, gli “ingredienti” della società sono cambiati». Subito dopo sosterrà che, malgrado tutti i cambiamenti che hanno reso inefficace San Carlo (Marx), c’è qualcosa «che non è cambiato»: la riproduzione (non si sa se per natura o storia) di «individui “fuori etica”» e di masse di “fannulloni” renitenti a « prendere coscienza della situazione».
    Il bello è che la colpa di questo “non cambiamento” e di un tale squilibrio fra dinamiche sociali e – diciamo – un certo “bipolarismo” tra superuomini (gli « individui “fuori etica”») e masse “fannullone” sarebbe *anche* ( gli altri responsabili non sono indicati) di San Carlo (Marx). Il quale, da pretenzioso “santo rivoluzionario” (come pensava di essere o come Rizzi se l’immagina), ha lavorato per il re di Prussia, contribuendo «alla grande, a mantenere questa situazione»; e poi, quando s’è accorto che la sua “santità” non funzionava, s’è affidato anche lui – mi pare di capire – agli americani.
    Sfondo storico della lezioncina di Rizzi: fascismo, nazismo, leninismo e stalinismo, maoismo (ergo: totalitarismi) sono stati la stessa cosa. Dobbiamo uscirne, possibilmente con pragmatismo e creatività.
    Succo del commento mio: le banalità “a-ideologiche” restano banalità.
    Conclusione provvisoria: ristudiamoci meglio la storia e in particolare la storia del Novecento. (C’ho scritto pure un manuale, ovviamente rivolgendomi non agli « individui “fuori etica”» ma alle masse “fannullone” della scuola secondaria superiore, dove ho fatto io pure l’insegnante).

    1. Per Ennio:

      “Sfondo storico della lezioncina di Rizzi: fascismo, nazismo, leninismo e stalinismo, maoismo (ergo: totalitarismi) sono stati la stessa cosa. Dobbiamo uscirne, possibilmente con pragmatismo e creatività.”

      Pare che la battuta sugli umani t’abbia mandato un po’ fuori dai gangheri. Me ne scuso (come spesso chi lavora nel campo della creatività, anch’io ogni tanto casco nelle provocazioni pure nella vita reale), ma comunque il succo della lezioncina l’hai colto.

      Si potrebbe partire da qui, magari cominciando a chiedersi se anche la democrazia(?) nella quale si vive, non sia una forma mascherata di questi totalitarismi; che ora, hanno deciso di potersi togliere la maschera, come sta dimostrando quello che accade da un paio d’anni in Italia.

      Per quanto riguarda le banalità, ognuno ha le sue e io – nei limiti del possibile – cerco di non badarci, evidenziando finché c’è dialogo il succo del discorso. Poi, se vedo che l’interlocutore è più interessato a tenersi stretto quelle, fa lo stesso e passo ad altro. La logica di ciò è che chissà quando, prima o poi quel che è stato detto (scritto) verrà utile a uno dei due.

      1. @ Rizzi

        Non te la prendere. La pensiamo diversamente su molte cose. Sono però d’accordo sia sul fatto che quel che a me pare banale per te non lo è (e viceversa) sia sul fatto che ognuno debba esporre i suoi pensieri ( e senza scusarsi…).
        Infine – ma è argomento da approfondire in altra occasione, proprio perché anche la democrazia ( formale? reale?) può sempre più rientrare sotto il concetto di totalitarismo, il concetto stesso mi pare troppo generico e perciò criticabile.

        1. Sì, sui ragionamenti attorno ai sistemi politici, chiunque capisce che ci vanno via dei libri, altro che le discussioni su un blog… La stessa domanda che ti poni (cioè se mi riferivo alla democrazia formale o a quella reale – e io mi riferivo alla seconda, in questo caso), dimostra quanti tagli si possono dare a una discussione del genere.

          Ma penso che un argomento come questo, prima o poi spunterà anche da queste parti: un po’ perché se il post è interessante, finisce per aprire argomenti a catena, come sta succedendo con questo. E un po’ perché “capire cosa si può fare” (a qualsiasi scala lo si intenda), non può prescindere dal ragionare attorno al sistema politico nel quale ci si trova.

          Attendo con pazienza…

          1. Felice coincidenza, leggo giusto ora una tirata di G. Petrosillo sulla democrazia:
            http://www.conflittiestrategie.it/odiatori-della-democrazia-uniamoci
            A parte una “piccola” contraddizione interna al testo, per cui la inutilità del voto sarebbe dimostrata dalle crisi istituzionali in cui si evita di far votare e i governi sono nominati da alt(r)i poteri -ma allora perché sospendere il diritto di votare, se tanto non conta niente?- le accuse alla democrazia vertono sulla pecoraggine dei votanti “una pecora con gli occhi coperti dal pelo, la pelosa opinione generale” ecc ecc.
            Certo, tutto andrebbe meglio se la politica si svolgesse tra intelligentoni e/o rivoluzionari, certo la pelosa opinione generale non capisce bene i suoi desideri e neppure i suoi bisogni e vota a prescindere, come diceva Totò.
            Ieri leggevo sul Menesseno, di Platone, questa definizione “Qualcuno la chiama democrazia, qualcun altro nel modo che gli piace, ma in realtà è un’aristocrazia con l’approvazione della massa.” Anche questo è un abbellimento, infatti non si eleggono (solo) i migliori, ma anche altro. La ragione sarebbe secondo alcuni che chi ci comanda sta altrove, quindi chi si candida non si candida per governare ma per servire e sgraffignare, il diavolo Holle Konig (con dieresi) re dell’inferno, divenuto il servo traditore Arlecchino. L’astensione ormai supera il 50%.
            Cosa penso io? Que viva il retto pensare e il retto riconoscimento degli altri, quei quattro versi di Fortini che Ennio cita sempre (qui 23 feb 12.40).

  34. @ Buffagni 23 febbraio 2016 alle 10:18

    Caro Roberto,
    nel commento rivolto a Cristiana Fischer (23 febbraio 2016 alle 1:35), devi leggere l’intera frase: « Per Fagan la capacità di autoinganno delle masse è infinita? Per me, invece, è autoinganno quest’ammirazione. Che introduce a una scelta realistica: quella di stare con i potenti, i dominatori, di accettare il *loro* realismo. Che non è l’*unico*. C’è un altro realismo, disconosciuto e disprezzato etc.».
    Perché, allora, mi attribuisci l’affermazione contraria?
    No, chiarisco ancora, non dico che il realismo sarebbe *uno* e sarebbe quello dei dominatori, per cui chi fa ragionamenti realistici non può che essere schierato coi potenti. Per cui riconoscerei soltanto ad essi il “monopolio” del realismo, mentre agli altri resterebbero solo i sogni o l’immaginazione o le fantasticherie.
    Io sono “realista” (= mi sforzo di esserlo). Marx fu realista. Lo furono (in parte) i movimenti comunisti. Lo sono altre correnti di pensiero. E della realtà che è « più grande e più profonda e più sorprendente e più imprevedibile di quel che chiunque sappia immaginare» abbiamo discusso in vari post qui su Poliscritture (in riferimento ai racconti di Franco Nova ad es.) . E poi io pure sostengo « il realismo può accecare, esattamente come acceca l’utopismo».
    E allora?
    Credo di muovermi nel campo del realismo, ma di insistere più di altri, come ho scritto nel commento rivolto a Rita Simonitto (22 febbraio 2016 alle 18:14 ), nella ricerca di «un realismo che non *naturalizzi* (o salti, o presenti in modo neutro) i rapporti sociali diseguali in cui ci troviamo. Che non ce li presenti come ovvi, insuperabili, naturali, appunto. Cosa che fanno di solito i Romano e quasi tutti i geopolitici». O come ho detto ancora nel commento a Fischer (523 febbraio 2016 alle 1:35) nello scandaglio di « un altro realismo, disconosciuto e disprezzato», da inseguire « in una dimensione diversa e contrapposta alla «bella concretezza». Magari in una “brutta concretezza”».

  35. @ Ennio.
    1. Naturalmente la poesia postata è il mio autoritratto! Risposta alla tua risposta sdegnata e valorosa contro il mio smarrimento rispetto ai fatti e alle strategie in corso, contro cui si continuano a evocare memorie e teorie memorabili.

    2. Ma non accetto che i *destini generali* si ergano contro la *blanda e opaca quotidianità*, questa bella opposizione è un dispositivo che mostra la corda. Carole Pateman, Il contratto sessuale, Editori Riuniti, 1997, pag 6: “gli approcci tradizionali ai testi classici, che siano quelli degli autori che fanno riferimento alla teoria politica dominante o quelli dei loro critici socialisti, danno una rappresentazione ingannevole di uno dei tratti distintivi della società civile creata mediante il patto originario. La società civile patriarcale è divisa in due sfere, ma l’attenzione viene rivolta soltanto a una di esse. Il racconto del contratto sociale è considerato un resoconto della creazione della sfera pubblica della libertà civile. L’altra sfera, quella privata, non è vista come politicamente rilevante. Perciò anche il matrimonio e il contratto matrimoniale vengono giudicati politicamente irrilevanti. ignorare il contratto di matrimonio significa ignorare metà del contratto originario”.

    3. Le posizioni di GLG non ti confortano affatto (in effetti il mio “conforta” era ironico) però ho letto apprezzamento in “ammette ‘che il discorso delle ‘classi’ sia sempre rilevante'” e nelle parole di seguito.

    4. “stare a guardare” (decidi se fredda e vigile o con palpiti, certo meglio Cecilia Bartoli del lettino operatorio)
    4.1. l’estraneità però è un’arma, e anche potente. Intanto segnala rottura con, poi libera l’anima (non l’anima bella, ma quella nuda e rocciosa) dai possibili invischiamenti della critica, poi mostra che il potere è solo e brutale. Non è l’unica arma né la più forte, ma non è nemmeno resa e abbrutimento. Nella storia estranee le donne lo sono quasi sempre state, e il potere maschile sempre assurdo, i dominati con l’estraneità hanno mostrato che la guerra deve essere continua.
    4.2. I “palpiti” fanno parte di quel privato che è stato separato, anzi sono un carburante che permette alle signore di tessere rapporti ragionevoli, col discorso, di intuire e comprendere… chiamiamola civiltà, via.

  36. @ Simonitto (23 febbraio 2016 alle 20:00 )

    «Agli schiavisti [la diseguaglianza] andava ‘bene’, agli schiavi, no. Allora dobbiamo prendere parte per gli schiavisti, in quanto essa è un bene oppure fare il contrario “solo perché essa è un male”?»

    Anche la fraternità, la libertà, la pace, la felicità, il comunismo, l’amore, vanno bene ad alcuni e non ad altri. Sono ideali o valori “orientativi” delle pratiche umane, non fatti misurabili.
    Incidono nella “realtà” o sono soltanto delle illusioni?
    Fanno da semplice contorno ai mutamenti reali o li preparano o gli danno una spintarella?
    In determinate circostanze credo di sì: hanno preparato e dato una spinta. In tutti i mutamenti comunque il “contorno” (sotto forma d’ideologia) c’è. E comunque, indipendentemente dal loro effetto sulla realtà (sempre incerto e opinabile) l’individuo concreto, il singolo può restare per tutta la vita nel dilemma? Gli anni passano, si ritrova nel flusso del tempo, della storia e, se non riesce a decidere, a me pare che si senta peggio, più tormentato, di chi decide ( magari sbagliando) e anche più in difficoltà nel leggere i fatti o nel collocare se stesso dentro o di fronte ai fatti.

  37. Per C. Fischer:

    “…ma allora perché sospendere il diritto di votare, se tanto non conta niente?”

    C’è da salvare la faccia, Signora. Su quanto è davvero importante si decide altrove, poi ci sono teste d’uovo (alle quali la maggioranza ha dato il proprio consenso, per convincersi di contare qualcosa), le quali reggono il gioco.

    E’ quanto vediamo al giorno d’oggi in Italia: in molti si lamentano che Renzi non è stato eletto dagli italiani (come altri prima di lui, negli ultimi due anni), ma scordano che i parlamentari che lo sostengono lo sono stati. Col che, o la maggioranza degli italiani è in sostanza d’accordo, che le cose vadano a questo modo, ma chissà perché se ne vergogna un po’; o è composta per lo più da coglioni.

    ” Ieri leggevo sul Menesseno, di Platone, questa definizione “Qualcuno la chiama democrazia, qualcun altro nel modo che gli piace, ma in realtà è un’aristocrazia con l’approvazione della massa.” Anche questo è un abbellimento, infatti non si eleggono (solo) i migliori, ma anche altro.”

    Se accade ciò, questo è dovuto ad uno dei difetti della democrazia: il consenso viene ottenuto più con mezzi di persuasione “occulta” (vedi l’identificazione dello spettatore con l’On. Tizio o l’On. Caio nei talk-show), piuttosto che attraverso programmi e idee concrete.

    A voler ben vedere, è più un difetto dei votanti, che del sistema in sé: inevitabilmente i votanti non sono per la maggioranza adeguati a difendersi da tali trucchi comunicativi; e chi è in malafede, lo sa benissimo.

    1. Non hai risposto alla domanda: perché sospendere le elezioni (o regolarle con leggi elettorali restrittive) se tanto sono solo un “salvare la faccia”? Eppure anche a quell’offa si preferisce rinunciare, o comunque irregimentare l’operazione il più possibile.
      Forse perché comunque, per quanto inadeguati, i votanti sono sempre un pericolo?
      I sistemi democratici mostrano i loro difetti: gli elettori sono condizionati e dietro gli eletti ci sono altri poteri.
      E allora, è meglio accettare di farne a meno?
      In cambio di cosa?
      Di azioni dal basso, di ogni tipo (i consigli, la ‘società civile’, le associazioni, i movimenti, le parrocchie. le ONG, i circoli, le reti, i no TAV, i blog e che mille fiori fioriscano)?
      O crediamo fermamente che i decisori decideranno per il meglio possibile e ci fidiamo?
      O lasciamo che sia, e intanto ci dedichiamo alla creatività utopica e al mugugno? Qual è la prospettiva che ti sentì di indicare?

  38. Questa:

    “In cambio di cosa? Di azioni dal basso, di ogni tipo (i consigli, la ‘società civile’, le associazioni, i movimenti, le parrocchie. le ONG, i circoli, le reti, i no TAV, i blog e che mille fiori fioriscano)?”

    Ricordandoci che, per fiorire, i fiori vanno concimati e curati.

    Su questa faccenda delle elezioni, credo che l’Italia – come sempre campione nel peggio – farà da battistrada. Ci vedo seriamente il rischio che, ora che viene placidamente accettata l’imposizione di governanti dall’alto, se si dovesse scendere sotto il 50% dei votanti, qualcuno dirà “Vedete? Votare non interessa più alla maggioranza del Paese” e chiuderà baracca e burattini. Soluzione – fra l’altro – democraticamente ineccepibile.

    Per quanto riguarda gli altri Paesi d’Europa, devono stare più attenti a manovre del genere, perché quei popoli non sono ancora assuefatti all’andatura a 90° tipica del nostro. Quindi sì, ci sarebbero dei rischi a perseguire questa opzione. Magari bisognerebbe cercare di aggirarla, come accade negli Stati Uniti. Tu hai citato la Francia, ma probabilmente più si va a Nord, più questo rischio – per chi detiene davvero il Potere – aumenta.

  39. Che Ennio sia (o forse era, mi si scuserà ma ho perduto qualche anello della discussione) insoddisfatto per l’evoluzione del dibattito sul caso Regeni è cosa quasi scontata. Forse fin necessaria. Nel suo approccio alla discussione e nella stessa gestione della più parte del lavoro di Poliscritture si sente palpabile la profonda necessità che lo anima di riuscire a trovare un qualche pertugio al fine di poter passare dalle parole ai fatti, dal pensiero all’azione politica.
    Si tratta di una nobile visione delle cose ma che forse non tiene adeguato conto di alcuni livelli di articolazione della realtà che stiamo vivendo per cui ci sono momenti nei quali è necessario accettare, anche se obtorto collo, che saper arretrare e strutturare un disegno di resistenza può essere più utile che smaniare nel tentativo di individuare terreni di azione che concretamente non sono presenti.
    Scrivevo ormai qualche giorno fa che è necessario “guardare in faccia quello che è il nostro nemico” e mi è stato risposto che questo nemico “non si riconosce più secondo gli schemi tradizionali”. Su questo mi pare convengano quasi tutti gli interlocutori di questa discussione. Allora vi chiedo: ma siete poi sicuri che di secolo in secolo e poi di decennio in decennio il “nemico” sia mai stato così chiaramente definibile come mi sembra appaia dalle vostre visioni metastoriche?
    Mi sembra ben inutile citare ad ogni piè sospinto Fortini se poi sospinti dalla fugacità delle presunte urgenze del presente ci si dimentica ciò che nelle sue righe ci indica, ovvero la difficoltà di leggere il presente. La complessità dei fenomeni di cui siano di volta in vota e spesso anche contemporaneamente facitori e vittime. Rileggiamo:
    “Marx ci ha infatti insegnato a capire una volta per sempre quale opera implacabile gli ignoti, gli infiniti vinti vincitori, compiano entro le società che preferirebbe ignorarli ed entro di noi; quali cunicoli scavino, quali fornelli di mina preparino anche in coloro che li odiano per aver voluto qualcosa che interi popoli oppressi continuano, morti e vivi, a volere”.
    E’ in quella commistione fra vincitori e vinti che si gioca la complessa partita del reale.
    Ed ancora, sempre riprendendo Fortini, ma insieme Marx ed Hegel e altri infiniti che costituiscono la parte migliore della nostra fatica di comprendere:
    “Se c’è un momento davvero sacro non è già quello in cui il Servo si è trasformato in Signore. In quell’ora, rammenta la Weil, “la giustizia abbandona il campo del vincitore”. E’ invece il moto immediatamente antecedente, quando il Servo che abita in noi decide di “far fronte”. Il momento di Spartaco, che non perde mai del tutto, né dimentica la propria condizione servile se vuole essere di aiuto ai propri compagni e riceverne”.
    Nella sua forma esteriore il “nemico” è davvero in ogni momento capace di modificare il suo volto, degno di quella potenza del camaleontismo che è insita nel continuo e incessante mutamento delle forme della vita in particolare in una società come quella del Capitale che ha imposto la logica del profitto come unico valore sociale. In più, sembra che ce lo dimentichiamo in ogni momento, quello che abbiamo di fronte è un nemico immensamente forte e non solo per la forza delle armi che può dispiegare ma soprattutto per la capacità di coinvolgimento, di manipolazione, di reificazione della esistenza di ciascuno di noi a cui è arrivato grazie a un’infinità di strumenti scientifici e tecnologici.
    Giunti a questo punto non mi scandalizzerei più di tanto a leggere Rizzi quando afferma che “la maggioranza di noi ha delle fette di salame sugli occhi …” oppure come dice – se non erro – Rita che altro non siamo che “polli di allevamento” (cosa per altro che aveva detto anche Gaber in epoca non sospetta cercando di risvegliare molti di noi, con l’esito paradossale degno della più raffinata società dello spettacolo di aver creato un mito senza che i fruitori del suo lavoro abbiano capito un acca di quel che diceva …).
    Se la realtà è di grande confusione e la prospettiva non è per nulla eccellente non è con il volontarismo di qualcuno che si può modificare il quadro complessivo. Forse sarebbe davvero il caso di tornare a fare inchieste per vedere, senza la manipolazione dei giornalisti e dei media, quale è la situazione in cui realmente ci stiamo muovendo al di là dell’infinito cicaleccio della stampa e dei decantati mezzi di comunicazione sociale che con il loro rumore di fondo generano più confusione che offrire un qualche strumento di maggiore chiarezza.
    Non credo si possa noi, con la lunga esperienza di insuccessi di cui siamo carchi, poter fornire ai giovani particolari lezioni. In loro urge la forza della vita e ciascuno compie le sue scelte correndo i suoi rischi nel gioco con la morte che tutti ci avvolge, in una forma o nell’altra. Né abbiamo alcun motivo per giudicare le loro azioni. Quello che però si può fare è come ha fatto qualcuno nella discussione far notare le ambiguità, forse dovute al giovanilismo o forse, perché no, all’entusiasmo, di chi entra in un gioco su un terreno minato, come è quello dell’Egitto odierno, che comporta una forte dose di rischio, ancor di più se, guarda caso, si opera all’interno di una struttura che rappresenta in modo oggettivo l’imperialismo americano.
    Quello che invece a mio vedere si deve fare è far notare l’immensa ipocrisia del potere, del ceto politico, il nostro, con la sua gerarchia aggiunta di stampa, sinistri-sinistri e potentati di ogni colore si sbraccia chiedendo “verità”.
    Concedetemi quale verità potranno mai portare alla luce se non figlia di una manipolazione politica? Come dimenticare che nel corso degli ultimi 70 anni non siamo riusciti una volta ad avere una risposta di verità in questo paese che si riempie la bocca, un giorno sì e l’altro pure, di essere uno fra i pilastri della democrazia occidentale?
    Quello che invece vediamo è il riproporsi di schemi infinitamente uguali. Qui da noi, tutti uniti appassionatamente come un vero mega-partito della nazione che chiedono quella “verità” che già ben conosciamo e intanto firmano contratti pluri-miliardari per pozzi di petrolio e ogni altro.
    Quello che dovremmo essere capaci di fare è di riaffermare con forza il nostro rifiuto, di non cedere a questo andazzo che tutto descrive secondo schemi manichei, che tutto unifica e alla fine risolve nella versione noi/loro, dove noi siamo la civiltà e loro la barbarie nella più varia conformazione possibile.
    Forse dovremmo anche smetterla di affermare come un mantra che “gli strumenti che abbiamo per leggere la realtà sono sempre più obsoleti” e chiederci se quelli dei nostri nemici siano poi granché “nuovi” …
    Né dobbiamo fare corsi di strategia geopolitica, anche se le dritte di un Buffagni o altri come lui possono essere illuminanti. Quello che, mi pare si deve fare è ricordarci:
    “che i nemici esistono. Non avversari, non dialettici collaboratori. Non posso essere con coloro né democratico né tollerante. Essi con me lo possono perché non hanno di che temermi. Lo avessero, un cenno ai loro agenti e sarei stecchito dalla calunnia o dalle armi … Non sono anonimi. Hanno mogli, figli, nomi, cognomi, lavoro, hobbies … Sono quotati in borsa e piangono se li fanno soffrire … Credo che essi e i loro complici, fra i quali, in modo intermittente, conto anche me medesimo, debbano essere messi in condizione di non nuocere …”.
    Penso che questa lezione dovrebbe essere meglio meditata. Queste righe ci impongono una presa di distanza anche da certuni che ci sembrano vicini e questo non dovrebbe essere un gran problema. Proprio in questa situazione in cui non abbiamo nulla da perdere conservare la massima intransigenza mi pare una amara ma necessaria medicina.
    Se questo comporta criticare, senza mezze misure, chi dell’essere di “sinistra-sinistra” ha fatto un redditizio mestiere non mi pare ci dovrebbe particolarmente spaventare. Se questo ci dovesse perfino porre qualche domanda sulla dilagante logica di un individualismo che chiede ogni diritto e condanna ogni dubbio in nome del principio che “io posso fare tutto quello che voglio” non troverei nulla di drammatico nel dire no. Ciò anche a costo di sembrare non sufficientemente alla moda e non sufficientemente progressista.
    Infine non credo si abbia nulla da condividere con i nostri nemici se non prendere atto che il loro “cinismo” il loro “lucido realismo” qualche volta ci può aiutare a capire quel che succede intorno a noi senza però necessariamente riconoscerci nella logica che governa il loro pensiero.
    Siamo su fronti diversi e contrapposti. A ciascuno il suo.
    Infine è davvero ridicolo attendere l’elaborazione di una possibile futura “teoria sufficientemente unitaria e compatta” (della società ndr) visto che più che mai questa teoria non si riesce a elaborare neppure in un terreno che sembrerebbe estraneo a ogni conflittualità come quello della fisica. Sono puri esercizi retorici. Retoriche di cui GLG si serve solo a creare una cortina di fumo para-accademica.
    Non so cosa ne pensi, caro Ennio, ma da Ardizzone in poi ho visto un mare di giovani morti qui in Italia, uccisi dalla polizia e per nessuno di essi si è ottenuta giustizia. I giovani, è nella tragica fenomenologia della vita, sono destinati a “rischiare la pelle”. Alcuni lo fanno per un ideale, altri sono prezzolati, altri finiscono stritolati dalla macchina del potere per ingenuità, per caso, per quell’elemento di l’irrazionalità che in fondo governa la vita.
    Che dire? All’interno della critica dialogante sta anche un elemento di provocazione. Anche ciò che ci irrita può costituire, se letto nella giusta prospettiva, un segnale di qualche cosa che facciamo fatica a capire.

    1. Solo un’ osservazione. Riguardo alla affermazione di Giulio Toffoli: “una società come quella del Capitale che ha imposto la logica del profitto come unico valore sociale” osservo che, secondo alcuni studiosi, per altro marxisti, il capitale non “impone” niente ma agisce con la logica del profitto per riprodursi, come un soggetto impersonale.
      Altro discorso fa invece La Grassa, che dà l’iniziativa alla Politica, e ritiene l’economia secondaria rispetto all’iniziativa della prima.

      1. Più che come “un soggetto sociale”, direi “come un qualunque altro essere vivente”.

        Se riuscissimo a comprendere, che qualunque “cosa” nell’Universo agisce come un essere vivente (a iniziare dalla volontà primaria di riprodursi), a cominciare dalle società umane e da qualunque gruppo di aggregazione (che sia una città o un Partito), forse capiremmo che le iniziative che possiamo prendere sono di un unico tipo e vanno rapportate solo alla scala alla quale riusciamo ad operare.

        Questo per chiunque si chieda (qui o altrove) “cosa posso fare per…”.

        Fermo restando, che riuscire ad operare a una certa scala, dipende in primo luogo da quanto avviene a quella scala riusciamo a comprendere e decifrare.

  40. Che dire della tragica vicenda di Reggeni ? Negli interventi che precedono è stato detto tutto ciò che di giusto e ingiusto si poteva osservare. Da parte mia ne traggo alcune conclusioni personali che desidero inserire come anello della catena.
    Penso, senza esitazione alcuna, che si tratti di un assassinio politico asimmetrico.
    Se un assassinio viene compiuto da un organo statuale ( polizia segreta o no ha poca importanza ) e gli estremi della vicenda – negli antecedenti,negli svolgimenti,nella conclusione – vengono accuratamente occultati dalle autorità ( come di fatto è avvenuto: ciò è sotto gli occhi di tutti ) ciò significa che quella vicenda nel suo esito estremo interest rei publicae ed attiene ,dunque, alla sua sfera politica.
    Assassinio politico asimmetrico perché – come ha osservato correttamente Buffagni – la vittima di un così orrendo omicidio non era certamente un agente che perseguisse scopi di altro Stato .
    Questa costatazione introduce inquietanti prospettive.
    Se – come è successo – l’estraneità della vittima ad un gioco di interessi e poteri statuali contrapposti non l’ha resa, per così dire, invulnerabile, ciò significa che è massimo l’arbitrio di uno Stato nel definire l’ambito del proprio interesse. Ciascuno Stato si sentirà libero di definirlo come vuole e di modificarlo di volta in volta : possono entrarvi ( vi entrano ) le più disparate esigenze. L’esperienza insegna- e la tragica fine di Reggeni lo conferma – che l’ampiezza dell’interesse statale è massima negli Stati dittatoriali.
    In questo fosco quadro, l’equilibrio della ragionevolezza viene stravolto, anzi capovolto e la vittima diventa “ colpevole “. Le donne stuprate sono colpevoli di non nascondere le loro grazie; gli omosessuali di aver cercato “ cattive compagnie “ ( ricordo la demoniaca frase di Andreotti in occasione dell’omicidio di Pasolini: “ se l’è cercato “ ); gli “ ambiziosi ricercatori “ che ficcano il naso dove non dovrebbero ; i migranti che non cercano lavoro in casa propria…. La ragion di stato sembra non conoscere limiti e va oltre la legittima difesa riconosciuta da millenni al singolo individuo ( che pure è contenuta entro certi confini dagli ordinamenti giuridici dei paesi più civili ). A volte – e ne abbiamo la conferma nella vicenda di cui sto parlando – la valutazione della ragione di stato viene enfatizzata oltre ogni limite ed estremizzata; non si cerca alcuna mediazione: fit ratio et pereat homo.
    Siamo dunque costretti a correggere l’antica saggezza secondo cui gli uomini cercarono di salvarsi ( dalle belve ) fondando città ( Platone: Protagora , XII ) ? L’interrogativo si pone- oltre che nell’assassinio di Reggeni – anche per il cittadino verso il proprio stato, perché – anche questo ci viene dall’esperienza storica – quante volte l’individuo viene sacrificato al “ bene comune “ che è una versione appena appena edulcorata dell’altra espressione ?
    Tutte e due invocano criteri di valutazione che non riguardano l’individuo.
    Sono riflessioni cruciali che ci trovano impreparati e sgomentati, soprattutto se determinate da fatti orribili come l’assassinio di Reggeni.
    Se, in linea teorica, si può ipotizzare una presa di coscienza ed una reazione dall’interno, se il sacrificio dell’individuo riguarda un cittadino, doppiamente tragica è la situazione in cui si è trovato Reggeni, situazione sfociata in una morte atroce.
    Lo stato straniero appare doppiamente legittimato – per così dire – dall’applicazione della proprie ragioni : perché Stato e perché l’altro e più vasto aggregato cui apparteniamo
    ( L’Umanità ) non ha confini, né armi. Esiste ?
    Oggi l’Egitto, domani un altro Stato non si piegheranno mai a rivelare la verità ed anzi la costruiranno con ogni mezzo, compresa la tortura e a nulla serviranno proteste diplomatiche o d’altro tipo.
    Verranno invocate “ storiche amicizie “; la sproporzione tra la morte di un singolo e le conseguenze di una “ spedizione punitiva “ e rimarrà soltanto l’indignazione. La quale, però, non deve essere elusa ed anzi – per quello che può servire – essere massima e a tutti i livelli possibili.

  41. Ciao Roberto. Articolo molto ricco e supposizioni interessanti, le quali, saranno destinate a rimanere tali. Sfrondando le posizioni piu’ umanitarie, proprio perche’ fanno il gioco del banco, non rimangono che quelle piu’ ciniche. Perche’ e’ evidente che in questo gioco gli interessi sono tanto grandi che la vita umana ha poco valore.

    Cominciamo col dire che l’assassinio e’ sempre un mezzo. La differenza tra un incidente ed un omicidio efferato e’ sempre funzione dello scopo. Se si vuole semplicemente togliere di mezzo qualcuno, si sceglie un basso profilo: un incidente, una malattia… dipende dalla professionalita’ del killer. Quando, come in questo caso, si fa trovare un cadavere martoriato, si tratta sempre di un avvertimento. A chi e per cosa, non ci sara’ mai dato di sapere, ne’ alcuna inutile procura nazionale lo accertera’ mai. Ma sicuramente il messaggio e’ stato ricevuto dall’interessato.

    Poi c’e’ la questione mediatica. Non va dimenticato che i servizi segreti di qualunque paese sono appunto “servizi di informazione”. Quindi, il raccogliere, divulgare, nascondere, informazioni e’ il loro lavoro. L’idea dell’agente segreto modello Sean Connery va accantonata. Quello e’ un agente operativo: un militare altamente specializzato. Il che non era il caso di Regeni. Da tutto cio’ consegue che tra il lavoro di giornalista e quello di agente segreto non c’e’ mai stata una grande differenza. Non c’era nemmeno prima, non solo oggi. Il free lance e’ la figura ideale per questo tipo di lavoro, ed e’ sempre sacrificabile senza grandi conseguenze. Ma quando vengono montati casi mediatici come l’attuale, e’ legittimo pensare che lo scopo dell’orrore fosse proprio questo: un cambiamento nelle relazioni politiche con qualche altro Stato. Oppure, il giustificare un cambiamento in tal senso, gia’ deciso in precedenza. Piu’ clamore mediatico viene provocato, e piu’ questa tesi diventa plausibile.

    La verita’ non si sapra’ comunque mai, quindi e’ inutile cercarla nei dettagli come si trattasse di un racconto di Agatha Christie. E’ la politica a livello internazionale, sono i conflittti e le strategie a spiegare il perche’ di fatti come questi. E’ probabile che i prossimi cambiamenti che avverranno in Egitto, le alleanze che si trasformeranno, possano suggerire una ragione plausibile.

    In ogni caso, chi decide di partecipare a questo gioco lo fa volontariamente. Quindi sa di rischiare la ghirba. E se non lo sa, o pensa che sia tutto gratis, si tratta di una questione che ha piu’ a che fare con la civilta’ in cui vive, piuttosto che con la contrapposizione tra diversi interessi; nella quale ultima le regole non scritte ci sono: basta rispettarle.

    G.Stallman

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