Colognosità

2015 Quartiere Cristina Cologno

Stralcio da “Narratorio”

di Ennio Abate

Le trattative

A parlare col prete. Poi dalle monache. Accettarono di farci stare coi ragazzini del Quartiere Stella nel giardino della loro scuola materna in Corso Roma. Così durante la mattinata potevano giocare e fare colazione. Poi ancora a trattare. Col sindaco C., il bassotto mingherlino socialista. Poi con l’assessore, sempre socialista, G., il mafiosone popolano intelligente, che ti zoommava la faccia a dieci centimetri dalla tua. E poi ti parlava a bassa voce. E socchiudeva un occhio, guardingo. Come se prendesse la mira. E poi da un geometra di Via Milano. E poi da un altro geometra di Viale Lombardia. E poi, assieme a ‘sti tre, a Milano, in un palazzotto d’uffici dietro Piazza Missori. Qui: tu aspettaci giù, – mi dicono – se no si creano complicazioni. Tutto quel tira e molla? Per avere dall’Immobiliare il permesso di usare degli stanzoni a pianterreno del Quartiere Stella e farci l’asilo per i nostri figli. Figli d’immigrati, eh!

Facce di bronzo

Ripensavo a quella storia. Devo ancora scriverla? Ma per chi? Per quegli storditi che avevo raccolto in alcuni bar – quello sottocasa, il Paoletto – nel «gruppoperaistudentidicolognomonzese»? Un po’ sì. L’avevano fatta loro quella storia. Piccola, minima, dai. Così, quasi per gioco. Regalandomi di sera, a me che li pressavo, qualche ora di sonno per una riunione. Per quei bambini che sono diventati adulti e si saranno spersi a lavorare in fabbrichette, in uffici, al massimo in qualche scuola di periferia? Per le facce di bronzo de PCI, del PSI, della DC, che in quei due anni sentirono il culo bruciare dovunque lo mettevano? E guardavano i figli giovani dei loro iscritti passare coi «maumau», figli di buonadonna, che glieli mettevano contro? M’immagino come ne parlavano tra loro. Come chiedevano ai capi quale disinfettante usare. E quanto s’incazzarono per l’articoletto di cronaca con la foto dei bambini e dei genitori del Quartiere Stella. Facce stanche sì, ma che, in combutta con la marmaglia del «gruppoperaistudentidicolognomonzese»,avevano occupato la sala consiliare. E protestavano. E non la smettevano. E poi lo sguardo indispettito che rivolse all’assessore G quel funzionario arrivato da Milano (inviato da prefetto? un pezzo grosso?) prima del sopralluogo al Quartiere. Nervoso come uno scolaretto a cui correggevano il compito sbagliato l’assessore, eh!

Tra Sud e Nord sbandati

Ma chi di noi la sapeva «gestire politicamente» quella faccenda venuta su all’improvviso? Come funghi cresciuti per la pioggia di altre lotte più grosse? Eravamo giovanotti sbandati. Non del tutto risvegliati dal sogno tormentoso del Sud. L’avevamo ficcato in un angolo della mente il Sud. Tanto ce ne vergognavamo. Anche i «compagnidiao» lo trovavano «piccolo borghese» o «spontaneista». Eravamo arrivati nel nebbioso, freddo, serio Nord ora. Che volevamo di più? Non più sole, mare, dialetto. Ma modernità, rivoluzione, marxismo e leninismo. Colognom? Ma che posto era? Ah, sì, «Milano, Corea»! Roba che commuoveva Montaldi e Alasia e qualche sociologo.

Città dormitorio

Campagna una volta. Prati spelati adesso. Qua e là i camion continuavano a cagare montagnette di terriccio, schegge di calcinacci, mattoni e farina di cemento. Avevano costruito un disastro abitabile. Sparpagliato su quelle terre non uno o due, ma una quindicina di falansteri. Mastodontici, sregolati, da far abbassare gli occhi tant’erano brutti. Ah, sì, le «città-dormitorio». Ah, sì, il . Dei proprietari di quei terreni che li avevano venduti. Delle immobiliari che li avevano riempiti di cemento. E poi il resto del «progresso». Altri – in quali studi tranquilli si pensano le migliori porcherie! – avevano progettato di segare ad Est lo spigolo verso Sesto San Giovanni. Ehi, popolo, ti regaliamo una bella, puzzolente e rumorosa tangenziale, vota e ringrazia! Commerci, comunicazioni, affari. Vuoi che quegli sconosciuti, lì precipitati da varie campagne – le più povere e docili d’Italia – mentre s’affaticano come formichine a cui hanno distrutto il formicaio e devono ricostruirsi case, amicizie, passioni, innamoramenti, e ogni tanto danno fuori di testa e ammattiscono, riescano a rompere il cazzo a noi che governiamo? Ma quella è al massimo classe operaia engelsiana in formazione! Non sanno nulla della rete di poteri in cui li abbiamo incastrati. Arrivano da paesotti sperduti. Arrivano e devono inchinarsi e chiedere lavoro. E noi abbiamo lì i nostri capocci colognesi (avvocati, preti, ragionieri) che devono rendere conto a noi (avvocati, preti, ragionieri) milanesi. Li abbiamo in pugno.

Il buon cuore

Che fossero in combutta tra loro noi lo sentivamo e ce lo dicevamo anche noi nel «gruppoperaistudentidicolognomonzese». E non c’illudevamo. Avevamo piegato e rovinato, quasi per caso, soltanto un filo della loro Rete. E non la vedevamo davvero tutta. Io poi ero tutto preso dall’angoscia che mi dava quella «sala custodia», dove al mattino presto deponevo, assieme ad altri immigrati sconosciuti, i nostri oggettini-bambini (da preservare, come gli occhiali, da urti più gravi). Sapevo che era un accampamento. Lo sapevo. Lo sapevamo anche gli altri? L’aveva messa su il «buon cuore» di una signora sarda. Immigrata anche lei, eh! Che così aiutava «‘sti poveri meridionali» pieni di figli e di doppi turni in fabbrica. E anche il «buon cuore acchiappa voti» dell’assessore socialista G.
Il volantino

Io e mia moglie R dopo un po’ cominciammo ad avere notizie allarmanti su quel che succedeva in quella «sala custodia» durante la giornata, dove portavamo anche i nostri figli F e E. Due sole donne a curarla: la ragazzetta delle pulizie, che interrogammo e ci allarmò ancora di più, e l’anziana calabrese vestita di nero, forse vedova. S’occupavano fino allì’imbrunire della sessantina di bimbetti di varia età che al mattino venivano infornati nella sala. All’inizio cercammo persino di trattare e convincere la «benefattrice» ad assumere almeno qualche maestrina, un’altra aiutante. Poi, basta, scrivemmo il volantino firmato «gruppoperaistudentidicolognomonzese» che scatenò il puttanaio. E, quando cominciai a metterlo in mano agli altri genitori – gli operai e le casalinghe dalla faccia stanca, come detto – e a parlare, spiegare, i più spicci e diffidenti e semianalfabeti si misero a litigare con quelli che ci spalleggiavano. Urla, bestemmie, ragionamenti smozzicati e affannosi, scenate. Che teatro proletario divenne il cortilaccio di cemento del Quartiere Stella prima in quiete mortorio!

Col culo per terra

La «benefattrice» però passò al contrattacco. E una mattina ci fece trovare la porta della sala custodia chiusa.Che mossa! La montagna d’ira dei genitori, che avevano fretta di lasciare lì i figli e scappare a timbrare in orario il cartellino, ci avrebbe seppellito. In più, non mi aspettavo che ci mollassero di botto quella decina di studenti dell’Edilnord di Brugherio, amici di G, che, incuriositi dal «gruppoperaistudentidicolognomonzese» spuntato in quel terzomondo terrone a due passi dal loro Quartiere-fortezza, fino a quel punto ci eravamo trascinati nella quasi lotta. Tre o quattro di loro ci stettero (per qualche ora) a far giocare i bambinetti nel giardino delle suore, che s’erano rassegnate ad ospitarci Gli altri – adios! – si rintanarono in mezzo ai bei negozioni, vialetti, giardini curati, passeggio morbido di belle fighe e fighetti, shopping e adescamenti tutto sotto casa dell’Edilnord, dove- venni a sapere anni dopo – s’era fatto le ossa il Berlusca.

Gli studenti e i rivoluzionari

Te lo ricordi più quello, il tenebroso e taciturno, che si era poi scopata la compagna di Cernusco, l’aveva messa incinta e si era defilato per altri maneggi? E quei quattro stronzi – immigrati e proletari doc e che avevano anche loro figli per carità! – che più di tutti alzavano la voce contro la «benefattrice», perché ci mangiava? Si erano infilati nella protesta, ma volevano, usando il propellente «gruppoperaistudentidicolognomonzese», sostituirsi a lei. Per mangiarci al suo posto. E quei cazzoni, professorini di marxismo-leninismo – che loro se l’erano studiato prima e meglio di noi all’università e nelle sezioni di partito – e che vennero a farci le pulci? Perché voi del «gruppoperaistudentidicolognomonzese», invece di far crescere le avanguardie operaie sui luoghi di produzione, vi impantanate con casalinghe, pupi e paparini operai in una «lotta di quartiere»? Quella era roba per «preti operai» o «cristiani per il socialismo» o per «spontaneisti di Lotta Continua». Venne pure C. da Milano a rimbrottarci. E, siccome era simpatico e alla mano, se la cavò con un po’ d’ironia – ci raccontò pure che lui da ragazzo, al posto delle madonnine, sul comodino aveva il ritratto di Stalin – e ci perdonò. Durante però una delle nostre manifestazioni-processioni-assalti con tanto di megafono alla palazzina del Comune venne pure L., lo spilungone gramsciano (allora), e sibilò invece: «economicismo». E mi gelò.

16 pensieri su “Colognosità

  1. oh dolente per sempre colui/ (…) /dovrà dir sospirando “io non c’era”
    ma chi c’era si ricorda tutto

  2. Ricordo
    il cul a terra trascinato
    dalle “forze” della polizia
    e con loro andavo via
    or che in piedi sto
    guardo al male
    che in diverso modo
    il mio popol assale
    e ancora il cul
    mi fa assai male.

    Ciao Ennio grande!

  3. …come riascolto volentieri lo spirito, i problemi e il linguaggio di un’epoca! Di quando eravamo disperati magari ma giovani nelle speranze, e nelle energie..Mi sono ricordata di un’altra periferia a sud di Milano, Lodi, che allora non era ancora provincia ma quasi una città-dormitorio, alla cui periferia (periferia della periferia) si dibattevano questioni analoghe..Nel quartiere Robadello dove vivevo per raggiungere la stazione ferroviaria e prendere il primo treno, “il fogna”, delle ore cinque del mattino per Milano, stracarico di pendolari e che impiegava quasi due ore (gamba de legn), si doveva percorrere al buio un paio di chilometri di strada, mentre un modesto lavoro edilizio poteva consentire a lavoratori e studenti di accedere ad un sottopassaggio-scorciatoia e abbreviare il tratto. C’è da aggiungere che i viaggi in treno si svolgevano sempre in piedi e pigiati come sardine così da arrivare stramazzanti a scuola o sul posto di lavoro…Ma non fu facile ottenere dal comune l’autorizzazione per i lavori e il passaggio. Fu una lotta di noi studenti-lavoratori…Non era il ’68 milanese, ma qualcosa si muoveva, se penso agli incontri in una chiesa sconsacrata quasi da clandestini! Graze Ennio

  4. Gli episodi sono ben scritti e fanno storia. Se il periodo di riferimento è il 68-69 la mia esperienza personale, allora frequentavo qualche sezione del PCI del Piemonte , mi fa dire che allora di facce di bronzo ne ho incontrate ben poche nelle sezioni, e si teneva sotto controllo anche il comportamento dei compagni amministratori con il pre-consiglio ecc. Voglio dire che l’eco di vicende come quelle descritte da Ennio non cadevano nel vuoto. In quel tempo prevaleva la volontà di cambiamento e si avvertivano sentimenti di solidarietà anche in quelli che vivevano in condizioni privilegiate. Poi dopo il ’76 tante cose sono cambiate e il naufragio ha riguardato tutta la sinistra e non solo.
    Ma Ennio sa che per me parlare di queste cose è un fatto molto doloroso e pericoloso(per la mia salute).

    Ubaldo de Robertis

  5. @ de Robertis

    “Ennio sa che per me parlare di queste cose è un fatto molto doloroso e pericoloso (per la mia salute)”.

    E se, al contrario e paradossalmente, ti giovassero?
    Non è che, scacciandole nel fondo oscuro, certe cose rischiano diventano più dolorose e pericolose, perché appunto continuano a lavorarci nell’oscurità?
    Rita Simonitto, in uno dei suoi commenti nel post su Regeni (Rita Simonitto
    22 febbraio 2016 alle 23:59 ) ci ha ricordato che «il fine della psicoanalisi [è] permettere di rendere pensabile e comunicabile ciò che al momento non lo è». Condivido. E penso che anche la scrittura che s’è alimentata almeno un po’ della lezione della psicanalisi abbia funzione simile. Anche se non voglio farla facile. Rovistare nel passato non è facile. Avevo già avuto occasione di citare questi versi guardinghi della Dickinson:

    Quando spolveri il sacro ripostiglio
    che chiamiamo “memoria”
    scegli una scopa molto rispettosa
    e fallo in gran silenzio.
    Sarà un lavoro pieno di sorprese –
    oltre all’identità
    potrebbe darsi
    che altri interlocutori si presentino –
    Di quel regno la polvere è silente –
    sfidarla non conviene –
    tu non puoi sopraffarla – invece lei
    può ammutolire te

    Il tentativo del mio “narratorio” si muove in questa direzione.

    1. @ Abate
      “E se, al contrario e paradossalmente, ti giovassero? Non è che, scacciandole nel fondo oscuro, certe cose rischiano diventano più dolorose e pericolose, perché appunto continuano a lavorarci nell’oscurità? Rita Simonitto ci ha ricordato che «il fine della psicoanalisi [è] permettere di rendere pensabile e comunicabile ciò che al momento non lo è».
      Credo che le cose stiano così come tu dici, anche se pensavo che la psicanalisi si concentrasse maggiormente sulle ferite inconsce, traumi, della prima e primissima infanzia, mentre qui si tratta di lacerazioni dell’età adulta, niente affatto inconsce: la fine di una ideologia alla quale ho creduto fino in fondo.
      E’ bene, come tu affermi, che uno si volga indietro per tentare di rimarginare, di fare i conti, di integrare il proprio passato, ma tale operazione è consigliabile per tutti coloro che godono di buona salute fisica non per chi sta lottando per sopravvivere(interventi al cuore ecc.). Qui di doloroso c’è ben altro che non il fallimento di un progetto politico!
      Ubaldo de Robertis

  6. Ottimo racconto di fatti tipici di quegli anni, ricordo situazioni analoghe dalle parti mie; ma ce n’erano un po’ dappertutto.

    Sembra che non si sia stati capaci di imparare dagli errori, però: non tanto perché le cose siano, genericamente, cambiate in peggio; ma perché, ragionando su quegli errori, non si è riusciti a costruire al mondo attuale, nessun germoglio di alternativa.

    O meglio, come mi capita di scrivere in altri commenti, le alternative ci sono, ma si continua ad andare avanti in ordine sparso.

    Comunque riflettere su quei tentativi fa sempre bene, a patto di saper esser critici a 360°.

  7. La scrittura ‘plastica’ di Ennio ci porta di forza dentro quegli scenari in cui si incontrano figure di sofferta umanità e di laida disumanità, mondo da cui però il suffisso velenoso di Cologn-osità sembrerebbe anche volerci tenere lontani.
    Dolorosamente ‘lontani’, anche perché è passato del tempo e molte condizioni sono cambiate al punto che ci troviamo qui a discutere, a volte un po’ ringhiosi, con armi teoriche un po’ spuntate – che non erano soltanto gli striscioni di “Viva Marx, Viva Lenin, Viva Mao Tse Tung!” -, a fronte di un mondo che ci si presenta di più difficile lettura rispetto ad allora, e noi con risorse fisiche ed emotive sottoposte a dura prova.
    E, oltretutto, quei dolori e quelle ferite sono state poi rimarginate? O se ne sono create delle altre?
    O dobbiamo credere alla recente uscita di Renzi: “Ha vinto l’amore”?.

    @ Ubaldo de Robertis
    * pensavo che la psicanalisi si concentrasse maggiormente sulle ferite inconsce, traumi, della prima e primissima infanzia, mentre qui si tratta di lacerazioni dell’età adulta, niente affatto inconsce: la fine di una ideologia alla quale ho creduto fino in fondo.*
    Ovviamente semplificando, secondo la psicoanalisi, il presente ‘riedita’ il passato quando questo non è stato elaborato nelle sue connessioni più arcaiche. Allora tendiamo a ripetere inconsapevolmente quell’oscuro che non è stato portato alla consapevolezza. O, a dire meglio, è quell’oscuro che ci fa muovere in un certo modo, come burattini.
    Ma, come dice Ennio, anche la scrittura ha una funzione analoga, e ciò è vero come attesta fior di letteratura al proposito; solo che a quest’ultima opzione viene a mancare il contrappunto della ‘voce interpretante’, ovvero quella dell’analista che si assume tutte le proiezioni transferali ‘inconsce’. Ma ognuno fa quello che ritiene più consono alle sue risorse stesse, così come intuisco faccia de Robertis al quale vanno i miei sentiti auguri per la sua salute.

    R.S.

  8. ….assolutamente vero, Rita…ci prova in tutti i modi quella parte oscura di noi a rieditarci infinitamente. Bisogna dire che invecchiando (vale persino per una zuccona come me!) si arriva ad una maggiore consapevolezza, ma spesso proprio allora vengono meno quelle energie e quella salute che permetterebero di operare un cambiamento… Della “voce interpretante” comunque avremmo tutti bisogno…un augurio a Ubaldo De Robertis

  9. @ Simonitto

    «E, oltretutto, quei dolori e quelle ferite sono state poi rimarginate? O se ne sono create delle altre?».

    Non credo proprio. Altre sono arrivate, arrivano, arriveranno. Ed, in effetti, uno dei problemi del mio “narratorio” che più mi cruccia (ma credo sia comune a tutti quelli che scrivono) è proprio questo. Col passare degli anni il tentativo di “ricucire” in una forma sensata – obiettivo che pur mi sono posto precocemente e fin da giovane – è diventato sempre più arduo per il percorso segmentato della mia esistenza e i traumi privati-pubblici che la partecipazione a certi eventi mi ha procurato specie in anni per me cruciali e in un certo senso “periodizzanti”.
    Si tratta forse di un lavoro di Sisifo (a cui mi sono condannato o mi hanno condannato?). E tra l’altro non so se il masso di Sisifo diventava sempre più grosso, come succede a quelli che stanno nella storia e arrivano alla vecchiaia.

    @ de Robertis

    Riprendo anch’io il brano selezionato da Rita: «pensavo che la psicanalisi si concentrasse maggiormente sulle ferite inconsce, traumi, della prima e primissima infanzia, mentre qui si tratta di lacerazioni dell’età adulta, niente affatto inconsce: la fine di una ideologia alla quale ho creduto fino in fondo». Perché mi dà lo spunto per introdurre un’ulteriore problema o complicazione: il rapporto tra vicenda personale e biografica e vicende storiche (ideologia, ecc.).
    C’è, non c’è, va tenuto presente o cancellato?
    Ho finito di leggere due libri: «Storia di un comunista» di Antonio Negri e «La rancura» di Romano Luperini. Entrambi si sforzano – e a me pare postivo – di tenere strettamente unite vicende autobiografiche e vicende storiche, sia pur con linguaggi diversi: più da biografia filosofico-intellettuale il primo; da biografia-romanzo il secondo. Che, tra l’altro, appare fortemente influenzato dalla psicanalisi (e dunque in contrasto col taglio del primo).

  10. A Rita Simonitto e Annamaria Locatelli.
    Wittgenstein diceva:”ci sono uomini che sono troppo fragili per andare in frantumi. A questi appartengo anch’io.” Grazie infinite per gli Auguri.
    Ubaldo de Robertis

  11. @ Ennio :
    riporto un brano della tua risposta :
    “Si tratta forse di un lavoro di Sisifo (a cui mi sono condannato o mi hanno condannato?). E tra l’altro non so se il masso di Sisifo diventava sempre più grosso, come succede a quelli che stanno nella storia e arrivano alla vecchiaia”

    Sono riflessioni che costringono il lettore a fermarsi su di esse, specie un lettore abbastanza coetaneo a te, anche se con una formazione culturale differente, e di spessore inferiore. Però credo che il fatto di averle voluto condividerle con noi, sia la prova di un bisogno di mettersi in contatto, di condivisione, che dimostra la sensibilità e l’apertura di anima che si intravvede sempre in ogni tua risposta che ci dai.
    Da poeta, quale talvolta io cerco di essere, sento abbastanza intenso questo tuo bisogno di comunicare, di trovare quell’empatia in chi ti legge, nella speranza che
    tutti i sogni, ed i bisogni di quella stagione di gioventù non vadano dispersi.

    E per questo ti voglio ringraziare, sinceramente

  12. Anche se, lo confesso, faccio fatica – e i motivi di questa fatica sono ben illustrati nei post precedenti -, ogni tanto il mio pensiero corre a recuperare il concetto di ‘Sisifo felice’ di A. Camus, nel suo volume “Il mito di Sisifo” (1942).
    Il Titano, condannato da Zeus perché aveva osato infrangere i poteri degli Dèi, e pur continuando a trascinare il masso su e giù dalla montagna per l’eternità, a un certo punto, durante la sua discesa, si rende conto di sé, memorizza la sua situazione.
    In quell’attimo disperante rispetto alla insensatezza del tutto, prende coscienza della pena che deve sopportare e della causa che l’ha prodotta (la passione per la vita, per gli uomini, di contro alla eternità degli Dèi) e realizza che non si può dare un significato trascendentale alla vita e al mondo, e nemmeno protestare e/o ribellarsi contro l’assurdità dell’esistenza (e quindi contro l’ingiusto ‘destino’), ma, persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, come un cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli può riprendere il cammino. Cammino che, ora, solo apparentemente sarà lo stesso, ma in realtà sarà diverso in virtù della osservazione del suo percorso che, di volta in volta, sarà altra.
    “Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dèi e solleva i macigni” scrive A. Camus, e il suo obiettivo diviene la “intensità della vita”.
    “Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice” (A. Camus).
    Basterà? O è ancora una illusione ‘soggettiva’?

    R.S.

  13. “Basterà? O è ancora una illusione ‘soggettiva’?”
    O è il *percorso* che si può abbandonare?
    Il mito di Sisifo è quello di un senso altro che si impone all’amore per e tra gli umani. Mein Gott, mi dovrei guardare dal rinunciare al mito occidentale (e maschile) della conquista (del senso), del dovere, dell’ideale, delle sorti m&p, del sol dell’avvenire, della infinita conoscenza, e chi più ne ha…
    Ma mi ricordo che in quegli anni le donne, le ragazze, hanno fatto il taglio, si sono separate dai gruppi politici (che hanno continuato e sono rovinati sulla loro strada di lotte per il potere e contro altri poteri – sempre maschili), e hanno cominciato, con i gruppi di autocoscienza, di pratica dell’inconscio, e scrivendo, sempre scrivendo, a lavorare proprio sul collegamento tra “vicende autobiografiche e vicende storiche”. E non sarà forse per caso che, dopo alcuni anni, Negri e Luperini si arrendono a ricapitolare storia e biografia…

    1. Per Cristiana (“Il mito di Sisifo è quello di un senso altro che si impone all’amore per e tra gli umani.”)

      Non mi sembra che il mito di Sisifo vada letto in questo modo: la sua vicenda è solo una serie di astuzie che egli mette in atto (contro Dei e contro mortali), perlopiù per interesse personale.

      E’ uno dei tanti esempi di “ubris”, presenti nella mitologia ellenica. Vi si può scorgere un riflesso dello scontro fra quella cultura e altre mediorientali: stando al nome, secondo alcuni studiosi potrebbe essere l’umanizzazione di una divinità mediorientale, un procedimento che le popolazioni greche – ad iniziare dagli Achei – utilizzarono spessissimo, specie verso le divinità matriarcali. Ma il significato della storia non cambia.

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