Pensieri su “Nel bosco ed oltre” di E. Grandinetti

Grandinetti copertina Nel bosco e oltre0001

di Giorgio Mannacio

L’ultima plaquette di Eugenio Gradinetti si articola in tre sezioni (Le presenze del bosco; Dissonanze; Dissolvenze). La prima si presenta anche lessicalmente in sintonia col titolo stesso della raccolta, ma già l’avverbio “ ed oltre “ che lo accompagna sembra suggerire che bisogna uscire dal bosco e piegarsi, volenti o nolenti, a più liquidi fenomeni di trasformazione (Il testo Pan, a pag. 11, avverte : “Vivere è solo metamorfosi “).
Si è portati a pensare che la prima sezione determini un quadro per così dire oggettivamente naturalistico entro il quale si snoderanno, con altra cadenza, meditazioni provenienti dall’io narrante della prima sezione. In parte è così, ma non del tutto. Certo, nella prima sezione predominano sequenze descrittive proprie dell’ambiente naturale, ma già in esse penetra insistente una sorta di concupiscenza del ciclo vita-morte che le rende, non dico retoricamente tragiche, ma senza dubbio stoicamente rassegnate. Il finale di Questi alberi:

[…]

E questi alberi
come mi rattristano ora che non sono
più solo alberi ma sono vite
come la mia vita, che erano
speranze di raggiungere il cielo
ed ora sono inerzia d’un’inutile
sopravvivenza,
del ripetersi, per un’abitudine
di stagioni, di un rito
di nessuna religione, di un sacrificio
a nessun dio.

(pag. 20)

accenna – nella sua sobrietà – ad un tempo ciclico che dissacra il tempo lineare delle finalità della Storia. Siamo – dunque – in una visione per così dire rigorosamente classica cui è coerente il modulo espressivo utilizzato. Non vi sono in esso infigimenti formali; la rima è sostanzialmente assente perché – penso – ritenuta superflua ; la chiarezza è somma; la lettura si adegua al pensiero e questo ritrova, nella lettura, il suo nutrimento. Grandinetti sembra dire: così è, e non facciamo, per carità, intorno al nucleo essenziale, alcun giro di parole. Anche in questo senso la sua poesia è classica perché assume su di sé – e con le riserve che ciascuno secondo il propri gusto può fare – il rispetto profondo non tanto della tradizione quanto della memoria e della cultura. Ma la cultura, almeno così penso, non è moda e vive all’interno di ciascuno di noi come identità indelebile. Questo rilievo salva l’esperimento poetico di Grandinetti da fin troppo facili denigrazioni etichettabili come passatismo e inattualità. Non occorre rifarsi all’enfatizzazione di quest’ultima predicata da Nietzsche, bastando osservare come nei versi esaminati può trovare “conforto“ cioè consiglio un qualche lettore (forse molti).
Si può pensare che Grandinetti non abbia bisogno di fantasticare sulle parole: basta il loro ordine per portare a termine la sua fatica che è quella di volgere verso le cose uno specchio e concludere che il mondo è posto “a caso“:

Essere

Essere
senza confronti in un universo
non misurabile, non avere
attimi ed orizzonti, sentirsi
aria e terra insieme
e fuoco ed acqua,
indiscreti, continui e senza limiti.
Ma la vita è la foglia che attraversa
una stagione dolorosa,
rosa ai margini dalle processionarie,
contusa dalla grandine, agitata
dal vento, riarsa
dal sole dell’estate e fatta esangue
ed arida e dispersa
a macerarsi oscura nella guazza.

II
Essere è senza senso, è solo copula
che non predica. Occorrerebbe
trovare la parola che qualifichi
la vita, ché l’essere non resti
solo ed inutile.
Ma le parole che troviamo sono
solo bolle di nulla che si disfano
appena si avvicinano alle ciglia.

III
Essere ombra e non avere corpo
o essere parola senza voce
per farsi senso univoco ed immagine
che l’asprezza di un muro non distorca.
Non volere e non chiedere alla vita
nessun rapporto, solamente porsi
come messaggio per chi voglia coglierlo
e restare insensibile e passare
come raggio di sole che non bagni
l’acqua che sfiora, e non oscuri il buio
che attraversa.

(pag. 31)

L’impressione –in parte fondata e in parte eccessivamente schematizzante – di una divisione concettuale tra la prima sezione e le successive, riacquista un certo valore nell’esame del modulo espressivo in esse utilizzato. Prevalgono i testi brevi; alcuni, quasi aforistici, hanno forte intensità:

Pozza d’acqua

Essere, come una pozza d’acqua, solitudine
quieta e chiusa, non attendersi
altre acque, ma celarsi
dietro cespi di giunchi e disseccarsi
evaporando al sole

(pag. 38)

Se in taluni torna qualche creatura naturalisticamente individuata:

La notte

La notte ha i chiurli alterni degli assioli,
monotoni, che si parlano
da albero a albero. Noi abbiamo
parole articolate e varie, discorsi
che paiono reciproci ma son fatti
per non comprendersi.

(pag. 46)

ciò serve solo a sorreggere una conclusione che appartiene all’orizzonte umano già sufficientemente reso esplicito in precedenza. Il tono da descrittivo, nel senso sopra precisato, si fa più meditativo e appare quasi una sorta di elencazione severa e senza indulgenze contro cui non c’è appello:

Dissolvenza

Giunge alla fine la dissoluzione
o – forse meglio – una dissolvenza
d’immagini che fingeva il desiderio,
ma non erano vere, non avevano
parole se non sillabe d’eco,
non avevano corpo se non d’ombra
che la luce del sogno rifletteva
sulla parete screpolata e nuda
ch’era la nostra vita.

(pag. 89)

L’eco montaliana riporta la poetica di Grandinetti ai temi fondamentali della frattura contemporanea:

I dintorni del nulla

Ci paiono alle volte i nostri giorni
i dintorni del nulla, il muro concavo
di una cisterna, in cui s’apre un baratro
oscuro, nel cui fondo
si raccoglie un ristagno d’acque reflue
di memoria e di piogge, ferme, che agita
solo il secchio che cala per attingerle.

(pag. 57).

C’è poco spazio – in questo universo – per una poesia che cerchi, più o meno felicemente, la compagnia di altri. Rari – mi sembrano – i “ tu “ ed anche nel testo più legato, formalmente, ad una vicenda d’amore:

Odiandosi, amandosi

Odiandosi, amandosi, col variare
dei pensieri. Gli eventi
non sono univoci, e non sono
neppure indifferenti. Sono
come le onde del mare o la corrente
che, seconda ci porta all’altra riva
senza fatica, e contraria ci stanca
sì che all’altra riva
si giunga con le membra doloranti.
E troviamo alle volte insostenibile
lo sforzo di procedere opponendosi
a tutte le onde,
mentre dall’altra parte pare inutile
peso la vita che si lascia andare
quasi inerte, in balia della corrente.
Ma alla fine si giunge: ci si sdraia
sulla sabbia, a riposare,
senza pensare a niente.

(pag. 82 )
la chiusa è “ senza pensare a niente “.
Parallelamente, ed estremizzando, si può dire che la poesia di Grandinetti è astorica e che le vicende umane si iscrivono totalmente o quasi nel ciclo naturale e cosmico:

Oltre la storia

Via dal nemico attimo, per farsi
senza tempo, non ombra
che segni oscura lucide vicende
di sole
che cada per baratri, riemerga
ancora incerta sulla costa opposta,
si torca ad ogni ostacolo, si laceri
per picchi aguzzi,si frantumi
attraversando siepi attorte,
s’infanghi per pozzanghere, s’esangui
nella penombra dei crepuscoli, poi svanisca
al tramonto di un sogno e resti attesa
d’altre aurore che sorgano, per essere
solo segno sensibile del tempo
che trascorre insensibile.
Il mondo – ripensando – il mondo è quello
soltanto in cui viviamo, che è un frammento
minimo di un mondo
assai più grande, che ci resta estraneo.
Pensiamo qualche volta alle galassie
ma solo come a iperboli o metafore
di questo mondo angusto entro cui passa
la vicenda minuscola e infinita
di quella che è la nostra vita.
E questo mondo pure cosi piccolo
che a chi guardi
da un’altra galassia
forse neanche appare
è per noi tanto grande che ci occorre
dividerlo per frammenti di orizzonti.
E quanto è fuori dallo sguardo resta.

(pag. 35)

I versi hanno una loro misura interna, pacata e precisa, che li rende scorrevoli e quasi musicali anche in assenza di rima.
In ogni sua parte il testo è fedele ad una chiarezza che si impone con una evidenza indiscutibile, per cui al lettore interprete occorre solo interrogarsi se farsi compagno di strada di esso, ponendo semmai in discussione i presupposti su cui questo severo discorso si fonda.

* Eugenio Grandinetti, Nel bosco ed oltre – Youcanprint –Self Publishing- via Roma 73- 73039 Tricase ( Lecce ), ottobre 2015

29 pensieri su “Pensieri su “Nel bosco ed oltre” di E. Grandinetti

  1. Eugenio Grandinetti e Giorgio Mannacio danno una grande prova della loro bravura ed esperienza.
    Le poesie di Grandinetti con la loro forza e dolcezza mi piaccino tanto e l’analisi di Giorgio Mannacio non mi lascia davvero nulla da aggiungere.
    Beh, lasciatemelo dire: Grandi!

  2. Accolgo l’invito offerto da Giorgio Mannacio a pormi , come lettore, alcune domande di carattere filosofico esistenziale; lo faccio relativamente a quella che molti, tra quanti abbiano intrapreso coscientemente un percorso spirituale, chiamano “oscura notte dell’anima”. Questa espressione indica lo smarrimento esistenziale che precede l’appagamento spirituale, indipendentemente da quali saranno gli esiti, che per molti versi è simile allo sconforto che può vivere una persona ordinaria – non interessata alla spiritualità – dovuta a fattori esterni e interni, sociali e psicologici.
    Mannacio sfiora la comunanza di pensiero tra Grandinetti e Montale, e fa bene: anche Montale, particolarmente prima di realizzarsi come personaggio pubblico, noto e apprezzato, o come dicono alcuni “prima di Satura”, aveva ampiamente espresso in chiave esistenziale il suo pensiero che non dava scampo a facili illusioni. Così Grandinetti si chiude in un materialismo cosmico che appiana ogni differenza, che non eleva l’uomo – e la vita – verso scopi trascendentali: l’uomo, come qualsiasi altra cosa in natura, è soggetto alla ciclicità insensata degli eventi; la vita non avrebbe altro scopo che quello di essere, o di essere in sé, senza rimedio. Parrà strano a qualcuno, ma questa fu anche la condizione esistenziale da cui partì Buddha, il quale non parlò mai di Dio – forse perché non ne sentì la necessità, o forse perché era sostanzialmente ateo – non fece mai cenno a noti misteri della fede, come il padre in cielo o la trinità, ma fu materialista. Eppure, e qui sta il punto di questa mia digressione, trovò il modo per celebrare la vacuità dell’esistenza. In altre parole, il suo messaggio fu l’esatto opposto del pessimismo.
    Montale e Grandinetti arrivano fino ad un certo punto, forse, sotto sotto, hanno ancora delle aspettative… ma i mistici, almeno quelli di molte religioni non monoteiste, non hanno e non offrono speranze: sono materialisti, e per molti aspetti conservano un approccio scientifico verso l’esistenza. In effetti non sarebbe dato, all’ateo, di celebrare la vita, almeno non finché resta intrappolato nell’inconcludenza, nella mancanza di significato. Per l’uomo ordinario basta meno, non mancano offerte di consolazione, ma per chi aspira all’appagamento spirituale non è facile accontentarsi: serve un percorso difficile, che si svolge tra mille dubbi e incertezze. E può non bastare una vita.
    Ciò detto, vorrei invece complimentarmi con Grandinetti per i versi che ho letto in questo stralcio: pur nella chiarezza e nell’assenza di fronzoli, e anzi, forse proprio per questo, mi complimento per la poesia che traspare evidente.

    1. La divisione degli uomini in “ordinari” e “spirituali” mi lascia allibito, e nello sconforto.

      1. Quando poi a questa si aggiunge la divisione tra “ordinari” e “Poeti”, come mi capita di leggere su LA PRESENZA DI ERATO (http://lapresenzadierato.com/2016/03/14/rocco-paternostro-a-cura-di-ti-presento-maffia-ariccia-rm-aracne-editrice-2015-letto-da-luciano-luisi/)
        in un post presentato stamattina anche su POLISCRITTURE FB, viene voglia quasi d’incazzarsi. Ma no, commentiamo così:

        CONTRO L’APOLOGIA DI QUALSIASI POETA

        “egli vive la poesia come un bene sommo, con la fede di un antico sacerdote che con la parola si esalta, si emoziona, fa l’amore, ne ricava illuminazioni e squarci di luce, “acconti d’eternità”, come gli piace dire.” (Luciano Luisi)*

        Ma è proprio questo che non va!
        Fortini la chiamava “la sporca religione dei poeti”, cioè una religione di comodo, *per poeti* . Tutte le loro illuminazioni, i loro squarci di luce, i loro “acconti di eternità” quasi sempre valgono per loro e i loro fedeli ammiratori. E che una folta schiera di prof universitari mettano il timbro a queste cose dovrebbe allarmare.

        1. Coloro che deplorano l’attuale predominio della scienza, rea di sottrarre all’uomo il tempo della riflessione e della scrittura, dovrebbero meditare su operazioni come quella evidenziata da Ennio Abate e riportata su LA PRESENZA DI ERATO (http://lapresenzadierato.com/2016/03/14/rocco-paternostro-a-cura-di-ti-presento-maffia-ariccia-rm-aracne-editrice-2015-letto-da-luciano-luisi/)

          Poi non ci lamentiamo se la tendenza del nostro tempo è quella di porre in secondo piano ciò che proviene dall’ambiente umanistico. Avete mai letto che di uno scienziato, magari di vertice, si scrivano attributi del genere?
          “egli vive la poesia come un bene sommo, con la fede di un antico sacerdote che con la parola si esalta, si emoziona, fa l’amore, ne ricava illuminazioni e squarci di luce, “acconti d’eternità”, come gli piace dire.”
          Pensavo, nel 2016, di non essere più costretto a leggere certe cose; almeno, il Luisi, “l’antico sacerdote” se lo poteva risparmiare!!!
          A questo punto sembrerebbe non esserci davvero più nulla per frenare la caduta inarrestabile, l’abisso dove si è autorelegata la Letteratura.
          Ubaldo de Robertis

      2. C’è poco da rimanere allibiti; un po’ sconfortati sì.

        Ci sono persone che cercano di far tesoro delle proprie doti, le coltivano, per migliorarsi (meglio che non usi il termine “elevarsi”…) e offrirle agli altri. Possiamo chiamarli “spirituali”, anche se potrebbero esserci altri cento modi.

        E ci sono quelli che si accontentano di strisciare: si aggrappano a un’ideologia ma anche a una religione, ovviamente), si creano un modello di solito negativo; al quale vorrebbero assomigliare, visto che preferiscono far conto sui propri limiti, piuttosto che sulle loro capacità. Possiamo chiamarli “ordinari”, anche se questo termine non è forse così negativo, come meriterebbero.

        Ci piacerebbe che fossimo tutti uguali? Sì, in teoria è possibile: ma la libertà di scelta (o il libero arbitrio, se preferite), se ne frega della teoria.

        Quanto a come Luisi definisce il poeta, beh, anche a me fa passare la voglia di scrivere… Vorrei dire che il vero poeta fa magari con le parole anche ciò che scrive lui; oserei anzi dire, che dovrebbe saperlo fare. Ma non certo in maniera così autoreferenziale e fine a se stessa, vivaddio…

        Sì, in tempi antichi la figura del sacerdote, del poeta (e quella del medico) coincidevano: ma non nel modo che farebbe presagire lui, per fortuna.

        1. Chi sono i “coltivatori”? Tra di essi c’è anche chi ha cucito, chissà dove, i vestiti che lei indossa? Oppure è tra gli “striscianti”, e non fa “dono” – un dono indicato dal prezzo di copertina – delle sue doti?
          Quello che lei scrive è quasi del tutto sbagliato; così tante sono le condizioni di una vita intellettuale o di una vita subordinata, che la libera scelta dell’individuo ha un peso minuscolo rispetto a tutto il resto.
          Non la invito a far nulla, non la invito a leggere questo o quello né a andare e farsi raccontare dagli “striscianti” la loro esistenza. Può essere certo però che io sarò sempre dalla loro parte.

          1. Rispetto

            La veste sdrucita,
            il vestito quello appeso,
            sai,quello bello, della festa,
            s’indossa per degna occasione.

            Ti Leggono.

            Nessun bene nessun male
            resta poi la sera
            quando col poema fra le mani
            ripassi la sua vita
            e con le labbra di sbieco
            che sembra un sorriso
            lo metti nella tasca del vestito
            quello buono, s’intenda.

            Emilia

          2. Non ci sarebbe nulla di strano, Signor Partesana, se fra chi coltiva i propri doni ci fossero degli artigiani, come il sarto che ha preso ad esempio. Anzi è forse più facile trovarne fra di loro, che fra chi fa arte pura: i primi possono unire tramite il loro lavoro lo spirituale col materiale (cosa né semplice, né ovvia, ma fondamentale), i secondi praticano un mestiere che dà spesso alla testa, tagliando così gambe e ali.

            Il fatto che subito dopo lei qualifichi un “dono” (da me inteso nel senso di “capacità innata di realizzare qualcosa, coltivata con cura attraverso una continua applicazione”) attraverso un “prezzo di copertina” è dimostrazione della confusione di giudizio, nella quale lei si trova.

            Confusione ulteriormente dimostrata, dalla scarsa considerazione nella quale lei tiene quello che è il fattore più importante nella crescita interiore di un uomo: la libera scelta.

            Non stupisce quindi, che lei si trovi a suo agio fra “gli striscianti”, fermo restando che difficilmente potrà essere loro d’aiuto.

            Sconfortante, ma nella media della situazione in cui ci troviamo, umanamente parlando.

          3. L’esaltazione dell’umile artigiano, unita alla commozione per l’allegretto della Settima sinfonia di Beethoven, sono sempre stati i caratteri distintivi di una destra protofascista.
            Ma qui mi fermo. Non per rispetto, perché lei non mi pare abbia scritto nulla per meritarsene alcuno, ma per non sporcare ulteriormente la bella recensione dell’amico Giorgio Mannacio.

  3. …certo Eugenio Grandinetti non opera questa distinzione, lui parla della condizione umana in generale, ma anche dell’essenza dell’essere in senso ancora più esteso e giunge, sembra, alla conclusione che qualsiasi sia il percorso del pensiero, della parola, del navigante , del viandante o dell’albero l’approdo non sia quello sperato, ma il nulla…
    Un nulla, però, che è declinato in mille e mille modi diversi; il poeta sembra instancabile nel rincorrerli, nello stanarli, nel presentarli in sfumature sempre differenti e nuove, in cui, come dice Giorgio Mannacio, molti si riconoscono e quindi possono trovare motivo di conforto o di sconforto…Alla fine mi chiedo: un nulla che si colora di così tanti significati è davvero un nulla? Forse sottintende sia i limiti estremi della nostra condizione quanto il coraggio di viverla

  4. L’intervento di Emilia è ” fuori posto “. Sopratutto se riferito alle mie osservazioni che sono o cercano di essere una analisi e una de-ricostruzione di un testo altrui. In essa ho cercato – pour cause – di essere il meno valutativo possibile e non mi sono lasciato andare in elogi o stroncature. La mia intenzione – non so quanto riuscita – è stata solo quella di collocare la poesia di G. in un panorama esptressivo culturale di un certo tipo, sottolineandone – male o bene – le caratteristiche modali. Di questo minimalismo sono creditore o debitore – meglio avere crediti o debiti ? – del non essere un critico.
    Giorgio M.

  5. Sulla poesia di Grandinetti in questo sito sono, e siamo, intervenuti più volte. Ma ora l’ottima recensione di Giorgio Mannacio e alcuni commenti che ne sono seguiti mi stimolano ad aggiungere qualcosa.
    Innanzitutto «L’ultima plaquette di Eugenio Grandinetti» non è l’ultima. O, per meglio dire, è l’ultima pubblicata a stampa, ma già circolata in un ristretto gruppo di amici (in circa venti copie in totale), fin dal 1994. Riprendendo in mano quella prima “edizione” (composta al pc, stampata con una stampantina ad aghi e artigianalmente rilegata da Eugenio che aveva – e forse ha ancora – il gusto del lavoro manuale e della rilegatura), di cui l’autore mi fece dono il 28 settembre 1994 con una affettuosa dedica, constato tre cose: 1) nel 1994 la raccolta comprendeva circa 25 poesie in più, ora eliminate dalla nuova edizione, nella quale ci sono in compenso tre nuove poesie non comprese in quella vecchia; 2) i testi pubblicati presentano pochissime variazioni e/o correzioni, perlopiù formali e poco significative, sebbene migliorative; 3) Mannacio ha ragione nel dire «che la poesia di Grandinetti è astorica e che le vicende umane si iscrivono totalmente o quasi nel ciclo naturale e cosmico»; e io aggiungo che è anche indifferente a quella storia minore che è la cronologia, per cui il fatto che la raccolta risalga al 1994 o prima non ha importanza, perché la poesia adulta di Grandinetti (quella precedente, ha affermato più volte Eugenio, è stata distrutta o perduta) si mantiene costante, per stile e contenuti, lungo gli ormai 46 anni e le oltre quaranta raccolte, fra pubblicate e inedite, di attività.
    Stile e contenuti costanti, ma offerti in una lunga serie di variazioni, in cui tutti i temi (il bosco, il fiume, la natura in generale, come il mondo della storia umana, dei miti e leggende ecc.) sono riportati, e di fatto sono metafore, di poche affermazioni essenziali: tutto è natura, viva di una sua vita estranea al mondo degli uomini, i quali sono spinti dalla natura stessa a riprodursi e, per farlo, anche a crearsi illusioni di molteplici tipi destinate però al nulla, perché nell’arco del tempo la vita di un uomo, con tutti i suoi moti interiori, sentimenti e idee, finisce come quella di un insetto o di una pianta. In questa mera funzione riproduttiva, a cui ogni altro aspetto del mondo umano è subordinato, gli individui sostanzialmente si trovano in condizione di isolamento, perché la stessa comunicazione è una illusione.
    Inoltre, in questo mondo di illusioni e inganni che è la storia umana, non esiste nemmeno una parvenza di pace, di tranquillità, di giustizia. Il cannibalismo della natura si estende al mondo dei sogni umani e gli uomini sono in lotta fra loro, tutti comunque ingannati nelle loro passioni e, vincenti o perdenti, destinati a finire ugualmente nello stesso nulla. Per cui anche il desiderio di pace e giustizia si risolve in una illusione dentro l’illusione, in un inganno dentro l’inganno. Tuttavia Grandinetti, da anarchico non violento, persegue nella sua vita privata questo ideale di pace e giustizia e, nella sua poesia civile e politica, sembra provvisoriamente uscire dal ciclo ripetitivo della natura per esporre il suo pensiero, la sua rabbia, la sua critica, pur consapevole che anche se tutti diventassero uomini miti e giusti questo beneficio sarebbe solo di consolazione provvisoria e a sua volta, come tutte le consolazioni (religione, filosofia, credenze nell’immortalità ecc.), sarebbe un inganno che non muterebbe la tragicità del destino umano.
    Nella poesia di Grandinetti si ritrova sicuramente, come ora annota anche Mannacio, «una visione per così dire rigorosamente classica cui è coerente il modulo espressivo utilizzato». In particolare, dal punto di vista ideologico (o filosofico, se si vuole considerare un campo più ristretto), il classicismo di Grandinetti risente della poesia e del pensiero di Lucrezio e di tutto il filone di pensiero, precedente e successivo, materialistico (per cui sono pertinenti anche i richiami a Leopardi e Montale, fatte le dovute distinzioni, perché il materialismo e il senso tragico della vita si presentano con molte variabili). Ma sarebbe pertinente anche il richiamo a Omero e alla prima poesia greca, come ai testi più antichi di altre aree culturali, a partire dalla stessa Bibbia. In Omero e nella Bibbia (almeno nei testi più antichi), infatti, non esiste ancora la divisione fra anima immortale e corpo. Il corpo è l’io, il corpo è nel mondo, il corpo diventa cadavere quando il “soffio vitale”, il respiro, cessa. Ma il “soffio vitale” finisce lì, non è immortale. Solo secoli dopo, in particolare con Platone, si elaborerà il concetto di “psiche” come “anima” immortale. In Omero non c’è l’immortalità, ma solo un riferimento all’ade e ai defunti trasformati in inconsistenti ombre, che non ha lo spessore di una credenza religiosa o filosofica, ma piuttosto quello di una metafora della condizione umana nell’aldilà (come del resto gran parte dell’Olimpo della mitologia è una rappresentazione allegorica e metaforica delle facoltà e tendenze umane, ognuna impersonificata in un dio o una dea).
    Tuttavia, a proposito di Grandinetti, va aggiunto ed esplicitato quello che Mannacio ricorda: «la cultura, almeno così penso, non è moda e vive all’interno di ciascuno di noi come identità indelebile». Pertanto, nonostante il richiamo al classicismo e al materialismo antico, Grandinetti è un uomo di oggi e la sua cultura e identità è segnata da secoli di filosofie e religioni avverse al materialismo. Quindi, non può tornare semplicemente al materialismo antico, ma, che ne sia o no pienamente consapevole, il suo materialismo contiene al suo interno anche elementi non materialistici, se non altro nella forma del rifiuto e in quella della tensione e del tormento, cioè nel vivere esistenzialmente il dramma del destino umana come, appunto, dramma, e non con la serenità “naturalistica” di Omero o di Lucrezio. Ciò che Grandinetti non accetta, o accetta solo come dato irremovibile, è la mancanza di salvezza. Nel suo materialismo s’infiltra il problema della salvezza e la disperazione di non trovarla.
    Mayoor accenna ai mistici che «non hanno e non offrono speranze: sono materialisti». In effetti esistono dei materialisti con tendenza mistica (Epicuro, per certi aspetti, lo era, come lo erano i cosiddetti “atei virtuosi” del filone libertino dei Sei e Settecento). Ed esistono dei mistici «materialisti», ma di un materialismo in cui materia e spirito si identificano in una sorta di «materialismo spirituale», dove l’individuo non muore nello stesso senso del «materialismo materialista» (mi si perdoni il gioco di parole), ma ritorna alla spiritualità del tutto, perdendo l’individualità dell’io che è concepita negativamente, come elemento di distacco, di divisione, di inganno e di guerra. È un po’ la concezione antica, presente in molte aree culturali, dell’anima come scintilla divina, in quanto tale immortale, la quale però, riunendosi alla divinità una volta liberata dalla gabbia corporea, perde la propria individualità di scintilla divisa dalla divinità da cui ha origine. Anche in questo caso l’io è visto come elemento negativo e il mistico aspira alla sua morte, perché la salvezza sta nella riunificazione con la divinità.
    Tuttavia la concezione prevalente nella nostra cultura, almeno da san Paolo a oggi, quando si parla di anima e di immortalità, è l’idea dell’immortalità dell’io individuale, con tutto il suo bagaglio di vissuto al quale siamo affezionati. E nemmeno solo di immortalità dell’anima, ma di “resurrezione” dei corpi, conservandosi qui un residuo dell’antica concezione di identità fra corpo e io. Nello stesso cristianesimo, sia pure con oscillazioni teologiche anche notevoli, sostanzialmente si concepisce l’anima (del defunto) immortale, ma come dormiente nell’attesa di riunirsi con il proprio corpo il giorno della resurrezione di questo. Perché la vita è completa solo nell’unità di corpo e anima.
    La lunga elaborazione del concetto di “psiche” ha portato, da Schopenhauer a Freud, all’analisi dell’io e alla distinzione di tre soggettività: la prima è quella naturalistica, per cui il corpo e l’io sono la sede degli impulsi di aggressività e di erotismo (e di morte) che servono allo svolgimento della funzione propria della natura, cioè dell’individuo come “funzionario della riproduzione”. Questo io (Es freudiano), se potesse, si dedicherebbe volentieri interamente al piacere, senza nessuna remora morale, così come una pianta che invade il terreno di un’altra soffocandola non ha assolutamente problemi morali a cui pensare. Questa prima soggettività vive nel presente e ignora il passato e il futuro. La seconda soggettività (l’Io freudiano) è l’elemento di equilibrio e di rapporto con la realtà, è una struttura organizzata, consapevole, che gestisce l’intera vita dell’individuo (salvo, ovviamente, gli “scarti” che restano nelle profondità sconosciute della psiche). Se il primo è l’io della natura, questo secondo è l’io personale dell’individuo. La terza soggettività è l’io sociale (il super-io freudiano), l’io che, nelle relazioni con il mondo, fa proprie le regole e le “censure” necessarie alla convivenza.
    Ebbene, per tornare a Grandinetti, egli sembra convinto che l’unica vera e propria soggettività sia quella naturalistica e che l’unica finalità degli individui (uomini, farfalle, lombrichi, piante ecc.) sia quella di servire alle funzioni riproduttive volute (non si sa il perché) dalla natura. Da questo punto di vista ogni individuo non è una realtà che ha un valore in sé, ma una realtà perfettamente fungibile. Nella prima poesia della raccolta «Nel bosco ed oltre» (p. 7) questo concetto è già annunciato. Possiamo distruggere la ragnatela e schiacciare il ragno, ma ciò non cambia nulla, perché dopo poco tempo ci sarà una nuova ragnatela e un nuovo ragno che noi non sapremo distinguere dal precedente. E come noi non distinguiamo un ragno dall’altro, così gli altri viventi, ad esempio una pianta che vive molti secoli, non distinguerà un uomo dall’altro (p. 8), perché nella loro successione saranno indistinguibili.
    Tuttavia l’io individuale e l’io sociale (seconda e terza soggettività) non vivono appiattiti sull’io naturalistico, ma vivono nel mondo e costruiscono rappresentazioni del mondo e di se stessi, fino alle più astratte ed estreme idee della filosofia, della religione, della scienza. Quell’io unitario che noi identifichiamo con noi stessi, con la sostanza più intima e vera di noi stessi, sentendolo come il “Sé” per eccellenza, pur subendo la natura, si sente in qualche modo superiore ad essa e capace di fare progetti che superano il ciclo naturalistico. L’io si sottrae così alla natura e diventa un mondo suo proprio, fino a concepirsi come immortale.
    Utilizzando gli stessi elementi di questa analisi che, sia pure con varianti significative, è sostanzialmente comune a diverse correnti psicoanalitiche e filosofiche degli ultimi due secoli, possiamo aggiungere che da un lato questa analisi è “scientifica”, in quanto analizza (o crede di analizzare) l’Io non come proprio Io, ma come oggetto del proprio Io, dividendosi fra l’Io che osserva e l’Io che è osservato. Infatti, senza oggetto da osservare e analizzare, non vi sarebbe scienza. D’altro lato è però essa stessa una di quelle costruzioni e rappresentazioni del mondo prodotte dall’Io nelle sue strategie di (reale o presunto) controllo e superamento della natura.
    Qualunque sia il valore delle rappresentazioni dell’Io, sono queste rappresentazioni a dare valore a se stesse e quindi all’Io e alla vita e al cosmo in generale. Insomma, il “senso della vita” non deriva dalla realtà del cosmo, per noi, da questo punto di vista, inconoscibile, ma deriva dalla rappresentazione che noi ci facciamo della realtà, o che comunque assumiamo come nostra, magari solo aderendo, per fede, a una rappresentazione costruita da altri.
    Non esistono (Mayoor) «persone ordinarie non interessate alla spiritualità», ma semmai delle persone che, per cultura, esperienza e stile di vita, aderiscono in modo più semplice ed esteriore a una determinata rappresentazione del mondo, mentre altre, culturalmente più sofisticate, percorrono strade più complesse.
    E tantomeno (Annamaria Locatelli) esiste il «nulla». Infatti, come ci insegnano tanti filosofi da Parmenide a Emanuele Severino, ma anche il comune senso logico, se il “nulla” esiste, allora non è il nulla ma è qualcosa. Se non è qualcosa, allora non esiste. Anche in termini fisici il nulla non esiste, salvo che non lo si confonda con il vuoto, che in realtà non è mai vuoto, perché, come minimo, contiene spazio e tempo.
    La spiritualità, l’essere, il nulla e tante nozioni di filosofia hanno significato solo all’interno delle nostre rappresentazioni, e cambiando queste cambiano i termini e il loro significato. Hanno poi significato, per un effetto di analogia, anche in quell’esterno che noi ci rappresentiamo come realtà distinta rispetto alle rappresentazioni che concepiamo come puramente soggettive. Ma il modo, poi, di vedere quella realtà esterna è ugualmente frutto delle nostre rappresentazioni, perché la realtà “in sé” non riusciamo a conoscerla, né possiamo sapere, andando oltre Kant, se esiste una realtà “in sé” diversa e distinta dalle nostre rappresentazioni.
    In conclusione il materialismo, come lo spiritualismo, il concepire la vita come dotata di senso o priva di senso, sono nostre rappresentazioni. Lo stesso uscire dal solipsismo (metafisico e/o metodologico) dell’Io altro non è, in fondo, che una nostra rappresentazione. In termini rigorosi noi non possiamo, se non con un atto di fede, affermare che esiste una realtà diversa e distinta da questa realtà che si sta ponendo la domanda se esista una realtà diversa da sé.
    Con ciò voglio dire (lasciando perdere tutte le altre implicazioni) che il fatto che Grandinetti creda che tutte le rappresentazioni dell’Io siano inganni e illusioni, altro non è che una rappresentazione del suo Io, e non la cruda e tragica realtà del destino umano. Sul destino umano, come su quello del più effimero animale o filo d’erba, come sulla pretesa indifferenza della natura nel suo inesorabile ciclo di nascite e morti, noi non sappiamo nulla che non sia stato costruito da noi stessi.
    La domanda allora diventa: perché Grandinetti (come altri) anziché rappresentarsi il mondo e la vita come dotati di senso (e di salvezza e di profondità escatologica), se lo rappresentano come privo di senso? E la risposta, ovviamente, è da rintracciare nel vissuto di Grandinetti, nella sua autobiografia, in ciò che di essa sappiamo e nel molto che non sappiamo, nascosto nel suo intimo essere.
    Altre volte ho comunque accennato a delle ipotesi, che qui non voglio ripetere. Mannacio però coglie un elemento già da me sottolineato. Dice infatti che «C’è poco spazio – in questo universo [di Grandinetti] – per una poesia che cerchi, più o meno felicemente, la compagnia di altri. Rari – mi sembrano – i “tu“». Il molto che non sappiamo, e di cui, forse, nemmeno Grandinetti è consapevole, sebbene nascosto, emerge a gocce, né potrebbe essere diversamente, dalla sua poesia. Nella quale cogliamo questa paradossale contraddizione: egli parla di una vita senza senso, ma, parlandone, dà un senso alla vita che ne parla e costruisce il parlarne come senso. La poesia diventa il senso della vita, magari sostitutivo di altri significati e sensi che potrebbero essere, o apparire, più soddisfacenti in termini di strategie vitali o anche solo di consolazione.
    Dell’autobiografia, poi, nei libri di Grandinetti, emergono anche frammenti più identificabili, come, in questa raccolta, nella «Breve premessa» dove si giustifica il fatto che il libro non sia dedicato al padre, ma con la raffinata modalità retorica di dedicarlo al padre nell’atto stesso di negarlo. Glielo avrebbe dedicato, scrive, se il padre «non fosse stato un uomo modesto quanto era mite e sempre pronto a dare tutto se stesso e a non chiedere mai niente per sé»; nel padre, che lo ha guidato ad amare e conoscere la natura e ad addentrarsi nel bosco e oltre, ma che ora «non c’è più se non come dolorosa assenza», Grandinetti identifica se stesso. E l’assenza del padre diventa l’assenza di sé a se stesso, tanto che, scrive: «io non so più trovare i fiori belli e gli alberi maestosi, e il bosco per me non è più altro se non una metafora della vita, con le sue crudezze, con le sue dissonanze e con le sue dissolvenze».
    Il non saper più «trovare i fiori belli» si può interpretare come il non saper più trovare il senso della vita e del cosmo. Che una volta, nella sua infanzia e giovinezza, avevano un senso, poi perduto. Il trauma che fa passare il poeta dal senso al non senso della vita non è un trauma di natura filosofica, ma un più reale trauma di natura esistenziale, di cui la perdita del padre è un elemento importantissimo, ma non il solo. Pertanto nella sua poesia, parlando del non senso della vita e del mondo, in realtà parla del senso che ha perduto, del vuoto esistenziale che ne ha preso il posto, della natura che da benigna è diventata matrigna e del mondo degli uomini che è precipitato in tutto ciò che è l’opposto dell’ideale del padre, e suo: opposto alla modestia e alla mitezza e alla generosità di «dare tutto se stesso» senza «chiedere mai niente per sé».
    Il trauma, e non poteva essere diversamente (non il fatto in sé, ma il viverlo come trauma), ha fermato la storia e ha tolto importanza alla cronologia del proprio vissuto. Da quel lontano trauma è nata la poesia “adulta”, cioè il racconto stesso, per metafore, allegorie e allusioni e raramente per riferimenti diretti, del trauma che ha vissuto e che continua a vivere. Trasportato così fuori dalla storia, nella sua poesia non c’è più stato posto per il “tu”, per le relazioni, per la comunicazione comprensibile. E la poesia stessa è diventata, come la ciclicità della natura, una ripetizione di se stessa, con lo stesso stile e con gli stessi temi, ma, proprio come la natura, una ripetitività che muore e rinasce in individui analoghi ma mai completamente identici, in una serie di variazioni che sono poi la ricchezza della poesia di Eugenio.
    In termini psicoanalitici forse si potrebbe dire che Grandinetti vive schiacciato nel passato. Il suo futuro non è dato da un progetto, ma da una rievocazione continua del passato. Il suo passato, insomma, è diventato il suo presente e il suo futuro. E ciò che non appartiene al suo passato, al passato del tempo felice, è diventato trascurabile, come il rapporto con quei “tu” che ha conosciuto dopo il trauma. Ma anche qui c’è, per fortuna, una contraddizione. Quei “tu”, infatti, sono presenti e necessari, sia nella forma delle relazioni parentali come in quelle dell’amicizia e infine in quelle con i suoi lettori ed estimatori. Non ne parla mai nelle sue poesie, ma ci sono, e determinano poi la volontà stessa di scrivere poesie. Altrimenti perché scriverle? Se le scrivesse solo per sé, solo per il proprio interiore, non le pubblicherebbe.
    Ecco dunque che la poesia è diventata il suo progetto, il suo futuro, la sua rappresentazione del senso della vita e del mondo, il suo mezzo di comunicazione (nonostante le ripetute affermazioni dell’incapacità della parola a comunicare veramente e a fare uscire ognuno dal proprio isolamento). La poesia, infine, è diventata quella salvezza negata in termini filosofici e religiosi.
    Non vive la poesia «come un bene sommo» [Luisi citato da Ennio Abate] né come «sporca religione dei poeti» [Fortini citato da Ennio Abate], perché sarebbe troppo in contraddizione con il carattere della sua poesia e di se stesso, purtuttavia la poesia è il suo progetto e la sua esistenza. E se la poesia ha un valore, almeno marginale e al confine con il vero nulla (che non è il nulla, ma l’annientamento del sé), di strategia e di consolazione possiamo parlare anche della poesia di Grandinetti. Strategia e quindi progetto e significato, consolazione e quindi utilità e relazione e, dunque, di nuovo, significato della e nella vita.

  6. Ho letto altre poesie di Eugenio Grandinetti. Mi hanno sempre catturato per la loro musicalità dissimulata, apparentemente pacata, classica. Anche questo campione offerto in lettura da Giorgio Mannacio mi intriga. Un solo esempio: la prima poesia.
    L’attacco (“E questi alberi”) con la congiunzione all’inizio dà l’impressione della continuazione di un discorso interiore. Subito dopo, il secondo verso, fino alla cesura interna, si presenta come un’esclamazione trattenuta (“come mi rattristano”); successivamente si mostra la ragione di quel rattristarsi dell’Io poetante (“ora che non sono / più solo alberi ma sono vite”). La tristezza, quindi, nasce dal personificare gli alberi, dal percepirli non come altro da sé, ma dal cogliere un tratto comune, astratto: il loro essere “vite / come la mia vita”. Si tratta ovviamente di vite vegetative. Vite “che erano / speranze di raggiungere il cielo”. È una metafora, d’accordo. Ma sappiamo che gli alberi non nutrono simili “speranze”. A nutrirle, invece, è stata probabilmente l’altra vita, quella dell’Io poetante. Il cielo non è stato raggiunto ed ora “sono inerzia d’un’inutile / sopravvivenza” caratterizzata dal “ripetersi” del ciclo stagionale. È rito di “nessuna religione”, “sacrificio a nessun dio”.
    Versi indubbiamente irregolari, ma che tendono abbastanza a regolarizzarsi se si presta attenzione alle cesure interne. Al di là, comunque, della metrica il tessuto musicale di questi versi è assicurato dall’anafora che, in accordo col contenuto, quasi s’impone come figura del ritmo: la parola “alberi” è ripetuta al primo e terzo verso; la parola “come” al secondo e al quarto; la parola “sono” al secondo e al terzo; la parola “ora” al secondo e al sesto; poi c’è “nessuna” e “nessun” al penultimo e ultimo verso. Abbiamo delle paranomasie: “sono” ”solo”; “vite” “vita”. Diverse allitterazioni: “queSTI”, “rattrISTano”, “MI”, “Mia”, “sperANZE, “sopravvivENZA”, “inuTILE”, “abitudInE”, “stagioni”, “religione”, “rito” “dio”. Adddirittura una rima interna: “rattristano” / “erano”.
    Una bella musica, direi. Per tutto il resto sono d’accordo con Giorgio Mannacio e Luciano Aguzzi.

  7. Trovo il commento di Luciano Aguzzi appassionato, documentato, ma in parte debordante ( ha le dimensioni del saggio ma per tre quarti è un excursus su tutta la storia della filosofia dagli antichi al Novecento che in po’ divaga). Capisco che vuol render conto dell’ humus filosofico materialistico delle poesie di Grandinetti. Eppure ho l’impressione che, con molte acrobazie per conciliare materialismo e spiritualismo, tende in sostanza a “correggerlo”, a relativizzarlo a ritenerlo impossibile oggi, perché « nonostante il richiamo al classicismo e al materialismo antico, Grandinetti è un uomo di oggi e la sua cultura e identità è segnata da secoli di filosofie e religioni avverse al materialismo». Da una parte ricorrendo a Schopenauer: «Con ciò voglio dire (lasciando perdere tutte le altre implicazioni) che il fatto che Grandinetti creda che tutte le rappresentazioni dell’Io siano inganni e illusioni, altro non è che una rappresentazione del suo Io, e non la cruda e tragica realtà del destino umano ». Dall’altra a Freud accennando a una interpretazione psicanalitica della poesia di Grandinetti: «Che una volta, nella sua infanzia e giovinezza, avevano un senso, poi perduto. Il trauma che fa passare il poeta dal senso al non senso della vita non è un trauma di natura filosofica, ma un più reale trauma di natura esistenziale, di cui la perdita del padre è un elemento importantissimo, ma non il solo»). Non è che queste letture vadano escluse e non considerate con attenzione. Quello che però non convince è la forzatura in senso ottimistico e sotto sotto “salvifico” della conclusione: « Ecco dunque che la poesia è diventata il suo progetto, il suo futuro, la sua rappresentazione del senso della vita e del mondo, il suo mezzo di comunicazione (nonostante le ripetute affermazioni dell’incapacità della parola a comunicare veramente e a fare uscire ognuno dal proprio isolamento). La poesia, infine, è diventata quella salvezza negata in termini filosofici e religiosi». Insomma, la “salvezza” ci dev’essere per forza. Anche quando siamo di fronte ad una poesia che dice a muso duro: tutto è illusione, non c’è nulla da fare, ecc., in qualche modo essa “salva”, è un rimedio, una consolazione, può – per la gioia di Emilia – renderci comunque Grandi. E se non fosse affatto così?

    1. 1) Debordante sì, certo. È un mio vizio cercare anche il dettaglio, e così le pagine si allungano troppo.
      2) Il materialismo, oggi, è possibile, ma sarà per forza un materialismo diverso da quello del Settecento e da quello democriteo antico. Perché il materialismo, comunque, è una credenza culturale, non un fatto oggettivo, non un fatto della natura. Esattamente come lo spiritualismo. In quanto a me, alla mia filosofia, non mi ritengo né materialista né spiritualista, perché queste concezioni appartengono a una logica filosofica ancora ancorata a un dualismo che ritengo del tutto errato.
      3) Sono certamente più ottimista di Grandinetti e non credo che la vita sia tutto un inganno, né a livello biologico-naturalistico, né a livello storico-sociale. Del pessimismo, come dell’ottimismo, però, credo che si possano rintracciare le radici filosofiche, le quali hanno a loro volta radici autobiografiche. Vale per Platone come per Hegel e come per Marx e per tutti. Altrimenti non si spiegherebbe l’estrema variabilità dei punti di vista. Tuttavia anche l’autobiografia mutua gran parte dei suoi contenuti dall’autobiografia sociale di un popolo, e questa dall’autobiografia sociale e storica dell’intera vicenda umana. Per cui, nella variabilità, si riscontrano anche delle costanti che rendono possibile il dialogo e l’intesa, fino a un certo punto, almeno.
      4) Non è che la salvezza ci dev’essere per forza, semplicemente c’è, fa parte del nostro essere, coincide con il senso che diamo alla vita, sia quello consapevole sia quello, o quelli, inconsapevoli. Altrimenti il comportamento più umano sarebbe il suicidio. Se ciò non accade è perché, nonostante tutto quello che possiamo dire e che a volte qualcuno dice, la vita in qualche modo ci piace e ha senso. La comunicazione ha senso, la poesia ha senso, e ciò che ha senso e che ci muove a fare qualcosa ha sempre anche, non solo ma anche, un significato consolatorio. Il consolare se stessi, il dare a se stessi supporto morale, che altro è se non dare senso alla propria vita? Il senso sostiene, ciò che sostiene dà senso. Pertanto la poesia, necessariamente, a mio parere, come qualsiasi altra attività, dà senso e sostegno, perché oggettiva il mondo interiore, lo comunica, lo rende significativo ai propri occhi e agli altrui. Più in generale l’attività in cui le persone esplicano se stesse combatte l’alienazione di sé per il mondo, ma anche l’alienazione del mondo per sé.
      5) Uno scrittore può anche decidere, o farlo senza decidere perché gli sembra l’unica strada percorribile, di affermare scrivendo che nulla ha senso, ma facendolo smentisce se stesso. Se non ha senso, perché farlo? Se non ha senso vivere, perché vivere?
      6) Ma, ovviamente, non sono i contenuti, condivisibili o meno, importanti o meno, culturalmente ricchi o meno, a fare la poesia, ma il fatto di esprimerli in forme e con strumenti propri della poesia e farlo con originalità ed efficacia. Da questo punto di vista potremmo dire che non ci interessa se il poeta è materialista o spiritualista, ma solo se è effettivamente un buon poeta. Però la poesia ci coinvolge non solo emotivamente ma anche intellettualmente e allora cerchiamo di capire tutto ciò che è possibile capire: le strutture formali, l’uso della lingua e della metrica, il mondo ideologico, quello dei sentimenti e affetti e l’autobiografia che sta alla base di tutto (quella individuale, quella sociale, quella storica di più lunga durata).
      7) Questa esplorazione ci permetterà, poi, di leggere e rileggere la poesia con maggiore coinvolgimento e capacità di penetrazione e di risolvere, o almeno ipotizzare una soluzione, anche per l’elemento “giallo” implicito in ogni poesia, costituito dallo scarto, spesso enorme, fra ciò che il poeta dice e ciò che non dice ma che è necessario per capire ciò che dice.

      1. Complessivamente d’accordo con lei, specie al punto 4.

        Per il problema della prolissità (che riguarda ogni tanto qualche commento), forse sarebbe utile – da parte dell’autore – suddividere il commento in questione in un paio di parti, quando si pensa di correre questo rischio.

  8. Un caro, poetico saluto e un vivo augurio a Eugenio Grandinetti.

    NON TI ILLUSERO I BOSCHI
    (A Eugenio Grandinetti)

    Non t’illusero i boschi di Belsito
    che, a un tempo miti e violenti, sapevano
    tra le sterpaglie e il sentiero smarrito

    perché due cuori congiunti tacevano
    quell’accordo abissale e doloroso
    che il figliopadre e il figlio intravedevano

    lungo il cerchio ontologico a ritroso.
    Fu poi la scuola bella di Telesio,
    a Cosenza, a chiarire l’ingegnoso,

    fine artificio, contro ogni vanesio
    immaginare il mondo,
    che natura ripete
    – non sempre eguale! -, sicché furibondo
    fa chi col dogma vuol spenta ogni sete.
    Ma tu anarchico mite
    ai sordomuti un bel meteorite
    accendi di parole
    non udite sotto il sole,
    per un sorriso forse mai più spento
    “come fumo nell’aria senza vento”.

  9. Per E. Partesana: è bello trovare ogni tanto qualcuno che comprende i miei pensieri così profondamente. Non si finisce mai di conoscerci.

    E qui chiudo anch’io, perché una discussione a questo livello è semplicemente autolesionistica a livello di spreco di energie.

    P.S. – Mai piaciuta, in toto, la Settima di Beethoven…

  10. qualche osservazione a proposito dei commenti fin qui pubblicati:innanzi tutto io non mi reputo un poeta,ma solo solo uno che cerca di comunicare ad altri alcuni suoi pensieri ed alcune esperienze. naturalmente la mia preoccupazione principale è che il messaggio sia comprensibile e perciò uso un linguaggio comune,con una sintassi senza forzature e con un lessico il più possibile condiviso.lungi da me l’idea di fare il letterato di professione e di teorizzare nuovi linguaggi e nuove poetiche:solo da poco ho cominciato a pubblicare e non so nemmeno io perchè,dato che non pubblicizzo in alcun modo i miei libercoli e che non insisto con i miei amici perchè li comprino.il risultato è che le uniche copie vendute sono quelle che acquisto io per darle ad amici e parenti. e soprattutto non sono un filosofo, nel senso che non teorizzo sistemi di pensiero ma solo mi limito ad osservare la realtà in cui vivo che è fatta di persone di animali, di cose,di società,di branchi,di boschi che nascono,decadono,e muoiono tornando materia informe per costituire altre vite:è una visione pessimistica? può darsi,però non ho mai trovato nessuno che mi abbia saputo dimostrare che quel che penso è sbagliato. nè penso che per essere coerente io mi debba suicidare:vivo consapevolmente la mia vita cercando se possibile di esser utile alla società in cui vivo.sono lontano da tante elucubrazioni letterarie e/o filosofiche da mestieranti della letteratura e della filosofia. gradirei delle osservazioni sui miei pensieri meno passate attraverso il filtro della letteratura e della filosofia.

  11. Ringrazio E. Grandinetti per le sue poesie (validamente accompagnate dai contributi di G. Mannacio), ma soprattutto per il suo intervento del 18.03.16, h. 8.35, in cui si apre al lettore. Vi ho percepito la dolente condizione di un modo diverso di essere dentro la natura dell’‘uomo’, una modalità che si sforza di essere priva di orpelli o di sovrastrutture di qualsiasi genere.
    Tutto ciò è come se fosse stato riassunto e rappresentato in questi suoi versi:

    *Non volere e non chiedere alla vita
    nessun rapporto, solamente porsi
    come messaggio per chi voglia coglierlo
    e restare insensibile e passare
    come raggio di sole che non bagni
    l’acqua che sfiora, e non oscuri il buio
    che attraversa.*

    dove presenza ed estraneità fanno un amalgama difficile a capirsi/differenziarsi. Sono versi ‘duri’, affascinanti e ‘tremendi’ nella loro pacata schiettezza. Come coglie G. Mannacio nel suo commento, *Grandinetti sembra dire: così è, e non facciamo, per carità, intorno al nucleo essenziale, alcun giro di parole*.
    Forse per questa ragione è difficile fornire, come lui desidererebbe, *delle osservazioni sui miei pensieri meno passate attraverso il filtro della letteratura e della filosofia*. Eppure, ricorrere a quei filtri ci serve a dare un senso alla nostra esperienza anche se sappiamo che seguire queste procedure, o, piuttosto, crederci pienamente, è un limite. Né più né meno di quando diamo un nome alle cose: in parte le limitiamo nella loro pienezza, come se un poco le facessimo morire.
    * Ma le parole che troviamo sono
    solo bolle di nulla che si disfano
    appena si avvicinano alle ciglia.* (E. Grandinetti)
    Ma è pur sempre meglio così piuttosto che affrontare in toto l’oscuro di cui esse sono portatrici.
    Invece E. Grandinetti è come se volesse forzare quei limiti che la differenza impone, mettere assieme “Odiandosi” e “Amandosi”, per *farsi senso univoco* al riparo di ogni distorsione. E’ una impresa impegnativa, come esprime in questi versi:
    *Essere
    senza confronti in un universo
    non misurabile, non avere
    attimi ed orizzonti, sentirsi
    aria e terra insieme
    e fuoco ed acqua,
    indiscreti, continui e senza limiti*.

    Eppure, nonostante tutto, E. Grandinetti non desiste.
    Quella semplice battuta *vivo consapevolmente la mia vita cercando se possibile di esser utile alla società in cui vivo* non è poi così semplice. Perché comporta una consapevolezza non da poco nel gestire le conflittualità che pur ne vengono implicate. Infatti, scrive:
    *E troviamo alle volte insostenibile
    lo sforzo di procedere opponendosi
    a tutte le onde,
    mentre dall’altra parte pare inutile
    peso la vita che si lascia andare
    quasi inerte, in balia della corrente.
    Ma alla fine si giunge: ci si sdraia
    sulla sabbia, a riposare,
    senza pensare a niente*.

    Conflittualità che però rinviano ad una modalità particolare, una specie di mostrarsi per sottrarsi in un inesausto e insopprimibile confronto ‘troppo grande’/’troppo piccolo’.

    *Pensiamo qualche volta alle galassie
    ma solo come a iperboli o metafore
    di questo mondo angusto entro cui passa
    la vicenda minuscola e infinita
    di quella che è la nostra vita*.
    …….
    *E quanto è fuori dallo sguardo resta.*

    R.S.

  12. Chiedo scusa per il ritardo col quale rispondo a Grandinetti (mi ha assorbito il dibattito su “Naissance”), ma sono sempre sorpreso da commenti come alcuni di quelli che fa: soprattutto quando dice “non mi reputo un poeta, ecc.”. Alla qual cosa verrebbe da rispondere: ma allora perché scrivi (o tenti di scrivere) in poesia?

    Perché, se si cerca un linguaggio colloquiale, semplice e il più comprensibile possibile a tutti, non è che la poesia sia il massimo: che ci si rivolga a tutti è il minimo che ci si debba aspettare da qualsiasi artistico, ma che tutti lo capiscano non è affatto garantito: specie di fronte a quei molti che non vogliono capire; riguardo ai quali, nemmeno urlando loro con un megafono nelle orecchie, si otterrebbe qualcosa.

    Ma il vero punto – partendo sempre da quanto scritto da Eugenio Enrico – è che nei suoi testi di poesia ce n’è. Si potrà discuterne sull’altezza e altre questioni tecnico-estetiche, ma c’è e non sembra davvero che ciò accada per caso.

    Così che alla fine dispiace (almeno a me) questa affermazione: quasi una vergogna (e va be’ che siamo in Italia, cioè con un popolo che per la maggior parte considera la cultura un qualcosa di molto fastidioso), quasi un disistimarsi.

    Anche sul discorso delle vendite, stia tranquillo, lei è nella norma: in 25 anni di attività a livello professionale, i libri che ho regalato o scambiato sono infinitamente molti ma molti di più, di quanti effettivamente venduti. Torniamo al ragionamento espresso fra parentesi nel periodo poco sopra.

    E la sua visione delle cose – infine – non è pessimistica: è assolutamente reale e obiettiva: quindi un ottimo punto di partenza per fare poesia; ed essere poeta, se non le dispiace.

    1. grazie per l’intervento. perchè scrivo? perchè sono un timido e raramente trovo il coraggio di dire la mia.quanto al fatto che i miei libri non si vendono non lo dicevo per lamentarmene (la poesia oggi non ha tanti lettori e d’altra parte per vendere un libro bisogna esser prima noto per altre circostanze) ma solo per mettere in luce l’incongruenza di pubblicare e non far niente per diffondere:sarà una’altra delle manifestazioni della mia scarsa attitudine alla vita sociale? e pensare che invece come insegnate ero piuttosto aperto e magari anche un pò logorroico:

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