Trapassato prossimo

specchio-riflesso-magritte per Mannacio

di Ezio Partesana

“Gli anni, i luoghi, i pensieri” di Giorgio Mannacio

Se una poesia interessa solo chi l’ha scritta è una brutta poesia. Non importa quanto ci si dànni l’anima a cercare una giusta causa, umana, sperimentale, lirica semmai o semplicemente di buona volontà; senza quel piccolo miracolo che fa d’una poesia una esperienza una volta per tutte, è inutile leggere. E scrivere, naturalmente.
Nella moltitudine che va a capo ogni quattro parole – o tre o due – e dà forma all’esistenza sorretta dal sentimento, e che è convinta che una cosa tanto importante come la poesia non possa essere strapazzata sino a che non ne rimanga più nulla, ma non è disposta alla fatica dello studio né vuole sentir dire alcunché di tecnica, pazienza o misura, scompare qualunque universale e i versi diventano vetrina di quel che non si ha da dire, non si sa né si vuol capire.
Dell’ultima raccolta di Giorgio Mannacio si può dire, per contro, almeno questo: sono versi puliti; oltre quaranta poesie – divise in otto sezioni – dove non c’è sintassi, scelta lessicale o rima che non sia adoperata con mestiere e prudenza in vista del fine. Non tutti i componimenti hanno ugual valore; di fronte ad alcuni, come le “Cartoline dal fronte”, si rimane perplessi, come se fossero uno studio o una rielaborazione di tema – la Seconda guerra mondiale – che tanta parte ha avuto nella poesia italiana del secondo Novecento, ma basta leggere l’elegiaca “Murales” (Mannacio fu per molti anni Magistrato del lavoro) per rendere ragione allo sforzo ostinato di “mostrare e riflettere” che è una delle qualità della poesia di Mannacio:

Una mano febbrile ha cancellato
con calce spenta l’interrogativo,
ma sempre splende sulla città sbilenca
e i fantasmi violetti d’un corteo
enorme e piatto il sole dell’avvenire.

Il realismo, serio e non privato, di questa buona raccolta di versi è tutto qui, nel “sempre splende… enorme e piatto il sole dell’avvenire”, dove l’onesta (sì, anche nel senso inteso da Dante per Beatrice) vista del poeta non chiude gli occhi di fronte alla miseria del socialismo popolare un po’ grassoccio di certi slogan o canzoni, ma nemmeno dà per chiusa la questione che alla base di quelli stava:

Chi semina nel vento
raccoglierà fiori un giorno
sul sangue, sulla ruggine?

Non credo si tratti di pietà né di invocato onore delle armi. Piuttosto di un atteggiamento insieme moralista e riservato di Mannacio. Molte, moltissime delle poesie comprese in questa raccolta hanno un “finale” – come si diceva un tempo della morale da trovare dentro le favole dei bambini – che rassomiglia al desiderio di chi fa i conti con un passato sul quale non può più mettere mano; non rimpianto, si badi bene, ma desiderio. Con la man destra pare di leggere, si parva licet (me ne scuserà Mannacio), il Saba che descrive:

Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.

ma la sinistra imperterrita domanda che si metta all’opera quel che sarebbe potuto essere e non è stato. Non è la vicinanza a invocare tempeste, scuotimenti o vendetta, nelle poesie di Mannacio, ma piuttosto la distanza che, in uno stesso tempo, riesce a essere intima – distanza da me, dal mio ricordo – e assoluta, distanza nel tempo, memoria, distacco.
Si spiegano così e l’ironia e una certa ripetuta, a volte gradevole altre meno, voglia che prende il Mannacio d’aver sempre l’ultima parola, anche in questioni dove forse le parole, come la corda tesa di Kafka, paiono fatte apposte per inciampare:

Perché dovrebbe se d’una stella spenta
oggi soltanto arriva lo splendore?

Mentre l’immagine di una stella che brilla seppur già spenta – quante poesie si son scritte dopo aver scoperto che la velocità della luce è un costante limite invalicabile? – è un facile luogo comune, l’ironia, nei versi di questa raccolta, è così potente da poter essere estratta dal contesto e rimanere comunque efficace antidoto alla commiserazione:

di quanto è costato veramente il viaggio
che solo in cartolina
è splendido paesaggio.

O ancora, a proposito di “Tombe ed eroi”:

Le vuole accostate insieme un giardiniere asettico
che cura alla perfezione
una verde, ordinata, equanime dissoluzione.

E perfino nell’accenno politico di “Metropoli”:

Nella folla lo spingono
con dispetto e pietà: dove vai, cosa vuoi?
Non c’è più spazio, non c’è più tempo:
ce li siamo rubati
a vicenda e con esiti alterni.

Mannacio non inventa frasi. Non ci sono qui, per fortuna, invenzioni linguistiche né astrusità semantiche. Le “scale” non sono “errante indecisione profetica ortogonale”, sono scale, e la luce non “eccita smembrate e sopite oscillazioni”, illumina. Come chi ascolti una spiegazione, la storia e il come, dopo guarda alle stesse cose con modo diverso e con differente cognizione, così a leggere queste poesie ci si rifà il dizionario, per così dire, dei luoghi comuni. La “calce spenta”, “l’inganno di mille e una notte” e persino il latino dell’argutia calami (il rumore che fa il pennino quando gratta la carta), sono rivelazioni proprio perché non inventano nulla di nuovo ma tolgono la maschera, al contrario, al vecchio; sono parodia, avrebbe detto Peter Szondi, non allegoria, lasciano intatta o quasi la forma per negare il suo dominio, e non pretendono di ripetere eterne, insondabili verità sotto una veste nuova.
Le poesie de Gli anni, i luoghi, i pensieri sono quiete, non indignano, non fanno appello all’etica odierna del furore e dello sdegno. Si parla di età, certo, d’amore e di sconfitte, ma guardando il mondo al trapassato prossimo, tempo indicativo composto di quel che è già successo, di una materia sulla quale è bene ragionare ma inutile cercare di invertire il senso, e che non a caso nelle nostre vecchie grammatiche di scuola si chiamava “piucheperfetto”.
C’è una poesia, nella seconda lettera “Dietro l’immagine”, che ben rappresenta tutto questo:

Ad una gabbia vuota che è sospesa
al centro della stanza di avvicina.
Il suo passo divide in parti uguali
lo spazio, il silenzio e il suono.
Di vestiti di festa ormai spogliato
si mostra il guardaroba.
Da un desiderio ormai privo di oggetto
il suo viaggio sarà segnato.
Un declinante sole che non vede
disegna la sua apparenza.

Quali che fossero le intenzioni di Mannacio, sono convinto che il soggetto di “non vede” sia il sole, non il vecchio che passeggia per casa sua al tramonto. È dunque un sole cieco, nel senso di “indifferente” a quel che illumina, che ritaglia dal pochissimo o nullo valore della esistenza, un momento nella vita di un anziano che ha il sapore di quel che ognuno affronta negli attimi privati che stanno tra la veglia e il sonno. Nella “gabbia vuota” pure ci sarà stato qualche cosa di un certo interesse, se ancora adesso verso di lei si cammina, ma non c’è più. Resta una sorta di segnalibro, promemoria di una assenza, come il guardaroba senza “vestiti di festa”, che tuttavia Mannacio si ostina a mettere tra una pagina e l’altra. E lo fa con la straordinaria grazia di chi passa dalla metafisica del tutto agli enti del dovunque senza smarrirsi in saccenterie o invocare compassione. C’è una dialettica, insomma, tra i tanti nomi che Mannacio dà ai vecchi segni universali delle cose, “luna”, “vento”, “luce”, “acqua”, “pensiero”, e la distanza attraverso la quale parla dell’accaduto, ed è una dialettica che riforma – secondo la sua migliore espressione – tanto l’idea quanto l’esperienza.
Meno forza hanno, semmai, i versi quando la materia del loro contendere con il tempo e con i concetti è tratta da un passato altrui, come nella già citata “Cartoline dal fronte”, o nella poesia “Parole al vento”:

Forse
le ceneri di Omero
nel vento turbinoso
hanno riposo.
Forse
nel minuscolo astuccio colorato
d’una ragazza in fiore
Alessandria rivive con tutto il suo splendore.

Qui la “ceneri nel vento” e la “ragazza in fiore” sono quasi immagini comuni prese a prestito, desiderio di convalescenza, sembrerebbe, dalla fatica delle cose e dei concetti. Ma proprio dove il trapassato di Mannacio sembra più debole si mostrano meglio le armi con le quali egli ottiene dal quotidiano la confessione di una dimensione umana collettiva: il metro e la rima.
Settenari e endecasillabi sono per lo più corretti, e l’estrema variazione della lunghezza dei versi è dovuta a scelte, a me pare sapienti, d’attenzione e ritardo, dei tempi, insomma, secondo i quali si vorrebbe dire e spiegare. Ma più ancora è la rima – che da sempre fa capolino nei versi di Mannacio – a rimettere a posto le cose, per dire, a riprendere la distanza da quel che è accaduto. “Vedi, – si dice con queste rime – è un gioco. Un gioco di tanto tempo fa, del quale sono rimaste le regole ma non lo scopo, il tabellone e i punteggi del vincitore”. Secondo la prosodia italiana vocali aperte e chiuse sono considerate rime perfette, e così abbiamo le coppie: “turbinoso”, “riposo” e “fiore”, “splendore”, che riducono quasi a nulla il fastidio per le immagini banali di ceneri mortali al vento e di fanciulle in fiore.
Gli esempi potrebbero essere molteplici, ma valga pur tutte la poesia in rima baciata “La notte delle falene”:

Si spegne il giorno e il cielo rivela;
festa, farina e forca è una candela
e nel fuoco che le dà vita e la distrugge
in coda di cometa brilla e fugge.
Nell’immobile argento senza brame
d’uno specchio si adagiano le brame
di confusi pensieri e a lui rimanda
un viso chiuso e assorto, una domanda.
Estremo è il crepitio d’ali strinate;
la notte si fa serena, è quesi estate.
L’attesa e il compimento sono un tratto
del tempo per un attimo distratto.

Il metro non è qui regolare, ma è precisa la sintassi, costruita attorno alle cesure del punto fermo e del punto e virgola, al punto che a una lettura ad alta voce questa e la rima fanno sembrare regolare il ritmo, che pure non lo è. È questa qualità a distinguere i versi di Mannacio da tanta parte dell’orizzonte degli scrittori oggi: i suoi sono canti nel vero e proprio senso della parola. Dove anche le ripetizioni impongono un ritmo di lettura:

È senza misura, senza pena, senza
misura alcuna, quasi una magia,
il fantasma che balza fuori
dalla memoria d’una fotografia.

prima veloce e poi lento dall’aggiunta di “memoria” alla “fotografia”.
Mannacio non ha paura d’essere rude, non è certo un paesaggio tiepido e dolce quello dove si muovono gli uomini e le donne, e i bambini anche, delle sue poesie. Si leggano i quattro versi del secondo capo di “Diaspore”:

Sentiva sempre freddo: è il suo segnale.
Quasi quanto una vita
è lunga la malattia che mi ha lasciato
la vostra eredità.

e li si confronti con quelli, nella pagina precedente, che chiudono “Da molti chiodi gli alberi segnati”:


il roveto intricato della rosa canina
fiori per la leggenda, amara spina.

A parte la bravura che serve per far ancora rime sopra le rose e le spine, o di nuovo l’effetto straniante che il poeta getta sopra frasi comuni e che trasforma il “lunga come la vita” in una malattia che occupa quasi l’intero spazio di una esistenza e che è una “eredità”. (Di chi? Dei compagni?); quel che colpisce è la calma assunzione che Mannacio fa della storia della poesia, studiata e meditata. Non c’è nessuna urgenza qui di distinguersi per novità, fantasia o sperimentalismo, piuttosto una riflessione sul mutamento di significato che alcuni strumenti della poesia hanno subito nel corso del tempo; la rima di Petrarca non è la stessa di Manzoni, e così le rime di Mannacio non sono le stesse, per dire, di Balestrini. Questa coscienza dell’intima natura storica d’ogni forma sintattica e grammaticale, come di ogni convenzione o norma prosodica, è forse la parte più nascosta e pregiata della raccolta di Mannacio. Non lo si proclama da nessuna parte, ma se ne dà testimonianza in ogni occasione, ed è questa la politica delle poesie della raccolta. Tanto sovente ci tocca leggere l’affermazione secondo la quale “può essere più politica una poesia sopra le rose che non un canto rivoluzionario”, ecco: nei suoi versi Mannacio dà dimostrazione della parte di verità contenuta in quella cantilena.
Discreto e mai violento, Mannacio tuttavia non manca di forza. Non impiega immagini di violenza e scandalo, non scrive di corpi bruciati, non immola bambini all’altare dello sdegno e nemmeno si appella al tribunale di una comunità che non esiste più per condannare la ferocia dello sfruttamento. Al contrario ci ricorda, con il fare un po’ sornione di chi ne ha viste di ogni sorta, alla prima disciplina del combattente (di lettere o di politica, qui poco importa), che è la disciplina verso se stessi.

Siamo chiamati tutti
all’ultimo appuntamento
che dopo il vino, i canti e l’accecante luce
all’ironia di un fossile conduce.

Per imparare questa disciplina, non fosse per altro, è bene leggere e meditare sui versi di Mannacio, persino sui peggiori. E scriverne di migliori, naturalmente, se ne siamo capaci.

47 pensieri su “Trapassato prossimo

  1. conosco la pulizia dei versi di giorgio mannacio,ma non conosco questa raccolta.mi riprometto di leggerla. con quale editore è stata pubblicata?è reperibile nelle librerie?

  2. “Se una poesia interessa solo chi l’ha scritta è una brutta poesia. Non importa quanto ci si dànni l’anima a cercare una giusta causa, umana, sperimentale, lirica semmai o semplicemente di buona volontà; senza quel piccolo miracolo che fa d’una poesia una esperienza una volta per tutte, è inutile leggere. E scrivere, naturalmente.
    …ma non è disposta alla fatica dello studio né vuole sentir dire alcunché di tecnica, pazienza o misura, scompare qualunque universale e i versi diventano vetrina di quel che non si ha da dire, non si sa né si vuol capire. Ezio Partesana”

    Non sono d’accordo con queste perentorie asserzioni. Chi si può arrogare il diritto di decidere se uno è un poeta o meno, se una poesia è valida o meno in assoluto? Io posso dire solo se una poesia mi piace o meno, criticarla sulla forma, sulla sintassi, sui contenuti, persino definirla nonsense, artificiosa, ma mi guarderei bene d’insultare un autore dicendogli di smettere di scrivere, che non s’impegna a sufficienza sulla tecnica o altro, che non ha nulla da dire, che non sa e non capisce.

    1. In effetti non mi pare di aver insultato nessuno; ho scritto il mio pensiero sopra quella cosa un po’ difficile che chiamiamo poesia. O no? E continuo a pensare che dei criteri – una “estetica”, se preferisce – siano indispensabili alla scrittura e alla critica, oltre che quasi sempre impliciti anche in chi non ne parla.
      Se lei è di opinione diversa, ci racconti come la vede, come sceglie cosa leggere, come decide che una riga che scrive è “giusta” o “sbagliata”, e via dicendo.
      Un saluto.

      1. Certamente ognuno di noi ha delle preferenze e alcuni magari un’estetica ben definita attraverso la quale valutano le opere. Durante tutto il mio corso di studi, dalle elementari al liceo, ho subìto, come tutti, dei condizionamenti culturali che m’indicavano quali fossero i poeti (e anche tante altre cose) da prendere in considerazione. Successivamente però, e coscientemente, ho attuato un processo di disintossicazione su me stesso e ormai da tempo credo di essermi liberato dai condizionamenti ricevuti. Pertanto ora leggo di tutto senza pregiudiziali e giudico solo secondo il mio sentire e la mia esperienza. Poeti osannati dalla critica “ufficiale” adesso mi appaiono modesti, mentre poeti sconosciuti li considero molto più interessanti. Ad esempio posso dire che poeti come Eugenio Grandinetti e Giorgio Mannaccio, che prima non conoscevo e di cui ora conosco solo qualche componimento, li trovo buoni e persino affini al mio sentire e questo mi spingerà ad approfondire le loro opere. Invece illustrare quali sono i miei specifici criteri di giudizio mi sembra molto più difficile, soprattutto in un contesto come questo in cui bisogna essere sintetici. Al più posso commentare singoli componimenti se penso di poter dire qualcosa che non sia stata già detta.

  3. @ Partesana
    Lo ringrazio per la lunga analisi che ha dedicato al mio libretto di poesie. Essa è radicale nel senso che è diretta alla radice del mio ” modo ” di fare poesia e in questa direzione arriva ad individuare e colpire molti bersagli. Sono contento anche degli appunti propriamente critici e per due ragioni. La prima è che essi hanno ad oggetto alcuni punti del mio esperimento che io stesso riconosco più deboli ( ” lavorare stanca ” ); la seconda – che un po’ mi spaventa – riguarda il futuro: riuscirò a conservare la lena che – bene o male mi ha dato assistenza fino ad ora? Scrivere è inutile ma necessario ( per me ).
    Grazie ancora.
    @ Grandinetti.
    Sono grato dell’attenzione. Il mio volumetto è stato partorito da uno stampatore che – credo – non possa venderlo. Manca addirittura il prezzo. Farò, forse, una presentazione e, in quella occasione, lo distribuirò brevi manu. Forse lo darò a qualche librario amico. In ogni caso se Grandinetti lo desidera sarò lieto di spedirglielo all’indirizzo che mi segnalerà. Lo stampatore – sia lode per il suo impegno e la bella realizzazione – è : Litografia Bacchetta – Regione Bagnoli 66 – 17031 Albenga ( SV )- tel. 0182559219.

    1. ti ringrazio moltissimo:io cercherò di venire alla tua presentazione,anche se sto avendo una serie di problemi che non mi permettono di andare in giro. ennio comunque mi ha mandato il testo delle tue poesie.mi farebbe comunque piacere avere anche il libro e se non potrò venire ti sarei grato se tu me lo mandassi all’indirizzo Eugenio grandinetti – via g.meda,14 -cap 20136

  4. C’è più Partesana che Mannacio nel testo, ma va bene, è una lunga rimasticatura davanti allo specchio mattutino, col fresco e il chiaro, della lettura notturna (così me la rappresento). Del resto, del sogno notturno, della lotta con le parole di quelle poesie, il ritmo spezzato di Partesana, con le rincorse e gli afferramenti al volo di temi e tracce scomposte, dà bene conto.
    Ora bisogna leggere Mannacio (se posso avere il libro) e comporre un’altra lettura insieme a quella di Partesana, così la poesia diventa la pezza a colori che ha da essere.

  5. Ci sono elementi tecnici (a conoscerli e a saperli usare), che fanno capire se un poeta è valido oppure no, a prescindere dalla platea che lo segue. E’ un po’ come nella musica: uno è stonato oppure no, non ci sono vie di mezzo. E beninteso un cantante stonato può essere un bravissimo compositore e piacere moltissimo: vedi Battisti, per restare solo in Italia.

    Di sicuro “la moltitudine che va a capo ogni quattro parole…” (per citare Partesana), perché è convinta che una poesia abbia frasi che devono terminare prima del margine destro del foglio, non può avere granché da dire, poeticamente parlando.

    Però non è nemmeno vero che una poesia, meno piace “numericamente” e meno vale. L’arte non è faccenda democratica e per piacere a molti, basta “abbassare il livello”, come si dice a scuola: così il successo (di pubblico) è assicurato, ma non credo proprio che sia una buona idea…

    Tornando ai (pochi) versi di Giorgio Mannaccio (per non andare troppo fuori tema…), mi sembrano versi piani ma dignitosi e nei quali il contenuto sembra reso bene; e sicuramente è “sentito”, evitando nel contempo di cadere nella retorica: il che è già molto, coi tempi che corrono. Chiaro che poi gli alti e bassi ci saranno, è praticamente inevitabile in una raccolta; e altrettanto chiaro che non bastano questi versi, per poter farsi un giudizio credibile. Ma contatterò il tipografo per averne copia anch’io.

  6. …ho avuto il piacere di leggere tutta la raccolta. Mi sembrano molto convincenti ed esplicative i titoli che hanno scelto sia Giorgio Mannacio: “Gli anni, i luoghi, i pensieri” , sia Ezio Partesano per la sua nota critica “Trapassato prossimo”. In quanto la raccolta si presenta quasi come un diario poetico, a volte frammentario, di esperienze, pensieri e riflessioni attinenti alla sfera privata e a quella pubblica; gli avvenimenti storici del novecento, guerre e movimenti, e quelli millenari hanno una buona parte. La dimensione temporale ampia chiama spesso a testimoni gli astri che fanno irruzione nel destino umano con il loro carico di lucentezza, distacco e continuità : “…una finestra/ aperta all’avventura./Un grido o una canzone l’attraversano/ perdendosi nell’aria/ dove scheggiata dall’azzurro brilla/ la stella del mattino, solitaria.” (Vita e destino). Le poesie a me si presentano come delle stanze, perfette nella forma e nella metrica, dal condensato contenuto filosofico, moralistico, esistenziale con, spesso, una chiusa in rima a sancire una conclusione fulminea e l’invito per il lettore ad avviarsi all’uscita. Quindi vi leggo riservatezza, riserbo, dominio delle passioni …Il senso dell’enigma e l’ironia sono aspetti non secondari nelle composizioni. Vorrei trascriverne una, significativa per la sua lieve trasparenza:
    ORA AZZURRA
    Il fumo intenerito
    rivela la città, le sue fontane
    piegate al vento. Nuvole lontane
    o paesi, chissà.
    E le vele planando arrivano
    quasi dentre le case
    ammainate nei sogni.
    I gabbiani sui davanzali
    rubano il pane ed i bambini corrono
    fingendo un volo.
    Più intrise dei panni stesi
    sono memorie ed utopie.
    Danza la luce in equilibrio
    sopra il filo dell’acqua ed il destino
    finalmente sorride. E’ l’ora azzurra
    che ogni tanto regala un altro dio

    1. Pe me la chiave di questa poesia è nel titolo “Ora azzurra” richiamato anche nell’ultimo verso “E’ l’ora azzurra che…”. L’azzurro, soprattutto la sua sfumatura tendente al blu, è il colore della pacatezza, del silenzio, della malinconia. Il colore dell’imbrunire. Mi ha rammentato una poesia di Gottfried Benn intitolata proprio “Ora Azzurra (Blaue Stunde)” che esordisce “Entro nell’ora dell’azzurro cupo…”. Un altro poeta che aveva l’ossessione dell’azzurro/blu era Georg Trakl. In moltissime sue poesie compaiono gli aggettivi blau, bläulichen = azzurro/blu/celeste, azzurrino e loro flessioni. Ogni cosa, quasi, diventa azzurra: “der stille Gott die blauen Lider über ihn senkt = il calmo Dio piega le azzurre palpebre su di lui”. Anche Kandinskij aveva una passione per il blu tanto che egli, Franz Marc (che amava i cavalli) e altri artisti fondarono nel 1911 un gruppo denominato Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro/blu) che prese il nome da un’opera del 1903 dello stesso Kandinskij. Persino Grazia Deledda, in un racconto del quale non ricordo il titolo, così si esprimeva “Le case, i campi, le montagne si avvolgono in un mantello di nebbia azzurra…perché in quest’ora così tranquilla e melanconica…”. Insomma molti poeti, artisti e scrittori amano l’azzurro/blu e l’evocarlo produce molte associazioni. Per il resto la poesia si svolge linearmente con evidenti significati ed espedienti tecnici trasparenti.

  7. E’ un filotto di consensi il mio. Li merita prima di tutto la poesia di Giorgio Mannacio. Poi l’ approvazione va a Vico Faggi il quale, ai tempi della raccolta: “Comete e altri animali”, seppe cogliere aspetti significativi dell’arte poetica del Mannacio: “Attenzione al linguaggio, fedeltà a una tradizione di tipo illuministico, il procedere per sintesi fulminee in grado di accostare luoghi e tempi lontani, presenze ed assenze, sensazioni a ricordi di sensazioni”. Aspetti che trovano conferme anche in questa nuova opera del Novembre 2015:“ Gli anni, i luoghi, i pensieri”, poesie 2010 -2013.
    E ancora il mio consenso va a Silvio Riolfo Marengo che nella nota introduttiva a detto volume ha osservato tra l’altro che: “Mannacio ha dalla sua la non comune capacità di oggettivare le situazioni più diverse senza cancellare l’interna emozione che le governa.”
    Ed infine un plauso a Ezio Partesana per l’attenta articolata chiara nota di lettura come quando si sofferma sul metro delle composizioni: “Il metro non è qui regolare, ma è precisa la sintassi, costruita attorno alle cesure del punto fermo e del punto e virgola, al punto che a una lettura ad alta voce questa e la rima fanno sembrare regolare il ritmo, che pure non lo è. È questa qualità a distinguere i versi di Mannacio da tanta parte dell’orizzonte degli scrittori oggi: i suoi sono canti nel vero e proprio senso della parola. Dove anche le ripetizioni impongono un ritmo di lettura.”
    Ho inteso sottolineare le varie considerazioni espresse sulla poesia di Giorgio Mannacio perché mi sento di condividerle pienamente.
    Personalmente ho sempre apprezzato i poeti che riescono ad esprimere con le parole più consone il proprio sentire.
    Ubaldo de Robertis

  8. Più che condivisibile la critica di Partesana, e a tratti illuminante. Peccato per l’incipit che cade come un monito troppo severo sui sedicenti poeti; i quali si dichiareranno giustamente incolpevoli, non fosse altro perché Partesana non considera che la poesia nasce non scritta, sul foglio bianco, dove non vi è spazio a sufficienza per passati e futuri. Tutt’al più per quelle personali ingenuità in cui tutti cadono, prima o poi.
    Si potrebbe dire che la scrittura poetica tradizionale nasce per metà già scritta: quella metà è il canone che ne stabilisce l’equilibrio e offrirà al critico gli strumenti per poter svolgere meglio il suo lavoro. Inoltre Partesana non considera che i poeti non sempre scrivono per la critica: anzi, poveretti se lo fanno! Ma capisco che si voglia dire subito che la poesia di Giorgio Mannacio non appartiene a quella mediocrità. E su questo si è senz’altro d’accordo.

  9. Ho terminato ora di leggere la raccolta di Giorgio Mannacio “Gli anni ,i luoghi , i pensieri”.
    Poesia che contiene tutte le caratteristiche della grande poesia. Non perde mai la sua fermezza e direi quasi riverenza nei confronti di uno stile che non si abbandona mai al banale. Il tempo padrone della vita, viene esaltato e a volta quasi rimproverato in una natura che fa da interprete anche nella storia. Mi emozionano sempre. Ammiro Giorgio Mannacio per i suoi lavori e prima di tutto per la sua grande personalità. Grazie a lui, a Ennio Abate e a Ezio Partesana per la sua chiara e dettagliate critica.
    Nei versi che riporto ho trovato tutta l’eleganza , la tenerezza e quasi lo sgomento che li rendono davvero emozionanti e bellissimi.

    Moti notturni

    Anche durante il sonno
    una stella precorre il suo cammino;
    simula nella traccia
    lo spazio che ha conquistato l’irrequieto bambino.
    Sempre, e soltanto dopo, ne è smentita
    la falsa profezia
    della tenera croce che disdegna
    allargando le braccia.

    G. MANNACIO

  10. SASSOLINI NELLA SCARPA DELLA POESIA

    Affronto in modo obliquo il senso sottilmente polemico che colgo in questa recensione di Ezio Partesana; e comincio col dire: anch’io preferirei avere in casa mobili costruiti con legno scelto e secondo le regole auree della falegnameria di una volta e non mobili dell’Ikea. Eppure trovo ancora ingiusto che i primi se li possano permettere in pochi e i secondi siamo costretti ad usarli in molti.
    Qualcosa di simile accade anche in poesia. Oggi il «mestiere di poeta» (ne parlarono Pavese e poi Camon…) per farne di buona o di decente ce l’hanno in pochi, mentre gli altri si devono arrangiare. E però, non accontentandomi di questo stato di cose, non riesco a fare mia l’enfasi elitaria/corporativa con cui Ezio, da quando lo conosco, marca, appunto, le distanze tra il poeta “col mestiere” dagli altri che l’hanno perso o non l’hanno mai avuto. Credo, insomma, che alla poesia *vera* ci arrivi sia il poeta col mestiere sia quello che in partenza non ce l’ha o s’arrangia.
    Ritengo poi che da questa condizione culturale, da tempo segnata da una contraddizione profonda (e cioè che ci sia una produzione di mobili e di poesie per pubblici diversi, abbastanza separati e gerarchizzati) non si uscirà mai contrapponendo i competenti (pochi) col mestiere agli incompetenti (molti) senza mestiere. (Del resto non è che oggi i primi, nel rendere in poesia questo tempo caotico, raggiungano risultati eccezionali rispetto a quelli senza mestiere. Se crisi c’è, tocca i competenti e gli incompetenti, quelli col mestiere e quelli senza).
    Ecco perché avevo affacciato l’ipotesi di una *poesia esodante*, un progetto di ricerca che pensava a un’influenza reciproca tra competenti e non competenti e non ad una loro contrapposizione. (Vedi intervista, fattami tra l’altro, da Ezio stesso nel 2013: https://www.poliscritture.it/2015/08/03/sulla-poesia-esodante-intervista-2013-di-ezio-partesana-a-ennio-abate/).
    Ora a quella mia ipotesi vedo contrapposto di fatto un elogio unilaterale del «mestiere di poeta», esemplificato in questa occasione sulla poesia di Mannacio. Apprezzo la recensione di Ezio. Sì, con Mannacio, ci troviamo di fronte a «versi puliti» e a strumenti (sintassi, scelte lessicali e rima) adoperati «con mestiere e prudenza in vista del fine». Siamo di fronte ad una poesia “onesta” (come la voleva Saba). Ma può bastare oggi?

    Riservandomi di ritornare sulla raccolta di Giorgio in altro momento, alcune obiezioni mi sento di muovere alla lettura fatta da Ezio.
    Si può, infatti, dire che sono del tutto giusti « i conti[che Mannacio fa] con un passato sul quale non può più mettere mano»? Dobbiamo/possiamo accontentarci della sua “classicità” che Ezio così presenta: «Le poesie de “Gli anni, i luoghi, i pensieri” sono quiete, non indignano, non fanno appello all’etica odierna del furore e dello sdegno»?
    Capisco la sua sintonia con la poetica di Mannacio e non mi spiace la presa di distanza dalla mia ipotesi. (Tra l’altro, quando delinea la figura del suo poeta ideale con queste parole: «Non impiega immagini di violenza e scandalo, non scrive di corpi bruciati, non immola bambini all’altare dello sdegno e nemmeno si appella al tribunale di una comunità che non esiste più per condannare la ferocia dello sfruttamento», usa quasi le stesse con cui criticò nel 2009 una mia poesia intitolata «Ballata per i massacrati di Gaza»).
    Mi chiedo però se tale sintonia non sia fondata –sia in Ezio che in Giorgio – su una predilezione a priori della forma classicheggiante. Non spiego la loro preferenza con la nostalgia per la cultura classica insegnata negli austeri licei di una volta, ma non penso che tale “classicismo” possa essere la forma più efficace e soprattutto l’unica per rendere conto in poesia della storia dei nostri tempi.
    Nella recensione poi mi pare delineato in modo troppo rigido il rapporto con cui, a detta di Ezio, la poesia di Mannacio si intrattiene con «quel che è già successo», cioè con «una materia sulla quale è bene ragionare ma inutile cercare di invertire il senso». Siamo certi, cioè, che non dobbiamo «più chiederci di rifare quella storia finita»? Né più sforzarci di rileggerla, insistentemente e di continuo, alla luce delle esigenze di un presente caotico, che muta e muta anche la nostra visione di quel passato (nostro o altrui)? E il nostro viaggio dovrà essere segnato «da un desiderio ormai privo di oggetto»? Non si dovrà mai più tentare di definire o nominare un nuovo oggetto (o progetto)?
    Concludendo. Non mi sento di difendere in astratto di tutte le attuali e confuse ricerche che tentano « quella cosa un po’ difficile che chiamiamo poesia». Ma, proprio per questo, riconoscerei l’«onestà» anche a poetiche diverse da quella classicheggiante, che non so se siano davvero “romantiche” o, secondo Ezio, “sentimentali”.
    Infine, una cosa era il “classicheggiare” quando c’era una visione forte del mondo che legava passato, presente e futuro (come in quella ciclica degli antichi o in quella marxista), altra è maneggiare una “forma vuota” ridotta a «un gioco di tanto tempo fa, del quale sono rimaste le regole ma non lo scopo».

    P.s.
    Sul tono velenoso, caricaturale ed escludente con cui Ezio in questa recensione parla dei “moltinpoesia” ritornerò, quando fra non molto pubblicherò uno scritto, sempre suo, intitolato proprio «Molti in poesia…».

  11. Chissà perché la silloge “Gli anni, i luoghi, i pensieri” di Giorgio Mannacio mi ha richiamato alla mente “Gli affanni, gli agi e la speranza” di Giorgio Bàrberi Squarotti. Forse perché sono titoli speculari nel numero dei lacerti verbali che li costituiscono; forse per la forte scansione interna operata dalle virgole e, addirittura, dalla congiunzione. E chissà se Mannacio si è accorto di questa analogia.
    Ho letto su un altro blog varie poesie di Giorgio Mannacio e devo dire che questo poeta mi ha positivamente “allarmato” già alla prima lettura. Altre due riletture, intervallate dallo spazio di qualche ora (trovo che questo sia un ottimo sistema per verificare se un autore “resiste” alla lettura, se cioè regge a ripetute e distanziate letture), mi hanno confermato in quella che era stata l’immediata sensazione di trovarmi di fronte a un poeta vero. Perché Mannacio è poeta a tutti gli effetti, come mi confermano questi escerti proposti come esemplificativi dal recensore Partesana e atri testi reperiti sul web. E riconfermo qui che la prima percezione di questo mondo poetico riguarda il senso (classico) della misura che investe l’architettura di ogni singola poesia, ed anche la resa verbale, la morfosintassi e la stessa disposizione spirituale e intellettiva dell’autore. Quello che ne deriva è un dettato poetico essenziale, netto, corposo che, a un occhio esperto, rivela la perfetta padronanza da parte di Mannacio degli “ordigni” espressivi (deragliamenti, tecniche analogiche, accenni surreali, uso di traslati, ecc.), ma sempre profondamente integrati nel linguaggio della comunicazione artistica. Il che la dice lunga sulle qualità di quest’autore.
    Pasquale Balestriere

  12. @ Pasquale Balestriere
    Ti ringrazio dell’attenzione dedicata ai versi riportati nell’ottima recensione di Partesana. In fondo questo – la consonanza con altri – è un po’ il premio che mi aspetto e che mi spinge a continuare nel mio sperimentare la poesia. Se mi mandi il tuo indirizzo ti manderò volentieri il mio volumetto. Un cordiale saluto e grazie ancora. Giorgio Mannacio

    1. Ti ringrazio per la gentilezza.

      Ecco il mio indirizzo :

      Pasquale Balestriere
      via Ritola, 35
      80070 Barano d’Ischia (NA)

      Grazie ancora e un cordiale saluto

      Pasquale Balestriere

  13. @ Ennio Abate

    Mi permetta, caro Ennio Abate, di dissentire sulla definizione di forma poetica classicheggiante (che si desume da più luoghi del suo intervento), riferita al modo di far poesia di Giorgio Mannacio. Il nostro autore non è classicheggiante (almeno per ciò che riguarda le poesie che ho lette), ma semmai è classico. Mi spiego meglio. “Classicheggiare” e “classicheggiante” sono termini che dicono -o almeno lasciano intendere- un’imitazione, o al più una condivisione, esteriore e superficiale del mondo antico. Invece la classicità è ben altro. Molto altro. È, come si sa, una visione del mondo che gli antichi ci hanno trasmesso e che cerco, in sintesi estrema e certamente parziale, di condensare in poche parole come tensione, aspirazione all’armonia, alla misura, all’equilibrio, come tentativo di comporre o superare le difficoltà della vita per approdare ad una situazione o a un’atmosfera più serena. In questo senso Giorgio Mannacio (che, anche per la sua attività di magistrato, ha fatto -come è ben visibile da ciò che scrive- della tensione alla misura e all’equilibrio una costante di vita) è un classico, di una classicità morale (non moralistica, gentile Partesana, perché Mannacio poeta parla a sé prima ancora che agli altri), mentale e verbale. Classicità vissuta dal di dentro, non velleitariamente imitata. Classicità (non classicismo) sempre maledettamente attuale e irrevocabilmente costruttiva, checché ne pensi l’uomo d’oggi barricato nella sua modestia culturale.
    E ancora vorrei eccepire, caro Abate, che non esistono, se non per rarissime e casuali riuscite realizzazioni, poeti (nell’accezione normale del termine) privi dei ferri del mestiere, tra i quali in primis la lingua in cui s’esprimono, proprio come non possono essere definiti musicisti dei modesti strimpellatori. Nella mia vita, solo una volta mi è capitato di sentire (e leggere) un paio di belle poesie scritte da un signore con modeste conoscenze linguistiche. Che però non è stato capace di ripetersi. Naturalmente è vero anche il contrario, e cioè che persone che hanno ottima conoscenza della lingua non siano in grado di scrivere un solo verso decente. Se ne deduce che la conoscenza della lingua non fa il poeta, ma il poeta non può fare a meno di una buona conoscenza della lingua (e di tante altre cose, prima tra tutte la sensibilità).
    Però la poesia non è elitaria, almeno non in senso classista, perché oggi chi vuole può procurarsi tutti gli strumenti del poeta. Basta la volontà. Semmai la poesia è elitaria per un altro motivo: perché essa si realizza (o s’incarna), con maggiore o minore evidenza, solo in determinate persone che, per sensibilità, esperienze umane, sociali, politiche, culturali, letterarie e artistiche, le offrono ospitalità e terreno fertile per attecchire. Non a caso i veri poeti, che spesso sono in lotta anche con se stessi, vivono una (quasi) perenne conflittualità con il mondo che li circonda.
    Pasquale Balestriere

  14. @ Balestriere

    Credo che lei si riferisca in modo pertinente a miei interventi nel post “Molti in poesia…”, dove però non faccio alcun riferimento a Giorgio Mannacio.

  15. No, per la verità mi riferisco al suo commento del 26 marzo, ore 1,13, su questo post (Trapassato prossimo) intitolato “Sassolini nella scarpa della poesia”, che peraltro in parte condivido. Non ho letto l’altro post (Molti in poesia). Ci vorrebbero gli occhi di una volta per letture lunghe (seppure interessanti) sul pc.

  16. @ Balestriere
    Mi scuso per l’equivoco. Nel merito e sperando di non divagare o eludere la questione posta: ‘classicheggiante’ significa imitazione dei classici, è vero. Che poi tale imitazione debba essere per forza di cose «esteriore e superficiale» non l’ho detto né lo penso. Né per Giorgio Mannacio né per l’altro amico Eugenio Grandinetti, la cui produzione poetica potrebbe rientrare in questa categoria. Certo, nel mio uso del termine ‘classicheggiante’ ( o ‘romanticheggiante’) c’è una connotazione ironica e un po’ disincantata. Perché resta per me aperto il problema di come si possa usare in modo appropriato il termine di ‘classico’ per un autore oggi vivente; e soprattutto vivente in questa nostra epoca, ben diversa da quella antica, divenuta – è bene dirlo – *classica* a posteriori o per i posteri. E poi una «classicità vissuta dal di dentro» o una «classicità morale» resta, a mio parere, una ipotesi quasi insondabile se non si manifesta in comportamenti o in scritti. Che, per forza di cose, possono rammemorare o avvicinarsi ai ‘classici’ ma non lo sono in quel loro modo unico, storicamente determinato. Insomma l’essere ‘classico’ di Virgilio è per me diverso dall’essere ‘classico’ di un Dante, di un Leopardi, di un poeta oggi vivente.
    Sul ruolo svolto dalla competenza linguistica (o metrica) in poesia, se basti la volontà per «procurarsi tutti gli strumenti del poeta» e su chi siano i «veri poeti» continuerei la discussione non qui ma nel post «Molti in poesia…».

  17. @ Abate
    Rispondo il più brevemente possibile.
    1) Sono io che ho parlato di imitazione esteriore e superficiale. Penso infatti che un poeta debba essere se stesso, mai dunque imitare, neppure i grandissimi. L’arte reclama genialità, non imitazione.
    2) ” Perché resta per me aperto il problema di come si possa usare in modo appropriato il termine di ‘classico’ per un autore oggi vivente”. Si può, caro Abate, se l’autore vivente ha nel suo dna, per averla assorbita e fatta sua, la già citata tensione o aspirazione alla bellezza, all’armonia, alla misura, all’equilibrio ( che non significa mettersi in una nicchia e cercare piuttosto passivamente un “giusto mezzo”, ma impegnarsi attivamente e solidamente nella vita cercando quotidianamente, magari con un pizzico di ironia e di certo con molta pazienza, di comporre i contrasti e di superare le difficoltà che essa ci presenta). È classico chi coglie la dimensione della propria umanità e ha consapevolezza della propria finitezza ma ha pure la convinzione che può approdare a una condizione migliore, più confacente a un essere umano. È classico chi coglie lo spirito, l’essenza dell’insegnamento degli antichi, e lo condivide. Non mai chi imita.
    3) La nostra epoca, mutatis mutandis, non è molto diversa da quella antica. La difficoltà di vivere non è invenzione di oggi. È stato sempre l’uomo, con i suoi pregi e difetti, a fare la storia. E poi non enfatizzerei le difficoltà odierne, perché non abbiamo piena contezza di quelle dell’uomo di un paio di millenni fa.
    4) “E poi una «classicità vissuta dal di dentro» o una «classicità morale» resta, a mio parere, una ipotesi quasi insondabile se non si manifesta in comportamenti o in scritti” annota Abate. Appunto! Per ritornare a Mannacio, il suo senso della misura e dell’equilibrio (cioè la sua classicità) lo manifesta sicuramente negli scritti e, ne sono sicuro, anche nella vita. Perché il poeta vero fa tutt’uno della vita e dell’arte.
    5) “l’essere ‘classico’ di Virgilio è per me diverso dall’essere ‘classico’ di un Dante, di un Leopardi, di un poeta oggi vivente.” Vero, ma fino a un certo punto. Essere classico significa stare nei parametri che ho più volte citati. Senza quelle aspirazioni o tensioni non ci può essere classicità. Che, in quanto portatrice di quei valori, è sempre giovane e attuale. E feconda.
    Pasquale Balestriere

    1. Quel che sapevo io, fino ad oggi, è che classico è l’autore che viene letto e riconosciuto, anche oltre la contemporaneità. Per questa ragione non riesco a immaginare un autore che dica di se stesso di essere un classico, tantomeno, e per averlo conosciuto un po’, Giorgio Mannacio. Ne avrà anche consapevolezza, ma di solito è un termine, quasi un tributo, che viene assegnato da altri. Classico è l’autore che si rifà ai classici riconosciuti tali, di solito quelli che hanno fatto la storia della poesia: un autore, un poeta che pur apportando novità, resta perfettamente inserito nella tradizione. Autori che alla loro epoca non si sarebbero definiti classici, lo sono diventati poi. Mettiamoci della scaramanzia, ma è un po’ come per la santità.

      1. … non ha quindi senso che si arrivi a definire criteri, non dico stilistici, ma nemmeno morali e comportamentali, per definire il classico. Perfino i futuristi, anti classici e nemici del passatismo, oggi sono da ritenere classici. In realtà, ho l’impressione che si stia parlando di accademismo.

  18. Per favore, non facciamo confusione. E cerchiamo di leggere bene e capire bene, prima di scrivere. In via preliminare voglio scusarmi con Mannacio per avere, del tutto involontariamente e, aggiungerei, senza mia colpa, trascinato il suo nome in questa querelle.
    Rispondo. a Lucio Mayoor Tosi.
    L’idea di “classico” che emerge dal suo intervento è quella comune, scontata, anche banale, se vogliamo. Tutti sappiamo che il termine si riferisce, normalmente e in prima istanza, a quegli autori antichi “di prima classe”, agli eccellenti, che venivano letti e studiati per il loro valore distintivo ed esemplare. Ma, se avesse letto meglio, avrebbe inteso la vera portata delle mie affermazioni. Quando affermo che Mannacio è un classico (a proposito, ribadisco, l’affermazione è mia, non di Mannacio), non voglio certo dire che il Nostro sia già assurto agli onori della fama assoluta e della gloria e sia destinato all’immortalità; né, per altro verso, che sia un imitatore degli autori antichi. Intendo invece sostenere che Mannacio, per l’aspirazione o la tensione alla bellezza, all’armonia, alla misura, all’equilibrio che connota i suoi scritti, possiede lo spirito classico o, se si vuole, la mentalità o la disposizione d’animo degli scrittori antichi. Questo è il senso, peraltro fin troppo chiaro dei miei interventi precedenti.
    E se Tosi parla di “accademismo”, riferendosi alla questione che qui si dibatte o, addirittura, al valore della classicità, mostra solo di avere scarse e superficiali conoscenze sull’argomento.
    E qui mi fermo, perché tutto il resto dell’intervento di Tosi (compresa l’aggiunta) è fuorviante e ininfluente in quanto poggia su una malintesa (e quindi errata) interpretazione/premessa.
    Spero solo di non essere costretto a ritornare, ancora una volta, sull’argomento.
    Pasquale Balestriere

    1. La mia non è querelle, è gioco. Spiace che per lei non sia così. Comunque, come ho sempre fatto in altre occasioni, mi unisco ai complimenti per la poesia di Mannacio. Classico quanto e come vuole, ma non manca di modernità.

  19. Ma io ho usato “querelle” nel senso, che normalmente si dà in italiano a questo termine, di “disputa, controversia (letteraria, filosofica, ecc.)”. A dire il vero, neppure m’ero accorto che lei stesse … giocando. Mah, sarà l’età che avanza.
    In compenso sono completamente d’accordo sulla sua ultima affermazione.
    Pasquale Balestriere

  20. Mi confronto con la definizione di classico e classicità di Pasquale Balestriere “tensione o aspirazione alla bellezza, all’armonia, alla misura, all’equilibrio” e, in un commento precedente, “senso (classico) della misura che investe l’architettura di ogni singola poesia, ed anche la resa verbale, la morfosintassi e la stessa disposizione spirituale e intellettiva dell’autore”.
    Guardando all'”equilibrio compositivo” di queste poesie, prendo in esame i ritmi e le figure della composizione. Riguardo ai ritmi – non solo la metrica ma anche la distribuzione degli accenti tonici – già Partesana ha rilevato la grande frequenza di settenari e endecasillabi: non tutti corretti e regolari, scrive. Invece credo che la ir-regolarità e s-correttezza non siano casuali, ma piuttosto volute. Faccio degli esempi dove le successioni ritmiche si ripetono con forse troppa regolarità.
    Da “Vita e destino”

    contorti, inesplicabili e, alla fine
    arrivano alla meta una finestra
    aperta all’avventura.

    E’ evidente che qui ci sono una serie di endecasillabi che si incastrano tra loro “e alla fine arrivano alla meta” “arrivano alla meta una finestra” “una finestra aperta all’avventura”.
    “La casa del compleanno”: su nove versi complessivi, cinque sono endecasillabi regolari, un settenario e un ottonario, due versi sono irregolari ma avrebbero potuto essere regolarizzati. Invece Mannacio non lo ha fatto! Trascrivo la poesia mettendo tra parentesi quel di-più che “sporca” il verso, che lo ingombra, lo rallenta, inserisce qualcosa che urta, che contraddice, che rivela una rottura, una non-armonia, una non-facilità…

    Chi dà luce nel fuoco si consuma.
    Qualcuno piange senza che un dolore
    lo ferisca davvero.
    Un’altra ride senza che (l’)allegria
    (le) sfiori davvero il cuore.
    Ed alla fine fragile velina
    strinata dalle fiamme in alto sale.
    Sussurri, grida, addii. Prossima è l’ora
    e una parola l’incatena ancora.

    Anche in questa poesia si nota la facilità di richiamarsi da parte degli endecasillabi l’un l’altro, addirittura di incastrarsi l’uno nell’altro: “un’altra ride senza che allegria” “che l’allegria sfiori davvero il cuore”.
    Ancora un esempio da “La casa dello specchio”: il verso “e in mille diversi aspetti nei frammenti” ha in sè un endecasillabo e due novenari. L’endecasillabo è facile da riconoscere “e in diversi aspetti nei frammenti”, i due novenari invece sono “e in mille aspetti nei frammenti” e “diversi aspetti nei frammenti”. Ci sarebbero anche altre possibilità; voglio sottolineare soltanto come la musicalità sia per Mannacio una risorsa così intima e spontanea che egli addirittura si impegna a resisterle. D’altra parte in questa fluida successione è riconoscibile anche un lascia-che-sia, un accordo con il fluire-finire del tempo; e le rime, soprattutto quelle interne, assecondano la cantabilità.
    Analogo discorso si può fare sotto l’aspetto della distribuzione degli accenti tonici, notando il ripetersi di successioni tra serie di dattili e di spondei in seconda battuta.

    Riguardo alla composizione del testo, noto due tipi di poesie nel libro di Mannacio: poesie descrittive e narrative, in uno svolgimento articolato e ben distribuito, l’equilibrio di Balestriere. Partesana ne ha scritto come “mostrare e riflettere”, ci sono esempi numerosi, rimando a “Album di famiglia”, a “Da molti chiodi gli alberi segnati”.
    E ci sono poesie che raccolgono in una immagine unitaria una interiore dinamicità, uno slancio, un unico fiato che regge l’intera poesia e lega le immagini in un rispecchiamento, come “Moti notturni” e, in particolare, “L’usignolo di cui parla la luna”. Sono due poesie originali per le figurazioni evocate, per la successione imprevista dei soggetti, per il concludersi della immagine iniziale e finale in un cerchio a spirale, che torna su di sè ma a un altro livello.
    Ma soprattutto le tre poesie finali, della sezione Viola d’amore, sono impreviste: c’è il risuonare della corda di metallo per quella di budello, anzi, le corde sono sei o sette: un risuonare molteplice, ricco di armonici. Ci sono rime un po’ bastarde tra quelle altre più scontate: fermaglio/immaginario; smarrito/abbandonato; lucciola/debole; notte/vita. Ci sono
    facili settenari accoppiati con due ottonari che pugnano tra loro, c’è un endecasillabo con accenti inconsueti “di fiàmma ti avvolgerànno sèmpre e mài” e una conclusione strinata “amica di una notte e di una vita”. Rispetto alle precedenti poesie non solo scompare quasi la alternanza dei versi di 11 e 7 sillabe, ma c’è anche una spezzatura del tessuto sintattico, e qualche contradictio in adjecto “Con te ho riso, ma sono/infelice” “Lasciamoci all’istante; proseguiamo”.
    Chissà se queste tre poesie messe in fondo al libro, che non ripetono il consueto, tengono aperta una contraddittorietà, una instabilità, una faglia che non si può comporre, e costituiscono per Mannacio una risorsa per la necessità di scrivere che il poeta riconosce a se stesso: “riguarda il futuro: riuscirò a conservare la lena che – bene o male mi ha dato assistenza fino ad ora?”

  21. @ Cristiana Ficher
    Devo dire che trovo interessante questa sua lettura della poesia di Mannacio, anche perché fino ad oggi ne ho conoscenza parziale e lacunosa avendo letto sì e no una quindicina di suoi testi (ma mi rifarò se l’autore, come mi ha preannunciato su questa pagina, mi invierà la silloge sulla quale si discute).
    Lettura interessante, come ho detto, e anche convincente . Personalmente, però, non avrei troppo insistito sul richiamarsi degli endecasillabi e sull’incastrarsi l’uno nell’altro, perché questo è fenomeno in genere non deliberatamente voluto, anzi quasi sempre casuale e piuttosto comune in caso di una successione di endecasillabi a maiore, pur se è rivelatore di un orecchio musicale. Condivido pienamente la sua affermazione secondo cui la musicalità è “per Mannacio una risorsa così intima e spontanea che egli addirittura si impegna a resisterle”. Azzardo addirittura l’ipotesi , neppur tanto peregrina, che tale resistenza alla musicalità rappresenti, in qualche modo l’esito di una conflittualità tra l’aspirazione alla bellezza, all’equilibrio, alla misura da una parte e l’asprezza del tempo presente gravido d’incertezze, di timori, di negatività dall’altra.
    Infine nell’esempio tratto da “La casa dello specchio”, quei due versi che lei individua come novenari o sono novenari imperfetti o sono solo versi di nove sillabe: infatti tutti e due i versi mancano dell’accento di quinta, indispensabile per il ritmo del novenario.
    Pasquale Balestriere

    1. Gentile Pasquale Balestriere, lei ha ragione riguardo al novenario, i due che ho segnalato non hanno l’accento di quinta. Hanno tuttavia una stessa alternanza martellante tra sillaba atona e sillaba tonica, e questo li assimila. Le mie conoscenze in materia di metrica sono in effetti rudimentali.
      Mi farebbe piacere conoscere il suo parere anche riguardo l’altro argomento con cui ho sostenuto la mia lettura, di un Mannacio interessato alla contraddizione, alla mancanza, e non solo alla misura e all’equilibrio.
      Si tratta della differenza tra due tipi di composizione, poesie argomentate e diffuse, e poesie sintetiche e unitarie, rette da “un solo fiato”, ho scritto per spiegarmi. Queste seconde, ho fatto l’esempio di L’usignolo di cui parla la luna – ma vale lo stesso per l’ultima poesia, Passione e distacco, così unitaria pur nelle frequenti spezzature del dettato – segnalano per me una posizione di astensione e separatezza dell’autore, di contemplazione e rifiuto di coinvolgimento, lontana da quell’impegno classico a cui lei si riferisce con le parole “tentativo di comporre o superare le difficoltà della vita per approdare ad una situazione o a un’atmosfera più serena”.
      Anche in questo caso mi sembra che per Mannacio la qualifica di classico non possa coprire tutta la sua produzione in questo libro.

    2. Giusto così, per non scrivere a vanvera… la forma più comune del novenario ha l’accento in quinta, ma non è che manchino eccezioni eh?

      1. Credo anch’io che le eccezioni non manchino (anche se ora non me ne sovvengono). Ma l’eccezione non conferma la regola? E poi il novenario(insieme al decasillabo, ma anche all’ottonario e al senario) è uno dei versi ritmicamente più scolpiti della poesia italiana. Se si sposta l’accento, saltano i tempi.
        Pasquale Balestriere

        1. “Passa il vento come un respiro/caldo, lungo, dolce che porta” (Pascoli, Castelvecchio).
          Non sono un esperto di Pascoli ma credo che nei suoi novenari, l’accento piano… giambico?… come chiamarlo… non sia affatto raro.

          Ezio.

          1. Se non sbaglio:
            pa’ssa il ve’nto come un respi’ro
            luu’ngo doo’lce che po’rta

          2. e nel continuo ripetere
            l’insano detto come l’eco
            ancor si perde fra le siepi
            il cinguettìo lontano triste
            della poesia madre di tutti
            che nessuno saprà amare
            ma che ciascuno onorerà

          3. (dannato smartphone!)

            passìl vénto come un respìro
            càldo lùngo dòlce che pòrta

          4. … o forse meglio in terza in quinta e in ottava:

            passa il vènto còme un respìro
            caldo lùngo dòlce che porta

            (direi che ci sono, ma che accidenti sto facendo?)

          5. L’accento di quinta è in ambedue i versi. Semmai il Pascoli, per sostituire quello di seconda, ha esagerato con un ictus sulla prima e un altro sulla terza.

          6. @ Ezio Partesana
            Ho fatto un po’ di confusione. La mia nota del 4 aprile, ore 18,53, risponde alla sua osservazione del 4 aprile, ore 14,08.
            Quanto al ritmo, più che giambico, mi sembra spondaico o trocaico.

          7. Chiedo scusa a tutti: per pigrizia ho copiato e incollato i versi anziché trascriverli, sbagliando paragrafo tra le mie schede, e così vi ho fatto perdere tempo con dei novenari che hanno palesemente l’accento in quinta.
            Adesso, tra le note a margine che segnai sulla mia copia, cito:
            “O madre, fa ch’io creda ancora/in ciò ch’è amore, in ciò ch’è luce!” e “La scure prendi su Lombardo”, dai Canti di Pascoli.
            Ma ho ritrovato anche un appunto che rimanda a Dante! Esattamente la ballata “Per una ghirlandetta”, nelle Rime. Vi trascrivo solo i primi quattro versi, ove l’ultimo ha chiaramente accenti in quarta e sesta:
            “I’ vidi a voi, donna, portare
            ghirlandetta di fior’ gentile,
            e sovra lei vidi volare
            un angiolel d’amore umile…”.

  22. Gentilissima Cristiana Fischer, nel mio post precedente ho scritto che ho trovato interessante e convincente la sua lettura di Mannacio, del quale -ripeto- io ho avuto (finora) la ventura di leggere sì e no una quindicina di poesie e ora non ricordo neppure se fossero estratte da una o più sillogi. Fortunatamente ho una discreta capacità di “lettura” e di orientamento che mi consente di formarmi un’opinione -certo, parziale- di un autore anche potendo contare solo su un ristretto gruzzolo di suoi scritti. Così è accaduto per Mannacio. Dal che si deduce che le mie sono impressioni, più che notazioni critiche esaustive.
    Ho già espresso ciò che mi è parso di aver notato nella sua poesia. Ho sostenuto e sostengo che “per l’aspirazione o la tensione alla bellezza, all’armonia, alla misura, all’equilibrio che connota i suoi scritti, (Mannacio) possiede lo spirito classico o, se si vuole, la mentalità o la disposizione d’animo degli scrittori antichi”. Ma do per scontato che Mannacio è uomo del nostro tempo, con i piedi saldamente piantati nella vita e nella realtà che ci circonda, con la quale fa i conti, come tocca a tutti; e dalla quale può essere influenzato. Da questo incontro-scontro con la realtà esterna, da questa “conflittualità tra l’aspirazione alla bellezza, all’equilibrio, alla misura da una parte e l’asprezza del tempo presente gravido d’incertezze, di timori, di negatività dall’altra” forse deriva quella che lei, gentilissima Cristiana, chiama “resistenza alla musicalità”; ed anche la sua percezione di un “Mannacio interessato alla contraddizione, alla mancanza”. Con, in più, una punta d’ironia e uno sguardo disincantato che connotano diverse composizioni dell’autore milanese. Del quale aspetto di leggere il libro per averne un’idea più certa e definita.
    Le confermo che ho molto apprezzato il suo scritto.
    Pasquale Balestriere

  23. @ Cristiana Fischer
    Cara Cristiana, ti ringrazio dell’attenzione riservata ai miei versi. Ma voglio soprattutto rendere giustizia ad alcune tue osservazioni che colpiscono bene il bersaglio e che apprezzo anche – egoisticamente – perchè importanti per il mio lavoro. La prima riguarda la differenza che hai notatao – molto acutamente – tra i miei testi alcuni dei quali hanno, per così dire, un unico fuoco e, dunque, una diversa struttura per così dire concettuale. A ciò si collega la corretta conclusione che non tutto ciò che scrivo – nel male e nel bene – può annoverarsi nel ” classico “, quale che sia il significato di tale termine. La terza riguarda la notazione tra passione e distacco anche da te acutamente rilevata e infine – ma come sei stata attenta ! – l’osservazione che alcune mie disarmonie sono resistenze, volute per inseguire e realizzare, se per caso o pazienza non spetta a me dirlo , progetti alternativi che mi consentano altri percorsi. Te ne sono grato. Se mi segnali il tuo indirizzo sarò felice di mandarti il volumetto. E’ il minimo e il massimo che posso fare. Un saluto cordialissimo. G.M

  24. e nel continuo ripetere
    l’insano detto come l’eco
    ancor si perde fra le siepi
    il cinguettìo lontano triste
    della poesia madre di tutti
    che nessuno saprà amare
    ma che ciascuno onorerà.

    1. @ Emilia Banfi
      Gentile Emilia Banfi, non so chi abbia scritto i versi che lei adduce ad esempio di novenario. Intanto il primo è assolutamente un ottonario sdrucciolo, gli altri sono versi di nove sillabe ma non novenari. Con quegli accenti di quarta (tranne che nel penultimo), mi sembrano endecasillabi che si siano persi per strada. Questo, a voler stare nella metrica. Ma potremmo intenderli come versi liberi, percorsi peraltro da una evidente musicalità.

    1. Perché dice questo, gentile Emilia Banfi? Oggi si scrive prevalentemente in versi liberi. In più i versi che ho letto – e che ora capisco appartenere a lei- hanno, come ho detto, una evidente musicalità.

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