Chi sono i terroristi?

Apocalisse durer

TERZO FESTIVAL DI LIMES. INCONTRO CON LE SCUOLE (1).

di Donato Salzarulo

«Nel 2011, quando fu diffusa la bufala dei 5.000 morti, feci presente al direttore del giornale che la notizia non aveva fondamento. Mi implorò: «Per cortesia, non mi “smosciare” la notizia, non sgonfiarmela». Ma qui siamo in una scuola e il rimedio c’è. Abituarsi a fare la tara alle notizie, a verificarne le fonti. Mettere a confronto punti di vista diversi. Guardare la cronaca nella prospettiva della storia e della geografia. Essere meno prigionieri della cronaca». Questa dichiarazione di Lucio Caracciolo, direttore della rivista «Limes» nel convegno tenutosi a Genova agli inizi del marzo 2016, ripresa da Salzarulo suggerisce a un *noi* ipotetico, sballottato tra la paura di fronte alle stragi, che avvengono ormai anche in Europa e non solo “lontano lontano” (ultima, per ora, quella di Bruxelles), e la rassegnazione nei confronti di statisti e dirigenti politici che hanno ridotto a straccio ogni forma di democrazia, una via di resistenza: la riflessione razionale; e a diretto contatto con giovani studenti di una scuola italiana. Da qui l’utilità  del puntiglioso resoconto di questo Festival (che avrà altre due puntate). Contro chiunque voglia imporre la sua visione apocalittica (i “terroristi”) ma anche contro i mass media che ne enfatizzano le orrende imprese senza risalire quasi mai dalla manovalanza ai mandanti o agli strateghi in ombra. [E. A.]

1. – Venerdi 4 marzo 2016, ore 10. Prima giornata del III festival di Limes, primo incontro con le scuole. Argomento: «Chi sono i terroristi?». Relatori Lucio Caracciolo e Lorenzo Trombetta. Pensavo che l’iniziativa si svolgesse al Palazzo Ducale di Genova. Invece, no. L’incontro è riservato agli studenti e si svolge presso l’Aula Magna del Liceo Classico Statale Andrea D’Oria. Percorro a piedi tutta via XX Settembre, giro a destra in Via Brigata Liguria e finalmente mi trovo di fronte all’entrata dell’Istituto. Dico alla custode che vorrei assistere alla discussione. Dopo un gesto iniziale affermativo, mi si avvicina e mi riferisce d’aver parlato con la Preside. Risultato: non posso entrare perché l’incontro è riservato. Lo immaginavo. Chiedo di parlare con la Preside. Le confesso di essere stato fino a qualche anno fa un suo collega, di comprendere l’esigenze di sicurezza (ho con me la carta d’identità e, se necessario, può fare la fotocopia), vorrei quindi che facesse un’eccezione: sono un educatore come lei, molto curioso e interessato alle domande degli studenti. I miei argomenti risultano, per fortuna, convincenti. Vengo così accompagnato in Aula Magna e mi siedo silenzioso in un angolo dell’ultima fila.
2. – Verso le 10 e 30 la sala è piena. Ci sono persone in piedi, con le spalle appoggiate alle pareti. Comincia la Preside. Sottolineata la bontà dell’iniziativa, ringrazia la prof. che l’ha organizzata e gli illustri relatori partecipanti.
Lucio Caracciolo, direttore della rivista, va subito al sodo.
Chi sono i terroristi? Non esiste una definizione oggettiva di terrorismo. Esiste una tecnica militare che è tale perché mira, attraverso mezzi violenti, a terrorizzare le società nemiche. Andare a colpire per incutere paura, creare scompiglio, discordie.
Il pericolo per noi è quello di cedere a questa strategia. Dobbiamo, invece, resistere alla paura.
Non bisogna neanche esagerare le dimensioni del fenomeno. Nel 2015 i morti per terrorismo sono stati circa 35.000. La stragrande maggioranza (80%) è concentrata in paesi poverissimi come Iraq, Siria, Nigeria, Afghanistan, Pakistan…In Italia, per fortuna, zero. Certo, ci sono stati gli attentati di Parigi del 7 gennaio 2015 nella redazione di “Charlie Hebdo” e del 13 Novembre; attentati gravissimi con cui il jihād ci entra in casa, ma bisogna imparare a distinguere i due fenomeni: da una parte il terrorismo in aree (di guerra) mediorientale o africana, dall’altra parte quello che colpisce le metropoli europee (Madrid, Londra, Parigi).
Che cos’è lo Stato Islamico e in che senso è un’organizzazione terroristica?…L’idea di “guerra santa” che gli viene attribuita, non è proprio di origine islamica, però è importante capire che il jihād (letteralmente “piccolo” o “grande sforzo”) propugnato è rivolto sia all’interno, contro altri musulmani ritenuti apostati (gli sciiti), sia all’esterno contro gli “infedeli” o i “crociati” che saremmo noi (l’Occidente).
Lo Stato Islamico è collocato geograficamente nel territorio della Mesopotamia, tra la Siria e l’Iraq (Siraq), nella valle del Tigri e dell’Eufrate. Auto-proclamatosi califfato nel giugno 2014, esso rappresenta una forma di governo che unifica il potere politico con quello religioso. Ne è a capo il califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Il sostantivo califfo proviene dall’arabo khilāfa e significa “successione”, “luogotenenza”. Adottato il giorno stesso della morte di Maometto, dal primissimo Islam questa forma di governo vorrebbe rappresentare la Umma, ossia l’ecumene, l’unità politico-religiosa di tutti i musulmani. Questo proto-stato viene così vissuto dai musulmani sunniti come l’iniziale realizzazione di una generosa e nobile utopia, uno sforzo messianico (jihād) con una forte risonanza escatologica.
Come nasce lo Stato Islamico? Da una serie di passaggi che vanno dall’invasione anglo-americana dell’Iraq (2003) alla strumentalizzazione delle cosiddette “primavere arabe” in Siria e in Libia (2011). La conquista dell’Iraq da parte degli USA non “pacificò” e “democratizzò” il Paese. Tutt’altro. Sia prima che dopo l’impiccagione di Saddam Hussein, si sviluppò una notevole resistenza sunnita. Sebbene sconfitta, molti suoi dirigenti oggi alimentano lo Stato Islamico e nutrono propositi di riscatto. Sono signori abituati a comandare. A questi vanno aggiunti i militanti di radice siriana, provenienti dalle rivolte contro il regime di al-Asad, rivolte incentivate dalle potenze occidentali, oltre che dalla Turchia, dall’Arabia Saudita e dai suoi vassalli del Golfo.
Se oggi la casa dei musulmani (dar al-islām) è solcata da enormi “buchi neri” geopolitici – terre di nessuno contese dagli attori locali e dai loro sponsor esterni – lo è anche per nostra responsabilità. «Dal colonialismo alla finta decolonizzazione, dalle sconsiderate campagne dirette o indirette spacciate per “guerra al terrorismo” (Afghanistan, Iraq) alla strumentalizzazione della “primavera araba” (Siria, Libia), abbiamo partecipato alla destabilizzazione di quei territori. Dove imperversano, fra gli altri, i cartelli jihadisti. I quali per storia, vocazione e postura geopolitica appaiono incomprimibili nello stampo puramente terroristico. Si tratta spesso di insorti che rivendicano territori ancestrali un tempo affidati al controllo degli Stati post-coloniali. E che per tali obiettivi geopolitici usano tecniche terroristiche, tanto più ributtanti in quanto volte a suscitare l’eco dei media globali e le reazioni armate delle potenze occidentali, che così ne elevano rango, notorietà e guadagni. » (LIMES, n.3/2015, pag. 12)
La statualità in fieri è importante. Rappresenta il carattere innovativo del califfo di al-Baghdadi. Organizzato come uno Stato con i suoi “ministeri” economici, militari, i suoi servizi giuridici, sanitari, scolastici, di mantenimento dell’ordine pubblico e le sue centrali mediatiche (fondamentale il ruolo svolto dalla rivista “Dābiq”), il califfato gode sicuramente di un certo consenso. Per ottenerlo ci vogliono soldi; al-Baghdadi e i suoi jihadisti sono “imprenditori” e trafficanti. È un ceto dirigente che potremmo definire cleptocratico. Trafficano con chiunque. Noi compresi. Si finanziano con ogni genere di contrabbando: dagli idrocarburi ai reperti archeologici, che acquistano più valore dopo averne distrutto alcuni (distruzione di Palmira, ad esempio). Noi siamo il mercato di sbocco di questi traffici. I prezzi delle statue assiro-babilonesi vengono battuti nelle aste di Londra. «I volumi mossi dai traffici connessi al terrorismo e alle mafie, favoriti dalla corruzione e dal deperimento delle istituzioni, sono favolosi. Il contrabbando di armi, droga ed esseri umani valeva il 7% del commercio mondiale alla fine del secolo scorso, oggi è stimato a quote superiori. Il libero flusso dei capitali, incentivato dalle nuove tecnologie e dai modelli algoritmici, la disponibilità di safe havens [rifugi sicuri] “dimenticati” quando non istituiti ai propri fini dalle grandi potenze e la fragilità dei controlli transnazionali sul riciclaggio del denaro alimentano la zona oscura della “globalizzazione”, aperta alle scorrerie dei trafficanti d’ogni genere, jihadisti inclusi.» (LIMES, n. 3/2015, pag. 10-11).
Lo Stato Islamico si propone di controllare il suo territorio e di estenderlo. La faccia feroce e l’uso della violenza efferata sono funzionali a questa strategia. Così come lo è la propaganda diffusa dalle sue centrali mediatiche. Al centro vi è una visione apocalittica, come si stesse vivendo la semifinale della fine del mondo, una visione che costituisce un richiamo potente in quelle aree del mondo.
Perché il terrorismo che colpisce l’Europa ha poco a che vedere con quanto accade in Medio Oriente?…Chi ha colpito a Parigi è cittadino francese o belga. Spesso si legge che è un terrorismo originato dall’emarginazione. È una verità molto parziale. I dati di cui disponiamo ci informano che il 67% degli aderenti allo jihadismo proviene dai ceti medi, il 17% da ceti alti professionali; soltanto il 16% appartiene a ceti popolari.
Le reclute straniere dello Stato Islamico provengono da molte parti: Cecenia, Russia, Cina, Italia… Una buona quota proviene dalla Francia rurale, provinciale, dalla Linguadoca. Come giustamente sostiene Olivier Roy non siamo di fronte ad una radicalizzazione dell’Islam, ma ad un’islamizzazione del radicalismo. Siamo di fronte a un miscuglio di ideologie ribellistiche, radicali, apocalittiche. Come se si dicesse: “Il mondo sta per finire, facciamoci trovare dalla parte giusta”. Ribellioni sociali che nuotano nel vuoto dopo la scomparsa di punti di riferimento classici.
Riusciremo a mettere la parola fine sul terrorismo jihadista?…Sul breve-medio periodo, no. Anche se riuscissimo a sconfiggere lo Stato Islamico, non scomparirebbe l’ideologia jihadista che, al momento, appare un “marchio di successo”, un modo di “diventare famosi”, di sostenere il “narcisismo dell’Ego”.
Da questo punto di vista non aiuta l’atteggiamento dei media. Tendono all’enfasi. Capisco che ciò sia iscritto nel dispositivo mass-mediale, nel meccanismo genetico dell’informazione. C’è, però, chi si preoccupa di limitare questa pulsione e chi la cavalca. Involontariamente si tende così a fare il gioco dei terroristi.

3. – La parola a Lorenzo Trombetta. È corrispondente dalla Siria e dal Libano per Limes. È corrispondente anche per l’Ansa. Si è occupato sempre di Siria. Ha scritto, infatti, un libro intitolato «Siria. Dagli ottomani agli Asad. E oltre» (Mondadori Università, 2013). Attualmente vive a Beirut, città in cui è possibile fare giornalismo. Ritiene importanti e stimolanti questi incontri. Oltre che potenziali lettori, gli studenti spesso pongono domande non banali; pure quelle banali, comunque, meritano una risposta. Sa che alla questione del terrorismo è stata dedicata un’assemblea d’Istituto e che una delle notizie che ha maggiormente colpito i giovani è stata la tragica morte di Giulio Regeni.
Due note metodologiche sul suo modo di fare giornalismo: a) Ritiene importante studiare le biografie dei personaggi, raccogliere le loro storie, seguire i percorsi personali dei singoli jihadisti. (Tanto per fare un esempio sul numero di Limes del gennaio 2015 si può leggere «Lo Stato Islamico si racconta», un articolo che riporta storie ed informazioni di un adepto del califfato.) b) Ritiene importante contestualizzare dal punto di vista storico, geografico, linguistico e culturale questi racconti personali, queste biografie. Per un lavoro simile è imprescindibile conoscere la lingua. Nel caso specifico l’arabo.
Lo Stato Islamico guadagna forza e consenso nelle zone rurali, nelle parti periferiche, pianeggianti della Siria e dell’Iraq. Raqqa, considerata la capitale, è poco più di un grande villaggio; Mosul, invece, no. È una città notevole. Comunque, per capire questo Stato in formazione, occorre prestare attenzione al rapporto fra campagna e città. L’idea è che le realtà urbane si siano un po’ ruralizzate.
Il consenso viene cercato soprattutto nelle situazioni depresse, prive di servizi. Paradigmatiche sono le storie raccolte nel campo profughi di “Pietra Nera”, una baraccopoli sorta a Sud di Damasco, in una zona povera, priva di mezzi, disponibile proprio per questo a processi di radicalizzazione. Così Mustafà, che prima era adepto di al Nusra a 400 dollari al mese, passa poi all’IS che gliene versa 600. Si passa da un’associazione all’altra non sempre per questioni ideali. Primum, vivere…A Mosul il potere, sia prima che dopo il giugno 2014, rimane in mano alle solite famiglie, ai soliti noti, solo che oggi fanno sventolare la bandiera dello Stato Islamico. Uno Stato che vorrebbe abbattere non solo i vecchi confini terrestri fra Siria ed Iraq (cosa che, in parte, ha già fatto), ma anche quelli simbolici fra Oriente e Occidente. Qualche giorno fa sono stati uccisi sette jihadisti. Provenivano tutti dall’Olanda.

4. Dibattito. Gli studenti, a gruppi di tre o quattro, vengono invitati a rivolgere domande ai due relatori che forniranno le risposte.
Primo gruppo di domande:
a) È più pericoloso un terrorismo organizzato come quello dello Stato Islamico o una guerriglia disorganizzata?
b) Distruzione di Palmira. Lei ne ha parlato solo dal punto di vista economico – si distrugge per valorizzare altri reperti archeologici -; ma se ne può parlare anche da un punto di vista culturale, simbolico? Si distrugge la cultura di un popolo.
c) Si discute in questi giorni di un probabile intervento in Libia. Rispetto all’invasione del 2011, notate delle differenze oppure il problema rischia di ripresentarsi?
Risposte.
a) Meglio il nemico dichiarato, strutturato, organizzato che il “lupo solitario”, l’imitatore pazzo, l’esaltato. Certo, il nemico strutturato produce effetti “spettacolari” che possono essere drammatici: l’abbattimento delle due Torri (11 settembre 2001), attentati di Madrid, Londra, Parigi, l’esplosione dell’aereo russo, ecc. È, comunque, difficile prevenire il kamikaze, l’attentatore suicida.
b) D’accordo. Distruzioni di città archeologiche come Palmira sono importanti anche da un punto di vista simbolico. Come se dicessero: “Noi sappiamo che date valore a questi resti archeologici e per ferirvi li distruggiamo”. La quantità di reperti distrutti è per fortuna limitata.
Il messaggio è rivolto sia all’esterno che all’interno. “Popolo” è una sorte d’invenzione. Abbattendo i templi di Palmira che da decenni appaiono sulle banconote siriane, viene attaccato il concetto di “popolo siriano”. Oltre ad un anfiteatro romano, sono state distrutte anche delle tombe pre-islamiche. Conta la sceneggiatura, la rappresentazione con cui queste azioni di devastazione vengono comunicate. Gli aderenti all’IS sono molto abili e moderni nel rappresentare se stessi.
c) La risposta di Lucio Caracciolo sull’intervento in Libia non ho potuto ascoltarla. Mi sono dovuto momentaneamte allontanare. Ho chiesto successivamente a una studentessa che prendeva diligentamente appunti cosa avesse detto. Mi è sembrato di capire che non si spostasse granchè da un articolo apparso sul n. 2/2016 di Limes, numero pubblicato proprio in occasione di questo terzo Festival e col medesimo titolo: “La terza guerra mondiale?”.
Riassumo perciò schematicamente i contenuti dell’articolo di Mattia Toaldo intitolato «In Libia facciamolo strano» (pag. 81-87)
Il 19 febbraio c’è stato un attacco americano a Sabrata, contro una base dello Stato Islamico. Può sembrare l’inizio di una nuova guerra, ma non lo è. I piani militari del Pentagono d’intervento in Libia hanno almeno un anno. Si tratta di una “guerra coperta”, “informale” iniziata in parallelo con l’avanzata dell’IS. Per quanto riguarda gli Europei, in tutte le capitali che contano, c’è una divisione fra Ministri della Difesa interventisti e diplomatici che mettono in guardia dall’ennesima guerra senza strategia politica. Il punto di equilibrio trovato sinora è quello di aspettare la formazione di un governo di unità nazionale in Libia. Il processo negoziale è iniziato nell’autunno del 2014. Obiettivo: mettere d’accordo il parlamento di Tobruk (Camera dei rappresentanti) con quello di Tripoli (Congresso generale nazionale). In realtà, i due organismi rappresentano coalizioni militari e finora non si sono fatti passi avanti. Anzi, la situazione si è più sfarinata e frammentata. Il che produce abbastanza problemi al nostro Paese: a cominciare dalla questione dell’immigrazione, per non dire altro. Se il governo di unità nazionale non verrà formato, le opzioni possibili sono due: effettuare interventi coperti come quelli USA o includere la Libia nell’intervento anti- IS in Siria e in Iraq.

Secondo gruppo di domande:
a) Quali sono le opinioni dei Siriani su Assad?
b) Quale il ruolo e la condizione delle donne nello Stato Islamico?
c) Chi sta con chi? Quale il ruolo delle diverse potenze (internazionali, regionali, locali) nella situazione medio-orientale?
Schematicamente le risposte:
a) Assad è un dittatore “in giacca e cravatta”. Non dà un’immagine brutale di sé. Il 75% dei crimini commessi in questi anni di guerra civile vengono attribuiti alle forze governative. Le persone, tuttavia, preferiscono sicuramente Assad. Vivono in un territorio più sicuro paragonate a quelle che vivono nello Stato Islamico. Se in Siria si andasse alle elezioni , Assad stravincerebbe.
b) Nell’orizzonte apocalittico del jihād il ruolo della donne è quello di sostenere gli uomini combattenti: fanno la guerra per salvare l’umanità. Rappresentano sicuramente una delle categorie più vulnerabile. Sono messe ai margini della società. Non possono svolgere funzioni pubbliche. Sono spesso vittime di violente punizioni.
c) L’abbiamo chiamata “Caoslandia” la prima cartina a colori pubblicata nel numero in vendita di Limes. Se venite al Palazzo Ducale, dove si svolge il Festival, la trovate all’ingresso, nell’atrio, trasformata in un grande cartellone. Indica l’area di massima concentrazione dei conflitti, del terrorismo e della dissoluzione degli Stati. Sono anche elencate le attuali guerre in corso. In tutto, 29. Abbiamo inoltre indicato gli “attori protagonisti” (Stati Uniti, Federazione Russa, Cina) e i “coprotagonisti” (Germania e Turchia). Nel numero sono analizzate le loro politiche: come sono viste dall’interno e dagli attori esterni, in una specie di “gioco degli specchi”. Chi sta con chi?…I gradi manipolazione reciproca sono enormi. Lo Stato Islamico è un “mostro provvidenziale” per chi gioca le proprie carte a livello regionale: l’Iran, erede dell’impero persiano; la Turchia dell’impero ottomano…L’IS è indubbiamente uno strumento dell’Arabia Saudita…La Russia perché è intervenuta? Per dimostrare agli americani che non è una potenza regionale. La Siria è il suo ultimo baluardo in Medio Oriente ed ha una classe dirigente molto affine a quella “sovietica” .
Chi sta con chi?… Mentre proviamo a rispondere alla domanda non dimentichiamo un fatto essenziale: la disponibilità a morire per la patria è minore di quanto si creda. Si cerca, allora, chi muore per te. Ma chi muore per te (livello locale) potrebbe sfuggire di mano agli attori protagonisti e a quelli regionali. Potrebbe presentare conti salati.

Terzo gruppo di domande:
a) Si è detto che i mass-media tendono ad enfatizzare il fenomeno terroristico. Come è possibile evitarlo?
b) Nella lista stilata dalla polizia francese i terroristi sembrano provenire più dalla banlieu che dal ceto medio. Questo non mette in discussione l’osservazione che non provengono da ceti popolari?
c) Perché molti capi dell’esercito di Saddam Hussein sono finiti nello Stato Islamico?
d) In che modo l’IS interviene nell’educazione? Quali materie vengono studiate?
e) Perché avete intitolato questo Festival “Terza guerra mondiale?”…Per fortuna, col punto interrogativo.
f) Quali orizzonti si aprono? Quali sono gli scenari possibili? Come ci giochiamo questa partita noi europei?
Le risposte:
a) Impossibile chiedere ai mass-media di comportarsi diversamente. L’enfasi sta nel loro codice genetico, è il loro normale meccanismo di funzionamento. Nel 2011, quando fu diffusa la bufala dei 5.000 morti, feci presente al direttore del giornale che la notizia non aveva fondamento. Mi implorò: «Per cortesia, non mi “smosciare” la notizia, non sgonfiarmela». Ma qui siamo in una scuola e il rimedio c’è. Abituarsi a fare la tara alle notizie, a verificarne le fonti. Mettere a confronto punti di vista diversi. Guardare la cronaca nella prospettiva della storia e della geografia. Essere meno prigionieri della cronaca.
b) La lista degli attentatori di Parigi non rappresenta un campione statistico. Chi ha fatto ricerca sostiene che sono immigrati di seconda generazione in rivolta contro i loro padri, rappresentati come esponenti di un Islam corrotto, molle…Non bisogna neanche sottovalutare la visibilità dello jihadismo come strumento di affermazione sociale. Spesso gli aderenti sono fratelli, a indicare un proselitismo che si sviluppa a partire da nuclei famigliari.
c) Con la scomparsa dalla scena di Saddam Hussein è stata sconfitta l’islamismo d’area sunnita. Evidentemente i Sunniti non erano così felici d’essere “liberati” dagli anglo-americani. Perciò si associano allo Stato Islamico. Cercano il riscatto. Non dimentichiamo che l’IS è prima di tutto un fenomeno locale. Gli aderenti sono iracheni. Quando si dice che l’IS ha “occupato” l’Iraq, viene da pensare a un gruppo di miliziani che “invade” un territorio. Non è così. È gente del luogo.
d) Non c’è ancora un’educazione unitaria, omogenea su tutto il territorio dello Stato islamico (tra Raqqa e Mosul, tanto per fare un esempio).
Si è tornato a pensare che lo studio sia soprattutto quello mnemonico del Corano. Il curriculum viene arricchito da retoriche esaltanti la violenza e inneggianti all’eroismo dei combattenti.
In Siria c’è un’intera generazione di bambini che non va a scuola. Non ci sono ricette per togliere acqua al jihadismo, se non quella di cercare di promuovere una vita dignitosa. La soluzione militare non è la vera carta. Occorre offrire soluzioni politiche, proposte socio-economiche.
e) Abbiamo compiuto un’azione sacrilega intitolando questo Festival con una frase di Papa Francesco e aggiungendovi un punto interrogativo. Le parole del Papa, pronunciate il 18 agosto 2014, durante il volo di ritorno dalla missione in Corea del Sud, le ricordate: «Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli». Ecco noi abbiamo deciso di studiare questi “pezzi” di cui parla Papa Francesco per comprendere come impedire che si fondano e producano guerre di più vasta estensione. Nel numero della rivista che vi dicevo potete leggere il lavoro fatto e le ipotesi che lo sorreggono.
f) Scenari. Non siamo in grado di disegnarne. Ci sforziamo di capire quale sia l’orientamento dei fenomeni in prospettiva storico-politica, geografica, economica, culturale.
Quale partita ci giochiamo noi europei?…Noi?!…Non c’è un “noi”. Sta cambiando tutto. Stanno rinascendo pulsioni nazionalistiche e xenofobe. Non c’è voglia di acquisire una conoscenza dell’altro.

5. – In treno, tornando a casa, continuo a scorrere l’editoriale di Lucio Caracciolo pubblicato nel numero 2/2016 di Limes, diffuso in preparazione del Festival… “La terza guerra mondiale?”.
Verso la fine sottolineo queste parole:
«C’è nello spirito del tempo una paradossale rassegnazione alla guerra. Financo una pulsione neofuturista verso la “sola igiene del mondo”, riletta in chiave nichilista. A nutrire la rassegnazione e a legittimare la pulsione, un determinismo bellico per cui il riduttore della caotica complessità di cui sentiamo l’urgenza non sarà la politica, saranno le armi. La terza guerra mondiale come guerra definitiva. Armageddon. La fine della storia come destino prossimo è il carburante ideologico che può incendiare i “pezzi” di Francesco. La coscienza storica è il solo rimedio, almeno per chi non confida nell’intervento divino.» (LIMES, n.2/2016, pag. 25).
Sì, è vero. C’è questa paradossale rassegnazione, questa pulsione neofuturista in chiave nichilista, questa voglia di ridurre la complessità dando la parola alle armi. Colgo segnali di questa situazione negativa anche nel mio ambiente. Però c’è anche la sala attenta e strapiena degli studenti, la curiosità, la qualità viva delle loro domande. C’è speranza. Non so se la coscienza storica sia il solo rimedio. Non se ne può prescindere. Questo, sicuramente.

Marzo, 2016

31 pensieri su “Chi sono i terroristi?

  1. Su tutti i media non si fa che insistere sugli incredibili errori delle polizie e intelligence belghe e francesi. Ma perché nessuno pronuncia la parolina magica “complicità” all’interno delle istituzioni stesse?
    Altro che terroristi, sono i cavalli di troia quelli che vanno smascherati ed eliminati. Ma chi lo potrà fare? Dopo l’arresto di Salah Abdeslam la gente di Molenbeek inveisce contro gli «stranieri» ovvero contro poliziotti e giornalisti: «Qui non c’è posto per voi, andatevene». Se questa non è un’occupazione ostile allora cos’altro deve accadere? E c’è chi continua a ripetere slogan tipo “rimaniamo umani” “dobbiamo avere misericordia” mentre ci massacrano.

  2. Eccellente pezzo. Oltre al fatto di sottolineare come “i mandanti siano fra noi” (se quanto accaduto in Francia e Belgio non è complicità, è comunque un eccellente esempio di “laissez faire”), aggiungerei:

    – Questi criminali sono i nipoti di quanti, con la Seconda Guerra Mondiale, utilizzarono per primi – almeno in epoca moderna – il terrorismo come arma di guerra: nazisti e angloamericani (con i bombardamenti di sterminio sulle città tedesche e giapponesi); non stupisce che fra i mandanti di quanto sta avvenendo, ci siano (anche) loro: non dimentichiamo che, se l’Arabia Saudita è il principale Paese dietro l’ISIS, essa non le avrebbe potuto dare un sostegno così massiccio, senza il beneplacito angloamericano. Questi due Stati, o meglio le lobby economiche che li controllano, hanno interessi fondamentali nelle aree dove si è sviluppato questo fenomeno: come è facile intuire, studiando un po’ la storia di dette aree dall’inizio del Secolo scorso.

    E’ vero che chi si arruola nell’ISIS, combatte i nostri valori; ma ho l’impressione che questi valori non siano affatto quelli democratici, ma quelli economici. Penso che a chi è ai vertici di queste organizzazioni terroristiche, poco gli freghi di democrazia, monarchia, ecc. Piuttosto – e soprattutto fra i ceti più poveri di quei Paesi – la situazione di sfruttamento creata da noi Occidentali sulla loro pelle è ben nota; e di sicuro una molla notevole, per acuire risentimento, rancore e odio, nei nostri confronti.

    Continuando su quanto scrive Angelo Ricotta, direi che il termine “occupazione” è davvero eccessivo: nemmeno da noi fa molto piacere – a volte – giornalisti che sciamano come mosche sotto le finestre di casa; così che non occorre essere un immigrato magrebino per incazzarsi, a un certo punto; e nemmeno un mafioso, per rimanere a casa nostra. Direi piuttosto che questo modo di vedere, è prova di cedimento a quella paura, di cui più volte parla l’articolo.

    E, perso per perso, il fatto di doversi difendere fisicamente non implica rinunciare alla nostra umanità, o a non avere – se del caso – misericordia. A chi si chiese una volta “perché dobbiamo rispettare, quelli che per primi mancano di rispetto alla nostra cultura?” (la questione era più o meno quella; e non vorrei che – dal tono – l’avesse posta la Fallaci), risponderei: “per non diventare delle merde come loro”.

  3. Dei morti per terrorismo “la stragrande maggioranza (80%) è concentrata in paesi poverissimi come Iraq, Siria, Nigeria, Afghanistan, Pakistan…”. Paesi poverissimi Iraq e Siria? Sarebbe interessante chiedersi chi li ha resi tali, e da quando, ammesso che oggi la Siria, una ex potenza regionale, sia considerata “poverissima”. Quanto agli altri, beh, il Pakistan ha l’atomica, andrebbe rammentato ogni tanto, e la Nigeria il petrolio. Ma ai fini del cliché va benissimo la loro etichetta di paesi “poverissimi”.
    Sapere chi sono i terroristi (dell’Isis) implicherenne conoscere il reticolo segreto di finanziamenti, appoggi, complicità di cui gode a livello di Stati nazionali e le strumentalizzazioni di cui è oggetto da parte della geopolitica dei suddetti Stati. (Naturalmente, senza queste complicità, l’esercito dell’Isis sarebbe spazzato via in breve tempo dalla cosiddetta coalizzazione occidentale). Certo, la cosa è talmente evidente che nessun discorso un tantinello serio oramai può ometterlo, e anche Caracciolo a suo modo lo dice. Peccato però che si fermi (o si nasconda dietro) al “noi”. I jihadisti “trafficano con chiunque. Noi compresi”. Il che vuol dire tutto e niente. Sarebbe necessario individuare le filiere concrete, ossia fare, come si dice, nomi e cognomi degli Stati nazionali, dei loro capi di governo, delle forze politico-economiche, dei servizi segreti e quant’altro che segretamente finanziano e appoggiano e aiutano l’Isis. Chi l’ha creato lo sappiamo (solo i media mainstream si ostinano a tacerlo): proprio nei giorni scorsi, buon ultimo, l’ex sindaco Rudolph Giuliani ha dichiarato papale papale che Hillary Clinton “può essere considerata un membro fondatore dell’Isis” (la Clinton, quella che si contrappone all'”estremista” Trump). Ma chi continua oggi ad alimentarlo? Questa trasparenza non è facile: anche col nazismo è andata a finire così quando si è trattato di individuare con nome e cognome i poteri economici che vi stavano dietro e che lo avevano appoggiato e finanziato. Qualche nome di industriale nei libri di storia (non in tutti) e molta genericità.
    Per cui, le domande pratiche che mi pongo sono piuttosto: quanto petrolio venduto dall’Isis e trasformato da altri in benzina va nel serbatoio della mia auto ogni volta che faccio benzina a un distributore? E dunque: ogni volta che faccio benzina mi trasformo in un potenziale finanziatore dell’Isis?
    Da ultimo: Terza guerra mondiale? Semmai la quarta, visto che una terza c’è già stata, quella impropriamente chiamata “fredda” che per decenni, dalla Corea al Vietnam in poi, è stata “calda” e devastante in mezzo mondo.
    Da ultimissimo: la religione. Da sempre quelle monoteiste sono intrise di fondamentalismo. E’ nel loro dna. Adesso la Chiesa cattolica ha assunto la figura dell’agnello, ma è stata lupo per secoli. E, a pensarci bene, che Maometto sia riconosciuto o meno un profeta, che Gesù Cristo sia il figlio di Dio o un profeta tra i tanti, non credo cambi sostanzialmente le condizioni economiche, psichiche, affettive e relazionali delle persone. Ma queste si sono sempre uccise per affermare l’una o l’altra ipotesi.

  4. Un’altra favoletta si aggira per i canali telivisivi che ahimé sono costretto mio malgrado a sorbirmi, sia pur brevemente, cercando di evitarli in tutti i modi. La favoletta è che i terroristi kamikaze siano criminali comuni “radicalizzatisi” (ma che significa?!) principalmente sul web con deboli o nulle interazioni con le moschee, gli imam, l’Islam e l’Isis stesso.
    Ma perché tutto questo desiderio di giustificazionismo verso chi in casa nostra opera contro di noi, fino a negare l’evidenza dei fatti? Qualcuno ha una risposta?

    1. Credo che dentro ci sia un po’ di tutto: i simili si attirano e chi opera in maniera criminale, attira chi ha tendenze criminali. Da sempre chi opera estremisticamente in maniera violenta, attira chi di quella determinata ideologia fa una scusa, per giustificare la propria criminalità; e questo accadde anche in Italia, a suo tempo.

      Penso, quindi, che ci sia anche questo, fra chi è in mezzo a questa organizzazione. Poi c’è di sicuro chi ha fatto il cammino inverso: come scritto in post precedente, il Monoteismo ha in sé i germi del fondamentalismo e le guerre di religione le inventarono gli Ebrei; gli altri si sono accodati, peraltro superando i maestri.

      Quanto questo sia peloso giustificazionismo, o voglia di dare un quadro completo della situazione, non lo so; anche se parlando dei mezzi “d’informazione” di massa, è lecito dubitare della loro buona fede.

        1. Per Ezio:

          1) – Sono mie deduzioni, formulate sulla base di molte cose “non chiare” dell’affare Moro, soprattutto. E sulle pene comminate (e fatte scontare) ad alcuni nomi del terrorismo di quegli anni: mi risulta che i fondatori delle BR (Curcio e Franceschini), pur non avendo ucciso nessuno abbiano avuto pene più pesanti (e/o meno sconti di pena) di un Moretti, per esempio. Mi corregga, se sbaglio su questo punto, ma sappiamo benissimo dei depistaggi e delle “mancate indagini” delle nostre forze dell’ordine durante il sequestro Moro. Depistaggi ed mancanze pilotate da organi italiani, non da servizi di Paesi stranieri: e questo significa solo che le BR stavano facendo (coscienti o meno) un lavoro sporco per qualcuno.

          Più in generale ritengo che le varie formazioni armate di quel periodo (e la stessa Autonomia Operaia, visti i metodi che personalmente ho avuto modo di veder messi in atto, nei confronti di chi era “più a sinistra di loro”), siano state una manna dal cielo per lo Stato, nella sua opera di criminalizzazione del dissenso dell’epoca. Ripeto che non credo affatto che le une e l’altra siano nate con questo scopo, tutt’altro. Ma che siano state lasciate agire, o che siano state infiltrate a dovere, per arrivare alla sicurezza di conseguire lo scopo suddetto.

          2) Almeno per quanto riguarda il Bacino del Mediterraneo e l’Europa continentale, non vi è traccia di guerre di religione fino all’apparire del Monoteismo. Sfregi a luoghi sacri non avvenivano, o erano l’eccezione alla regola, causati più che altro dal non saper tenere a freno, in una data circostanza, soldati vogliosi di bottino. Ma nessun popolo – all’epoca – imponeva la propria religione a un altro, o gli muoveva guerra per motivi religiosi: di fatto e come dimostrato ampiamente in epoca romana, gli dei del Politeismo erano “intercambiabili”.

          Si può obiettare che i Greci non siano stati molto teneri con le divinità femminili della società matriarcale, avendole trasformate (Sirene, Idre, Arpie…) nei mostri della loro religione. Ma qui il discorso è più ampio: qui si trattò davvero di una guerra di civiltà, quella patriarcale contro quella matriarcale. La prima, vincendo, capovolse tutto l’ordinamento sociale, incluse le valenze delle divinità.

          Gli Ebrei, col loro concetto di “popolo eletto” a seguito di un patto divino, mossero guerre “di pulizia etnica” fin dal loro ritorno dall’Egitto, ritenendo che ciò fosse approvato dal loro (unico e giusto) dio. Problema transitato poi negli altri rami del Monoteismo, come tutti siamo in grado di comprendere. A ciò si aggiunge la sciagurata opinione, che compito del Monoteista sia quello di convertire gli altri; con le buone o con le cattive, ovviamente.

          1. Gentile Alberto Rizzi,
            sulla questione della lotta armata in Italia la penso in maniera diametralmente opposta alla sua: che l’intero arco parlamentare (e buona parte di quello extraparlamentare) non sia riuscito, nonostante ogni sforzo, a provare un collegamento tra servizi segreti e formazioni combattenti (ma bisognerebbe distinguere tra le diverse fasi e le diverse formazioni) in tutti questi anni, mi fa pensare che l’idea – tanto cara al presidente della Commissione parlamentare Violante, per esempio – di una direzione occulta al servizio della quale si fossero messi i vari gruppi armati sia un poco ridicola. Ma non credo sia questo il luogo appropriato per discuterne.
            Sopra gli ebrei come inventori delle guerre di religione, invece, mi pare lei sia proprio in errore. Non solo gli ebrei furono, anche nel momento del massimo splendore del regno di Giuda, una piccola per quanto agguerrita potenza nell’area, di fronte a ben più antiche e furiose dominazioni, ma da nessuna parte risulta traccia di un tentativo degli israeliti di consentire chicchessia alla loro religione; anzi: a tutt’oggi chi volesse “diventare ebreo” troverebbe la strada piena zeppa di ostacoli di ogni sorta.
            Temo proprio che la conversione forzata sia una invenzione, per dir così, dei cristiani e dei mussulmani.

  5. Al di là dell’esaustivo e utile resoconto di D. Salzarulo (e dei commenti che sono seguiti) e, riprendendo la risposta data da L. Caracciolo alla domanda “Chi sono i terroristi”,

    *Non esiste una definizione oggettiva di terrorismo. Esiste una tecnica militare che è tale perché mira, attraverso mezzi violenti, a terrorizzare le società nemiche. Andare a colpire per incutere paura, creare scompiglio, discordie.
    Il pericolo per noi è quello di cedere a questa strategia. Dobbiamo, invece, resistere alla paura.*

    vorrei segnalare due aspetti:

    a) direi che è una tecnica politico-militare perché parte da una visione politica tale per cui non esiste più l’assunzione del cittadino come ‘soggetto’ in quanto esso è diventato un oggetto-merce che può essere usato come massa di manovra, bombardato da notizie e da bombe vere, previa una espropriazione a monte di un suo senso di sé, di identità che gli permette non solo di riconoscersi ma di distinguere l’amico dal nemico.
    Questa strategia dell’incutere terrore alla popolazione al fine di utilizzarla come ‘arma’ per abbattere i governi in carica fu ampiamente sperimentata durante la 2^ Guerra Mondiale in Italia (“noi [Forze Alleate] vi bombardiamo perché voi non vi ribellate al vostro governo”), per arrivare all’exploit finale dello sganciamento dell’atomica su Nagasaki, come gesto supremo di annichilimento e sopraffazione.
    Non si tratta soltanto dell’incutere ‘paura’ esibendo manifestazioni formali di potere e supremazia, ma di utilizzare la formula diabolica “tu puoi salvarti dalla morte certa soltanto se farai quello che ti dico io perché io ho il potere non soltanto su di te ma anche sui tuoi cari ed i tuoi amici”. Questo è il terrore. L’annichilimento totale.
    b) ‘Resistere alla paura’ è una formula che può andare bene come slogan alle manifestazioni. In realtà è importante avere paura, esserne consapevoli, entrare in contatto con ciò che essa comporta: negarla, significa diventarne agenti inconsapevoli, esporci a situazioni di rischio. Così come fa il Kamikaze. Anche lui non ha paura.

    R.S.

    1. “Resistere alla paura” non è uno slogan. E non significa negarla e – quindi – non averne. Significa conoscerla, guardarla negli occhi e non farsi fregare.

      Chi non ha paura, è un pazzo; ma chi non le resiste, diviene manipolabile anche dai pazzi.

  6. SEGNALAZIONE

    Strategia segreta del terrore
    di Manlio Dinucci

    «Il nemico oscuro che si nasconde negli angoli bui della terra» (come lo definì nel 2001 il presidente Bush) continua a mietere vittime, le ultime a Bruxelles. È il terrorismo, un «nemico differente da quello finora affrontato», che si rivelò in mondovisione l’11 settembre con l’immagine apocalittica delle Torri che crollavano.

    Per eliminarlo, è ancora in corso quella che Bush definì «la colossale lotta del Bene contro il Male». Ma ogni volta che si taglia una testa dell’Idra del terrore, se ne formano altre. Che dobbiamo fare? Anzitutto non credere a ciò che ci hanno raccontato per quasi quindici anni.

    A partire dalla versione ufficiale dell’11 settembre, crollata sotto il peso delle prove tecnico-scientifiche, che Washington, non riuscendo a confutare, liquida come «complottismo».

    I maggiori attacchi terroristici in Occidente hanno tre connotati.

    Primo, la puntualità. L’attacco dell’11 settembre avviene nel momento in cui gli Usa hanno già deciso (come riportava il New York Times il 31 agosto 2001) di spostare in Asia il centro focale della loro strategia per contrastare il riavvicinamento tra Russia e Cina: nemmeno un mese dopo, il 7 ottobre 2001, con la motivazione di dare la caccia a Osama bin Laden mandante dell’11 settembre, gli Usa iniziano la guerra in Afghanistan, la prima di una nuova escalation bellica. L’attacco terroristico a Bruxelles avviene quando Usa e Nato si preparano a occupare la Libia, con la motivazione di eliminare l’Isis che minaccia l’Europa.

    Secondo, l’effetto terrore: la strage, le cui immagini scorrono ripetutamente davanti ai nostri occhi, crea una vasta opinione pubblica favorevole all’intervento armato per eliminare la minaccia. Stragi terroristiche peggiori, come a Damasco due mesi fa, passano invece quasi inosservate.

    Terzo, la firma: paradossalmente «il nemico oscuro» firma sempre gli attacchi terroristici. Nel 2001, quando New York è ancora avvolta dal fumo delle Torri crollate, vengono diffuse le foto e biografie dei 19 dirottatori membri di al Qaeda, parecchi già noti all’Fbi e alla Cia. Lo stesso a Bruxelles nel 2016: prima di identificare tutte le vittime, si identificano gli attentatori già noti ai servizi segreti.

    È possibile che i servizi segreti, a partire dalla tentacolare «comunità di intelligence» Usa formata da 17 organizzazioni federali con agenti in tutto il mondo, siano talmente inefficienti? O sono invece efficientissime macchine della strategia del terrore?

    La manovalanza non manca: è quella dei movimenti terroristi di marca islamica, armati e addestrati dalla Cia e finanziati dall’Arabia Saudita, per demolire lo Stato libico e frammentare quello siriano col sostegno della Turchia e di 5mila foreign fighters europei affluiti in Siria con la complicità dei loro governi.

    In questo grande bacino si può reclutare sia l’attentatore suicida, convinto di immolarsi per una santa causa, sia il professionista della guerra o il piccolo delinquente che nell’azione viene «suicidato», facendo trovare la sua carta di identità (come nell’attacco a Charlie Hebdo) o facendo esplodere la carica prima che si sia allontanato.

    Si può anche facilitare la formazione di cellule terroristiche, che autonomamente alimentano la strategia del terrore creando un clima da stato di assedio, tipo quello odierno nei paesi europei della Nato, che giustifichi nuove guerre sotto comando Usa.

    Oppure si può ricorrere al falso, come le «prove» sulle armi di distruzione di massa irachene mostrate da Colin Powell al Consiglio di sicurezza dell’Onu il 5 febbraio 2003. Prove poi risultate false, fabbricate dalla Cia per giustificare la «guerra preventiva» contro l’Iraq.

    (il manifesto, 29 marzo 2016)

  7. C’è una bella differenza tra l’inventarsi l’esistenza di armi di distruzione di massa e lasciar distruggere le due torri gemelle con migliaia di morti americani o far accadere le stragi di Parigi e Bruxelles. Il tono dell’articolo mi ricorda di quando, da sinistra, si sosteneva che le brigate rosse erano al soldo dei servizi segreti. Sappiamo bene che le persone e gli stati possono mentire per i propri interessi ma la maggior parte delle argomentazioni dell’articolo non sono credibili.

    1. Ma non crederai mica, che i Governi proteggano SEMPRE i loro cittadini, eh?

      Gli Stati Uniti hanno una lunga tradizione al riguardo: dall’affondamento del Maine a Cuba, a Pearl Harbor… E se vai a guardare la storia di tutti gli Stati, esempi del genere prima o poi saltano fuori.

      Quanto alle Brigate Rosse, secondo me, se da un certo un certo momento in avanti non erano al soldo dei servizi (non in toto, è chiaro: alcuni dei leader), per lo meno le hanno spesso lasciate lavorare in pace.

  8. @ Ricotta

    Tutti diffidiamo del complottismo, ma nelle strategie per conservare o conquistare i poteri entrano anche i complotti. Resto del parere che liquidare come non credibili certe ipotesi o dati di fatti organizzati in forma coerente da quanti hanno avuto modo di studiare l’attentato alle Torri gemelle non è – credo- molto scientifico. Di falsi è piena la storia e non è che sui falsi non si possano costruire ideologie e pratiche credibili e spesso a lungo efficaci.

  9. Per Roberto Bugliani.
    a) Paesi poverissimi. Può anche essere un cliché. Ma il punto era dimensioni del fenomeno terroristico e necessità di distinguerlo nelle diverse aree. Se a morire sono soprattutto musulmani sunniti o sciiti forse l’idea dello “scontro di civiltà” appare più “percepita” (e propagandata) che reale. Proprio oggi su La Repubblica si può leggere un articolo di Moisés Naìm che riporta dati interessanti per la comprensione del fenomeno. Sono dati che vanno nella direzione del ragionamento di Lucio Caracciolo.
    «Nell’intero 2014, l’ultimo anno di cui possediamo cifre ufficiali, le persone assassinate in tutto il mondo dai terroristi sono state nel complesso 37.400. Che cosa ci dicono tutti questi numeri orrendi?
    Per offrire un po’ di contesto sulla tragedia di Bruxelles, proviamo a ragionare dunque sui dati che provengono principalmente dallo Start, il Consorzio nazionale per lo studio del terrorismo, un istituto di ricerca dell’Università del Maryland, e da una compilazione realizzata da Anthony Cordesman, esperto del Centro di studi strategici e internazionali (Csis) di Washington.
    Per cominciare, è il caso di oesservare che il terrorismo esiste da sempre, ma nel XXI secolo ha subito una forte accelerazione, sia per il numero di attentati sia per il bilancio in vite umane. Negli ultimi 15 anni, gli attentati terroristici sono passati da meno di 2.000 a quasi 14.000 e il numero di morti si è moltiplicato per nove.
    Ma questo aumento non interessa né il Nordamerica né l’Europa. Il 57 per cento degli attentati, dall’inizio del secolo si concentra in cinque Paesi – Iraq, Pakistan, Afghanistan, Nigeria e Siria – e nella maggior parte dei casi a essere presi di mira non sono stati bianchi occidentali, ma musulmani sciiti e sunniti. L’abbiamo visto anche in queste ore, proprio in Pakistan, dove tantissimi islamici sono rimasti vittime dell’attacco che aveva i cristiani nel mirino. E si capiscono anche le polemiche scatenate sui social media, con le accuse rivolte all’Occidente di non avere espresso la stessa solidarietà dimostrata per Bruxelles: costringendo il sindaco di Parigi Anne Hidalgo a intervenire, dopo che la Torre Eiffel non era stata illuminata come per il Belgio.
    […] Fra il 2000 e il 2014, 4 attacchi terroristici su 10 sono stati realizzati da gruppi rimasti non identificati. L’altro 60 per cento è stato opera di un numero molto ridotto di organizzazioni: l’Is, Boko Haram, i Taliban, Al Qaeda in Iraq e gli Shabab somali sono responsabili del 35 per cento di tutti gli attentati avvenuti nel mondo negli ultimi 15 anni. Solo fra il 2013 e il 2014, l’Is ha messo a segno più di 750 attacchi.
    […] Non esistono ricette facili per affrontare la minaccia terroristica. È un fenomeno variegato, che non avrà una soluzione unica. Ma all’interno di questa complessità c’è un dato statistico che vale la pena tenere a mente. Il tasso medio di omicidi in tutto il mondo nel 2014 è stato di almeno 6,24 morti per ogni 100.000 abitanti, mentre i morti per terrorismo sono stati 0,47 ogni 100.000. Significa che in quell’anno, per ogni persona assassinata dai terroristi ci sono stati 13 omicidi.
    I numeri del terrorismo sono relativamente bassi se li paragoniamo ad altre cause di morte, ma le sue conseguenze sono sproporzionatamente più grandi. Il terrorismo non è la minaccia più letale del XXI secolo. Però sta cambiando il mondo.» (LA REPUBBLICA, 29/3/2016, pag. 6-7)
    b) «Terza guerra mondiale? Semmai la quarta, visto che una terza c’è già stata, quella impropriamente chiamata “fredda” che per decenni, dalla Corea al Vietnam in poi, è stata “calda” e devastante in mezzo mondo». Puoi avere anche ragione. La scelta dei responsabili della rivista è stata quella di partire da una dichiarazione di Papa Francesco del 18 agosto 2014: «Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli.» Conversando in aereo coi giornalisti e non ex cathedra ovviamente quella del Papa è un’opinione offerta al dibattito. Terza o quarta che sia, il problema è: rischiamo di passare da una guerra “a pezzetti”, a “capitoli” a un’altra guerra mondiale? I responsabili di Limes attraverso il terzo Festival e la pubblicazione del numero 2/2016 della rivista hanno cercato di rispondere a questo interrogativo. Come possiamo evitare il conflitto globale definitivo? Quanto al Papa, invece, in una dichiarazione successiva dell’8 febbraio 2016 ha precisato: «Io ho parlato di terza guerra mondiale a pezzi. In realtà non è a pezzi: è proprio una guerra.» (cfr. CORRIERE DELLA SERA, 8/2/2016)
    c) Gli altri punti necessitano approfondimenti che, per quanto mi riguarda, non sono in condizioni di fare.
    Grazie, comunque, per il tuo intervento.

  10. Sul Corriere della Sera di oggi (30 marzo 2016) ho letto un interessante editoriale di Paolo Mieli. Mi permetto di segnalarlo a tutti voi. Invece, di un intervento in pompa magna, con l’Italia alla guida come orgogliosamente andavano ripetendo nelle alte sfere, si consiglia un intervento “coperto”, “informale” come quello che stanno già facendo USA, Gran Bretagna e Francia. (Cfr. nel mio resoconto il riassunto schematico dell’articolo di Mattia Toaldo intitolato «In Libia facciamolo strano»)

    EVITIAMO AVVENTURE IN LIBIA
    È giunto il momento di dirlo nella maniera più esplicita: sarebbe un grave errore, in un contesto come l’attuale, inviare migliaia, anzi decine di migliaia di soldati in Libia solo perché ce lo ha chiesto un governo insediato all’uopo.La presenza di quei militari getterebbe una pesante ombra di ulteriore discredito sul già delegittimato governo libico e, anziché debellarla, rischierebbe di rafforzare la presenza Isis che fa capo alla città di Sirte. La benedizione dell’Onu non sarebbe sufficiente a trasformare tale esecutivo in qualcosa di diverso da un «governo fantoccio». E non esistono precedenti storici di governi di tal fatta che non abbiano aggiunto caos al caos e non abbiano trascinato nel baratro coloro che li avevano istituiti. Nel 1963 gli americani favorirono, nel Vietnam del Sud, la cruenta deposizione di Ngo Dinh Diem, ordita da Nguyen Cao Ky, che due anni dopo assunse la guida di una giunta militare. Il nuovo capo del governo suggerì un’intensificazione delle offensive contro il Nord e spalancò le porte ai «consiglieri militari» statunitensi che nel 1969 arrivarono ad essere550 mila. L’effetto fu che la guerra di Saigon contro il Vietnam del Nord e i partigiani Vietcong assunse dimensioni immani. Cao Ky, per parte sua, si dedicò con solerzia a eliminare il rivale Nguyen Chanh Thi (anch’egli membro della giunta) e con le sue politiche repressive scatenò una rivolta buddista che sortì l’effetto di dare una luce pacifista alla causa dei comunisti del Nord. Questi ultimi presero vigore, passarono all’offensiva e travolsero americani e sudvietnamiti.
    Il «fantoccio» — Cao Ky che nel frattempo era diventato vicepresidente per poi, nel ’71, essere fatto fuori — fece ancora in tempo, al momento dell’umiliante resa statunitense (1975), a tornare alla ribalta per proporre di «riprendere la lotta». Nessuno per fortuna lo ascoltò e l’America lo accolse a Costa Mesa, in California, dove gli consentì di aprire un negozio di liquori. Impresa in cui, per la prima volta nella sua vita, ebbe successo.
    La sua storia è paradigmatica di tutte le leadership imposte dall’esterno per rendere più agevole un intervento militare. Ruolo assegnato stavolta a Fayez Serraj. Il 17 dicembre 2015 «è nato» il governo di conciliazione libico voluto dall’inviato Onu Martin Kobler e presieduto da Serraj che dovrebbe porsi al di sopra delle due fazioni che comandano a Tripoli e a Tobruk. Secondo le Nazioni Unite, da quel giorno di dicembre, quello di Serraj è l’unico governo «legittimo» della Libia. Anche se tutto è ancora sulla carta. Ed è proprio sulla carta che è scoppiata la prima grana allorché il «nostro» uomo formò un gabinetto da record con 32 ministri, 64 sottosegretari e 9 consiglieri presidenziali: 105 persone. A seguito di una complicata mediazione tra Tobruk e Tripoli venne nominato ministro degli Esteri Marwan Ali Abu Sraiweil appartenente ad una famiglia importante della Tripolitania (con qualche interesse in Cirenaica). Molti rilevarono un qualche sbilanciamento. Si decise allora di nominare altri due pari grado, uno alla Cooperazione internazionale e un altro per gli Affari arabi e africani. Fioccarono ironie e polemiche da parte di tutti, ma proprio tutti gli osservatori. Alla fine si optò per una drastica riduzione dei titolari di dicastero. I quali in ogni caso, per settimane e settimane, dovevano restarsene a Tunisi dal momento che nella capitale libica non erano ben accetti. Arriveranno a Tripoli alla spicciolata, dopo una lunga discussione su come raggiungere la loro «sede naturale»: in aereo o in nave? Qual è il mezzo più sicuro? Alla fine si è optato per l’aereo ma a Tripoli è divampata una battaglia attorno all’aeroporto e il tutto è stato ancora una volta rinviato.
    Perché? Il governo Serraj ha il sostegno della città di Misurata ma non è affatto popolare dalle parti di Tripoli. Il capo dell’«entità governativa della Tripolitania» vicina ai Fratelli musulmani, Khalifa Ghweil, ancora oggi considera quello di Serraj un esecutivo «imposto dall’esterno» che i «libici non accetteranno mai». In una occasione si è lasciato sfuggire che qualora Serraj si presentasse a Tripoli, lui lo farebbe arrestare. Il suo ministro degli Esteri, Aly Abouzzalok, lo definisce un gabinetto «messo insieme dall’Onu alla bell’e meglio» a seguito di un «dialogo artificiale» e, per queste ragioni, «privo di legittimità». Lo speaker del Parlamento tripolino, Abu Sahmain, mette addirittura in forse l’incolumità del capo del governo di unità nazionale.
    Sull’altro versante, quello di Tobruk, grande incognita per il costituendo gabinetto Serraj è il generale Khalifa Haftar, già al fianco di Gheddafi e adesso — sostenuto dall’Egitto — uomo forte di quella fazione. L’ufficiale, appoggiato anche da commandos francesi, guida l’offensiva per la «liberazione» di Bengasi ed è all’attacco contro diversi gruppi islamisti: i qaedisti di Ansar Al Sharia (che nel 2012 uccisero l’ambasciatore americano Chris Stevens) e la Brigata Martiri del 17 febbraio vicina ai Fratelli musulmani. Ma Haftar, inviso per le ragioni appena dette ai Fratelli musulmani, è costretto a restar fuori dal gabinetto di unità nazionale: una delegazione italiana ha dovuto recarsi a Marj per rassicurarlo e convincerlo a non fare bizze. Contemporaneamente Haftar è oggetto di una presa di distanze da parte del presidente del Parlamento di Tobruk, Aqila Saleh, che annuncia il varo di una commissione per vagliare le accuse contro di lui lanciate in tv dal colonnello Nohamed Hejazi fino a poco tempo prima suo fedelissimo.
    Il governo filoegiziano di Tobruk è più disponibile nei confronti di Serraj anche se milizie wahabite si mostrano ostili. Ma, a parte la «grana Haftar», servirebbe il voto favorevole di due terzi dei parlamentari qui insediati (vale a dire 124 su 188) e ad oggi si sono pronunciati per il sì solo in 101. Secondo l’Onu la mancanza degli altri 23 voti sarebbe riconducibile non già a resistenze dei parlamentari di Tobruk, bensì a «pressioni violente e indebite». Destinate a venir meno non appena sarà chiaro che Serraj è in grado di esercitare la sua autorità sulle decine di miliardi di depositi bancari, sui fondi sovrani nonché sui giacimenti petroliferi. Denaro da cui trarre le paghe per dipendenti pubblici e soldati. Tanto che si è cominciato ad auspicare, anche da parte italiana, la nascita di un esecutivo guidato da Serraj «il più possibile riconosciuto». Come dire: anche se a votarlo non ci sono proprio tutti, va bene lo stesso. Pericolosa illusione. Il capo del governo di Tobruk, Abdullah al Thani, ha esortato la comunità internazionale alla prudenza, a non imporre il nuovo esecutivo prima che abbia ottenuto la fiducia parlamentare («sarebbe un atto senza precedenti») e a non procedere per forzature o accelerazioni.
    Per il momento perciò sarebbe opportuno soprassedere e non inviare contingenti in Libia. Anche a governo realmente insediato. Sarebbe più saggio fermarci alla politica già in atto, quella di mandare un numero limitato di soldati altamente specializzati a presidiare le postazioni più delicate e, in modi poco visibili, a dare supporto ai primi passi governativi di Serraj. Il quale dovrà essere capace di conquistare il consenso e la legittimazione che ad ogni evidenza al momento gli mancano. Solo quando, tra mesi e mesi, avrà manifestamente ottenuto consenso e legittimazione, potrà — se lo riterrà opportuno — chiedere un sostegno militare internazionale per combattere l’Isis. Se lo facesse a tambur battente, l’impresa sarebbe votata all’esito di quella di Cao Ky e di tutti, ma proprio tutti, i «fantocci» che in tremila anni di storia lo hanno preceduto. E lo stesso discorso, ovviamente, varrebbe per noi .
    Paolo Mieli

  11. Per Angelo Ricotta.
    La ringrazio per gli interventi. Inutile dire che la pensiamo in maniera completamente diversa. Ma non sarebbe questo il male. Il male è che ho l’impressione che i suoi interventi siano per così dire pregiudiziali. Nel senso che ha fatto sue alcune tesi e non ha nessuna voglia di metterle o rimetterle in discussione. Prendiamo un esempio: lei crede che sia una “favoletta” quella dei terroristi criminali comuni radicalizzati sulle posizioni politico-religiose jihadiste. E si domanda: «Ma perché tutto questo desiderio di giustificazionismo verso chi in casa nostra opera contro di noi, fino a negare l’evidenza dei fatti? Qualcuno ha una risposta?..» Si, la risposta c’è: innanzitutto, non c’è nessun desiderio di “giustificazionismo”. Capire è giustificare? Come si fa a combattere un nemico che non si conosce?…E, ancora peggio, che non si conosce in casa propria!…Nei giorni passati mi è capitato di leggere sul Manifesto del 26 marzo 2016 un’intervista al prof. Pierre Vermeren. La offro alla sua attenzione (e a quella di tutti).
    Se la situazione è quella descritta dal prof. (e io non ho elementi per metterla in dubbio) c’è da meravigliarsi se, dopo l’arresto di Salah Abdeslam, la gente di Molenbeek inveisce contro gli «stranieri» ovvero contro poliziotti e giornalisti?…Non è quello che succede in alcuni zone delle nostre città controllate da mafia camorra o ‘ndrangheta?…
    Eccole, comunque, di seguito l’intervista.

    INTERVISTA DI SIMONE PIERANNI (MANIFESTO 26 MARZO 2016)
    Il ventre molle dell’Europa è la catastrofica mancanza di integrazione e di lavoro. Oltre a una ignoranza quasi totale della predicazione radicale islamista

    Su quanto accaduto in Belgio e soprattutto sulla «natura», le motivazioni e i metodi della cellula jihadista che avrebbe provocato le esplosioni, abbiamo intervistato Pierre Vermeren professore all’università di Parigi 1 Panthéon-Sorbonne.
    Fra le sue ultime pubblicazioni: Le choc des décolonisations, de la guerre d’Algérie aux printemps arabes (2015), e La France en terre d’islam. Religions et colonisation XIX-XXe siècles (2016).

    Professor Vermeren, perché Bruxelles oggi è diventata la capitale europea della jihad?
    Era già stata la retrovia degli attentati di Parigi nel novembre 2015 prima di essere colpita a sua volta. Accade perché si tratta di una città aperta, nel cuore dell’Europa, e ospita un’importante comunità marocchina originaria della regione settentrionale del Rif (tanto che le nascite dei bambini di origine marocchina sono diventate la maggioranza nell’area di Bruxelles).
    Questa comunità immigrata ribelle ha due caratteristiche che hanno preparato gli eventi attuali e l’adesione di molti giovani marocchini del Belgio alla jihad: da un lato, una parte importante della gioventù si è data allo spaccio dell’hashish del Marocco, facendone un’attività criminale e mafiosa internazionale; dall’altro, le autorità hanno lasciato che questa popolazione finisse nelle mani di predicatori sauditi e iraniani fin dagli anni ’80. Fra la radicalizzazione «religiosa» e le pratiche criminali, tutto era pronto per sfociare, grazie alla guerra in Siria, nel terrorismo e nella jihad.

    Come lavorano – per quanto sappiamo – le reti jihadiste a Bruxelles?
    La criminalità nel traffico di droga è internazionale. I trafficanti esportano l’hashish dal nord del Marocco in tutta l’Europa occidentale, dalla Spagna ai Paesi bassi.
    Il network è antico e solido, i delinquenti sanno passare frontiere, preparare documenti falsi, affittare container, nascondersi, trafficare, comprare armi ecc. I belgi non hanno avuto un’esperienza coloniale nel Maghreb e faticano a comprendere il funzionamento delle società mediterranee, anche quelle insediate in Europa, e d’altra parte, non si sono mai interessati all’islam.
    Questi gruppi, ma anche i trafficanti e i predicatori, hanno dunque agito a modo loro e in libertà, circolando in tutta Europa. Tanto più che le comunità di Rif sono presenti anche nel nord della Francia, nei Paesi bassi, in Spagna, in Italia e così via. Questo offre loro retrovie e reti di appoggio. E soprattutto, i rifani sono molto diffidenti verso chi è esterno alla loro comunità.

    Come reclutano le persone, non solo gli «operativi» ma anche chi li aiuta e li nasconde (come è accaduto nel caso di Salah)?
    Si tratta di reti di trafficanti, ma anche di cugini e parenti (forse con riferimenti ai villaggi o alle tribù d’origine). Ecco perché ci sono grandi gruppi con una base logistica davvero impressionante, di decine di persone alla volta.
    È molto diverso dagli attentati di Charlie Hebdo e del supermercato kosher a Parigi, perpetrati da giovani un po’ sbandati e isolati reclutati da predicatori esperti. Stavolta si tratta di reti criminali costruite su base tribale o familiare, nelle quali si mescolano piccoli delinquenti, cugini e amici. Chi passa all’atto criminale ha sovente ricevuto una formazione complementare in Siria, ma trova in loco reti «dormienti» importanti.

    I servizi segreti come possono gestire il fenomeno?
    È un lavoro molto complesso perché i gruppi rifani parlano una lingua particolare, il berbero del Rif (ma si destreggiano anche con lo spagnolo, l’olandese, il francese e l’arabo marocchino) ed evidentemente questa lingua è ignorata dalla polizia belga e da quella francese, anche quando recluta persone originarie del Nordafrica. È dunque necessario un lavoro culturale e linguistico.
    Non solo: le mafie della droga, come le mafie italiane, hanno mezzi e abitudini molto elaborati, e la polizia belga, a differenza di quella italiana, non è affatto attrezzata per lottare contro questi gruppi. C’è poi la polizia marocchina che rivendica il fatto di aver avvertito i belgi dell’imminenza di un attacco, come era già stato per Parigi; ma questa polizia non lavora bene in Belgio, perché i rifani diffidano molto dello Stato marocchino (soprattutto a causa della guerra nel Rif nel 1958-59 e delle repressioni brutali del 1984 e del 2011). Occorre dunque una cooperazione internazionale fra le varie polizie e molti esperti e poliglotti per poter penetrare queste reti. Non sarà facile.

    Quali obiettivi si propongono i jihadisti con questi attacchi? Reclutare altre persone oppure nascondere quel che sta succedendo in Siria e Iraq dove Daesh sembra in difficoltà?
    Per scatenare questi attacchi nel loro «feudo» in Belgio erano certamente sotto pressione dopo gli attentati a Parigi nel novembre 2015, perché le conseguenze degli ultimi attentati di Bruxelles per loro saranno catastrofiche. Le polizie di tutta Europa e del Maghreb verranno a smantellare le reti… Ma il cosiddetto Stato islamico spera in ricadute positive, ad esempio su nuove vocazioni alla jihad in Libia, Siria o Iraq per essere riusciti a colpire nel cuore dell’Europa. Sperano di provocare reazioni di rigetto o di segregazione da parte degli europei verso i musulmani, misure di sicurezza da parte dei governi e l’elezione di governi ostili all’islam, per spingere i giovani musulmani nelle braccia dei salafiti.
    La guerra civile e le tensioni sono uno dei loro obiettivi. Ma anche, certo, questo permette di camuffare i loro fallimenti e arretramenti in Iraq e Siria.

    Questi attacchi mostrano forse il fallimento dei modelli di integrazione?
    Certamente il modello di integrazione è catastrofico in diversi paesi. Apparentemente, i Paesi bassi sono riusciti meglio di altri a integrare le popolazioni dei rifani marocchini. Ma in Belgio, come nelle grandi città francesi, il concentrarsi di popolazioni povere in ghetti , dove gli ambienti criminali e i predicatori religiosi operano quasi in libertà, portano a risultati catastrofici: descolarizzazione, scarsa padronanza della lingua, disoccupazione per gran parte dei giovani. Il risultato è che tutto un settore della gioventù, in particolare i maschi, è disponibile verso predicatori o attività criminali. Non si può andare avanti così…

    In che modo l’operato dei paesi occidentali in Medioriente aiuta la radicalizzazione dei giovani musulmani in Europa?
    Evidentemente offre facili giustificazioni ai reclutatori. Va detto che gli interventi militari a ripetizione in Afghanistan, Iraq, Libia e in Siria sono stati catastrofici quanto ai risultati.
    Al tempo stesso ci si rende conto che non intervenire è egualmente devastante: non è pensabile che si lasci crescere lo Stato islamico in Siria, in Iraq e adesso in Libia… Ma solo i governi locali, anche illegittimi, hanno l’autorità per agire, magari con l’appoggio dell’Onu.

    1. Sarebbe interessante capire, alla luce delle recenti polemiche, quanto i servizi (o meglio, i Governi che ci stanno dietro e chi sta dietro ai Governi), stiano attuando una politica di “laissez faire” nei confronti di queste strutture criminali.

      Io credo infatti che i risultati degli interventi militari che lei cita non siano “catastrofici”, ma che assecondino i progetti per un rimodellamento di grandi aree geografiche, che favorisca gli interessi delle grandi mafie economico-finanziarie.

      Perché siamo magari d’accordo che l’uomo possa essere un animale sostanzialmente stupido e per il quale l’apprendimento tramite gli errori commessi è qualcosa di molto difficile. Ma qui stiamo parlando di chi sta ai vertici del Potere da decenni, non di chi va a lamentarsi in un bar. E dopo oltre cinquant’anni di guerre (neo)coloniali, a cominciare proprio da quella del Vietnam, questa situazione di caos (che si è tentato di replicare con risultati abbastanza buoni anche in Europa), sempre meno mi sembra frutto del caso o di errori di pianificazione.

  12. Perdonatemi, se sono un po’ in ritardo, ma vorrei ringraziare sia Alberto Rizzi che Rita Simonitto per i loro interventi. A quest’ultima desidero dire che le sue osservazioni sulla definizione di terrorismo sono quanto mai appropriate. Definire il terrorismo una tecnica di combattimento non vuol dire dimenticarne la sua natura politica. Per von Clausewitz, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. La definizione vale anche per il terrorismo che si presenta come una “guerra asimmetrica”, scelta da forze e/o soggetti politici più deboli, non in condizioni di affrontare il nemico in campo aperto: esercito contro esercito.
    Detto questo, il problema è di capire la specificità del terrorismo di IS. Ad esempio, mi sembra sbagliato assimilarlo a quello delle Brigate Rosse: diverse erano le finalità e diversa l’applicazione della tecnica (i brigatisti pensavano di essere dei combattenti, ma non si facevano scoppiare per raggiungere il Paradiso). A questo livello, però, la parola terrorismo viene usata soltanto come categoria euristica. Esprimere un giudizio morale su di esso è altra cosa. Per quanto mi riguarda sono contro il terrorismo e anche contro la guerra.
    Non ho ombra di dubbio che quest’ultima coi suoi bombardamenti, ecc. ecc. produca morti, macerie, sofferenze, angosce, orrori, ecc. Certamente anche più del terrorismo. Infatti, diventata totale, a partire dalla prima guerra mondiale, ha coinvolto sempre più le popolazioni e le infrastrutture civili. Scopo: distruggere le risorse che alimentano i soldati. L’orrore di Hiroshima e Nagasaki, non dovrà essere mai dimenticato. Soprattutto, se ogni tanto viene ritirato in ballo l’uso possibile di bombe nucleari tattiche. Però, perché prendersela solo con gli Alleati? E generali ed eserciti nazi-fascisti si comportarono bene? Rispettarono le popolazioni?…Da giovane sono cresciuto politicamente partecipando a manifestazioni per il disarmo. Perché non ne parliamo più? Perché ci stiamo arrendendo alle guerre?…
    Ancora grazie, comunque.

  13. …prima di tutto, grazie Donato per avverci ancora una volta permesso di essere presente ad una tua esperienza, attraverso il tuo puntuale resoconto, quasi accompagnadoci come un gruppo classe in visita al festival di Limes, proprio come gli studenti del liceo di Genova…Solo un commento al tuo ultimo intervento: penso anch’io che dovrebbero ritornare le manifestazioni per il disarmo…Quando gli Usa fecero esplodere le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki erano gli unici a possederla, non poterono, nell’immediato, essere imitati, oggi invece, e con bombe ancora più micidiali, avverrebbe una reazione a catena…

  14. @ Donato Salzarulo.
    1 L’articolo di Paolo Mieli del 30 marzo, che auspica un (lo auspico anch’io) non intervento dell’Italia in Libia e un progressivo confermarsi sul campo di Serraj, echeggia il continuo sostegno di Mieli al nostro governo, con gli spareggi in corso verso le opposizioni. L’ordine è faticoso da raggiungere ma l’obiettivo è certo.

    2 Ridurre le lotte in corso a “terrorismo” copre con un’etichetta una lotta “di classe” (si sarebbe detto una volta) che Vermeren spiega invece bene: le potenze coloniali europee, finita la fase dell’espansione nelle terre altrui si ritrovano, in nome della nostra ideologia democratica, i nemici in casa che si organizzano come sanno (con la lingua e i rapporti familiari e clanici). “Il ventre molle dell’Europa è la catastrofica mancanza di integrazione e di lavoro!”. Ma non siamo più negli anni ’60 dell’altro secolo, l’integrazione e il lavoro erano ideologia, e non possiamo più offrirli a nessuno. Come meravigliarsi del successo del Front?

    Il “tempo” è un soggetto reale: domani uno storico “marxista” (o un Von Clausewitz realista) vedrà chiaramente le conseguenze del colonialismo europeo nelle vicende dei nostri anni, vedrà anche la debolezza europea tra gli imperi mondiali, vedrà l’ipocrisia (oggettiva, non soggettiva) della democrazia.
    Ma noi, io, abbiamo questo sguardo lungo e ampio? Lo sguardo del nostro declino… eppure anche della nostra grande cultura.

  15. Per Donato Salzarulo:

    Non so se questa sua osservazione “Ad esempio, mi sembra sbagliato assimilarlo a quello delle Brigate Rosse: diverse erano le finalità e diversa l’applicazione della tecnica (i brigatisti pensavano di essere dei combattenti, ma non si facevano scoppiare per raggiungere il Paradiso).” fosse rivolta a me.

    Nel dubbio voglio precisare che l’accostamento che io faccio, riguarda solo l’atteggiamento che i Governi possono avere nei confronti del terrorismo di matrice islamista ora, analogamente a quello che ebbero con i gruppi armati degli Anni ’70: “Eliminare il proprio nemico usando il coltello di un altro” è uno degli stratagemmi più usati ed efficaci dall’epoca di Sun-Tzu; e forse anche da prima.

  16. Per Rizzi: l’osservazione non era rivolta ai suoi post. Il confronto col terrorismo brigatista l’ho letto e sentito in diversi ambiti, perciò lo riprendevo e ne sottolineavo alcune differenze.
    Per Locatelli e Fischer: grazie per le vostre osservazioni. Richiedono di essere riprese e approfondite. Non mancheranno le occasioni.

  17. I terroristi li avevamo sotto casa anche noi e alcuni casi sono ancora irrisolti ci sono vittime che aspettano ancora
    Ringrazio Salzarulo per la sua analisi così puntuale e chiara . Il suo giornalismo é documentato esempio raro attualmente
    Attendo la prossima pubblicazione
    Giulia

  18. Per Ezio Partesana;

    sulla faccenda terrorismo, continuo a rimanere delle mie idee; senza generalizzare, lasciando un (ampio) dubbio di buona fede per alcune delle persone coinvolte, a cominciare per esempio da Curcio e Franceschini. Ma solo un cieco non può non accorgersi, che la morte di Moro faceva comodo a certe forze politiche, tanto estere quanto italiane; e che per questo la sua morte fu “facilitata” in ogni modo.

    Per il discorso delle guerre di religione, prendo atto della difficoltà che lei dice; ma le “pulizie etniche” nell’area della Palestina furono fatte (e lo sono tutt’ora…) perché – analogamente alle Crociate dei Cristiani – “Dio lo vuole”. Tanto a me basta, per parlare di “guerre di religione”.

    Sono peraltro d’accordo con lei, che ci si sta troppo allontanando dal tema di questo post; ma non dubito che argomenti del genere verranno prima o poi sollevati direttamente o indirettamente qui: avremo dunque modo di riparlarne.

    1. Cit.: le “pulizie etniche” nell’area della Palestina furono fatte (e lo sono tutt’ora…) perché – analogamente alle Crociate dei Cristiani – “Dio lo vuole”. Tanto a me basta, per parlare di “guerre di religione”.

      No. Quelle terre non si chiamavamo “Palestina”, “Dio lo vuole” non compare mai nella Torah, e il “lo sono tutt’ora” rivela una posizione legittima ma non certo sufficiente a parlare di “pulizie etniche”.
      Mi dispiace, ma ho l’impressione che lei non conosca la storia di quei tempi.
      Dopo di che, concordo con lei: non è questo il luogo ove discutere di questo argomento.

  19. All’autore de “I figli degli “ostracizzati”: un’ipotesi su violenza e terrorismo” (http://www.ibridamenti.com/una-ipotesi-su-violenza-e-terrorismo/)

    Trovo interessanti le considerazioni fatte in questo articolo. E condivido in particolare questo passo:

    la stessa “integrazione” che si propone come soluzione ai problemi della convivenza fra culture, è una forma di ostracismo. Integrare non è altro che (fonte: dizionario Treccani) “far entrare, incorporare un elemento nuovo (cosa o persona) in un insieme, in un tutto, così che ne costituisca parte integrante e si fonda con esso”. Lo si intende dunque come un processo unidirezionale che la cultura “accogliente” opera su quella “ospite”. Ma, scrivevo, “un’integrazione – qualunque cosa si intenda con questo termine – operata da un soggetto nei confronti di un altro definisce un rapporto di potere. È un’azione unidirezionale e non reciproca, e dunque stabilisce una differenza incolmabile al di là dell’intenzione di creare parità e dialogo”.

    Vorrei segnalare tuttavia soprattutto i commenti sotto un altro articolo sempre di Salzarulo (https://www.poliscritture.it/2016/04/19/guerra-al-terrore-i-fronti-esterni-e-interni-2/#comment-28096) perché rivelano quanto siano forti e diffuse anche fra intellettuali “pensanti” le tesi del respingimento, che fanno apparire la discussione sul tema della cosiddetta “integrazione” quasi avveniristica.

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