La società della comunicazione

PARTESANA LIBRO

Su “Il gioco delle parti. Ideologia e propaganda” di Ezio Partesana, Sensibili alle foglie 2016

di Donato Salzarulo

1.- “Propaganda” non è termine da dizionario filosofico. Neanche sociologico. Mi riferisco ai dizionari che ho in casa. Quello psicologico si limita a definire in poche righe l’attività (procedimento sistematico di persuasione di massa), indicare i canali di comunicazione che consentono di realizzarla, la tipicità dei messaggi (slogan, ricorso a stereotipi, ecc.) e l’intento (informare e nello stesso tempo pilotare le opinioni e le scelte individuali). Il rinvio finale è alla “psicologia della pubblicità”, in quanto settore della “psicologia commerciale” che opera con i “sondaggi d’opinione” e con lo studio delle “motivazioni”, alla base dell’acquisto di un prodotto. L’ipotesi è che compriamo oggetti per soddisfare bisogni reali (di alimentazione, abbigliamento, mobilità, ecc.) e, al contempo, culturali, simbolici, affettivi.
Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso la buona anima di Umberto Eco ci svezzava con la critica semiologica della pubblicità. Poi si leggeva, ricordo, «I persuasori occulti» di Vance Packard che smascherava i trucchi psicologici usati dal marketing per condizionare le nostre menti. Non so francamente come sia progredito questo settore della ricerca, ma con informatica, scienze della comunicazione, psicologia del comportamento e neuroscienze immagino abbia fatto passi da giganti.
“Propaganda” è termine indubbiamente da dizionario politico. Sempre tra gli anni Sessanta e Settanta, giovane militante comunista, appresi la distinzione, dovuta a Plechanov e ripresa da Lenin, tra “propaganda” e “agitazione” . La prima serviva a diffondere molte idee ad un uditorio ristretto; la seconda, effettuata prevalentemente a voce (comizi), era diretta a diffondere pochissime idee a un gran numero di persone. La nostra propaganda era, per così dire, illuminista. L’intento non era manipolatorio, emotivo, ma argomentativo. Il convincimento, la persuasione dovevano essere il frutto delle nostre buone ragioni.
Anno dopo anno, però, il termine è andato colorandosi di una connotazione profondamente negativa e l’ho visto un po’ scomparire dalle conversazioni e dai dibattiti pubblici, rimpiazzato dal più generico “comunicazione”. Così, ad esempio, nei miei ultimi cinque anni di esperienza amministrativa, una delle critiche prevalenti di amici e compagni era che la Giunta di cui facevo parte “non sapeva comunicare”. A nessuno veniva in testa che forse è un po’ antipatico e da spudorati andare al di là della comunicazione istituzionale e propagandare in prima persona e coi soldi pubblici il proprio operato. Uno dei pregi, invece, di Berlusconi, riconosciuto da amici e avversari, era il suo essere un bravo “comunicatore”. Lo stesso si dice oggi di Renzi. Così i politici non “propagandano” più: “comunicano”. Il che mi sembra una grande mistificazione. Un modo per non riconoscere la natura manipolatoria, intimamente falsa di una comunicazione che è, comunque, propaganda. A maggior ragione oggi che la politica è diventata sempre più un’attività mercantile.

2. – Con in testa queste idee ed esperienze, ho letto con vero interesse l’ultimo libro di Ezio Partesana che si intitola pirandellianamente «Il gioco delle parti. Ideologia e propaganda» (Sensibili alle Foglie, 2016, pagg. 80). Non so quanto c’entri la trama della commedia di Pirandello (il cui titolo, in verità, è «Il giuoco delle parti») con queste pagine. So che Partesana è stato impegnato in esperienze teatrali come sceneggiatore e regista. So pure che è filosofo. Sicuramente non cinico come Leone Gaia, protagonista della commedia. Idee e qualità della scrittura mi fanno pensare alla «Dialettica dell’Illuminismo» di Horkheimer ed Adorno. A tratti anche, per il tono aforistico, a «Minima Moralia». Propendo, però, più per la logica stringente e da frammenti filosofici della prima opera. Se non altro perché è nella Dialettica che è possibile trovare capitoli dedicati all’industria culturale e, tra gli “Appunti e schizzi”, una pagina o poco più dedicata proprio alla Propaganda (cfr. «Dialettica dell’illuminismo», Einaudi, 1966, pag. 271-2).

«Propaganda per cambiare il mondo: che sciocchezza! La propaganda fa della lingua uno strumento, una leva, una macchina. Fissa la costituzione degli uomini come sono diventati sotto l’ingiustizia sociale, nell’atto stesso che li mette in moto. Essa conta di poter contare su di loro. […] La propaganda manipola gli uomini; gridando libertà contraddice a se stessa. La falsità è inseparabile da essa. […] Anche la verità diventa, per essa, solo un mezzo di acquistare seguaci; essa altera la verità già nell’atto di formularla. Perciò la vera resistenza non conosce propaganda. La propaganda è antiumana. […]
Sospetta, è vero, non è la descrizione della realtà come inferno, ma l’esortazione standardizzata ad uscirne. Se il discorso, oggi, deve rivolgersi a qualcuno, non è già alle cosiddette masse, né al singolo, che è impotente, ma piuttosto a un testimone immaginario, a cui lo lasciamo in eredità perché non scompaia interamente con noi.» (pag. 271-2)

3. – Penso che i due filosofi francofortesi abbiano trovato il testimone che immaginavano. È Ezio Partesana che, con questo suo libro, eredita il loro discorso puntuto e, per certi versi, disperato. A rileggerlo, a distanza di anni, sono saltato sulla sedia. Così, ci eravamo illusi! Non può esistere una contro-informazione, una propaganda “vera”. Le buone intenzioni non modificano la sostanza manipolativa dell’atto, la sua intima falsità.
La pagina francofortese del 1947 viene da Partesana arricchita, sviluppata, aggiornata all’attuale ristrutturazione del capitalismo mondiale. Quella che oggi tutti chiamano “comunicazione” è per lui – ed io sono molto d’accordo – “propaganda”; al massimo “comunicazione-propaganda”, comunque uno strumento autoritario di regolazione sociale, il cui funzionamento può essere razionalmente e lucidamente studiato. Cosa che Partesana fa.
La sua scrittura procede per frammenti, per nuclei d’idee che, addizionandosi, richiamandosi e intrecciandosi, svolgono concetti, sviluppano temi, danno forma a capitoli stimolanti di riflessione critica.
Nella prima parte dedicata alla Propaganda, troviamo: “Esperienza e ragione”, “Le figure della propaganda”, “Industria, cultura e spettacolo”, “Forme della tradizione”, “Intellettuali della propaganda”, “Identità e indignazione”. Nella seconda, incentrata sull’Ideologia, leggiamo “Arte e feticcio”, “Colpa ed espiazione”, “La contraffazione del reale”. Infine, il titolo del libro “Il gioco delle parti” con gli argomenti affrontati: “Lessico e sintassi”, “Dialettica e illuminismo”. Due sostantivi che, nel capitoletto finale, richiamano esplicitamente l’opera dei due maestri.
Già riportando, come ho fatto, l’indice del libro, è possibile cogliere il disegno, lo spazio di riflessione all’interno del quale Partesana si muove, uno spazio ricco di concetti consegnatici dalla tradizione filosofica: esperienza, ragione, intellettuali, ideologia, identità, reale, dialettica, ecc.

4. – Propaganda, sostenevo all’inizio, non è termine da dizionario filosofico. Vero. Il che non vuol dire che un filosofo non possa avere buone ragioni per affrontarlo. Se, però, l’autore ricorre fin dalla prima pagina a parole come “conflitto”, “nemico”, “dissenso”, ecc. il termine non perde la sua collocazione politica, il suo essere strumento di manipolazione-regolazione di poteri e contro-poteri. Il che, tuttavia, non significa che debba essere confinato in quest’ambito. Soprattutto oggi che l’economia capitalistica ha esteso la sua forma (e le sue leggi) in molti campi dell’organizzazione sociale: da quello politico a quello giuridico, da quello scientifico a quello artistico-culturale.
«La conoscenza, l’informazione e lo spettacolo vengono oggi prodotti come merci, e come tali hanno un proprietario, delle regole di valorizzazione da rispettare e l’inevitabile sorte del consumo.» (pag. 50) Ci ricorda Partesana, memore dell’insegnamento dei suoi maestri, che, non a caso, usavano concetti come quelli di “industria culturale”.
«Sembra allora che l’industria della cultura produca beni che hanno in comune l’essere merci e spettacolo allo stesso tempo; l’essere merci soddisfa il capitale, mentre lo spettacolo è dedicato al consumo.» (pag. 50)
Credo che sia giusta la scelta dell’autore di cogliere da un lato nella comunicazione la propaganda e, dall’altro lato, di non confinarla nell’azione politica, osservandone le manifestazioni in quasi tutti i campi della vita sociale.
«Oggi l’inganno è prima ancora che sul contenuto del messaggio, sulla forma dello scambio: si finge di offrire conoscenza da una parte e di riceverla e accoglierla per rettitudine d’animo dall’altra, mentre in realtà imbonitore e acquirente sono intenti a contrattare il prezzo dell’ubbidienza all’ordine sociale» (pag. 9).
All’autore, quindi, non interessa soltanto “il contenuto dl messaggio”, ossia l’intento più o meno manipolatorio o di persuasione più o meno occulta presenti nella propaganda. L’inganno, scrive, è già nella forma dello scambio. Lo stesso inganno che sta alla base del contratto con cui il lavoratore cede la sua forza-lavoro al capitalista, un contratto capestro che appare firmato da due persone formalmente libere allo stesso modo.

5.- Una società bisognosa di propaganda è una società non pacificata, conflittuale. Quale conflitto si svolge quotidianamente? Non è la “guerra di civiltà” contro gli sgozzatori dello Stato Islamico. Anche questo serve per alimentare più o meno sofisticate strategie di paura. Ma è soprattutto l’esercizio quotidiano del controllo su chi, non controllando quasi più niente della propria esistenza, subisce il ricatto dell’obbedienza/disobbedienza, che potrebbe aprirgli o chiudergli le porte «del paradiso del riconoscimento.» (pag.7) È, innanzi tutto, alla propria parte che è diretta la propaganda. Il nemico è sempre abietto e crudele. E occorre ripeterselo, perché la «ripetizione è uno dei criteri della verità» (pag. 6)
«Sapere chi sia il nemico, dichiararlo ad alta voce […] è una disciplina che garantisce a chi la pratica non solo il piacere della buona coscienza ma anche l’eccitante sensazione di essere parte attiva nella lotta, pedina di una qualche importanza. In cambio della cecità volontaria, o almeno della paziente sopportazione che avvolge i principali meccanismi di oppressione, si ottiene il permesso di protestare contro questo o quel singolo tratto della società, a seconda dei propri gusti e personali inclinazioni. […] La propaganda struttura, insomma, anche il dissenso […].»(pag. 7-8)

6. – Partesana analizza la natura della propaganda, le sue forme, le sue caratteristiche, l’uso semplificato e condensato che fa del pensiero: «pensa per slogan e ragiona per immagini», ha in comune col pensiero arcaico «l’immediata identificazione del nome con la cosa o del simbolo col tutto»; evidenzia il suo ricorso al linguaggio emotivo, al parlar chiaro e semplice, alla produzione di stimoli e messaggi caratterizzati da un livello culturale basso così da risultare comprensibili a tutti. Messaggi brevi, perentori, facilmente ripetibili. «Ogni affermazione che accetti di sottostare alla regola della chiarezza e della semplicità è, in sé, già propagandistica.» (pag. 74)
La propaganda preferisce il vitalismo dell’esperienza immediata e supposta autentica rispetto a quella che si ottiene con lo studio e la riflessione, si affida al restringimento del tempo e dello spazio (il primo ridotto a un presente eterno e indistinto, il secondo a ciò che è a portata di mano), non teme l’imbarbarimento, la confusione, la parzialità, la violenza verbale, la ripetizione (una falsità ripetuta non diventa “vera”, ma nota e familiare come le fiabe che i bambini ascoltano e riascoltano volentieri), la moltiplicazione delle notizie, la lacunosità delle informazioni, la loro deformazione, la menzogna deliberata…«La propaganda fa parte di ogni conflitto, non deve essere elegante ma efficace» (pag. 5). Il successo è il suo indice di qualità…
Direi che l’analisi è completa e ricca. E ciò che più conta condotta dal punto di vista di chi conosce l’astrattezza del “qui ed ora”, di chi sa che occorre andare al di là dell’esperienza immediata e non immagina ingenuamente un’unica “centrale di comando” (o “comitato d’affari”) che trasmette i suoi ordini a una schiera di scrivani servili. Bastano i criteri di selezione della comunicazione-propaganda per individuare quali notizie far circolare o quali no.
«La ricerca dello scoop a ogni costo, la necessità di vendere quanto si racconta al maggior numero possibile di acquirenti, l’obbligo a essere facili e brevi, la richiesta di storie emozionanti e sempre nuove, sono criteri che già lascerebbero passare, tra le maglie dei loro imperativi, quasi solo sciocchezze. Se a questo si aggiunge l’interesse personale a non compromettere la propria carriera o le buone relazioni, attraverso le quali si ricevono quei piccoli onori e regali che tanto sono apprezzati, il quadro è completo» (pag. 45)

7. – Del resto, Partesana sa e lo scrive fin dalle prime pagine: la menzogna della propaganda è solo la sua facciata, è «all’interno dell’individuo che è nascosto il suo potere» (pag. 7). Essa, infatti,
ha ottimi alleati non solo nei meccanismi sociali oppressivi e nelle condizioni d’ingiustizia che tende a perpetuare, ma anche negli stati d’animo e nelle credenze diffuse, nella nostra inerzia cognitiva, nella nostra preferenza per immagini e simboli prima che per nozioni e concetti, nella nostra tendenza al non-logico e al non-razionale, nel nostro gusto per le razionalizzazioni e concettualizzazioni basate su stereotipi linguistici o su formule pronte all’uso, nel nostro conformismo e nelle nostra paure (quella della perdita del Sé, ad esempio), nel «fascino esercitato da rivelazioni su complotti ultimi, intese segrete o congiure contro la verità» (pag. 72), nella nostra aspirazione a una spiegazione “pur che sia”, nella ricerca di capri espiatori, ecc.
A questo si aggiunga la massa di “lavoratori della conoscenza” che oggi l’industria culturale fornisce alla propaganda: lavoratori precari, impiegati o disoccupati, portati coattivamente «a ripetere quel consumo dal quale spera di ottenere il riconoscimento come élite affrancata dallo sfruttamento e dall’ignoranza» (pag. 53).
«Il trionfo della propaganda nasce dalla debolezza dell’individuo, non dal potere dell’industria culturale, anche se è pur vero che l’una cosa conferma l’altra, in una perversa parodia della dialettica tra storia e coscienza.» (pag. 78)

8. – La visione sociale e culturale che sorregge l’analisi di Partesana ha per sfondo un uso accorto di categorie marxiane e marxiste: lavoro astratto e generico, sfruttamento, estrazione di plusvalore, divisione sociale e internazionale del lavoro, esercito industriale di riserva, sussunzione di scienza e cultura nei modi e rapporti capitalistici di produzione-circolazione-consumo, industria culturale, ideologia come falsa coscienza e non, ecc. Da qui spesso la formulazione di osservazioni puntuali e spiazzanti di fenomeni che si svolgono sotto i nostri occhi, ma che per essere compresi hanno bisogno di riflessione, di esperienza mediata, del lavoro faticoso del concetto. In una parola di teorie. Partesana ricorre anche creativamente alle acquisizioni psicologiche e psicanalitiche: proiezione, introiezione, regressione, analisi del Sé, ecc.
Il risultato è questo libretto coi suoi nuclei di pensieri e riflessioni che trovo, per quanto mi riguarda, originali, stimolanti e, essendo molto vicino all’apparato categoriale proposto dall’autore, largamente condivisibili. Credo che vi siano acquisizioni critiche rilevanti e che la sua pubblicazione rappresenti un importante momento di presa di coscienza sulla difficoltà del compito che attende chi voglia oggi svelare e combattere “il gioco delle parti” in cui sono alleate ideologia e propaganda.

9. – La situazione culturale sociale e politica tratteggiata nel libretto è tutt’altro che rosea. È infernale. La società del capitale, dello spettacolo e della propaganda, riducendo i singoli all’impotenza, dà soltanto spazio al dissenso, alla ribellione individualistica e romantica, alla retorica programmata dell’indignazione, quando ci sarebbe bisogno di tutt’altro. Probabilmente di momenti di maturazione collettiva, di possibilità di attingere al patrimonio consolidato della storia del pensiero, di esercizio della dialettica tra esperienza e concetto, di cambiamenti nei rapporti sociali di produzione…
Se non ho capito male, è l’illuminismo di cui parla nelle ultime pagine Partesana. Dove trovare le risorse per tale resistenza? Riuscirà questo sapere a colloquiare coi figli e a suscitare energie, propositi, speranze di redenzione? Riuscirà a formare un’umanità non mutilata (o meno mutilata) con individui capaci di memoria storica, di passione e ragione non ridotta a quella calcolante e strumentale degli indici di successo o gradevolezza?…
Non so. Ma, come direbbe Fortini:

Non è il caso di disperarsene,
figlia mia, ma di saperlo
mentre insieme guardiamo gli alberi
e tu impari chi è tuo padre.

Marzo 2016

50 pensieri su “La società della comunicazione

  1. Per animare la discussione su questo libro importante di un amico, collaboratore e commentatore sempre agguerrito di Poliscritture, mi pare utile rendere pubblica una mia mail del maggio 2015 che gli inviai dopo la lettura de “Il gioco delle parti”, libro allora in elaborazione ma nella sostanza già delineato:

    Caro Ezio,
    forse il mio più che masochismo è ansiosa ricerca di capire se è ancora possibile trovare negli scritti degli altri qualcosa che possa servire a costruire quel “noi” che – non so più se mito o possibilità reale – tento con crescente delusione (e ormai sono davvero vecchio) di ri-costruire.
    Ho letto comunque con attenzione il tuo scritto. Che tra l’altro riguarda una tematica da tempo a me pure presente e che credo di aver pensato con altro taglio. (Vedi allegato).
    Scontato il mio sincero apprezzamento per la tua argomentazione filosofica sempre puntuale e di grande spessore, devo indicarti due punti che al momento (visto che il saggio è incompleto) mi lasciano perplesso:

    1. La critica della propaganda, nella sostanza condivisibile, anche se prende di mira gli aspetti più fanatici e strumentali assumendo a volte un tono troppo caricaturale – al momento, ripeto – non risponde alla domanda elementare che mi sono fatto leggendo: cosa allora, potrebbe/dovrebbe sostituire la propaganda (cattiva in sé o cattiva per determinazioni storiche?) nel rapporto storicamente diseguale e gerarchico tra chi sa (e non vorrebbe mentire) e chi non è nelle condizioni di sapere e pensare correttamente eppure vorrebbe?

    2. D’accordo anche sulle difficoltà di arrivare ad una scelta di campo (ad individuare il nemico o i nemici e non in modi generici ma puntuali). Bisogna evitare l’immediatezza, guardarsi dalle emozioni indotte e/o manipolate, dalle contrapposizioni manichee, dalle semplificazioni o parzialità dell’analisi storica, dall’appiattimento sul “presente”. (Sono i temi che abbiamo in parte dibattuto parlando di Gaza, di Israele, ecc). Ma resta o no l’esigenza di “prender partito” (di “fare”)? O in ogni modo questa che a me pare un’esigenza etica e politica, venendo per così dire il pensiero sempre dopo ed essendo la complessità (o la totalità) mai più ricomponibile o afferrabile,essa – per usare il tuo punto di vista – è una “colpa”? Non vorrei che il tuo discorso, in cui colgo un elogio della complessità, della riflessione, della filosofia, una critica giustamente feroce della propaganda storicamente determinata di cui siamo vittime e in parte complici e della macchina (aggiornata) dell’industria culturale liquidasse il necessario rapporto che Fortini chiamava tra il filosofo e il tonto. Per cui il filosofo continuerà a filosofare e il tonto ad essere tonto. Il rischio per me è di ratificare questa separazione: alle masse la propaganda, al filosofo la riflessione. Con in più, sotto traccia, una delusione che mi pare ti spinga a una critica (anche questa sotto vari aspetti condivisibile) dell’opposizione minoritaria di sinistra.
    Ma ne riparleremo quando il lavoro sarà finito.

    Un caro saluto
    Ennio

    20 maggio 2015

  2. Una mia giovane amica libera come l’aria vola come un uccello da qui al Perù, dal Perù al centro america, poi torna qui, riparte e si incrocia con altri stormi svolazzanti tra giungle e cime aride. «Ogni affermazione che accetti di sottostare alla regola della chiarezza e della semplicità è, in sé, già propagandistica» (Partesana, pag. 74) ma lei non ha mai provato a convincere a fare come lei, comunica la sua gioia, questo sì, per quello che fa, *con semplicità e chiarezza, regola essenziale per relazionarsi oltre le parole*.
    Spiega Salzarulo: “La visione sociale e culturale che sorregge l’analisi di Partesana ha per sfondo un uso accorto di categorie marxiane e marxiste: lavoro astratto e generico, sfruttamento, estrazione di plusvalore, divisione sociale e internazionale del lavoro, esercito industriale di riserva, sussunzione di scienza e cultura nei modi e rapporti capitalistici di produzione-circolazione-consumo, industria culturale, ideologia come falsa coscienza e non, ecc”. Ma dai rapporti capitalistici di produzione-circolazione-consumo molti si affrancano, proprio tra quei “‘lavoratori della conoscenza’ che oggi l’industria culturale fornisce alla propaganda: lavoratori precari, impiegati o disoccupati” che però non si fanno portare ‘coattivamente’ a “ripetere quel consumo dal quale spera(re) di ottenere il riconoscimento come élite affrancata dallo sfruttamento e dall’ignoranza”, la mia giovane amica fa la regia di un videoclip poi parte e riesce a durare a lungo con poco. Altri quarantenni (tanti ne ho conosciuti, come insegnante e in quanto amici dei figli e nipoti) stanno tra di loro, e si disinteressano. Non votano. Non ci credono, non gli credono. Dove li infetta la propaganda, in quale loro scambio, se puntano a regolarsi col (sincero e sobrio) piacere?
    Ma scendiamo a trattare di cose più serie, la sanità, le strade le pensioni le scuole… l’impegno militare, la guerra, facile fare i fantasiosi tra i boschi e in Perù. “La società del capitale, dello spettacolo e della propaganda, riducendo i singoli all’impotenza, dà soltanto spazio al dissenso, alla ribellione individualistica e romantica, alla retorica programmata dell’indignazione” scrive infatti Salzarulo. E Abate: “Il rischio per me è di ratificare questa separazione: alle masse la propaganda, al filosofo la riflessione”.
    Questo rischio, sono abbastanza sicura, è saltato a pie’ pari dalla giovane amica e dagli sfrontati irridenti molti suoi collegati coetanei. Il vero problema che mi turba è un altro: chi sono i quarantenni che la propaganda non li cattura, che non sentono il bisogno di “attingere al patrimonio consolidato della storia del pensiero, di esercizio della dialettica tra esperienza e concetto, di cambiamenti nei rapporti sociali di produzione…” e vanno avanti comunque, fluidi e disincantati, su rotaie tracciate… E se queste rotaie dovessero interrompersi di colpo? Sapranno questi quarantenni combattere, lottare? Perchè allora, non che attingere al patrimonio di storia del pensiero… di ben altro si tratterebbe!

  3. Ringrazio Donato Salzarulo per la fin troppo benevola recensione.
    Il mio piccolo saggio ha in realtà sin troppe aporie, ma ci sarà tempo di parlarne.

  4. Confesso di non avere gran feeling con la filosofia (contrariamente a parecchi in questo blog, mi pare): nessuno è perfetto. E sono abbastanza in dubbio se prendere o no questo libro, pur su di un argomento che mi interessa e che in qualche modo mi riguarda: arte è comunicazione e spesso propaganda, ecc., dopotutto. Ma l’idea che possa essere fondato su visioni ideologiche, mi turba, per quello che è il mio modo di ragionare.

    Quindi non farò commenti a qualcosa che non ho (per il momento) letto, anche per non passare da idiota. Però c’è un paio di cose, fra quanto scritto da Salzarulo, che utilizzo come spunto per queste discussioni.

    1) “La nostra propaganda era, per così dire, illuminista. L’intento non era manipolatorio, emotivo, ma argomentativo. Il convincimento, la persuasione dovevano essere il frutto delle nostre buone ragioni.”

    Avevate quindi impostato la vostra comunicazione sul versante qualitativo (quello del ragionamento), dunque dovevate aspettarvi di ricevere un consenso “minoritario”: la massa ragiona “di pancia”, da essa si stacca una minoranza di individui sufficientemente dotati e motivati, per portare avanti una discussione che – eventualmente – li porti a cambiare le proprie opinioni su basi razionali. Come dire: se volevate il numero, avevate fallito in partenza.

    2) Credo che una “manipolazione” personale di ciò che si comunica sia inevitabile: per quanto oggettivi si voglia e si possa essere, un qualcosa di soggettivo passa sempre; e può modificare anche di molto l’oggettività del messaggio stesso. Se partiamo da questo assunto, allora diventa impossibile “non fare propaganda” col proprio punto di vista, ogni qual volta si apre una discussione.
    Credo che sia meglio specificare, dal mio punto di vista, che la propaganda presuppone sempre uno sfondo utilitaristico (e spesso non corretto nei confronti della verità oggettiva), da parte di chi la fa.

  5. …un tempo dire “ragionare di pancia” non era qualcosa di squalificante, non penso che escludesse la ragione, se mai valorizzava , nel pensiero umano, la componente istintiva, emozionale più positiva e vitale, ma oggi “la pancia” è stata spesso espugnata e colonizzata da massicci messaggi di propaganda spettacolo a fini consumistici. L’immaginario è malato e la ragione offuscata, le intenzioni non bastano quando il nemico è tanto potente e a volte non sono neppure trasparenti…Spero che le donne e gli uomini trovino, non certo a breve termine, vie d’uscita e si riapproprieranno di quanto è stato loro tolto di assolutamente essenziale, come la libertà. Spero valga anche (soprattutto) per “i tonti”, perchè un’umanità spaccata non sarebbe più neanche tale. Mi sembra davvero di grande attualità ed interesse questo libro di Ezio Partesana, secondo la presentazione di Donato Salzarulo..Vedrò di leggerlo

  6. PER CRISTIANA.
    Vediamo, innanzi tutto, se ho capito bene le obiezioni che rivolgi al recensore e al libro. Riassumo:
    a) Si può comunicare senza prefiggersi di persuadere (esempio della giovane amica).
    b) Molti lavoratori della conoscenza si affrancano dai rapporti sociali capitalistici di produzione-circolazione-consumo (“stanno tra di loro e si disinteressano. Non votano. Non ci credono, non gli credono. Dove li infetta la propaganda, in quale loro scambio, se puntano a regolarsi col (sincero e sobrio) piacere?”).
    c) Il rischio paventato da Abate è saltato “a piè pari dalla giovane amica e dagli sfrontati irridenti molti suoi collegati coetanei”…Il vero problema che mi turba è un altro: chi sono i quarantenni non catturati dalla propaganda che “vanno avanti, comunque, fluidi e disincantati, su rotaie tracciate”.

    Sub a)
    Bisogna intendersi sul concetto di “comunicazione”. La bibliografia è sterminata e non mi sogno neanche lontanamente di ripercorrerla. Il modello astratto con cui analizzare le situazioni credo sia abbastanza noto: a) emittente, b) ricevente, c) codice, d) canale, e) contesto, f) referente, g) messaggio. Il modello va fatto interagire con quello relativo alle funzioni del linguaggio: referenziale, emotiva, conativa, fàtica, poetica e metalinguistica.
    Nel caso specifico, la giovane amica (emittente) potrebbe avere soltanto l’intenzione di “conversare per il piacere di conversare”…Ma il “piacere” è un terreno scivoloso…Cosa c’è di più seduttivo (consciamente e/o inconsciamente) del piacere? Desiderare che la propria esperienza (di libertà, di produrre un videoclip, ecc.) venga accolta non è un po’ come desiderare un riconoscimento?…Desiderare di essere desiderati…Che c’è di male? A prima vista nulla. Ad andare a fondo, come diceva Sartre, “l’inferno sono gli altri.”
    Comunque, anche sul rapporto capitalismo-desiderio o capitalismo-godimento esiste una letteratura (due nomi per tutti: Lacan e Deleuze). Forse il capitalismo appare “invincibile” perché lavora sui nostri corpi-desideri. È un terreno da esplorare.
    Sub b)
    La comunicazione-propaganda su cui richiama la nostra attenzione Partesana è quella sociale. Cioè, quella prevalente in una determinata società storica. Gli amici non infettati dalla propaganda, che si disinteressano, che non votano, ecc. ecc. mi appaiono, per così dire, abbastanza “americanizzati”. L’implicito comunicativo al quale rispondono è quello di “farsi i fatti propri” (anche piacevoli: come bere un buon bicchiere di vino, conversare tra amici, farsi un viaggetto, ecc) Sia chiaro, non c’è in me nessun giudizio morale, perché credo che sia la condizione economico-sociale normale di questa società. Si chiama “atomizzazione” e noi tutti siamo dentro, anche quando cerchiamo di fare “polis”, di costruire un “noi”, ecc. In una parola, di fare politica. Se per “fare politica” intendiamo un’attività che non dovrebbe avere nulla a che fare con quell’osceno spettacolo quotidianamente rappresentato alla TV e sui mass-media.
    Sub c)
    Per quanto mi riguarda sono preoccupato sia dal problema posto da Abate (“alle masse la propaganda, al filosofo la riflessione”) che dalle tue domande sulle “rotaie tracciate”: “E se queste rotaie dovessero interrompersi di colpo? Sapranno questi quarantenni combattere, lottare?”.
    Non lo so. I combattimenti, le lotte che oggi vedo intorno a me tendono ad erigere muri, ad eliminare diritti, a fabbricare paure, a rinchiudere sempre più nelle gabbie domestiche…Le “rotaie tracciate” sono quelle del massimo profitto e dell’aumento delle disuguaglianze. Non si interromperanno di colpo. Producono già molte sofferenze, morti, dolori, oppressioni, sfruttamenti. Il fatto è che non vogliamo o non riusciamo a vederli e che, soprattutto, non cogliamo relazioni tra ciò che succede in Libia, in Iraq, in Siria (tanto per fare dei nomi a caso) e ciò che succede tra noi.

    1. Ti ringrazio di avere interloquito con il mio commento, in effetti credevo di avere posto delle questioni di rilievo, e desideravo poter proseguire.

      a) Restando sempre alla mia giovane amica, e al suo modo di rapportarsi, per quello che la conosco e posso immaginare succeda in contesti in cui non ci sono, non credo neppure che “conversi per il piacere di conversare” ma che lanci messaggi che suscitino accordo emotivo, al massimo con poco contenuto descrittivo: “quando ero lì, ho visto questa cosa bella, mi ha detto così e colà e mi ha fatto piacere-mi ha fatto incavolare”. Credo, anzi sono certa, che lei viva cercando accordi e condivisioni emotive e ideologiche, di una ideologia semplicissima, “ridotta”, il poco che basta per stare bene insieme con quelli a cui basta poco.
      Che è molto, però, perchè implica avere fatto delle scelte analoghe. Diciamo che si riconoscono a naso, o meglio a sorriso. (Una volta mi raccontò di una vecchia zia venuta dalla Sardegna a vedere le sorelle a Milano che non vedeva da ventanni, forse sentendo che non ci sarebbero state altre occasioni. Stavano tutte insieme, le anziane donne, e parlavano, ma non la zia venuta da lontano, lei non disse una parola. Guardava. E ha capito tutto, ho commentato io, e certo, mi ha risposto la nipote. Comunicazione ridotta, no? Quasi solo corporea, posturale, intuitiva.)
      Naturalmente quando farà il videoclip o altri lavori analoghi userà ben altro tipo di comunicazione; quello che mi interessava dire è che entra/esce dalla sfera del lavoro e dalla “forma dello scambio”. Lo facciamo tutti, quando si sta insieme a qualcuno in accordo senza bisogno di dirsi niente, fa parte della vita privata. Questi registri della vita privata che molti giovani-maturi tendono ad allargare, a praticare.

      Il piacere, e certo! Non ho voluto parlarne perchè implicava ben altro discorso. Ma a questo proposito voglio mettere l’accento sulla orizzontalità del piacere “reciproco”, orizzontalità che implica anche una consapevolezza e del fatto e sul tema. E non alludo alle dinamiche di piccolo gruppo, lei è una viaggiatrice e riesce a riprodurre, e a incontrare, queste dinamiche liberamente.

      b) apri un discorso grande, sul fare politica come fare polis e costruire un noi. Incontra una riflessione che da anni fa il femminismo, in particolare la Libreria a Milano. Rimanderei il discorso ad altra e specifica circostanza.

      c) E’ vero, non cogliamo relazioni tra quello che succede in Libia e da noi. O meglio, noi che non siamo giovani e abbiamo fatto un’altra politica le cogliamo, questi giovani-maturi non ci vogliono pensare.
      Probabilmente per la stessa ragione per cui non votano, per la ragionevole sfiducia sulla portata di un loro impegno politico. Anche su un’altra cosa hai ragione: tra di loro, fin che mantengono l’orizzontalità amicale, le differenze politiche restano sopite. Non le differenze classiche, ma quelle nuove, il ricorso alla paura, ai muri. Tra loro (di quelli che conosco io) ci sono dei veri “fascisti”, pronti a adottare misure intransigenti e violente. Per ora resta tutto sotto traccia, tanto più è pericoloso che non esista una oggettiva, disponibile, critica che nomini contraddizioni sotto forme che non conosciamo bene.
      Per esempio: tra i 5 stelle si dice non siamo né di destra né di sinistra, vogliamo che i cittadini ottengano i loro interessi. A me pare chiaro il significato di questi discorsi, ma possiedo io un discorso che interloquisca con il loro?

      Quindi rivolgo al post (perchè non ho letto il libro) una obiezione. Tu scrivi: “La comunicazione-propaganda su cui richiama la nostra attenzione Partesana è quella sociale. Cioè, quella prevalente in una determinata società storica”. Quella società storica del capitalismo novecentesco è ancora pervasiva ma non è un monolite compatto. Ho individuato una linea di frattura, e ne ho fatto cenno.

  7. Sul testo di Partesana.
    1.
    Ho letto il testo di Partesana. Esso, oltre ai pregi intrinseci connessi con le qualità logico- filosofiche dell’impostazione, ha quello di stimolare ulteriori riflessioni, pregio per me
    tutt ‘altro che secondario. E mi accingo proprio a compiere qualche osservazione in tale direzione.
    Da un punto di vista strettamente concettuale propaganda e pubblicità vanno inserita nel genere comunicazione. Salzarulo giustamente rileva come propaganda non sia un termine di tipo filosofico ma piuttosto schiettamente politico. Anche pubblicità si presta a tale osservazione. L’appartenenza di tali specificazioni ( propaganda e pubblicità ) al genere comunicazione fa pensare che le specificazioni di cui parlo siano connesse con aspetti contingenti della società: essa dà uno specifico nome a determinati eventi con riferimento alla loro rilevanza in un contesto dato. Propaganda e pubblicità sono termini propri della nostra epoca ma solo nel senso dell’arricchimento del vocabolario e non in quello della scoperta di una nuova entità. I testi antichi sono pieni di discorsi propagandistici attribuiti a personaggi storici. I sottili giuristi romani, a proposito della pubblicità fatta dei venditori ai loro prodotti, distinguevano il dolus bonus ( naturale esaltazione del prodotto venduto ) dalla pubblicità ingannevole ( dolus malus ) e cioè dei veri e propri raggiri elaborati per vendere. Ma – osservo – sempre di dolus si trattava e cioè nel migliore dei casi di “ astuzia “.
    Pare dunque di percepire sempre al fondo di propaganda e pubblicità un qualcosa di ulteriore rispetto alla mera comunicazione e che consiste nell’aggiungere ad essa ( come trasmissione di notizie di eventi ) un elemento che spinge il soggetto destinatario della comunicazione ad una attività utile al comunicatore.
    Non ci sentiremmo di definire “ cattiva “ una pubblicità su un prodotto realmente utile a combattere una malattia così come non ci sentiremmo di definire “cattiva “ una propaganda fatta da un uomo politico su azioni realmente vantaggiose. Tuttavia un sospetto sembra gravare comunque sulle comunicazioni propagandistiche e pubblicitarie, sospetto che è collegato all’influenza che esse esercitano sull’altro.
    Se è così si arriva a due conclusioni : la prima che propaganda e pubblicità non sono mai innocenti ( nel senso etimologico di “ non dannose “ ); la seconda che solo la mera comunicazione di un evento ( quale che esso sia ) appartiene “ al campo dell’ innocenza “.
    Si stenta a immaginare una comunicazione di tale tipo in un contesto che implica sempre rapporti tra soggetti e deve quindi scontare la “ reazione “ del destinatario della comunicazione stessa.
    Salzarulo ha ricordato la dura sentenza contenuta in Dialettica dell’illuminismo: La propaganda è inumana.
    2.
    Certo – senza arrivare a tale estrema conclusione – possiamo rilevare come l’influenza sull’altro sia un campo minato, campo che si estende, ad esempio, ai problemi educativi e che coinvolge, poi, specificamente i rapporti sociali, politici ed economici di una comunità intera. In essa è “ naturale “ la considerazione degli effetti sui consociati i quali non saranno mai
    “ innocenti “ rispetto ad essi. Come si vede tale ambito di ricerca coinvolge la questione della
    “ responsabilità collettiva “ dei popoli, anche se, umanamente, siamo portati a graduarla
    tenendo conto della posizione dei singoli, delle loro reali conoscenze e della esigibilità o inesigibilità di certi comportamenti. Il detto di Brecht ( Beata una società che non ha bisogno di eroi ) contiene sia una visione utopica di società perfetta sia l’indicazione di un atteggiamento che dovrebbe essere tenuto di fronte a propagande estreme nella loro
    “ inumanità “.
    3.
    Posto che ho sostenuto – per non estremizzare il discorso e renderlo per cos’ dire concluso in modo non operativo – che vi possano essere entro certi limiti propagande e pubblicità ragionevolmente accettabili, il discorso si sposta nel campo della “ verità “. Questo rilievo ripropone – sotto l’aspetto della conoscenza – la responsabilità dei singoli. Costoro debbono arrivare a distinguere il vero dal falso e debbono arrivare a comportasi di conseguenza.
    Questo è un compito enorme, immane addirittura se lo si considera nel contesto di una collettività entro la quale ciò che è vero per per arrivare taluni è falso per altri. E, aggiungo, dove la struttura dominante – quale che sia la sua specifica natura – ha, rispetto al singolo o a gruppi più o meno numerosi – strumenti per elaborare “ propagande di secondo grado “, cioè condizionanti addirittura la forza alla vera conoscenza.
    La scuola – in astratto – è il luogo destinato all’apprendimento critico,ma se la scuola è formata in un certo modo è inevitabile la ricaduta nell’errore.
    Non occorrono “ grandi maestri “ che proclamano con forza le “ loro idee “ ma
    “ veri maestri “ in cui lo scetticismo continuo e la prudenza nelle conclusioni sono strumenti obbligati. Bisogna saper insegnare e saper apprendere che ci sono i fatti e i valori e, accanto, il giudizio sui fatti e il giudizio sui valori. Questa, a mio giudizio, è il quadrilatero della ragione.
    4
    Non ci sono formule magiche e mi rendo conto che il mio ragionamento sa di “ illuminismo vecchio stampo “, ma cosa c’è d’altro “ sul mercato “ ?

  8. PER ALBERTO RIZZI

    a) Per ciò che può valere il mio parere, le consiglio di leggere il libro. Non è fondato su “visioni ideologiche”, ma teoriche. “Teoria” e “ideologia” non sono concetti coincidenti. Questo proprio grazie a Marx, che era un critico acerrimo di ideologie e un grande amante di teorie, cioè di visioni razionali e scientifiche del mondo. Poi, giusto per fornirle ulteriori rassicurazioni, non esiste una produzione teorica di Marx rimasta invariata per tutto l’arco della sua vita. Marx, si parva licet, era come ognuno di noi: costruiva a mano a mano le sue visioni teoriche. Per cui esistono più Marx. Non parliamo poi dei marxisti. Ci vogliono diversi volumi per parlarne. Partesana è un adorniano. Ma questa è una mia esemplificazione, un’etichettatura che si può evitare. Perché Partesana è una persona viva e come tutte le persone vive cerca di rendere coerenti e coesi i propri pensieri e le proprie visioni. Soprattutto non pensa solo con i concetti della Scuola di Francoforte.

    b) Cosa volevamo da giovani. L’impossibile. Come tutti i giovani. Tante cose le abbiamo sbagliate, tante altre le abbiamo azzeccate. La nostra propaganda, scrivevo, era illuminista. Dovevano valere, cioè, le nostre buone ragioni. Il problema è che per filosofi come Adorno e Horkheimer, non è possibile propagandare la verità, la libertà o il cambiamento del mondo. “La propaganda è un’attività antiumana”, scrivono. Allora come si cambia questo mondo? Come si cambia una società?…Ho l’impressione che questi due illustri filosofi non abbiano risposte per queste domande. Forse neanche Partesana ce l’ha. Lei che ne pensa? Come si cambia una società? Ci si può dotare di “una teoria del cambiamento”? La si può elaborare, produrre?…Noi giovani volevamo fare la “rivoluzione”. Ma, al di là del fatto che questa non si è lasciata fare o non ce l’hanno fatto fare (stragismo, ecc. ecc,) o non siamo stati capaci di prevedere e rispondere adeguatamente alle mosse del nemico (su questi elementi i pareri sono discordi), “rivoluzione” non coincide con “cambiamento sociale”. Una volta occupati il Palazzo, non è che facilmente si cambiano i rapporti di potere e di produzione-riproduzione sociale. È quanto ci hanno fatto un po’ capire le femministe. Il problema, come vede, è enorme e ce l’abbiamo tutti davanti.

    c) Per il suo secondo punto, per quanto riguarda gli aspetti generali della “comunicazione” e più specifici dell’attuale “comunicazione sociale”cfr. la mia replica precedente a Cristiana. Vorrei aggiungere una sola cosa: la comunicazione-propaganda trae vantaggio dalle modalità di costruzione delle nostre mappe mentali. Si pensi, tanto per fare un esempio, ai “bias”, messi in evidenza dalla psicologia cognitiva. I nostri giudizi sono normalmente distorti dai nostri pre-giudizi.
    Ovviamente, anch’io soffro di bias. E di tanto in tanto cerco di curarmi. Purtroppo, non sempre ci riesco.

    1. Che lo scritto in oggetto non sia fondato su prese di posizione ideologiche (almeno per quanto possibile: perché il rischio è alto per chiunque a causa dei preconcetti che, appunto, tutti abbiamo), mi solleva. L’argomento è ostico, ma ho almeno un motivo in più, per procurarmi il libro e tentare di leggerlo.

      Detto questo, mi concentro sulla sua seconda osservazione, che mi sembra di gran lunga più importante, anche per il dibattito che stiamo facendo.

      Temo anch’io che sia difficile dare una risposta univoca alla sua domanda. E credo che qui, un recente post (“Che fare…”) l’abbia ampiamente dimostrato. No, non credo che ci siano soluzioni a priori, per cambiare una società; specie quando la società è frammentata (e virtualmente deceduta, ritengo io) come la nostra. Se no, una qualche ideologia (o religione) ci sarebbe già riuscita.

      La religione era sufficiente per spingere al cambiamento (o al mantenimento) una società strutturata: gli eventi del XVI secolo ce lo dimostrano. Con l’Illuminismo, che patrocinò il detonatore della Rivoluzione Industriale (o fu il contrario? Bella domanda…) tutto venne messo in discussione; ma senza trovare una soluzione ai problemi, che il cambiamento aveva mantenuto: le diseguaglianze sociali erano rimaste quelle di prima, alla faccia di chi, per superarle, ci aveva messo il proprio sangue. Così (poiché il settaggio della mente umana non era cambiato) si crearono le religioni laiche: coi fallimenti che, con buona pace di chi ha tutto il diritto di crederci ancora, sono sotto gli occhi di tutti.

      Quindi, tornando al punto, “cosa si può fare, quando non si sa che fare?” Beh, l’unica cosa è fare, navigando a vista. Il che conferma in maniera abbastanza esplicita, l’impossibilità di formulare una “teoria del cambiamento” – come lei mi chiede – almeno in forma classica e in maniera globale. Se proprio vogliamo rifarci al passato, ci si potrebbe rivolgere al concetto di “propaganda coi fatti” di anarchica memoria. Come dire: “Ho un’idea riguardo alla risoluzione di un certo problema, io ci provo e chi mi ama mi segua.”.

      Chiaro che agire in questo modo, impone una risposta altrettanto frammentata a questa società frammentata; incrociando le dita, perché i frammenti riescano a ricomporsi in un quadro sufficientemente “concreto”, da riverberare questi piccoli, puntuali cambiamenti almeno sul grosso della società.

      Come avrà capito, questa soluzione(?) nasce dai miei convincimenti (dai miei preconcetti?), che non danno molta fiducia a maggioranze, che non si propongono di perdere troppo tempo – e soprattutto energie – per tentare di convincere chi non ha i mezzi nemmeno per capire che deve prendersi le proprie responsabilità, anziché blaterare nei bar; o in rete. Una soluzione che – come ho specificato già qualche volta altrove – non è di natura politica, ma evolutiva e legata a scelte economiche e produttive “di base” (la famosa teoria della “decrescita felice”): dunque e almeno allo stato attuale della coscienza degli italiani, minoritaria e (orrore!) da un certo punto di vista “elitaria”.

      Col che, se vogliamo, possiamo dire di aver chiuso il cerchio: perché proporre una soluzione minoritaria, equivale a dire che questa società è arrivata al punto di non poter più essere cambiata in maniera profonda; al massimo, solo aggiornata un pochino; ma proprio un pochino, eh? Che per qualcuno potrebbe anche essere consolatorio, essere sufficiente… E che in conclusione, se non possiamo cambiare questa, possiamo solo immaginare (e tentare di realizzarne) un’altra.

      Ah, è anche evidente, che non ritengo che si debba passare per “l’occupazione del Palazzo”, per cambiare qualche cosa; premesso che non credo nemmeno che ci sia più alcun Palazzo da occupare (sia nel concreto, che metaforicamente), il problema non è che, una volta arrivati al Palazzo sia comunque difficile portare avanti un cambiamento. Il problema è che – lo dimostrano secoli, se non millenni, di tentativi: ultimi quello dei “5 Stelle” – è il Palazzo che cambia te, una volta che ci entri dentro…

  9. Qualche risposta, provvisoria.

    Sono meno ottimista di Cristiana Fischer. Ritengo che la sua amica volante e parca sia soggetta alla stessa propaganda che viene consumata da un commerciante di stoffe, per dire, o da un impiegato del catasto. Non solo per la banale constatazione che zaini, aeroplani, telecamere e quanto altro sono prodotti sociali, merci con il loro ineliminabile carattere di feticcio, ma sopra tutto perché anche la ragazza della quale si narra, e che non conosco affatto, si sarà formata piaceri e dispiaceri leggendo libri, ascoltando musica e guardando film che sono, come ho cercato di mostrare, anche propaganda.
    È ricorrente l’utopia della fuga, a volte mi pare di avvertirla persino in qualche passaggio degli scritti di Ennio Abate; forse significa che un istinto di sopravvivenza contro il dominio è presente in ognuno, e in qualche modo ho cercato di rendervi ragione. Ma i fallimenti e le aporie teoriche di chi questa fuga teorizzò o mise in pratica in passato, dovrebbero renderci sospettosi, se non saggi, in merito.
    La tesi principale del mio saggio è che la propaganda ha sostituito l’ideologia nella struttura del controllo sociale. O detto meglio: è all’opera oggi una dialettica tra propaganda e ideologia (da qui il titolo: Gioco delle parti) che lungi dal fornire appigli alla critica, rafforza al contrario entrambe. Se esistesse una mossa che liberi d’un colpo solo gli uomini dall’ideologia essa assomiglierebbe molto, temo, alla rinuncia all’esistenza.

    Sarebbe certamente interessante studiare il rapporto tra comunicazione e propaganda, ma non sempre la propaganda passa attraverso la comunicazione; anzi in un certo senso la comunicazione pubblicitaria diretta e esplicita è solo un caso particolare, e raro, di propaganda. Lo stipendio medio di un insegnante o la composizione delle notizie sulla prima pagina dei quotidiani, funzionano infinitamente meglio e non corrono il rischio di venir smentite.

    Alla fine la domanda – avete ragione tutti – alla quale resta da rispondere è quella sopra la critica e la speranza. La mia risposta sarà deludente: non vedo altra arma che la ragione (la ragione illuminista come ben scrive Giorgio Mannacio) da poter usare contro la propaganda; comprendere i meccanismi che la fanno potente e mostrarli mi appare l’unica strada non dico aperta ma almeno socchiusa.
    Sembra assodato che questo comporti una divisione (ulteriore) tra i pochi privilegiati, ma in misura sempre minore, “avvelenatori di pozzi” e la moltitudine assordata e assoggettata. È vero, e fa bene l’amico Ennio a preoccuparsene. La speranza appesa al filo è che scrivendo si susciti tanto odio quanto ne serve a preferire lo scontro a tutto il resto.

    “Wirklich, Freunde
    Wem der Boden noch nicht so heiß ist, daß er ihn lieber
    Mit jedem andern vertauschte, als daß er da bliebe, dem
    Habe ich nichts zu sagen”.

    (B. Brecht)

    1. @ Ezio Partesana
      “Se esistesse una mossa che liberi d’un colpo solo gli uomini dall’ideologia essa assomiglierebbe molto, temo, alla rinuncia all’esistenza”: a parte l’attenuazione di “temo”, *senza ideologia niente esistenza*, questo è l’orizzonte tremendo di Partesana.
      Mi ricorda qualcos’altro: siamo immersi nel peccato, non c’è salvezza che dalla grazia: “una mossa che liberi di un colpo”.
      Non sto scherzando: la cupezza dell’universo mentale *espresso* da E P viene ribadita più volte: “è all’opera oggi una dialettica tra propaganda e ideologia… che rafforza… entrambe”, “la banale constatazione che zaini, aeroplani, telecamere e quanto altro sono prodotti sociali, merci con il loro ineliminabile carattere di feticcio” (prodotti sociali=merci, in teoria non è lo stesso, ma oggi sì, extra capitale nulla salus).
      Ma Partesana -mi pare- si rende conto di avere costruito una trappola, infatti scrive: “Alla fine la domanda – avete ragione tutti – alla quale resta da rispondere è
      quella sopra la critica e la speranza”.
      Escluso che si possa essere giustificati dalla partecipazione agli scambi sacramentali del capitalismo “cattolico” (kata olon), la “speranza appesa a un filo” è la ragione illuminista, che comprende i meccanismi e “susciti tanto odio quanto ne serve”. Il reale plumbeo e senza spiragli (capisco peraltro che sia stato pensato così tra le due guerre del ‘900 e in particolare dopo la II GM) offre due scappatoie: la ragione critica e la rivolta.
      In realtà non si capisce come una esistenza partecipata totalmente dalla ideologia potrebbe mai elaborare ragione o speranza-rivolta. E’ necessario invece che si debbano poter ravvisare nella realtà del presente germi di aperture che rendano i soggetti abbastanza liberi da poter pensare e sperare.
      Quali sono questi germi di aperture? Qui si apre un discorso, si può partire da una osservazione di Salzarulo (12.30, per Alberto Rizzi) “Una volta occupato il Palazzo, non è che facilmente si cambiano i rapporti di potere e di produzione-riproduzione sociale. È quanto ci hanno fatto un po’ capire le femministe. Il problema, come vede, è enorme e ce l’abbiamo tutti davanti.”
      Come dire che la speranza eccede l’odio, la rivolta e la critica. Non che ne faccia a meno, ma eccede.

      1. In effetti volevo solo dire che siamo esseri totalmente storici e sociali e che immaginarsi di vivere al di fuori di queste relazioni equivale, grosso modo, a rinunciare all’esistere tout court.
        Ma forse mi sono espresso male.

        1. Sì, capisco la correzione, ma credo scivoli oltre il problema: gli esseri totalmente storici e sociali, se storia e società non fossero intimamente contraddittorie, che possibilità avrebbero di sporgersi/spingersi oltre, con la speranza? O, in altri termini, in che cosa si radica la speranza?

          1. Quale speranza? Dico sul serio: speranza di una vita tranquilla, della rivoluzione sociale, di non morire per mano poliziotta, di dire la verità?

          2. Giusto. Ma dico sul serio anch’io, quella che fa vivere. Poi uno sceglie, o si accomoda. Ma la speranza viene prima, in senso tecnicamente trascendentale. Se non c’è, nessuno sceglie proprio niente.

          3. Mi dispiace Cristiana Fischer, ma a una domanda sopra una sorta di fondamento ontologico di un principio trascendentale di speranza – mi si perdoni il gergo tecnico – non ho proprio nulla da rispondere; e credo che anche il padre Kant la guarderebbe piuttosto perplesso.
            Se è convinta che qualcosa del genere esista, tocca a lei dimostrarlo, o almeno mostrarcelo. Sono convinto che molti leggerebbero i suoi ragionamenti con il massimo interesse.

          4. Gentile Ezio Partesana, riprendo la sua frase “sopra una sorta di fondamento ontologico di un principio trascendentale di speranza”: formulazione un po’ complessa, non crede? secondo alcuni anche contraddittoria, tra l’ontologia e il trascendentale.
            Pure sulla speranza lei ha detto qualcosa. Una speranza solo storica? circostanziata? Speranza di qualcosa?
            O speranza come possibilità?
            Vede che ci risiamo, da una parte la speranza, da un’altra la speranza di che.
            La mia soluzione sarebbe che la speranza appartiene alla sostanza umana come non rinuncia alla fatica di vivere. E’ la possibilità caricata dalla positività. E’ in sé unitaria, speranza di qualcosa, ma non qualcosa che prima è stato voluto e/o conosciuto, e poi sperato.
            Sicuramente si situa in uno sfondo religioso, non confessionale. Religioso in quanto legato alla finità/infinità (quella cattiva e non finita, non quella definitiva del pensiero) della specie e del tempo planetario.
            Pensi che, nel pensiero, possiamo andare oltre la fine planetaria, concretamente dico.
            C’è di che approfondire il senso di trascendente. (Gli scienziati e i militari ci stanno già pensando, da mo’.)

          5. Vorrei evitare una discussione filosofica, non credo sia il luogo né il modo adatto questo. Mi limito a ricordare che di ontologia del trascendentale sono pieni i libri di filosofia (o le fosse, se preferisce), e pur non essendo certo il mio genere di riflessioni non posso fare a meno di riconoscerlo.
            Per il resto le auguro il meglio dalla sua ricerca sul trascendente.

          6. “sono pieni i libri”? per distinguere, forse…
            Evitiamo pure – anche se ricordo che un’altra volta a un certo punto lei preferì evitare una discussione su Hegel . Auguri anche a lei, per le sue ricerche sul feticismo pervasivo.

          7. Sì, preferisco evitare le discussione specialistiche di filosofia al di fuori degli ambiti preposti; troppi presupposti sarebbero da verificare.
            Per quanto riguarda le antologie del trascendentale, guardi che tra i neokantiani, più o meno ortodossi, ce n’è più di un esempio. Per non parlare delle ricerche di Heidegger sul linguaggio, delle così dette “filosofie della differenza” o di alcuni strutturalisti francesi.
            Un saluto,
            Ezio Partesana

          8. p.s. non vorrei essere malinterpretata: una speranza può anche far scegliere di morire

  10. …intervengo con un’affermazione un po’ banale: “finchè c’è vita c’è speranza”. Ma speranza di cosa? Secondo me, nella vita stessa…quale un circolo virtuoso che alimenta la possibilità di recuperare: forza, fiducia nella ragione umana supportata da un sano immaginario, senso critico e scelte consapevoli nella direzione di un cambiamento radicale per la vita. Per fare un paragone: i fili d’erba e le pianticelle che in primavera riescono a trovare la forza e la strada per spuntare dal cemento di case e marciapiedi. Se ci riteniamo componenti della natura (indubbiamente con più predisposizione distruttiva ed autodistruttiva) qualche giusta ribellione si dovrà pur risvegliare in noi…La forza, secondo me, purtroppo arriverà quando saremo vicini ad aver toccoto il fondo, la strada saranno la ragione e la passione ad indicarcela…Ma le riflessioni di oggi preparano il campo…

    1. “nella vita stessa…quale un circolo virtuoso che alimenta la possibilità di recuperare: forza, fiducia nella ragione umana supportata da un sano immaginario, senso critico e scelte consapevoli nella direzione di un cambiamento radicale per la vita” come sono d’accordo con te, Annamaria!

  11. A Partesana, Fischer ed altri.
    Mi rammarico con me stesso – cioè con la mia età , la mia vista facilmente stancabile,la mia pigrizia senile ( sono nella fase del famoso conto alla rovescia ) – per non essere in grado di studiare e meditare più di quanto non riesca a fare oggi. Non sono tanto presuntuoso da credere di redigere, con queste estemporanee osservazioni, una sorta di testamento spirituale o altre simili allegre costruzioni. Ma voglio soltanto rassegnare alcune conclusioni provvisorie a chi ha più capacità, forza e tempo di me per riflettere sui tempi che corrono.
    Vi sono eventi ineluttabili che appartengono alla nostra struttura umana. Ineluttabilità non significa – come spesso polemicamente si osserva – accettazione ma semplicemente prendere atto di alcune forme coessenziali al nostro essere uomini e senza delle quali saremmo altro da…. Gli uomini sono “ rapporti “ e come tali non possono non comunicare. Questa è una forma essenziale ed anche una sorta di dannazione perché – come credo – scoperta la essenzialità della comunicazione se ne scoprono anche i lati oscuri . Di alcuni di essi ha parlato Ezio ed ha concluso con la durezza che è propria alla sua visione del mondo. La propaganda – dice – si è sostituita all’ideologia nella funzione del controllo sociale. Si può accedere a tale conclusione che – se non sbaglio – contiene anche un “ voto negativo “ sull’ideologia. Ma le implicazioni sono di più ampia e drammatica portata. Se la condanna comprende entrambi i contendenti si potrebbe concludere che è lo stesso loro oggetto ( il controllo sociale ) a renderle tali. Certo fino a quando e nei limiti in cui lo scambio delle merci caratterizza la società attuale c’è di che piangere. Entro tale prospettiva riprenderebbe attualità la polemica – che accomuna alcuni atei ad alcuni religiosi – contro “ lo sterco del demonio “ . Non sono marxista ( cioè, più correttamente, non so esattamente cosa significhi esserlo ) ma si imporrebbe in tale direzione la rivisitazione delle meditazioni di Marx. Direi, però, non tanto e non solo economiche quanto strettamente politiche. Se non si può fare a meno del “ controllo sociale “ come strumento per la stabilità degli aggregati sociali indispensabili e coessenziali alla “ struttura umana “ quale tipo di comunicazione/propaganda/ pubblicità perde una parte della sua “ intrinseca malvagità “ ? Se questa intrinseca malvagità dipende dall’oggetto sembrerebbe logico salvare quella comunicazione che un oggetto diverso, ad esempio quello dei valori e non delle merci.
    A parte la considerazione dei “ destini personali “ cui accenna Cristiana – che meritano forse un discorso a parte – i destini collettivi ci portano direttamente alla politica e all’etica e qui vorrei segnalare – e non solo per omaggio ai miei vecchi amori giuridici – che una vasta corrente di pensiero di filosofia del diritto americana cerca di recuperare sia il concetto dei valori fondanti la società sia – coerentemente ad una tradizione empirica dei paesi anglosassoni – la costruzione di “pratiche etiche “ concretamente individuabili e fattibili. In questa direzione vengono rivalutate e rivisitate alcune nozioni tradizionali come giustizia, libertà, eguaglianza e forse anche solidarietà. Che alla fine di questo cammino non si incontri accanto al vecchio Marx anche la vecchia Rivoluzione francese ? La speranza- diceva un poeta ( e vengo ai miei nuovi amori ) “ sta nell’opera “ ( V. Cardarelli: Poesie – Mondadori 1942,).

    1. “La propaganda – dice – si è sostituita all’ideologia nella funzione del controllo sociale. Si può accedere a tale conclusione che – se non sbaglio – contiene anche un “ voto negativo “ sull’ideologia. Ma le implicazioni sono di più ampia e drammatica portata. Se la condanna comprende entrambi i contendenti si potrebbe concludere che è lo stesso loro oggetto ( il controllo sociale ) a renderle tali”.

      Impeccabile.

  12. La speranza non mi ha mai convinto. Trovo che sia come mettere la propria vita nelle mani di qualcun altro o di qualcos’altro. Meglio conoscere i propri limiti , sperimentarli e muoversi dentro di essi, con coraggio e fiducia.Certo non è sempre possibile avere questa forza , meglio aspettare e cercare di raggiungere ciò che si desidera con le proprie capacità, magari facendosi aiutare parlandone o comunque comunicare ciò che riteniamo giusto fare…l’unione si sa fa la forza, io trovo che sia il miglior modo per affrontare i problemi .
    La speranza è una dolce illusione.

  13. Vorrei soffermarmi per una riflessione su questo passaggio di Donato Salzarulo: « Così i politici non “propagandano” più: “comunicano”. Il che mi sembra una grande mistificazione. Un modo per non riconoscere la natura manipolatoria, intimamente falsa di una comunicazione che è, comunque, propaganda. A maggior ragione oggi che la politica è diventata sempre più un’attività mercantile.»
    Condivido, e aggiungo che questa pseudo-comunicazione affonda le radici in un humus politico-culturale che a livello popolare (ma non solo) si è assolutamente impoverito e imbarbarito, al punto tale che, venuta meno nella gente comune la prudenza derivante dalla mentalità critica, qualsiasi accattone di voti o di potere (politico, economico, ecc.) faccia promesse (non importa se e quanto realizzabili), solleticando la pancia o la tasca (o il portafogli, se volete) dei cittadini/elettori, otterrà il suo scopo e prenderà il potere. Io non sono tra quelli che strombettano, soddisfatti e felici, per la morte dei partiti politici e delle ideologie, di cui riconosco -certo- negatività ed eccessi, ma anche le non poche positività; e solo gli sprovveduti possono ritenere che la verticalizzazione del potere, anzi la sua personalizzazione, abbia fatto avanzare di un solo millimetro il cittadino nel suo processo democratico, civile e culturale. Meglio poi non parlare del sociale. Morte le ideologie, non sono rimaste neppure le idee; morti i partiti è rimasta solo la faziosità. E, soprattutto, un’ignoranza politica aberrante, che provoca sbandamento nella maggior parte dei cittadini in occasione delle elezioni; salvo poi orientarli, come ho scritto, verso l’imbonitore di turno che appare come un salvatore, un deus ex machina, un demiurgo. Questo fenomeno, purtroppo, non è solo italiano. Quae cunm ita sint , dicevano i Latini, cioè stando così le cose, il mio spirito pratico si ( cioè mi) chiede come possa difendersi l’uomo d’oggi dagli attacchi che arrivano dalla propaganda e, in modo forse ancora più subdolo, dalla pubblicità. Nei primi anni Settanta nelle scuole italiane c’era notevole attenzione al problema della “persuasione occulta” (ne ha fatto cenno anche Salzarulo ): se ne studiavano forme e tecniche, per imparare a difendersene. Questa è la strada. Ma poi arriva subito la domanda: ma oggi la scuola, questa scuola, può assumersi tale compito? E la famiglia può contribuire in qualche modo? Il vero problema è che occorre -specialmente oggi- un essere umano più preparato alla vita, più colto, maturo e consapevole. Perché ciò si realizzi, occorre una sinergia all’interno della comunità educante (famiglia, scuola, associazioni, chiese, mondo politico -ahi, ahi!-, ecc.) volta ad aiutare i giovani, proponendo modelli di vita degni e sostenibili. Perché, a mio parere, oggi i giovani patiscono l’assenza, o la mancata proposizione, di modelli positivi cui far riferimento.
    Pasquale Balestriere

    1. Concordo con i suoi ragionamenti su questa finta comunicazione dei politici(?) attuali: la propaganda ha solo cambiato pelle, proprio a causa – credo – della fine delle ideologie.

      Ma su quanto scrive al proposito (“Morte le ideologie, non sono rimaste neppure le idee; morti i partiti è rimasta solo la faziosità.”): le idee ci sono ancora, solo che cercano soluzioni in ambiti differenti da quelli ideologici, o politici; secondo la vecchia definizione di politica. Quanto alla conseguenza della morte dei Partiti (che erano alla base della vecchia definizione di politica), mi piacerebbe fosse d’accordo con me, che la faziosità era insita nei Partiti stessi e solo mascherata in funzione della facciata di presentabilità, che essi dovevano mantenere di fronte agli elettori. Ora che non servono più, si gioca a carte scoperte.

      Quanto al fatto che la scuola possa qualcosa contro le varie forme di persuasione occulta, la risposta è nel suo complesso (cioè con l’esclusione di qualche singolo docente) negativa: anche a prescindere dalla “materia prima” che ci passa fra le mani (gli studenti sono la componente della scuola più viva, ma le famiglie da cui provengono sono sempre più rincoglionite: e questo si riflette, in un modo o nell’altro, anche sui figli), la maggior parte degli insegnanti appartiene ormai a quelle generazioni di fatto succubi della “comunicazione” della classe politica attuale.

      1. “Le idee ci sono ancora, solo che cercano soluzioni in ambiti differenti da quelli ideologici, o politici”. Caro Alberto Rizzi, proprio di questo sono preoccupato. Se le idee (che, intanto, faticano a farsi visibili, a meno che non siano partorite -o copiate- da uno che abbia grande visibilità, importanza e notorietà, e quindi “voce” massmediatica) cercano soluzioni solo fuori della politica, vuol dire che poco o nulla possono influire sulla vita dell’individuo, giacché non da oggi la politica -prima e più decisamente di ogni altra attività- ne condiziona il futuro, stavo per dire il destino.
        Quanto alla sua affermazione che la faziosità era insita nei partiti, mi trova parzialmente d’accordo. Mi spiego meglio. I partiti, per etimologia e definizione, si portano appresso la parzialità che è parente stretta della faziosità. Quanto stretta, l’ha potuto constatare chiunque abbia qualche annetto sul groppone; e anche chi non ce l’ha, ma ha letto abbastanza. E fin qui sono d’accordo con lei. Ma i partiti avevano anche una forza propositiva, facevano da traino alle idee, nei casi migliori si facevano palestra e arengo. Con tutti i loro limiti, i partiti politici – ma premetto che questa è solo la mia opinione, confutabile- svolgevano un ruolo che oggi non ha riscontri neppure a malapena decenti.
        Infine, la scuola. Lo so, da sola può fare poco, per suoi interni difetti e palesi contraddizioni (anche perché, a mio parere, con l’introduzione di certi privilegi verticistici e con innovazioni di facciata, ma assolutamente ininfluenti “sul piano della ricaduta pratica”, oggi le norme premiano l’insegnante che fa finta di lavorare). Ma, come ho già scritto, un tentativo per salvare questa società votata allo sfacelo va pure fatto. Personalmente non vedo altra strada che non sia quello della sincronica collaborazione di tutti gli organismi educanti. E chi, se non la politica, la buona politica (se mai ancora ve n’è traccia) può indicare qualche soluzione ?
        Ma ho il terribile sospetto che ci troviamo nella più classica delle situazioni: quella del cane che si morde la coda. Tuttavia traggo qualche motivo di conforto dal fatto che l’uomo, nei lunghi millenni della sua storia, ha sempre trovato le risorse per superare le difficoltà. Talvolta, però, a caro prezzo.
        Pasquale Balestriere

        1. Mi permetto solo di controbattere, che oramai la “buona politica” si trova solo al di fuori della politica tradizionalmente intesa. O quasi.

          Credo che qui ci sia un equivoco di fondo: che le istituzioni politiche (Partiti, Movimenti, Parlamento, ecc.) abbiano ancora capacità di trovare soluzioni positive e propositive. Purtroppo l’idea che mi son fatto (anche dopo l’ultima esperienza in politica attiva), è che occorra agire fuori da queste istituzioni; sia che si creda di poter cambiare questa società, sia che la si voglia sostituire con altri modelli.

          Come ho scritto (più o meno) alcuni giorni fa in altro commento: “Non serve entrare nel Palazzo, per cambiare le cose: è il Palazzo che cambia chi vi entra”.

          1. Innanzitutto mi scuso per il ritardo della risposta. Per formazione culturale e umana e per quel po’ che so di filosofia, ritengo che senza la politica, o, se si vuole, al di fuori della politica, non vi possa essere alcuna forma di organizzazione sociale e civile. E se oggi la “buona politica si trova solo al di fuori della politica tradizionalmente intesa” è un affare maledettamente serio, perché anche i frutti di questa “buona politica” saranno modesti, ininfluenti, in quanto escertati, estrapolati dal contesto politico complessivo, cioè dall’organizzazione politica generale. La “buona politica” deve stare nella politica, deve “essere” la politica normale, cioè quella bella attività, al servizio del cittadino (cfr. il latino minister = servo), che gli organizza la vita e gli risolve i problemi. Aggiungo che, a mio parere, anche oggi esistono politici che sanno trovare soluzioni; ma non sempre hanno la forza per far trionfare le proprie idee in quello sterminato e corrotto gregge che è diventato il mondo politico attuale; gregge verticistico, dove solo pochi o addirittura pochissimi decidono per tutti e che ha ulteriormente rovinato la nostra società, subendo anch’esso però il contraccolpo di tanta rovina. E concludo sostenendo che un miglioramento della nostra società ( se mai ce ne sarà uno) non può passare se non attraverso un miglioramento del mondo politico.
            Pasquale Balestriere

  14. @ Partesana, OK, nessun problema a evitare quelle discussioni in questa sede. Lei però ieri ha scritto ontologia, non antologia, del trascendentale…

    @Mannacio. Se capisco bene tu ritieni che propaganda e ideologia siano “forme” necessarie del controllo sociale “forme coessenziali al nostro essere uomini e senza delle quali saremmo altro da…. Gli uomini sono ‘rapporti’ e come tali non possono non comunicare. Questa è una forma essenziale ed anche una sorta di dannazione (…) Se la condanna comprende entrambi i contendenti (i.e. ideologia e propaganda) si potrebbe concludere che è lo stesso loro oggetto (il controllo sociale) a renderle tali.”
    Riassumendo: tu leghi strettamente natura umana a vita sociale, la vita sociale alla comunicazione, la comunicazione a ideologia e propaganda. Che diventano quindi forme necessarie del controllo sociale, ma infette. La forma infettata dal dominio della merce può tuttavia essere purificata per via di orientamento a valori e conseguente pratica realizzativa.
    Con la operatività riemerge l’idea-speranza: “La speranza- diceva un poeta ( e vengo ai miei nuovi amori ) “sta nell’opera “ (V. Cardarelli: Poesie – Mondadori 1942).”
    (Speranza che avrebbe anche la necessità di una virtù teologale, Emilia, non solo di una “dolce illusione!”)
    Qui vorrei dire che il tema speranza lo ha introdotto Partesana (7 aprile 15.16): “Alla fine la domanda – avete ragione tutti – alla quale resta da rispondere è quella sopra la critica e la speranza”, una speranza che produca critica illuminista e rivolta, sintetizzate in odio: “La speranza appesa al filo è che scrivendo si susciti tanto odio quanto ne serve a preferire lo scontro a tutto il resto.”
    Alla quale prospettiva tentavo di opporre una speranza nutriente e creativa, come ha scritto Annamaria Locatelli e, forse, propria della energia vitale e spirituale (di un “materialismo spirituale”) umana.
    In effetti la citazione di Cardarelli richiama una fiducia nell’azione diretta a fini che implementano la vita umana, più che all’odio che distrugga e sovverta, sia pure per distruggere il nemico.
    Per la mia fragile psiche di donna anziana preferisco non implicarmi con l’odio.
    Perciò preferisco considerare la vita sociale piuttosto in una prospettiva orizzontale, di relazioni e reti, da cui risulta l’idea di una società più matura ed evoluta, meno strutturata dal comando, più autonoma nel pur vigente controllo sociale (anche quello indiretto e più maligno raccontato da Partesana: come propaganda “lo stipendio medio di un insegnante o la composizione delle notizie sulla prima pagina dei quotidiani, funzionano infinitamente meglio”).
    Considerare il mondo umano piuttosto nei suoi legami orizzontali, nei rapporti a rete e a nodi, ha analogie significative con l’immagine dello spazio della gravità quantistica a loop (Carlo Rovelli), e l’analogia secondo me dice molto, riguardo alle forme con cui ci possiamo rappresentare nel mondo, quelle forme di cui tu stesso hai scritto.
    Ma forse, caro Mannacio, una ragionevole fiducia in pratiche costruttive etiche non è affare per questi tempi, di esasperazione di divisioni e di opposizioni.

  15. Da che mondo è mondo i ceti dominanti hanno sempre captato il consenso dei loro sudditi utilizzando la pubblicità.
    E al limite scattava la repressione poliziesca o militare fino alla soppressione fisica dei ribelli. In mezzo una molteplicità di gradi d’emarginazione del dissenziente. Proprio come accade ora. Di nuovo ci sono solo le novità tecnologiche che spostano il livello dello scontro, ma il vantaggio è sempre del più potente. Lo stesso accade nel regno animale. Il nuovo leone dominante sbrana i cuccioli degli altri. Il nuovo imperatore romano faceva uccidere i membri della famiglia del precedente. Tanti anni fa, insieme ad un mio amico, mi occupavo di yoga, leggevo qualche testo di Aurobindo, Yoga per l’Occidente di Constant Kerneïz, i resoconti dei viaggi di Giuseppe Tucci e altri che erano editi, se ben ricordo, dai Fratelli Bocca. Più tardi approdammo alla Self-Realization Fellowship di Paramahansa Yogananda. Quel mio amico ed io ci iscrivemmo ai suoi corsi. Per circa un anno ci inviarono delle dispense su una tecnica denominata hong-so come preparazione all’iniziazione al Kriyā Yoga. Venimmo infine iniziati, mi pare nel 1969, dalla discepola Daya Mata, a Palazzo Brancaccio a Roma, forse la prima riunione in Italia. Cominciammo a fare progetti di andare alle fonti, prima nella sede madre a Los Angeles e poi in India e persino in Tibet. Cominciammo a documentarci meglio sui vari luoghi e società visto che noi, abitatori di un remoto paesetto di una remota provincia italiana, nulla sapevamo del mondo. Ma più studiavamo più aumentavano i nostri dubbi sia sulla dottrina che sulle società indiana e tibetana. Com’era possibile che una dottrina così spirituale avesse prodotto o comunque tollerato una società divisa in caste? Una miriade di poveracci e pochi privilegiati assolutamente separati! Cominciammo a pensare che tutto ciò che avevamo letto prima fossero solo fantasie misticheggianti. In seguito conoscemmo dei giovani indiani i quali nulla sapevano di questi maestri yoga, di misticismo, ma erano molto più interessati Ai Rolling Stones (neanche tanto ai Beatles), ai film hollywoodiani, allo stile di vita occidentale e, in particolare, proprio a quello americano. La fede nel cattolicesimo, se non nel cristianesimo, l’avevamo già persa e così perdemmo anche quella nelle dottrine spirituali indiane e tibetane. Nel frattempo eravamo stati pci, extraparlamentari, radicali, incazzati con tutti e tutto. E il nostro scetticismo dilagò su ogni cosa, e ancora dura. Conclusione: lasciate ogni speranza di cambiare il mondo, questo va dove gli pare.

    1. scetticismo metafisico e razionalità scientifica
      non si torna indietro noi confitti
      in un presente che però non riesce a dare conto
      realmente che tutto succede.
      Taglia indietro e sopra taglia troppo
      avanti taglia te
      taglia me.
      Ma intanto con la scettica ragione
      e sentimenti al seguito
      tra i triboli sicuri
      arriveremo a morte.
      Domani -qualcuno penserà-
      che eredità lasciamo?
      Le contraddizioni che viviamo
      intensamente
      col corpo e con la mente.
      E così sia e sarà se forse altri
      altro senso alla terra invocherà

      1. Possiamo solo sperare di sfangarla alla meglio questa nostra piccola, breve e miserabile vita.
        Magari qualcuno, anche di noi, potrà diventare famoso o ricco, o entrambi. Già succede, ma che differenza fa per gli altri, per il resto del mondo? Ancora più esplicito. Per me, per i più, per la moltitudine del mondo, che cambia che c’è stato un Einstein, un Euclide, un Platone, un Gandhi, un Kant, un Jobs, un Bill Gates o che ci possa essere stato un Gesù (tra l’altro proprio quest’ultimo non credo sia mai esistito) o che un domani ci saranno altri a dare il loro senso alla vita? Sarà il loro senso non il mio, perciò non m’interessa (vedi aforisma di Emil Cioran). Non ho mai fatto affidamento sulla speranza ma solo sull’analisi e la previsione. Anche se il mondo è senza speranza non me ne preoccupo. E’ l’unico che abbiamo. Per ora la mia analisi mi dice che il nulla è la sostanza dell’universo, l’origine e la fine, ma devo confessare che non capisco perché debba essere così.

  16. SPERANZA
    Arriva scortato il raggio di sole,
    entra regnante, a tutto provvede,
    consola ,ama, accoglie, ricuce
    ride, scompone, torna e ritorna

    Non fuochi né addii né scalpitii
    dolci melodie , ninne nanne
    su fermi giorni come di lago,
    superfici senza specchi,
    soffici appoggi, fumi leggeri
    negli occhi a velare le pene.

    Fuori tutto procede
    dentro l’attesa il nirvana
    tutti all’ascolto
    Ah, stolta campana!

  17. Una poesia che procede per giustapposizioni e analogie. Il risultato, inteso come atmosfera complessiva, mi pare notevole. L’explicit è molto interessante, perché inatteso. Straniante.
    Pasquale Balestriere

  18. Se ho ben capito il senso della strofa finale esso mi ricorda quello di una mia poesia in cui scrivevo
    “Cadesti dalla preghiera
    al suono del clacson”

    La poesia intera è

    Fuochi fatui

    Esili faci notturne
    in silenzi azzurrini
    Viandanti del sogno vaganti
    in solitari cimiteri campestri
    Smemorate risorgenze
    in visi ricurvi
    Lievi sorrisi
    in sfumate penombre
    di miti greci
    Timori ancestrali
    d’assonnate trepide notti
    scandite da scope di saggina
    Instabili refoli della mente
    spazzati via
    da rumorose scavatrici
    Cadesti dalla preghiera
    al suono del clacson
    e tra un amore e l’altro
    annotavi gli eventi
    Ogni cosa turbina
    e si confonde ormai
    nel vortice del tempo
    Rimangono soli
    i fuochi sulla collina
    e il volto nascosto
    della vita

    da “A poesie spiegate – Amazon.it – http://www.lulu.com – 2010-2011
    —————————————————————————————————————-
    I versi “Cadesti dalla preghiera…” hanno una storia che può interessare. Quando fui iniziato al Kriya Yoga da Daya Mata, nel momento delle domande, un singolare tipo di una certa età si alzò e confessò emozionato, rivolto al guru, che mentre levitava in profonda meditazione un colpo di clacson l’aveva fatto cadere e chiedeva lumi per ovviare all’inconveniente! L’ilarità fu generale ma l’espressione m’incuriosì e nelle mie elaborazioni è divenuta il paradigma delle cose futili che hanno il potere di distoglierci dalle cose veramente importanti.

  19. …sperare nonostante
    è quasi un destino
    inizia al mattino
    rovesciandoti dal letto,
    la soneria spenta…
    Non sai i contorni e le vie,
    brancoli, la notte senza consiglio,
    tra nebbioline di sabbie sottili
    convergenti in umane clessidre
    di un tempo in scadenza.
    Gli invisibili fili sono forze
    sotterranee e celesti
    a stracciare il velo d’acciaio
    di mille condizionamenti,
    più in là non sai

  20. Per

    Pasquale Balestriere

    12 aprile 2016 alle 0:55

    Innanzitutto mi scuso per il ritardo della risposta. Per formazione culturale e umana e per quel po’ che so di filosofia, ritengo che senza la politica, o, se si vuole, al di fuori della politica, non vi possa essere alcuna forma di organizzazione sociale e civile. E se oggi la “buona politica si trova solo al di fuori della politica tradizionalmente intesa” è un affare maledettamente serio, perché anche i frutti di questa “buona politica” saranno modesti, ininfluenti, in quanto escertati, estrapolati dal contesto politico complessivo, cioè dall’organizzazione politica generale. La “buona politica” deve stare nella politica, deve “essere” la politica normale, cioè quella bella attività, al servizio del cittadino (cfr. il latino minister = servo), che gli organizza la vita e gli risolve i problemi. Aggiungo che, a mio parere, anche oggi esistono politici che sanno trovare soluzioni; ma non sempre hanno la forza per far trionfare le proprie idee in quello sterminato e corrotto gregge che è diventato il mondo politico attuale; gregge verticistico, dove solo pochi o addirittura pochissimi decidono per tutti e che ha ulteriormente rovinato la nostra società, subendo anch’esso però il contraccolpo di tanta rovina. E concludo sostenendo che un miglioramento della nostra società ( se mai ce ne sarà uno) non può passare se non attraverso un miglioramento del mondo politico.
    Pasquale Balestriere

    Ho l’impressione che stiamo dicendo più o meno le stesse cose; con qualche differenza nei dettagli e, soprattutto, nel punto di vista. E sì, è un affare maledettamente serio.

    Il punto è che io preferisco un risultato modesto, alle frustrazioni che si accumulano, andando a sbattere la testa contro l’ottusità degli elettori e il sistema delle caste. Questo mio modo di vedere ha già prodotto numerose discussioni fra me e altri membri di questo sito, in occasione di altri post. Ma credo sia appunto meglio puntare su una sperimentazione che produca qualcosa di minimo, ma che può crescere, piuttosto che lamentarci su cosa diavolo si possa fare.

    E il ragionamento vale prima di tutto per quei politici, che hanno buone idee, ma che non hanno la forza per farle trionfare. Se non hanno questa forza (e altro che Sansone ci vorrebbe…), magari ne hanno abbastanza per costruire una piccola, esemplare alternativa.

    Fautore infine della politica dal basso, ritengo che il processo finale che lei auspica, funzioni al contrario di quello che pensa: solo una società in miglioramento, potrà esprimere dei politici migliori.

    1. Per Alberto Rizzi
      Quello che lei dice (“solo una società in miglioramento, potrà esprimere dei politici migliori”) lo penso da una vita. Ma come può migliorare la società se non con il contributo di tutte le sue componenti, politici compresi (almeno i migliori)?
      La saluto cordialmente
      Pasquale Balestriere

      1. Perfettamente d’accordo.

        Continuo a ritenere, però, che i “politici migliori” lavorino ormai fuori dal Parlamento; salvo eccezioni che confermano la regola, ovvio. I 5Stelle si stanno facendo omologare, ma qualcuno in buona fede immagino che ci sia ancora. Difficile pensare che nei Partiti tradizionali ce ne siano ancora: vedi a suo tempo l’esempio di Franca Rame.

        Ritengo anche che più si va verso il locale, i “buoni politici” siano più facili da trovare (anche se pur sempre minoritari); e probabilmente rimanendo competenti solo alla scala, appunto, locale.

        Del resto da anni e anni vado sperando che ci sia un’unione di queste forze, di queste persone “migliori”, purché sufficientemente disilluse dalle possibilità che offrirebbe il sistema politico tradizionale.

  21. Ezio Partesana (09.04.2016 alle 7.46) nel riportare il seguente passo di Giorgio Mannacio (08.04.2016 alle ore17.40)

    *“La propaganda – dice – si è sostituita all’ideologia nella funzione del controllo sociale. Si può accedere a tale conclusione che – se non sbaglio – contiene anche un “ voto negativo “ sull’ideologia. Ma le implicazioni sono di più ampia e drammatica portata. Se la condanna comprende entrambi i contendenti si potrebbe concludere che è lo stesso loro oggetto ( il controllo sociale ) a renderle tali”*.

    commenta con un lapidario ma significativo *Impeccabile*.

    Se al passo citato, aggiungiamo, sempre di Mannacio, la frase che di poco lo precede : * Gli uomini sono “ rapporti “ e come tali non possono non comunicare. Questa è una forma essenziale ed anche una sorta di dannazione perché – come credo – scoperta la essenzialità della comunicazione se ne scoprono anche i lati oscuri * , potremmo aggiungere un “Bingo!” all’ “Impeccabile”!

    Da un lato, siamo entrati nella “dannazione” del tradimento della parola, nel suo problematico allineamento con il senso, nonchè negli scarti impliciti della comunicazione umana, contrassegnata com’è dalla intenzionalità per lo più inconscia.
    E se a questa dissimmetria, insita nell’atto comunicativo, ci aggiungiamo l’uso perverso che ne fa un sistema sociale come il nostro attuale, il cui nucleo centrale è fondato sulla apparente eguaglianza e libertà dello scambio capitale-lavoro, e quindi sull’occultamento sistematico dei rapporti ‘reali’, abbiamo il quadro completo.

    L’ideologia, in sé, ha questa doppia faccia: da un lato essa rappresenta il complesso di idee e valori che caratterizzano un determinato periodo storico e, dall’altro lato, essa rappresenta anche la forma necessaria per dare ‘istituzione’ a quel modello di pensiero che, in tal modo, si sancisce come mentalità corrente. Per ‘istituirsi’, questo modello ha bisogno di strumenti che ne mostrino la indefettibilità (per quanto concerne la validità della scelta: non può che essere così) e la opportunità (che ha a che vedere con la ricerca del consenso: solo chi vi aderisce fa la scelta giusta).
    Lo strumento di eccellenza per garantire tutto ciò è la propaganda che, nella iniziale accezione di propagare idee, di portare le persone alla riflessione, assolve molto bene a questo scopo.
    Ma quando si tratta di tirare i remi in barca e rafforzare il potere di quella forma ideologica, la propaganda cambia segno e funzione. Non più ‘comunicazione’ bensì, metaforicamente parlando, il suo ‘braccio armato’ rivolto ad annientare le difese di chi vi si oppone. L’aspetto più straniante è quando la propaganda si appropria anche, artatamente, della gestione del dissenso.

    Ma perché la propaganda attecchisca, ci vuole un humus particolare:
    – ridotta capacità critica alimentata da idealizzazione verso i depositari del cosiddetto sapere (i maitres à penser); un bisogno di sapere che spesso si sovrappone o si affianca ad una ‘bulimia di notizie’;
    – particolare sensibilità agli eventi che viene sollecitata in special modo dall’emozione a discapito della ragione;
    – circolo vizioso che si instaura tra il desiderio/paura del cambiamento e il terrore del nemico (“il peggio”) sempre alle porte.

    Che fare? Forse un miglioramento potrebbe avvenire cercando di modificare, nei limiti del possibile, questo humus.

    R.S.

    1. I commenti e le riflessioni si sono allontanati abbastanza dal testo recensito, anzi direi molto. Questo non è necessariamente un male, ma rende alcune domande o osservazioni che mi vengono fatte decisamente fuori luogo.
      Senza voler obbligare alcuno a leggere il libro, scrivo però che concetti come “propaganda”, “ideologia” o “comunicazione”, hanno nel mio saggio una struttura abbastanza precisa mentre qui, da molto di voi, sono usati in senso differente.
      Risponderò volentieri a chiunque voglia pormi domande sul “Gioco delle parti”, ma non ho il tempo né le forze necessari a districare di nuovo quei concetti. Ecco, tutto qui.
      Un saluto,
      Ezio Partesana

    2. [@ Simonitto 14/04/2016 alle 12:56]

      “Ma perché la propaganda attecchisca, ci vuole un humus particolare”:
      a 1) all'”idealizzazione verso i depositari” ci pensa abbastanza una cultura popolare radicalmente blasfema e derisoria;
      a 2) la sensibilità emotiva si indirizza -mi pare- con precisione alle cause degli eventi, piuttosto che agli eventi stessi;
      a 3) il circolo vizioso (tra desiderio/paura e terrore del nemico) si libera… andando in guerra, e questo non è un bene.
      Sembra che “il tradimento della parola” abbia ormai raggiunto un punto di tensione vicino alla rottura, l’humus ha cambiato composizione.

  22. SEGNALAZIONE

    Informazione e potere
    21 aprile 2016 Pubblicato da Le parole e le cose
    di Alessandro Gazoia
    http://www.leparoleelecose.it/?p=22693#more-22693

    Stralcio:

    I grandi eventi previsti sono, al contrario, programmati e costruiti attraverso i media, illuminati in diretta per il pubblico, presente a distanza sui mezzi di comunicazione; inoltre, tutti gli attori coinvolti – professionisti dell’informazione e protagonisti – ne sono ben consapevoli. Denis McQuail illustra le condizioni che definiscono questi media events: «Eventi inusuali di grande importanza storica o simbolica, come incoronazioni o visite di Stato: copertura live; sponsorizzazione al di fuori dei media; alto grado di pianificazione; disciplina e rispetto della forma nella loro presentazione; enfasi nella condivisione e celebrazione nazionale; e un interesse per un pubblico ampio (spesso internazionale)».3Nella nostra società sono di rado funesti: il matrimonio di William d’Inghilterra e Kate Middleton va in diretta in mondovisione, la morte di Saddam Hussein – il dittatore che un’interpretazione politica e giornalistica delirante e dominante, «complottista» dall’alto, aveva chiamato a correo per l’11 settembre e dotato magicamente di armi di distruzione di massa – ha la differita del fatto compiuto. Anzi, il filmato ufficiale è privo di audio e si ferma un attimo prima dell’esecuzione, ma un cellulare riprese l’intera scena dell’impiccagione e le immagini vennero diffuse su internet.

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