Zaràth

 

zarathustra

di Arnaldo Éderle

Zaràth, che nome strano!
Viene dall’ultra-fantasia del cervello
o dalla sua mania di grandezza,
dalla pochezza o dall’enormità del suo
spirito?
Chi l’ha inventato già lo sapeva
il suo destino e la sua strana maestà.
Chi lo inventò lo sapeva già prima
della nascita, lo sentiva come un’asta
diritta e lunga nella mano della
filosofia e dell’umanità trascesa
nel varco, nell’abisso della futura
conoscenza.
Chi l’inventò non conosceva altro di
maggiore altro di più pesante che
il cervello potesse contenere,
era come un fastidioso pondo che
gli impediva di camminare oltre,
d’inerpicarsi sulle vette o di
inoltrarsi negli abissi del
nostro oceano.
Chi ne scrisse doveva sentire
il dominio della magra esistenza dell’uomo
della donna e degli innumerevoli figli
che dalle coppie dovevano germogliare
sulla terra.

Questo doveva succedere molto tempo fa
quando le stelle e i pianeti ancora
non indoravano il nostro
firmamento, quando le galassie
erano offuscamenti della luce.
Ecco, quando non eravamo che nulla
senza capo ne coda.
Questo era il mondo, la fonda l’inspiegabile
nullità, l’impossibilità, il vero
nulla.

(Ciò che manca è la musica,
ma è finita qualche minuto fa,
è scomparsa dagli altoparlanti
della radio, ora
si scrive nel silenzio e non si ricorda
bene il cammino che ci si era proposto.)

Ma sì! Il cammino era
l’attraversamento di uno strano
deserto senza sabbia un cammino
asciutto senza l’acqua che
serve a sopravvivere.
Oppure una metropoli piena
di palazzi strade piazze con
tante fontane con tanti monumenti
e condomini a non finire.
Magari un largo fiume doveva
attraversarla.

Quelle case quei palazzi quelle piazze
ora ci sono, non allineati, si capisce,
ma esistono in tante parti
del nostro mondo.
Zaràth, probabilmente, non saprebbe
che dire o che fare, chissà, girerebbe
tra vicoli e viuzze sporche o pulite
in cerca di un uomo grande grosso e
forte, un superman, e chissà chissà
forse lo troverebbe.
Zaràth parlò una volta, e molti
l’ascoltarono, ma lui, poi, voltò le spalle
e continuò il suo pellegrinaggio.
Strano uomo questo Zaràth, strano
individuo.
Gli uomini le donne i bambini continuano
a vivere quaggiù sulla nostra terra.
Finché Zaràth seguita a camminare
non c’è pericolo.
Ma anche se si ferma non può
fare paura: è piccolo e quasi storpio
porta una palandrana sdrucita e
scolorita e un paio di sandali senza
suole, è magro impiccato i capelli
lunghi che gli cadono sulle spalle,
quei grappoli di capelli, non
trecce, che portano i giovani
giamaicani.

Povera umanità!
Ma che fa su questa povera terra,
che vuole il cercatore dell’uomo
grande immenso? Che vuole
farci intendere?
Siamo tutti uguali qui, normali spauriti
ci diamo soltanto un po’ d’arie.
Che vuole? Intanto intanto si strusciano le suole
sui marciapiedi si sta fermi ai semafori
si superano gli altri per la fretta
si prende un caffè si urta qualcuno
si dice scusa.

Chi potrà ammettere che esista
una fede nell’altezza e la corposità
di un maestro, e supporre che l’uomo
grande potrà espandere la consistenza
e l’adorazione dell’oro e dell’argento?
Alcuni porteranno i loro figli
alla scuola di Diogene, molti con lui
cercheranno l’uomo vero e tenteranno
d’incoronarlo re del silenzio, della sua
incontaminata sapienza del suo
coraggio, alcuni si batteranno.
Ma intanto le donne e gli uomini
continueranno ad asciugarsi il collo
del sudore delle fatiche sopportate
in nome dell’oro.
Che non finirà nelle loro tasche,
che seguiterà a fluire nei forzieri
dei titani.

(Questo non lo capirò mai, non riesco
a indurlo nel mio poco cervello, non so
come fare non so come si possa credere
all’abbraccio dell’oro, come
gioire del suo fulgore della sua
pasta gialla.
Non capirò mai)

Non capirò mai.
Camminavo
per le strade del mio quartiere:
una famigliola nera
madre padre due figli lenti
e tranquilli sul marciapiede di fronte.
Andavano senza
nessun desiderio, sembrava. Io
continuavo a seguirli con lo sguardo,
li seguivo e mi chiedevo: non
la condizione del loro vivere
doveva essere, non la loro
evidente serenità, non il loro
stato decente dovevano garantire
la loro vita, ma le scintille
dell’oro erano la loro bilancia
la loro nefasta garanzia, quella
che li faceva camminare in fretta
o adagio sereni o paurosi,
nessuna sicurezza,
non una briciola di pace.

Ma l’attimo verrà quando
nessuno lo aspetta, verrà una
stella mai vista prima che sposterà
l’asse del firmamento e lo sguardo
di chi cerca in alto vedrà il suo
mondo come una palla fulgida
di ogni bene e prodiga di gigli
e di tanta bellezza.
Ma sarà vero? Chi lo spera vive
ancora al di qua dell’innocenza
che sente e vede il grande slancio
l’infinita parabola del nostro vivere,
che s’accorge del gravissimo trauma
dello specchiarsi della
fulgida palla delle nostre stelle
nell’arte dell’orafo.
Ma chi lo spera vive ancora al di qua
del trono d’oro, e la speranza
di superarlo senza sbatterci contro
è solo speranza.

8 pensieri su “Zaràth

  1. Ecco un’altra poesia-racconto di Ederle. L’autore si lascia portare dalle immagini che arrivano, fiducioso che porteranno alla domanda segreta, quella che all’inizio, forse, nemmeno lui immagina. L’aspetta, e nel mentre si affida alle immagini. E’ un modo di fare poesia che definirei “figurativo”, quindi descrittivo e prosaico: privo di sorprese linguistiche, di invenzioni verbali, di sbalzi. Ma il mistero c’è, nascosto negli ori e nella bellezza ideale che Ederle ha altre volte decantato. In pittura fa pensare a Klimt, per quel suo decorativismo che disarma e incanta. Ma qui ci sono strade e passanti, c’è la realtà quotidiana sulla quale Ederle si concede un volo radente, come protetto in uno scafandro di nomi di fantasia posti tra il nero e l’oro. Oro che, per carità, non è luce ma denaro di ricchezza. Sappiamo che anche Icaro andò a sbatterci contro.

  2. Scrivere come camminare, o seguire il proprio discorso interiore – come se Ederle non possedesse una tecnica sopraffina di verseggiare, usata in passato, e che ora è diventata  fluida padronanza di discorso. “Andare” è figura di tutto il testo, della fluidità del discorso, del procedere in coerenza della argomentazione, del camminare di Zarath (non più Zarathustra, senza la sua st[a]r: parlò una volta poi voltò le spalle), del cercatore dell’uomo, dello strisciare le suole.
    Andare è il succedersi di immagini, “povera umanità” che fatica a lavorare e si sposta, senza riposare in serenità di vivere, come la famigliola di neri.
    Ma immagini che si solidificano, nella consistenza dell’oro e dell’argento, motore del lavoro di tutti che fluisce nei forzieri dei “titani”. Perfino le visioni palingenetiche si condensano negli oggetti d’oro degli artisti, e la speranza è ingombrata dall’ostacolo massiccio di un trono, d’oro anch’esso.

  3. ..una lunga poesia-prosa che ci mette in cammino, seguendo le orme di una umanità che si è persa per strada, progressivamente facendosi ingannare da ciò che luccica, un re mida che baratta la natura con l’oro…

  4. Mi arrivano giuste queste poesie , in un momento particolare della mia vita.
    Arnaldo Ederle incontra il mio pensiero, sarà un caso ma…ripensandoci, rileggendo, è proprio così. Quanto mi piacciono ! Continuando a cercare il vero, se esiste, mi auguro di leggerne ancora-

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