Su “Li chiamavano terroristi” di Luigi Borgomaneri

borgomaneri

di Luciano Aguzzi

Intervento alla presentazione del libro di Luigi Borgomaneri “Li chiamavano terroristi. Storia dei Gap milanesi (1943-1945)”  svoltasi al
Centro Puecher  di  Milano  il 13 aprile 2016

Questo libro di Borgomaneri si può considerare “vecchio” e “nuovo” insieme. Vecchio perché deriva da un lavoro di ricerca durato oltre tre decenni e i cui risultati sono via via apparsi nelle due edizioni del testo fondamentale «Due inverni, un’estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e Provincia 1943-1945» (Franco Angeli, 1985 e 1995), il quale contiene molte pagine ora rifuse in «Li chiamavano terroristi», e in altre pubblicazioni.
In seguito Borgomaneri, la cui attività scientifica è tutta concentrare sulla storia della Resistenza a Milano e, in senso più ampio, sulla situazione di Milano nel periodo della Resistenza, oltre a numerosi contributi di carattere più divulgativo, ci ha dato altri libri importanti, fra i quali «Hitler a Milano. I crimini di Theodor Saevecke capo della Gestapo» (Roma, Datanews, 1997; seconda edizione digitale 2000) e «Lo straniero indesiderato e il ragazzo del Giambellino. Storie di antifascismo» (ArchetipoLibri – Clueb, 2013).
Si tratta di ricerche rigorose con tutti i caratteri della migliore ricerca accademica. Con il termine di accademia, com’è noto, non si intende solo indicare le università e i docenti e ricercatori universitari, ma anche tutti quegli enti e istituti che hanno come proprio compito istituzionale la ricerca culturale e la diffusione della cultura, fra i quali l’Istituto milanese per la storia della Resistenza e del movimento operaio (Isrmo) fondato nel 1972, e dal 2002 diventato Isec – Istituto per la storia dell’età contemporanea, con il quale Borgomaneri ha collaborato fin dalla fondazione, come ricercatore.
Sottolineo questo carattere scientifico dell’attività di ricerca perché il libro di Borgomaneri non ha un carattere divulgativo e non è scritto, e nemmeno si può leggere, come a volte si dice, come se fosse un romanzo. È invece un libro denso di informazioni, di nomi, di eventi, di ricostruzione di biografie e di situazioni, di precisazioni storiografiche e di citazioni di documenti di prima mano, molti dei quali mai precedentemente studiati e utilizzati.
E il “nuovo” del libro lo si misura proprio dalla quantità e qualità dei nuovi apporti di conoscenza che ci offre. Pertanto il libro, così arricchito e rinnovato, ci dà un quadro della storia dei Gap (Gruppi di azione patriottica) milanesi in parte inedita e di grande interesse.
Il rigore scientifico non è però né neutro né freddo, ma animato da una passione militante che si coglie nelle pagine di Borgomaneri. Non militante in senso ideologico e partitico, ma in quello di una tenace volontà di restituirci il volto autentico della Resistenza e dei suoi protagonisti, liberandolo dalle strumentalizzazioni e dalle oleografie di tanta storiografia precedente che, questa sì, si era piegata alle convenienze ideologiche e di partito.
Già Luigi Ganapini, nella prefazione alla prima edizione del 1985 del libro ricordato «Due inverni, un’estate e la rossa primavera», scriveva che nelle pagine di Borgomaneri le vicende della Resistenza «vengono fatte rivivere nelle loro proporzioni reali, nella drammaticità e nella tragedia che investono anche gli aspetti più minuti e banali dell’esistenza».
E lo stesso Borgomaneri scrive in più occasioni, ad esempio nel libro citato «Lo straniero indesiderato», che la storia del «gappismo milanese deve essere sottratta alla oleografia a tutto tondo della madre di tutti i revisionismi – quella delle ricostruzioni a posteriori di partito e ufficiali – per essere riconsiderata e ricordata nella sua interezza, debolezze, improvvisazioni, forzature ed errori compresi» («Lo straniero indesiderato», p. 96).
La storiografia resistenziale ha infatti dato, fra censure ed enfatizzazioni, un’immagine irrealistica, e comunque non vera, del gappismo. Nello stesso libro Borgomaneri parla di un «idealtipo» «che negli anni Sessanta del Novecento ha trovato la sua formalizzazione più compiuta attraverso il fortunato libro di Giovanni Pesce “Senza tregua. La guerra dei Gap”» (p. 90).
E poco avanti commenta: «Continuare a sovrapporre rigidamente il modello ideale del “gappismo” alle forme che invece assunse concretamente, significa perpetuarne l’appiattimento delle diversità, cancellando ogni scarto tra ciò che si riuscì a trasporre nella realtà e l’idealtipo che ci è stato riproposto a posteriori» (p. 90-91).
Il primo obiettivo storiografico del libro di Borgomaneri è pertanto quello di restituire concretezza, carne e sangue, alla storia del gappismo milanese. L’autore esplicita questo programma scrivendo: «Ricostruire la travagliata storia della 3ª brigata Gap senza irritanti mistificazioni né insopportabili veli celebrativi, e restituire per quanto possibile un’identità e un volto ai combattenti sconosciuti di quel piccolo eroico variegato universo, è il compito che ci siamo prefissi» (p. 23).
Il libro è importante per il suo rigore, per la ricostruzione complessiva della storia dei Gap milanesi, per la passione che lo anima e anche, particolare non secondario, perché è praticamente l’unica ricerca originale e scientifica sull’argomento e, vista la povertà della precedente letteratura storica sui Gap milanesi, rappresenta una svolta decisiva.
Prima del libro di Santo Peli («Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza», Torino, Einaudi, 2014), sulla storia dei gap avevamo solo alcuni libri memorialistici dei protagonisti stessi, e per Milano innanzitutto i libri di Giovanni Pesce, e pochi saggi, sintetici o addirittura solo schede, di Mario Giovana e altri in vari libri sulla Resistenza.
Mancava una ricerca complessiva approfondita. Mancava cioè una ricerca analoga a quella che Borgomaneri ha costruito fra il 1985 e il 2015 con i suoi contributi.
La documentazione archivistica coeva, per il carattere clandestino dei Gap, è largamente incompleta e spesso limitata a relazioni ufficiali di partito; e quella successiva, postliberazione, è da utilizzare con molta attenzione perché quasi sempre frutto di una ricostruzione a memoria e quindi presenta le distorsioni tipiche della memoria ad anni di distanza.
Nonostante tutte le difficoltà Borgomaneri ci dà una storia dei Gap milanesi in cui si recupera la memoria di tanti “dettagli” prima malconosciuti o sconosciuti o comunque non conosciuti in modo organico.
Ne emerge un racconto articolato delle diverse fasi dei Gap milanesi, dal primo Gap dei mesi fra ottobre 1943 e gennaio 1944, in cui si delineano meglio figure come quella di Egisto Rubini; al secondo Gap, dopo la distruzione del primo a opera della repressione nazifascista, guidato da Giovanni Pesce, fra il giugno e il settembre 1944. Di nuovo ridotti al lumicino dagli arresti e dalle fucilazioni, i Gap rinascono sotto la guida di Luigi Campegi, comandante coraggioso ma non adeguato all’impresa, che dura un paio di mesi (ottobre-novembre 1944). Poi Giovanni Pesce è richiamato alla guida dei Gap (primi di dicembre 1944) e rimarrà al loro comando fino alla liberazione.
Nonostante lo sforzo fatto da Borgomaneri, la conoscenza che abbiano dei Gap milanesi è ancora piuttosto fluida e lacunosa, come l’autore non manca di sottolineare. Non si ha un’esatta conoscenza degli organigrammi, degli uomini che vi fanno parte, dei ruoli che rivestono ecc. Tuttavia ciò che ora sappiano è molto di più di quanto se ne sapeva prima.
Borgomaneri ricostruisce la storia e la consistenza approssimativa dei quattro distaccamenti dei Gap appartenenti alla 3ª Brigata Garibaldi Lombardia, il cui “organico” fu sempre inferiore al previsto e non superò mai i 60/80 combattenti circa.
Lo stesso numero di distaccamenti esistenti ed effettivamente operanti, e i loro nomi, cambia di periodo in periodo e nei mesi di minore attività i gappisti attivi si riducono a meno di dieci.
Borgomaneri ricostruisce anche, nei limiti del possibile, la cronologia delle azioni gappiste (56 quelle del primo periodo; in totale circa duecento nell’arco di 18 mesi), le circostanze in cui avvengono e le modalità di esecuzione.
La tipologia delle azioni comprende sostanzialmente quattro categorie: quella del recupero di armi strappate a militi nazisti e fascisti; quella dei sabotaggi, con distruzione parziale o totale di depositi e mezzi del nemico, linee di comunicazione e così via; quella dell’uccisione di nazisti, gerarchi fascisti, spie e altri nemici; quella di attentati in luoghi pubblici abituali ritrovi di nazisti e fascisti. Quest’ultima è moralmente e militarmente la più problematica perché talvolta ha coinvolto casualmente anche cittadini italiani del tutto innocenti, causando i cosiddetti “danni collaterali” che portano a ripercussioni negative sull’opinione pubblica.
Le azioni più clamorose, o più problematiche, vengono raccontate e discusse in dettaglio, come l’attentato al deposito di benzina di Taliedo effettuato il 2 ottobre 1943, l’uccisione del federale fascista Aldo Resega il 18 dicembre dello stesso anno, fino ad una delle ultime di rilievo, l’uccisione del dirigente della Caproni Cesare Cesarini (16 marzo 1945), che con le sue denunce aveva causato l’arresto e la deportazione in Germania di decine di operai antifascisti.
Tutto questo da un lato ci rimanda alle circostanze concrete in cui operavano i gappisti, molto diverse da quelle che in teoria avrebbero dovuto essere secondo i documenti ufficiali del partito e dei comandi militari.
Infatti, anziché tutti comunisti di provata fede ed esperienza, rivoluzionari di professione, combattenti d’acciaio, uomini abituati alla clandestinità e alle imprese più rischiose ed eroiche, la maggior parte dei gappisti sono giovani con poca esperienza, avvicinatisi al Pci solo dopo l’8 settembre 1943; e per inesperienza e leggerezza commettono errori che ne mettono a rischio la clandestinità.
Inoltre sono dotati di pochi mezzi, senza rifugi sicuri, senza vestiario adeguato e senza contatti continui, direttive politiche e sufficienti appoggi del partito. La preparazione politica è poco curata, se non del tutto trascurata.
I gappisti operano pertanto fra mille difficoltà e in una situazione radicalmente diversa da quella ricordata nella letteratura celebrativa ufficiale. Non mancano quindi errori, cedimenti, infiltrati e spie, che portano a periodici arresti e fucilazioni che riducono i Gap a pochi individui.
Non mancano, inoltre, proprio per le carenze politiche e organizzative, anche episodi di banditismo e di individualismo, che Borgomaneri non denuncia moralisticamente, ma come segni di una storia che si svolge tutta in una continua situazione estrema di guerra e che solo in questo contesto può essere compresa e giudicata.
Ciò ci rimanda alle posizioni del Partito comunista a Milano e del funzionamento, o non funzionamento, del comitato federale del partito e dei comitati militari, di partito e dell’organizzazione resistenziale, da cui i Gap dipendono.
Se in un primo tempo il partito sembra dare molta importanza alla lotta dei Gap, almeno come direttiva complessiva, non altrettanto avviene a livello locale, dove ci si muove di più nel senso della lotta di massa nelle fabbriche e si sottovaluta l’importanza della lotta armata di piccoli gruppi professionisti.
La si sottovaluta, o non la si ritiene coerente con la tradizione operaia. Sta di fatto che le incomprensioni fra i Gap e il livello politico superiore sono molte e le risorse che i Gap dovrebbero ricevere non arrivano. Soprattutto non arrivano, se non in numero limitato e spesso senza adeguata preparazione, nuovi combattenti per rinforzare gli organici dei distaccamenti. Il problema della selezione e del reclutamento presenterà sempre dei deficit consistenti.
Infine, a partire dalla fine del 1944, con la nascita e il rapido sviluppo delle Sap (Squadre di azione patriottica), è la stessa organizzazione dei Gap a passare in secondo piano. Il partito ormai è alle Sap che dedica più attenzione e mezzi, tanto che negli ultimi due mesi prima della liberazione i Gap, salvo poche azioni isolate, saranno quasi del tutto inattivi e, nei giorni della liberazione, poco presenti e infine, alla sfilata del 6 maggio 1945 per i festeggiamenti della Liberazione, non figurerà nessuna rappresentanza dei Gap.
Borgomaneri non manca di esaminare e sottolineare le contraddizioni e le insufficienze politiche del Partito comunista, che, del resto, nel settembre 1943 era quasi inesistente e che si costruì proprio nel corso della Resistenza. In effetti il problema, fin dal settembre 1943, era quello di preparare l’insurrezione armata, ma ben pochi, compresi i dirigenti, sapevano che cosa ciò volesse dire concretamente e non mancarono le contraddizioni e le oscillazioni fra una linea basata esclusivamente sulla lotta di massa (scioperi nelle fabbriche, costruzione delle sezioni di partito di fabbrica e di strada) e una più decisamente favorevole alla lotta armata fin da subito, attraverso un’avanguardia combattente formata, nelle città, dai Gap, con l’intento di infrangere, nell’unico modo possibile in quel periodo, il clima di «attesa» che rischiava di legittimare, per abitudine, l’occupazione nazista.
Il Partito comunista, e ancora più gli altri partiti, erano largamente impreparati e dovettero affrontare una lotta durissima che portò velocemente – se si considera che la Resistenza durò solo venti mesi – alla costruzione di una notevole forza politica e militare, ma peraltro questa forza fu pronta in tutta la sua ampiezza solo nella fase finale, praticamente negli ultimi due mesi della Resistenza.
In questa evoluzione i Gap furono inizialmente incaricati di un compito pesantissimo: quello di servire da detonatore della lotta armata e da punta di diamante di essa nel settore urbano. Ma la situazione non era pronta perché questa forma di lotta armata si saldasse con la lotta di massa nelle fabbriche. E quando ciò avvenne, la funzione di difesa e offesa armata passò alle Sap, la cui organizzazione più duttile rispondeva meglio alle necessità della nuova fase di guerriglia urbana.
Insomma, come ha scritto Antonio Carioti nella sua recensione al libro di Borgomaneri, quello dei Gap fu un compito ingrato, da figliastri del Pci. Ne venne genericamente esaltato l’eroismo, ma si evitò di farlo conoscere più in dettaglio, perché, in fondo, a loro era stato affidato il compito più sporco, quello che richiedeva la capacità di uccidere guardando in faccia il singolo nemico.
A questi «figliastri del Pci» Borgomaneri rivolge la sua attenzione non solo con rigore storiografico e con passione di militante, ma anche con un sentimento di empatia che trapela dalle sue pagine e che forse ha una delle sue radici nella sua storia personale di figlio di un caduto della Resistenza. E a «Icaro», nome di battaglia del padre, morto a soli ventidue anni e cinque mesi, ha dedicato il suo libro del 1985, che si apre con una citazione di Julius Fucik, «eroe e dirigente della Resistenza cecoslovacca, impiccato a Berlino l’8 settembre 1943», che voglio qui riportare perché esprime in modo netto l’atteggiamento empatico di Borgomaneri.
Scrive Fucik: «Vi chiedo una sola cosa: se sopravvivete a questa epoca non dimenticate. Non dimenticate né i buoni né i cattivi. Raccogliete con pazienza le testimonianze di quanti sono caduti per loro e per voi. Un bel giorno oggi sarà il passato e si parlerà di una grande epoca e degli eroi anonimi che hanno creato la storia. Vorrei che tutti sapessero che non esistono eroi anonimi. Erano persone, con un nome, un volto, desideri e speranze, e il dolore dell’ultimo fra gli ultimi non era meno grande di quello del primo il cui nome resterà. Vorrei che tutti costoro vi fossero sempre vicini come persone che abbiate conosciuto, come membri della vostra famiglia, come voi stessi».
In queste parole è delineato in modo trasparente il programma di ricerca di Borgomaneri e le sue motivazioni sentimentali. Quell’espressione di Fucik: «come membri della vostra famiglia», è il fil di ferro che lega e dà forza emotiva alle pagine dello storico.
Alla conclusione del suo volume Borgomaneri scrive: «Imbalsamata negli anni della monumentalizzazione resistenziale, la memoria dei Gap sarebbe stata riscoperta e rimitizzata in quelli della contestazione studentesca e giovanile, poi sarebbe stata abusivamente recuperata da un terrorismo alla ricerca di improbabili più nobili ascendenze e infine lasciata in balia di scorrerie mediatiche criminalizzanti» (p. 340).
E aggiunge: «Dimenticare o strumentalizzare la storia di quegli uomini e di quei ragazzi, ciò di cui sono stati capaci, il prezzo che hanno pagato e il valore di ciò che hanno lasciato in eredità è un disonore per ogni comunità che voglia dirsi democratica. Ricordarli come eroi da western resistenziale è un esproprio della loro umanità e un’offesa alla loro memoria» (p. 340).
Vorrei aggiungere, in relazione alle «scorrerie mediatiche criminalizzanti» e all’accusa mossa a Borgomaneri di avere applicato il termine di terroristi ai gappisti, ad esempio da parte di Tiziana Pesce, e alla difesa di Aldo Giannuli che ha sostenuto l’uso neutrale del termine da parte di Borgomaneri, alcune considerazioni, perché non mi convince né l’accusa di Tiziana Pesce né la difesa di Giannuli, e nemmeno la criminalizzazione di alcune azioni gappiste, come ad esempio la famosa strage di via Rasella a Roma del 23 marzo 1944.
A mio parere è ovvio, perché documentato negli scritti degli stessi protagonisti e nei documenti del partito comunista e perché è nella logica dei fatti, che i gappisti sono dei terroristi e più esattamente dei «terroristi professionali». Appartengono cioè a un corpo militare (o analogo) speciale a cui sono demandati compiti particolari, che sono compiti di commando, come il sabotaggio di strutture e mezzi militari e l’uccisione di nemici che rivestono un ruolo particolare; e compiti di terrorismo, quando la finalità militare non è direttamente rivolta a obiettivi militari, nell’ambito di una guerra fra eserciti, ma è di carattere psicologico, nell’ambito della guerra psicologica che è parte della guerra in senso lato e che coinvolge anche la popolazione civile.
Da questo punto di vista non vi è nessuno Stato, o organizzazione non statale, in guerra, che abbia evitato azioni di terrorismo. Dai bombardamenti di Dresda e Hiroshima e Nagasaki, alle “missioni speciali” per uccidere qualche nemico particolarmente fastidioso.
Non è pertanto il terrorismo in sé – come forma specifica di combattimento – che va giudicato come criminale o che va giustificato come legittimo, ma la linea strategica e tattica che lo guida e che ne detta le azioni, e, prima ancora, la linea politica e militare che decide la strategia e la tattica.
Se l’azione terroristica è coerente con la linea, e se questa è legittima, ne consegue che è legittima anche l’azione terroristica.
Le problematiche nate a proposito dei gappisti, pertanto, vanno inquadrate in due tipologie molto diverse.
La prima è il caso delle azioni incoerenti, cioè decise individualmente o contro la linea militare/politica di comando. Se queste azioni sono criminali, vanno punite come tali, e in genere le organizzazioni militari puniscono l’indisciplina che sta all’origine di queste azioni (e nel corso della Resistenza in Italia si sono registrati diversi casi di dure punizioni, fino alla fucilazione, di partigiani indisciplinati).
La seconda è il caso delle azioni coerenti con la linea di comando, ma di un comando criminale. Com’è il caso, ad esempio, oggi, delle azioni terroristiche dell’Isis, ma anche, nel passato, di altre organizzazioni e di Stati responsabili di azioni terroristiche come l’esplosione in volo di aerei.
Il caso delle azioni gappiste come l’attentato di via Rasella e come tutte quelle che, effettuate in luoghi pubblici, hanno avuto delle vittime innocenti, non rientrano nelle due tipologie precedenti. Non vi è dubbio che l’attentato di via Rasella sia stata un’azione di guerra e coerente con la linea di comando trasmessa ai gappisti che l’hanno eseguita.
La vera problematicità, a mio parere, sta solo nella valutazione dell’utilità o non utilità dell’azione dal punto di vista delle finalità militari (danneggiare il nemico) e psicologiche di orientamento dell’opinione pubblica nel senso di volgerla a favore della lotta contro l’occupazione nazista.
Ciò porta a chiedersi se le azioni dei Gap di Milano hanno trovato riscontro favorevole nell’opinione pubblica milanese del tempo, e quali di esse presentano invece criticità sotto questo profilo.
Ma Borgomaneri non affronta questo problema, cui accenna solo in casuali passaggi (affermando, a p. 56, che il modo come «i milanesi, e in particolare la classe operaia, percepiscano le azioni dei Gap, è ancora oggi il più rilevante buco nero della loro storia»). Certamente molte azioni hanno avuto un riscontro positivo, ma altre, presumibilmente, no. Sarebbe interessante, per quanto difficile data la documentazione esistente, indagare su questo tema. Ne verrebbe fuori un altro aspetto del ritratto vero della Resistenza.

6 pensieri su “Su “Li chiamavano terroristi” di Luigi Borgomaneri

  1. Esemplare il modo in cui Luciano Aguzzi ci presenta l’opera di Luigi Borgomaneri. Lo fa in maniera chiara e profonda. Un lavoro essenziale quello sui Gap milanesi per chi vuole conoscere realmente i fatti storici degli anni 43- 45 e capire le ricadute successive.
    Gli eventi qui richiamati, complessi e tragici, mi hanno riportato al tempo in cui, era la fine degli anni 60, cercavo di capire, dal colloquio diretto con Cino Moscatelli, come realmente erano andate le cose relative al movimento partigiano nelle sue varie articolazioni, fuori dalla ricostruzione storica ufficiale. Tanti, tanti complimenti ad Aguzzi e ovviamente all’infaticabile ricercatore Luigi Borgomaneri.
    Ubaldo de Robertis

  2. «Alla conclusione del suo volume Borgomaneri scrive: «Imbalsamata negli anni della monumentalizzazione resistenziale, la memoria dei Gap sarebbe stata riscoperta e rimitizzata in quelli della contestazione studentesca e giovanile, poi sarebbe stata abusivamente recuperata da un terrorismo alla ricerca di improbabili più nobili ascendenze e infine lasciata in balia di scorrerie mediatiche criminalizzanti» (p. 340).» (Aguzzi)
    Il brano appena citato mi dà lo spunto per riflettere su quello che, secondo me, è l’unico neo sia del prezioso lavoro dello storico Luigi Borgomaneri che della lucida e precisa presentazione di Luciano Aguzzi: la memoria della Resistenza (nel caso in questione dei Gap), giustamente de-imbalsamata e de-monumentalizzata, rimane come sospesa in aria. È legittima la domanda: ma è un albero che non ha messo radici? E dove, in quali esperienze concrete?
    Non trovo la risposta nella presentazione di Aguzzi ( ma penso che non ci sia neppure nel libro di Borgomaneri, che non ho letto). E credo perché entrambi respingono e condannano le uniche esperienze che dal ’68 e per tutti gli anni Settanta tentarono di far rivivere nel presente proprio la lezione più combattiva e, diciamolo pure, armata della Resistenza: la contestazione studentesca e giovanile del ’68 e, sì, proprio il lottarmatismo (o il terrorismo, come preferisce chiamarlo Aguzzi, di cui condivido però la definizione non moralistica che ne dà nel suo scritto).
    E a me pare una bella contraddizione che si insista tanto e giustamente su «debolezze, improvvisazioni, forzature ed errori» dei Gap e sull’esigenza di « restituire concretezza, carne e sangue» alla loro storia e ci si limitia ad un breve cenno liquidatorio proprio delle esperienze “resistenziali” ( o ispirate alla Resistenza) degli anni Settanta.
    Fu in tutti i casi solo «rimitizzata» la Resistenza riscoperta dai partecipanti alla contestazione studentesca? E perché sarebbe stata abusiva la memoria della Resistenza recuperata dalle BR o da altre formazioni politiche praticanti la lotta armata? (Ne aveva, per così dire, il “copyright” qualcuno? Non pare questa l’opinione di Borgomaneri e Aguzzi, tanto più che il libro contrasta ben altri e più determinanti abusi avvenuti da parte del cosiddetto – allora si chiamava così – “arco costituzionale” dei partiti “nati dalla Resistenza).
    E poi – pensiamoci – buona parte degli studenti contestatori, dei fondatori dei gruppi extraparlamentari o delle BR e delle altre formazioni armate non andrebbero considerati (in modi da precisare storicamente) «figliastri del Pci»? A me pare innegabile. Il che non significa “nobilitare” o tacere o assolvere gli errori o il fallimento politico di quelle formazioni, ma solo riconoscere un legame di continuità almeno con una parte della Resistenza, quella che un po’ tutti chiamavamo «rossa».

    1. Credo che due cose abbiano fatto sì, che i contestatori degli Anni ’60 e ’70 abbiano “mitizzato” la Resistenza: in parte la distanza temporale dai fatti e soprattutto l’atteggiamento di base che avevano i giovani in quel periodo.

      La distanza temporale faceva sì che, malgrado la maggioranza dei Partigiani fosse viva e vegeta, le generazioni della contestazione non avessero vissuto sulla loro pelle quegli avvenimenti; e questo può non sembrare, ma secondo me è una grossa differenza. La seconda, col rifiuto di accettare insegnamenti di chi “sapeva” e il voler contare sulla sperimentazione fatta con le loro sole forze, li spinse ad avere una visione non dico distorta, ma non del tutto corretta del fenomeno. Più dal punto di vista tattico e strategico, che storico. L’assunzione a mito di Che Guevara a me ne sembra la dimostrazione.

      Alla fin fine – i risultati lo provano – fu più ribellismo, che ribellione costruttiva. Se no, avrebbero vinto nel ’68: non ci sarebbero state le BR e la situazione (in Italia e altrove) si sarebbe magari ulteriormente deteriorata, ma non ai livelli nei quali siamo adesso.

      Proprio la mancanza di basi oggettive fece sì che la generazione successiva (quella del ’77) venisse strumentalizzata da sedicenti reincarnazioni di Lenin e Stalin, che per i loro scopi li portarono dove sappiamo. Se vogliamo dare un giudizio strategico delle operazioni “terroristiche” di quegli anni, solo gli attacchi al potere economico (rapimenti e uccisioni di esponenti del mondo della finanza) potevano avere un senso. Ma mancavano appunto le basi oggettive, per capire che quelle azioni – in quel momento e in quel contesto – non avrebbero portato a una sollevazione popolare; men che meno a un cambiamento in positivo.

      Quindi, sì, dal mio punto di vista la Resistenza fu, se non mitizzata, incompresa; nel senso che non si riuscì a comprendere che tutto il quadro sociale, politico, ecc. del Paese (e, per esperienze estere, dell’intera Europa) era cambiato in maniera tale, da non permettere più una soluzione del genere. Non fu quindi una faccenda di copyright, ma di strumenti d’analisi che a quelle generazioni mancarono; o che erano troppo deboli per consentir loro un giudizio ponderato.

      In questo senso, essendo mutata la realtà del Paese, il rifarsi agli ideali della Resistenza del ’43-’45 può essere considerato, non abusivo (“abusivo” implica una malafede che la stragrande maggioranza di chi confluì nelle BR ecc. di certo non poteva avere: semmai ce l’aveva chi ne era il teorico a livello politico), ma – come dire – “fuori misura”.

      E certamente anch’io considero quei giovani “figliastri” del P.C.I. Il che potrebbe essere un problema e materia di dibattito più per chi credeva in quel Partito, che per loro.

      Un’ultima considerazione, per inquadrare quel che ho appena scritto: io non feci il’68 (avevo dodici anni) e me lo ricordo indirettamente, per quel che si leggeva in casa sulla stampa anarchica. Il ’77 lo vissi di persona, invece, pur nell’ambiente ovattato di una Provincia comatosa come quella di Rovigo.

    2. ” Ennio Abate – …ma solo riconoscere un legame di continuità almeno con una parte della Resistenza, quella che un po’ tutti chiamavamo «rossa».”
      Tra il 1968 e il 1970 ho abitato nella casa dello studente di via cesare de lollis. Mi sono perciò trovato al centro della contestazione studentesca romana. Benché non fossi attirato dall’azione contestataria così come veniva condotta, men che mai da quella violenta, purtuttavia ne condividevo alcuni degli ideali. Naturalmente non ho potuto evitare di prendere la mia dose di legnate a tradimento da polizia e fascisti e che purtroppo non ho potuto restituire, ma ai quali voglio far sapere che ho una ferrea memoria.
      Mi capitava occasionalmente di seguire i dibattiti che varie organizzazioni tenevano da noi e ricordo che, almeno alcune di esse, si rifacevano esplicitamente alla Resistenza. Perciò sono sempre stato convinto che un legame di qualche tipo ci fosse.

  3. …ringrazio Luciano Aguzzi per la chiara presentazione del libro di Luigi Borgomaneri sull’operato dei Gap durante la Resistenza, presentando le azioni di merito di tali gruppi combattenti, ma con realismo …Passando alla mia esperienza, per quanto molto marginalmente abbia vissuto il ’68 e in una città periferica come Lodi, ricordo che molti discorsi di allora si rifacevano al periodo della Resistenza, per valori e ideali, poi mai davvero conquistati. Oggi men che mai, tuttavia vorrei conoscere chi oggi potrebbe raccoglierne l’eredità…Forse i più giovani, quelli impegnati che non hanno alle spalle fallimenti devastanti?

    1. Poiché lo scenario è completamente cambiato, pure le forme di Resistenza devono cambiare, se vogliono sperare di essere efficaci.

      Quella era una guerra guerreggiata e si doveva sparare. Questa è una guerra economica: almeno qui da noi, dove gli episodi di sangue sono ancora marginali e l’attenzione delle masse è deviata sugli esecutori materiali piuttosto che sui mandanti. Quindi qualsiasi forma di Resistenza passa attraverso forme di lotta economica.

      Dal mio punto di vista, quindi, quelli che si riallacciano di più alla Resistenza di quegli anni, son quelli che oggi vanno a riabitare la terra, in cerca di un’autosufficienza che non minacci davvero l’ambiente; e quelli che comunque portano avanti esperienze economiche e di aggregazione sociale alternative ai modelli che il sistema cerca di imporre ovunque.

      E buon 25 Aprile a tutti, non dimentichiamocene mai.

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