Inediti

batracomio

di Paolo Mazzocchini

Cenotafio del misantropo

Aveva in uggia cerimonie e rituali
di società, sprezzava le liturgie, le messe
cantate con le quali l’umanità esorcizza la sua
ombra, in(o)dora la sua carcassa col turibolo barocco
di onori e di ideali; detestava battesimi compleanni
ricevimenti e sponsali; trasceso il limitare della
terza età – quando ormai parenti e sodali
ad uno ad uno rotolano decotti, giù
dal pero della caducità – in un raptus
di scontento si suicidò per scansare
i convenevoli di troppi funerali.
Qui non giace: le sue ceneri
cantano col vento.

Amor unus

Dimenticàti in una rada della notte, ciechi
neonati esposti al mutuo calore lieve delle
nostre mani, e dell’alito che gonfia appena
le vele dei capelli. Scivolano in lontananza
le rotte dei bastimenti, semina la carena
della stanza un solco perso dentro il mare
d’inverno. Siamo noi soli il fuoco di Vesta
vivo nel ventre inferno dell’arca, lumino
del faro che ammicca, palpita trasvolando
il muro della burrasca.

Ne(v)obatracomiomachia

Musi rasati, netti di geometrici baffi o decorativi
pizzetti, zazzera calligrafica scolpita che accarezza
colletti a camicie imbalsamate. Nuotano i loro busti
d’automi dentro eleganti spezzati, incravattato
il cuore in filiformi spadini, il grugno illuminato
da telematici sorrisi: laccati, laminati, tenaci come
mastini questi aggregati di topi antropomorfica
mente modificati, addestrati quanto basta a sfoggiare
una lorica di spocchia che non arretra di fronte a fischi
né inchini, lesti ad amputare col laser dei canini la polpa
del formaggio a spregio sovrano di ferite o gogna: arduo
per la ranocchia fermarli, i giovani ratti rinati dalla fogna
in metallizzata mise da damerini. Anfibi di melma
e di stagno, noi, c’aspettavamo altro: muridi ceffi
laidi, vecchie pantegane, mantelli lerci di morchia
rimediata strisciando nei tombini, monatti
carichi dei vibrioni assassini di camusiana
memoria, pronti a inquinare le uova della rana
con raffiche di bombe stercorarie: invece
l’azzimato nemico ribatte sul tamburo – udite
udite – di volerci bene, di azzannare per noi le nostre
pene, di volerci spurgare del fango in un brodo
d’amore: basta che ci si affidi – dice – tutti al vangelo
roditore, quello che intona il credo nel già presente
futuro della transgenica specie, quella nella
quale potrà mutare, come ciofeca in vino
doc certificato, l’intera fauna dell’universo
immondo. Basta che ogni rana, inforcate le lenti
della fede, senza retropensieri lo voglia e gracidi
lieta danzando in tondo tonde giaculatorie
a Rodigrana: incisivi di smalto, froge
di bronzo, né(r)vi d’acciaio, fulminante
duce! libera nos dai lagni di nottole, gufi
e barbagianni e riconduci all’acque
morte, qui, sulla tenaria riva, il sole
della magnifica sorte e progressiva.

Epitafio del porcospino

Mi raccomandavano, padre e nonno, tatto
e prudenza, imitare nella scacchiera
della vita la precisa movenza di un gattone
fra l’erba, evitare la zampa d’elefante
nella cristalliera, la puntuta acribia
di una vespa in una mandria di rospi
zeppi del proprio ego come dell’aria
fritta di una sagra la pellicola tesa
di palloncini gonfiati – fatalmente deflagra
al graffio dei pallini, all’agguato di qualche
spina di verità sottesa al verde tappeto
di moplen di una giostra paesana. Ahimè,
che dell’avita santità mi sono ovunque e sempre
infischiato. A mia sciocca difesa ho sfoderato
d’istinto la rosa degli aculei, trafitto senza pietà
ad una ad una bolle piene di fiato che bambini
viziati mi soffiavano addosso. Qualcuno
non se l’è dimenticato: giaccio ben bene
arrotato, le aste in frantumi, la carcassa
spiaccicata tra le cicche e i rifiuti
sul ciglio della strada.

Delusione cosmica

Scopriremo un giorno il buco nero
la vulva dell’antimateria, il mito
dei profeti dell’altrove, la nuova caverna
di Platone che riesce – a detta loro – dalla scala
di servizio a rivedere un firmamento
ulteriore, l’empireo del non so
dove? Sarà – temo – una grossa
delusione: come l’aver sperato
l’odore del mattino da un fiore
illanguidito nell’attesa buia
del sole, l’aroma di bucato
nel tanfo di un feltrito
calzino rivoltato.

Il cavaliere inconsistente

Sempre più prevale l’altro
fuori se stesso: piedi ferrati svicolano
i comandi del cervello, corrono disamorati dietro
consunti tornei quotidiani, scalciano sotto il carrello
nei supermercati. Manopole e bracciali si snodano male lubrificati
in benedizioni e divieti, senza chiedergli permesso parole prendono
il largo dalla strozza come vele gonfie d’aria forzata che risale
la grancassa della barbozza. È diventato oramai il fittavolo
di una struttura dismessa, pulcino meccanico imbozzolato
dentro il guscio dell’elmo – in ruggine tutto il resto, solo
lo culla e riconforta il sogno sciocco di gloria
quando il pigolio di latta contro il nemico
rio innescherà il fragore epico del crollo
della catafratta sopra l’impalcatura
di nulla che la sopporta.

Passeggiata autunnale nel parco

Lui là, teso al pulsare del bastone che fa implodere
gli anni e contrarre l’universo nel sentiero di ghiaia
tracciato dall’acume del ricordo (vi strusciano fogliami
assolati dall’estate come lembi di vele estorti all’albero
maestro della nave, nastri regalo svoltolati, lucidi di nostalgia
come bave di lumaca sul granito dell’aiola) mentre in bocca
ancora gli resiste dolceamara – d’un caffè bevuto
un’ora prima – tra la lingua e la gola
la membrana incorporale dell’aroma.

Priapus verno Soli s.d.

Buongiorno, luce verticale, medicina
del maligno innaturale, del lemure che ramifica
nelle vene notturne della casa e nel terreno intorno
gonfia radici di veleno a esplodere in un livido
delirio di falene attratte ai cirri lassi
della vigna invernale. Rieccoti, tu,
l’invitto, che inturgidisci di senso
chiaro l’insperato frutto dell’attesa
di tanti giorni che ghiacciati
come chiodi trapassarono
la buccia incarognita
dei miei nodi.

Nella memoria

Nella memoria la vita si accatasta
posa un evento, una giornata, un anno
sull’altro come polvere su terra o legna sopra
frasca secca o marcia si composta: finalmente
un piano incide sull’altro, la prospettiva
si rimpiatta, si confonde, non sai cavarne
il brillante giù, dall’imo fondo, senza che
frani intorno la stratigrafia, senza che
ruini la volta sotterranea della sua
arcana e bombastica armonia.

Il vestibolo

In quel sogno s’era in tanti, parenti amici
sconosciuti, ospiti tutti nell’anticamera dove
attendevamo il nostro turno ansiosi, tra vecchie
riviste e oziosi conversari, di sfogliare al dottore
il nostro cuore – nudo, palpitante di speranza
crudo di ferite inconsolate – quello che intanto
nascondevamo a tutti gli altri, stretto, sigillato
nella borsa. Dunque attendevamo in quel
vestibolo ameno dove si parlava del più
e del meno, di tutto e di più, meno che del
nostro vero dolore. Ma con nostra sorpresa
un’infermiera, signorina distinta, in guanti
beige di lattice, con gesto d’eleganza appese
un cartello alla porta serrata dello studio:
«Dr. Donato Provvidenza hodie et sine die
assente. Si scusa coi pazienti. Vacanza
di salute, congedo illimitato»

Opposti

Sono il pappo rapito nella danza
demente ed erratica dell’acqua. Ammiro
senza invidia la costanza della pietra
che abita il greto del torrente.

Vita da sub

Il passato è piombo
che ci riattrae al fondo
mentre ogni nervo è teso
a colmare il tondo dello sguardo
dell’oro fuso che dilaga alto, feroce
sopra la pelle liquida del giorno.
Grata fatica spesso profondare
nella fossa oramai di quel che
è stato, tepore putre di giardini
sepolti sotto il mare o sole di mattini
affogato nella mitezza del ricordo. Ma l’ansia
di scombinare il gioco – riemergere e sparare
un colpo di futuro in aria a ingravidare un’altra
volta il cielo – trascende il mito della nostra infanzia.

Psycholift

Il timer spento, precipito nell’asfittico
blackout del sottoscala: un silenzio nero metafisico
soffoca i pori, penetra il respiro, spegne il rigagnolo pulsante
del pensiero. La cecità delle mani fruga un appiglio
di salvezza: sotto le dita soltanto l’asprezza
granita dell’intonaco, la sagoma fredda
della maniglia bloccata. È un’attesa
negata di luce che risucchia passato
e futuro dentro il vortice di vuoto
che divaga, tenta tastoni il pulsante
di chiamata. Lo trova. Lo schiaccia
con violenza. Adesso, la superstite
essenza di me stesso arde soltanto
negli occhi rossi d’inferno, nel
marchio inusto sopra il nulla
di un istante eterno: occupato.
Rigorgoglia una carrucola, dal tempo
una macchina riparte. Finalmente
la porta s’illumina: presente.
Vivo valico la soglia.

Ancilla elegiarum

Non mi dorrò troppo, Cinzia. Saprò – da saggio che sarò
diventato – rinunciare a molto quando raschiato l’albume
del mio giorno avrò spezzato il guscio e m’aprirò alla notte
più spericolata, in volo. Non piangerò la giovinezza liquefatta
nelle lacrime dei libri, non il poco di cenere del fuoco che voleva
ardere di bellezza e del tuo amore il mondo. O il fervore del gioco
divorato nelle celle infantili degli affetti, o il mistero del basilico
indiato nel vapore della pizza margherita. Sarà indolore la discesa
del sipario sulle farse che mi videro colpevole attore e giudice
onorario. Quando l’inferno copulerà col cielo mi dispiace
più che altro per te, che non mi accorgerò
mentre mi sfiori il gelo della fronte
con l’inutile calore delle mani;
e – peggio – che manco farò
caso al volo di una
mosca sul mio naso.

Tecnocrate al talk show

Sei un ologramma
patetico, tu, che scuoti nel vuoto
d’uno schermo il tuo scettro di luce
la tua verga laser, come un duce acheo
smemorato – Achemenide intossicato ancora
dal frastuono di una guerra lontana ormai dannata
mente vinta – agita ai fantasmi la sua spada sotto
il sole deserto sulla spiaggia dei Ciclopi, sgonfia
propaggine della fama che soffiò vanagloriosa
sotto la rocca di Troia. Ne (s)fuma il ricordo alle
sue spalle, come alle tue esala la sua anima
il tuo regno, la metropoli tradìta dalle
cittadelle impazzite delle borse, dalle
vette morte delle torri: crolla dietro
di te, che ciarli, il grafico dello
skyline, un tramonto trapunto
di illusioni contorte.

* PAOLO MAZZOCCHINI (Castelfidardo, 6.10.1955), insegnante di lettere e studioso di letteratura classica e leopardiana, autore di testi scolastici e scrittore. Nel suo settore di studi ha prodotto numerosi articoli raccolti in gran parte nella miscellanea Noctes vigilare serenas (Aracne, Roma 2010); una monografia sulla rappresentazione virgiliana della guerra (Forme e significati della narrazione bellica nell’epos virgiliano, Schena, Fasano 2000); una edizione critica commentata della Titanomachia di Esiodo di Giacomo Leopardi (Salerno, Roma 2005); ed un paio di antologie tematiche scolastiche di letteratura latina presso l’Editore Canova (Treviso 2004-05). Recentemente ha rivolto il suo interesse anche alla saggistica d’opinione ed alla scrittura creativa. In proposito ha pubblicato un paio di pamphlet sui guasti della scuola superiore italiana (La scuola del P(L)OF, Aracne, Roma 20082; Studenti nel paese dei balocchi – Lettera di un insegnante a un genitore, Aracne, Roma 2007). È inoltre autore di una raccolta di racconti (L’anello che non tiene, Aracne, Roma 20132) e di due recentissime raccolte di poesie (Zero termico, Italic Pequod, Ancona 2014; Chiasmo apparente, Lietocolle, Falloppio 2016). Collabora a riviste didattiche e letterarie (La Nuova Secondaria; L’indice dei Libri Scuola).
Cura il blog Saturalanx –Scritturamista ( www.paolomazzocchini.wordpress.com )

3 pensieri su “Inediti

  1. Io, marchigiano di origine e curioso di tutto ciò che avviene nelle Marche, avevo già avuto notizia dell’attività di filologo, studioso e poeta di Mazzocchini, la cui ultima raccolta di poesie (“Chiasmo apparente”, LietoColle, 2016, p. 76) è stata recensita da Franco Manzoni sul “Corriere della Sera” (mercoledì 20 gennaio 2016 p. 40). Nelle poesie inedite pubblicate qui in Poliscritture.it trovo la conferma di una scrittura interessante, spesso efficace, anche se in genere poco musicale (o, per meglio dire, di quella calma e lenta musicalità che spesso è propria delle traduzioni o delle “imitazioni” da poeti classici greci e romani (molto evidente, ad esempio, in “Ancilla elegiarum”). Ma il contenuto, lo spirito e il gioco linguistico non è però un calco, bensì uno scavo fra classicismo e ricerca di una sempre difficile originalità e identità stilistica, nuova e attuale, che Mazzocchini sembra avere raggiunto, almeno nelle sue cose migliori. Complimenti e auguri.

  2. La nota dominante di questi testi è costituita da un’amarezza grigia, permanente, quasi disperata. Per illusione e delusione. Lo spirito (e anche il tono) è quello della satira amara, capovolta su (e forse avvolta in) se stessa; o dell’ironia pungente, quando va bene. In tutte queste poesie è offerto ad una visione positiva della vita solo qualche minimo margine, qualche quasi trascurabile, microscopica speranza (“Finalmente / la porta s’illumina: presente. / Vivo valico la soglia.”). Oltre a questa visione di un pessimismo quasi apocalittico, va notato che siamo di fronte a una scrittura poetica apparentemente ametrica (almeno in senso fisso), nella quale il termine di ogni verso viene dal dettato interiore che si getta ad aggredire il foglio bianco, a plasmarlo di sé. Lo stile rivela cultura e padronanza linguistica, e oppone (opportunamente) punte di dottrina (classica) ad un registro prevalentemente medio e sfumante nel quotidiano.
    Pasquale Balestriere

  3. scrittura da studioso,ritmo lento, come una marcia funebre. Metafisica, ironia e grande interesse per la poesia. Rivelatore di novità . Il poeta merita una lettura attenta . Complimenti,

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