In cronaca

1979 Per morte 1979 2
Tabea Nineo, studio, 1979

di Rita Simonitto

Minuscola storia: da poesie controcorrente all’impoetica rappresentanza dell’orrore.

Una volta scrivevo poesie. O, a dire meglio, versi. Ora non più, anche se durò a lungo la convinzione che non avrei potuto fare a meno di scriverne.  Allora che cos’era quella spinta? Una coazione? Era un gioco?
Oppure la risposta ad un bisogno interiore di rappresentarsi a sé e al mondo? O anche lo stare in un dialogo che contemplava sì l’esterno, ma non in modo lirico/descrittivo bensì legato alla urgenza di illustrare e chiarire un luogo/tempo che presentava sempre più anomalie? Il contatto inquietante con una ‘essenza’ paradossale, un quotidiano che incominciava a farsi più ardito nelle sue provocazioni, mostrando di non essere più così come era stato conosciuto e ciò avveniva senza sussulti o colpe? E tutto questo per chi veniva fatto? Per me? A futura memoria?

Si percepiva che era in atto una qualche trasformazione, ma quello che si vedeva era soltanto un bozzolo ancora chiuso che si muoveva ruotando su se stesso, apparentemente a casaccio. E faceva impressione. E a seguire la rabbia di fronte alla impotenza, la ribellione che investe tutto, sia il fuori che il dentro di noi. Adesso che cosa è cambiato? Alla fine, a recita finita, sembra essere inutile anche il tempo dei dubbi. Innecessario. O forse il dubbio torna sotto altre forme: quella del saper attendere. Muti. [27. 2. 2016]

1969

Ho gridato ‘merde’ tutto il giorno.
Al mondo di vacche e tori,
ai campi lascivi sotto il vento dell’Est,
al cane che piscia a gamba alzata,
all’uomo di strada con la piorrea.

Ce la siamo davvero voluta
piccole pupille dallo sguardo vuoto.

Eppure ho continuato a urlarlo.
L’ho detto infinite volte più una,
ma ancora troppo poco per riuscire
a disimbragarmi da questa mota,
da questo puzzo di catarsi esistenziale.

E soprattutto nessun effetto davanti
alla comunità di silenzio,
ai sentimenti raggrumati
come sangue nero,
davanti agli uomini vagolanti
con lo stupido marchio dell’onestà.

(Aprile 1969)

Funerale alle sei.

La morte ritocca gli orologi
dà patine d’ambra alle finestre.

Sì, potrei mentire ancora,
fare ancora di me un gioco d’ombre
leggiadri fantasmi alle pareti,
o incatramarmi in categorie
che il tempo dice assurde,
fraternità, libertà, uguaglianza,
piccolo uccello nella pania.

Pidocchio al microscopio
sento già le vostre voci
parole oblique giallognole di senso.
E vi guardo con occhi di lumaca
ritirata dal corso delle cose.

Compagno di sventura
mi rimarrà solo il tuo sorriso,
adesso morto e ormai
anch’esso verminoso.

Funerale alle sei.

(Ottobre 1972)

Follia

L’acqua diventa pietra
e il sole dà fondo alle valli
e uomini azzurri siedono agli incroci.
A volte sogno lunghe vesti gialle, senza carne
di bambini ridenti ai gomiti delle piazze,
nei miei passi malfermi su disseminate
crepe di presente.

Mi assalgono allora salamandre
e non so più dove ancorare
i pallidi ricordi d’uomo vivo
volti, colori, connessioni,
camminamenti oscuri dove mi perdo.

Vorrei allora venisse qui
chi non ha lunghi nascer di angosce
che smuovono ogni intatta
modulazione di frequenza
e stendesse le mani, un annullo.
(farinosi risvegli, metempsicosi da follia analitica).

Ma sarebbe il “come volevasi dimostrare”
di un teorema spiegato
per assurdo.

L’acqua continua a diventare pietra
e il sole a dar fondo alle valli
e uomini azzurri siedono agli incroci.

(Settembre 1980)

Realtasìa

Da un portone nero seppia
sconfitta notte da un campanello
che vi si oppone, aspro.
Inappresa voce “sono io, apri”
allenta i cardini,
edulcorato suono di verità
ancora indistinto nel suo darsi.

E mollemente lei dischiude scuri,
nessuno sa se pallida,
o tormentata, e il clock
del chiavistello sferra al silenzio
un grumo di presenza, gravido segno
di storie che verranno
o consumate già.

Da qui non più sogno, ormai.
Si farà tangibile ogni cosa, anello
che si chiude a cerchio e relativizza
un vuoto che al dito si fa pieno.
La fede nell’eterno di promesse.
Eppure ancora sogno
nel mutabile alfabeto di particelle/onde
che troveranno parole inesauribili
nel moltiplicarsi.

(8.8.1983)

L’ utile bellezza

La parola si è ammutinata però con grazia
sulla civetteria di dama, dietro un sorriso
che il ventaglio frantuma in guizzi di colori
e pausa. Anche l’aria di salvia s’è fermata.

Bianco chiostro di denti imperla
perle ma non c’è pensiero
che una all’altra le raffili,
pellegrina dimora che non conosce stanze.
Tutto abita lì, indistintamente,
pure il silenzio che dilaga
sugli istanti vuoti
o nei passaggi noti
fino all’emergere di un suono
necessario e spoglio di ogni velo.
Ella può soltanto sussurrare:
“Eccomi. Guardatemi”.

(13. 8.1992)

TU

Puoi capire, TU, la bestemmia che dilaga
anche se inutile, lo so, e l’odio che scarnifica
fino all’osso i possibili residui del riscatto
perché pure il sussulto dell’amore finisce con la morte?

E allora perché non come il cielo
nel suo illimite splendore anche quando
la rivolta degli eolosi venti a tratti
erode la sua continuità?
Perché non a noi l’infinito del cielo?

(Luglio 2011)

Solo a valle

Canale d’acqua, scivolo di seta per l’audace
sambuco a specchiare i molteplici occhi
bianchi e inchiostrati.

A riva malinconiche essenze, malate erbe
di prati non più prati
esautorati di presenza
impersuadibili ora
a coccinelle o lucciole estive
lungo la via.

Non altri segni a lasciare tracce di un presente
sempre limite a se stesso eppur fluente
come serpente incantatore
mai ci si bagna due volte
nello stesso fiume
e mai peccato
dunque.

Nella quieta rappresentanza
dell’orrore
a valle aspetteranno gli arsi campi
le scroscianti chiuse ormai inaridite
e sui ruderi chiurla la nottola superba.

Solo a valle.

Così la vita.

(13.07.2012)

Non flectit genua in orando pro ipsis

Orbo di passeri il cielo vola basso
rapinando ciò che resta di giorni
ormai arresi al disinganno.

Sul niente s’impargolano nubi
sale e pepe le ombre nel canneto
gli intervalli acquattati del cuore
del pavido Reale del fagiano.

Ma non senti su dalle ginocchia
l’odore acre dell’infido
il tormento del sogno-spartito
ora sparito e la luna
involgarita senza mistero?
Non ti allarma la puzzolenza
della cimice, Geenna delle soie,
non araba fenice ma laido che risorge
dalle fetide spoglie
di cosciapertaputtana
toccata da tutti?

E’ passato così il secolo ventesimo
come sterile violacciocca
disidratata
dall’assenza del diverso.

Allora
genua non flectere coi traditori.
Nessuna umile pietà.

(06.04.2014)

Fuori stagione

Troppo rapido il sole tra ramaglie di gelsi
pieni di nocche in un autunno privo di vendette
tra reti che non limitano più niente
imperterrita cerco altri passi.

Finito il tempo delle lacrime
infreddolita di speranze lascio che la mente
indugi o faccia scorribande istupidite come persa
libellula fuori stagione sull’acquoso specchio…

(Senza data)

17 pensieri su “In cronaca

  1. Indifferente alle magre soddisfazioni del post moderno – dove spesso si recupera quel che si può con ironia o religiosa ostinazione – Rita imbocca la via dello scontento; che poi è via di solitudine, come san bene tanti altri (ma chi e quanti?) che lungo questa via ci stanno ancora, caparbiamente. Solo che Rita non cede a pessimismo filosofico, se mai, e già dalla prima poesia che qui leggo del 1969, preferisce la vitalità del ribellismo. Quindi, com’è confermato dalla storia dei fatti, assisterà alla rovina; che potrebbe diventare la propria – storia di una forte incazzatura – se l’animo poeta non la obbligasse alla dignità del verso e al ragionamento. Un gran percorso, assolutamente stimabile, femminile e introspettivo; dove si evidenzia, tra l’altro, la sua inclinazione alla prosa in versi come “Ce la siamo davvero voluta / piccole pupille dallo sguardo vuoto”, ” L’acqua continua a diventare pietra”, “il clock / del chiavistello sferra al silenzio / un grumo di presenza”, ” La parola si è ammutinata però con grazia”, ” Solo a valle. / Così la vita”, “Sul niente s’impargolano nubi”. Ma Fuori stagione, sempre a parer mio, mette i generi – di prosa e poesia – al loro posto. Sono versi che tra l’altro ci mostrano le doti di Rita-drammaturga (nel senso del dramma ché la commedia, essendo ribelle, la farebbe volentieri a pezzi).
    “Troppo rapido il sole tra ramaglie di gelsi” è già un verso che non dà scampo. Ringrazio e rinnovo come sempre i miei complimenti.

  2. Leggo tante poesie, qui, in giro per il web, sui libri cartacei. Mi sforzo di capirle, mi piacerebbe capirle. Sono fatto così, devo entrare dentro, andare fino in fondo all’anima di chi le ha scritte fino ad identificarmici. Per un attimo provare quella vita, essere l’altro. Voglio sapere perché usa quelle espressioni, quelle particolari parole, quella punteggiatura. Diceva il grande matematico Hilbert di fronte ai problemi insoluti del suo tempo “Noi vogliamo e dobbiamo sapere!”. Purtroppo io quasi mai ci riesco. E’ molto più facile con i classici che sono stati sviscerati in miriadi di libri. Ma di chi non conosco nulla o troppo poco che mi resta? Il senso di qualcosa che si vuole comunicare, la suggestione di certi versi. Mi arrovello su “L’acqua diventa pietra”, l’acqua non più liquido vitale ma una frana pesante, aguzza e rovinosa che fa male? E chi sono quegli inquietanti uomini azzurri che siedono agli incroci, e perché incroci? Perché vesti gialle…, no quelli erano arancioni. La carne dei bambini perché morbida e rosa? Crepe di presenze come assenze? Insomma inciampo ad ogni passo. Così non mi basterà una vita per finire anche una sola poesia. Passo alle altre. Chi suona al portone di Realtasìa? Una domanda che mi angoscia. Misteriosa dama de L’utile bellezza!. “perché pure il sussulto dell’amore finisce con la morte?” ho capito, finalmente, è un sentimento che ho provato! e anche questo “Perché non a noi l’infinito del cielo?”. “mai ci si bagna due volte nello stesso fiume” questa è proverbiale, l’ho trovata anche nelle antiche poesie cinesi e in Pascal che scriveva “I fiumi sono strade che camminano”. “Nella quieta rappresentanza dell’orrore…Solo a valle. Così la vita.” Sì, capisco, la vita è una discesa agli inferi, ogni cosa di noi fugge e si disperde. Alla fine qualcosa ho capito. Certo non mi basta ma così è. Perciò non mi resta che accontentarmi di assorbire qualche espressione, impressioni, il sentore di alcuni significati. Sono costretto, mio malgrado, a nuotare in superficie. Raccatto le mie carte, ci sono le mie poesie. Adesso, però, mi sento più ispirato.

  3. @ Rita

    mi trovo nel tuo mondo dove i sensi , tutti, urlano il loro piacere e la loro rovina.
    Cosa pensare di tutta questa natura presa , quasi rubata dove l’acqua diventa pietra e il giallo impera sui ricordi? O lo sguardo indagatore che vorrebbe spaziare non può arrivare a raggiungere un cielo infinito ? Perché lo scontento annebbia e rovina il bello e il buono che vorresti? La vita , avara di risposte.
    Stupende arrivano a me queste poesie in cui la musicalità accompagna la lettura come in un bel quadro di Cèzanne.
    Quanto femminile testardo e dolce in questi testi!

  4. Trovo più rabbia, rancore per occasioni perse di fronte alle vicende che abbiamo attraversato, che propositività.

    Va bene anche così, l’arte è anche sfogo. Ma la cosa si ferma – come ha osservato giustamente Mayoor – al ribellismo; o allo scontento, al disincanto.

    1. Il ribellismo ha per me il significato positivo di un diverso atteggiamento mentale: che si sottrae alla conformità, al pensiero comune – dominante – e si manifesta principalmente nel rifiuto all’autorità. Gli anni che precedettero il ’68, e solo in parte gli anni ’70, furono anche l’espressione di un salto generazionale che mise a soqquadro intere famiglie, partendo dal rapporto uomo-donna per finire alla critica sociale e politica. Terreno fertile per i marxisti che, pur con buona critica ragionante, finirono però con incasellare tutto quanto.

      1. … infatti solo sul finire degli anni’70, proprio sulle macerie tornò la voglia di ballare e di farsi qualche spinello. Ci fu chi lo capì per tempo, anche tra i marxisti. Il viaggio di Rita, lo si capisce dalle poesie, fu introspettivo e molta importanza ebbe la psicanalisi.

      2. “i marxisti che, pur con buona critica ragionante, finirono però con incasellare tutto quanto” (Mayoor)

        E dalli! I marxisti incasellavano tutto quanto, mentre gli altri – gli sgamati, i più fini d’animo e di cervello – non incasellano?
        Ma dai. Tutti incasellano e c’è da vedere cosa si perde e cosa si ricava spostandosi da una casella ad un’altra…

        1. Anche se oggi sento più che mai necessario il confronto con quella parte ragionante, allora era così: non facevi in tempo ad alzare la mano in assemblea che venivi accerchiato, per non dire sedotto, da esponenti di una o l’altra fazione. Poi con noi o contro di noi. Son cose superate? Ne sono contento.

          1. “Ribellismo” ha per me una connotazione negativa: voglio ribellarmi, ma non ho strumenti o capacità per costruire qualcosa di propositivo e durevole. Così ho tante buone intenzioni, ma finisco col credere che ribellarsi voglia dire farsi spinelli e andare ai concerti senza pagare il biglietto. E finisco incasellato (e manipolato) dai furbi di turno…

            Per me “ribellismo” fa rima con “velleitarismo”.

          2. @ Mayoor

            No, non credo che siano cose superate. Lo si vede anche nelle nostre discussioni. Gli aut aut, le seduzioni, le minacce più o meno sottili, ci sono ancora adesso. Non si passa impunemente da una casella all’altra, anche se esse non hanno più i netti confini o steccati di una volta (destra/sinistra; rivoluzionari/revisionisti; leninisti/spontaneisti, ecc.). C’è sempre da scegliere. E anche non scegliere in fondo è una scelta…

  5. …trovo queste poesie di Rita di una grande potenza e, nello stesso tempo, segnate da un sentimento di impotenza angosciante. La poetessa ripercorre i fatti salienti della sua vita e del suo tempo attraverso i versi composti a caldo, quando credeva ancora nel valore della poesia…Mi riesce di paragonarla a Cassandra: pienamente consapevole della sua e dell’altrui sventura, ma anche orgogliosa del coraggio che le appartiene di sondare senza sconti il fondo disumano delle cose. Concede, in alcune poesie, uno spazio alla sua femminilità e all’amore e allora disegna un cerchio a rappresentare un pegno di fedeltà (Realtasìa) e anche all’arte, che però ormai è muta nella sua ieratica bellezza (L’utile bellezza). Ma la visione apocalittica prevale, con punte di rabbia disperante, come davanti allo sprofondare di Atlantide e di ogni significativa distinzione dell’essere , quale”… sterile violacciocca/disidratata/ dall’assenza del diverso”…E la natura disfatta, non ospita più lucciole e coccinelle…Infine, bellissima e triste, l’ultima poesia si chiude nello smarrimento “…come persa/ libellula fuori stagione sull’acquoso specchio” (Fuori stagione). In queste poesie trovo anch’io, come Mayoor, una grande dimensione teatrale, nel suo significato migliore, dove siamo tutti protagonisti di una tragedia: uomini, natura, animali, piante, sullo sfondo un cielo bello e indifferente…

  6. NOTE A «IN CRONACA»

    Nella premessa alle poesie qui pubblicate Rita Simonitto cerca la risposta alla comunissima domanda «perché si scrivono poesie» esclusivamente nel campo psichico-esistenziale: coazione, gioco, bisogno interiore, dialogo con l’esterno per chiarire un luogo/tempo anomalo.
    È un io riottoso e riflettente che s’interroga – «a recita finita» – sulla «minuscola storia» che avrebbe portato il proprio io poetante dalle sue prime «poesie controcorrente» all’«impoetica rappresentanza dell’orrore». C’è davvero questo svolgimento, questa «minuscola storia» (interiore)?
    Si potrebbe anche dire che siamo di fronte a un io filosofico adulto, intellettualmente maturo, che rivede la sua genesi, il suo ‘fanciullino’ per dirla con Pascoli: « un bozzolo ancora chiuso che si muoveva ruotando su se stesso, apparentemente a casaccio».
    Che continuità esiste tra loro?
    E perché parla di «contatto inquietante con una ‘essenza’ paradossale cje pare si manifestasse in « un quotidiano che incominciava a farsi più ardito nelle sue provocazioni»? Quali i «sussulti» o le «colpe»?
    Devo dire che la premessa ai versi allude ma non spiega, come se volesse celarsi, non darsi.

    Nei versi, di certo scelti tra tanti altri e che vanno dal 1969 al 2014 (tranne l’ultima poesia senza data, e forse successiva), da lettore con una sua pratica della poesia cosa colgo?

    In «1969» – certo un anno che nella storia d’Italia è stato di lotte sociali come minimo inattese e sorprendenti – è fissato un sentimento di rabbia impotente che vorrebbe investire tutto; ma in realtà pare sia soprattutto un mondo contadino quello messo in causa (vacche e tori, cane, uomo con la piorrea), una «comunità di silenzio» contrassegnata dallo «stupido marchio dell’onestà».
    A livello lessicale noto il contrasto tra il registro basso (« Ho gridato ‘merde’ tutto il giorno») e , al polo opposto, gli aggetti iperletterari (lascivi, raggrumati, vagolanti). Un contrasto netto su cui inerrogarsi.

    «Funerale alle sei». Il sentimento della morte, che parte da un dato quotidiano – mi pare di capire la morte di un amico (anzi viene usato un termine più impegnativo: compagno) -, respinge e nullifica i valori («fraternità, libertà, uguaglianza») emersi ( o semplicemente proclamati?) dalla storia ; e rinfocola il rifiuto degli altri da parte di un io, che kafkianamente si separa dalla società e si “animalizza” (qui in pidocchio o in lumaca).

    «Follia». La tentazione di abbandonarsi al sogno e alla follia. Solo in quelle zone dell’esperienza umana «l’acqua diventa pietra» o compaiono immagini dell’inconscio difficili da decifrare ma affascinanti e conturbanti (uomini azzurri, ecc).

    «Realtasìa »( calco mi pare di fantasia, ma anche auspicio, invocazione: la realtà sia!). Qui ci si sbarazza delle intenzionalità, della rabbia, del desiderio di regredire ad animale. Anche linguisticamente il lessico è unitario, senza più gli sbalzi di «1969». E ci si adagia nelle immagini e in una narrazione che, per quanto cifrata, si apre alle cose che possono diventare tangibili, alle promesse, alle «parole inesauribili». Il risultato poetico è raggiunto.

    Anche «L’utile bellezza» è una bella poesia. Piena di dolcezza. Di immagini “mozartiane” (civetteria di dama, sorriso, ventaglio).

    «Tu». La rabbia impotente di «1969» si ripresenta non più contro gli altri ma in una sorta di interrogazione metafisica dai toni biblici (alla Giobbe?) che rivendica dalla divinità «l’infinito del cielo». Torna a livello linguistico l’aggettivazione iperletteraria (per me): illimite, eolosi.

    «Solo a valle». Si pone allo stesso livello di «L’utile bellezza». Lì la dolcezza e il godimento della propria immagine («Eccomi. Guardatemi»). Qui la pacatezza e l’accettazione («Così è la vita»). Solo così dell’orrore (il precipitare verso la fine) può darsi una «quieta rappresentanza». Ancora una volta devo dire che certi termini (esautorati, impersuadibili) non mi convincono. Li sento stridere vicino a termini come ‘prati’, ‘coccinelle’, ‘lucciole’.

    « Non flectit genua in orando pro ipsis». Torna la rabbia di «1969» e torna il contrasto forte tra lessico alto (persino in latino) e lessico basso e espressionisticamente distorto ( puzzolenza, cosciapertaputtana). Un secolo in polvere. Resta solo la astratta volontà di non inchinarsi ai traditori.

    «Fuori stagione». Interno ed esterno, sia pur entrambi «fuori stagione» sembrano coincidere pacatamente.

    In conclusione e senza approfondire. L’impressione profonda che ricavo dalla lettura di questi «versi diversi in cronaca» ( questo era il titolo proposto da Rita e poi ridimensionato) e che lo spettro della morte incombe sulla poesia e su questa poesia di Simonitto. Ma l’umano (!) regge…

  7. Non credo si sia verificata quella interruzione di cui l’autrice parla: “Una volta scrivevo poesie. Ora non più.”
    Scorrendo le composizioni in senso cronologico inverso, oso pensare che la “senza data” sia stata composta nel 2015, e rilevo che ci sarà stato magari un diradamento, una minore urgenza di scrivere, ma la poesia in Rita Simonitto, per quanto oscillante, è ancora saldamente presente nonostante l’intenzione di non ricorrere a questo genere di comunicazione.
    Condivido la lettura puntuale che ne fa Ennio Abate e mi soffermo su L’utile bellezza (1992) per evidenziare come, dopo quasi un quarto di secolo, resista così bene al tempo. Ben vengano gli ammutinamenti della parola se poi il risultato è questo!
    Ecco, io lascerei da parte domande tipo: “E tutto questo per chi veniva fatto?” in modo da disporsi mentalmente ad accogliere nuovi spunti, per non precludere, ostacolare , la ripresa della propria “meditazione poetica” che a mio modesto parere si è conquistata, anche se in forma di poesie solitarie, il diritto di cittadinanza.
    Ubaldo de Robertis

  8. Grazie ai commentatori per gli spunti che mi hanno dato, utili per promuovere ulteriori pensieri e riflessioni. Una considerazione riguarda la vitalità del dire poetico che è tale quando può integrare e arricchirsi di altri vertici osservativi. La poesia è viva quando esce sia dal rapporto solipsistico dello scrittore con se stesso a sia dal rapporto strettamente ‘duale’ che lui stabilisce tra sé e la realtà circostante ma si confronta, invece, con altri sguardi. Per questa ragione – rispondendo anche al post “La poesia come gadget” – il problema si pone rispetto all’uso che viene fatto di questa opportunità.
    Grazie dunque a Mayoor che, a fronte delle mie poesie, sottolinea come fa spesso (con ragione?) l’imbastardimento che io tendo a fare (o invece si tratta di un meticciato?) poesia/prosa.
    Ad Emilia, dal cuore tenero e sensibile, che ha il radar per mettersi in contatto con le parti sofferenti. E il suo essere esperta pittrice la spinge a riconoscere gli effetti impressionistici nel gioco degli azzurri e dei gialli à la Cezanne. Infatti i nostri sogni/follia hanno visivamente un che di impressionistico.
    Pure ad Annamaria, per la sua intuizione nell’introdurre la figura di Cassandra – una mia icona, se vogliamo chiamarla così -, destinata a vedere il dramma prima che esso accada e paralizzata dalla sua stessa incredulità a non poter far niente.
    E poi l’interessante osservazione di Ricotta, sulla quale poi spenderò due righe.
    E Rizzi, con la sua ‘osservazione’ sulla protesta. Infatti oggi non intendo scrivere più per dare voce alla mia protesta. Oltretutto, ribellismo, scontento e disincanto non sono sinonimi. Rischiano di assomigliarsi in mancanza di un progetto.
    Acute, come sempre, le osservazioni di Ennio.
    Mi soffermo un attimo sul suo sottolineare il mio uso di un lessico accentuatamente forbito che pare contrastare un linguaggio ‘più basso’ e produce un effetto straniante. E’ così. Intenzionalmente così. A volte l’iperletterario viene utilizzato come segno (provocatorio) di allontanamento dal basso verso l’alto. Equiparabile alla aspirazione fallimentare del proletario a mostrare la sua ‘cultura’ quando è spinto più dal desiderio all’ascesa sociale che dalla conoscenza in sé.
    Il pacato e solido commento di Ubaldo de Robertis, saggio nel suo invito a non vedere le ‘interruzioni’ come ‘catastrofi’ annichilenti, ma come katà-strophè, un re- iniziare da un altro punto di osservazione. Infatti, nell’ultima poesia, il “(senza data)” fa parte del testo, ovvero segnala che al presente non c’è un evento significativo particolarmente stimolante atto a coagulare un pensiero poetico.
    Quanto all’osservazione di A. Ricotta, mi sembra che metta a confronto due processi di conoscenza ben diversi tra loro sia per il metodo che per il fine: la scienza e l’arte.
    Nella prima è necessario “voler sapere”: c’è un fine da raggiungere e dei criteri da rispettare per arrivarci, mentre nella seconda ciò che guida è la ricerca del senso che viene dato a certe esperienze o che concorre a formarle. Un senso può essere ‘scoperto’ nell’ambito del confronto con gli altri che fanno cogliere aspetti che, nel mentre uno scrive, non gli sono chiari. Pertanto in questo registro si tende a procedere nell’incertezza di ciò che si sta sviluppando e nello stupore di quanto si è venuti a scoprire.
    Per questo dico che mi sono stati utili le osservazioni di chi è intervenuto perché mi hanno fatto vedere delle particolarità che, al momento della scrittura mi erano ‘sconosciute’.

    R.S.

  9. Dato il clima di accoglienza possiamo accogliere anche la prosa, no? Prosa non sa tacere, non sopporta le pause… ma ha dalla sua l’inventiva gioiosa che raramente s’accompagna alla poesia.

  10. APPUNTO 1

    Dico la mia. Sono perplesso su questo esperimento teatrale o cinematografico o di poesia-racconto di Mayoor. È piacevole, seducente, abile anche per la sua capacità di ombreggiare e lasciare zone di oscurità, ma…

    Parto dalla questione della comprensibilità, provando a rileggere la poesia in due mosse:

    1. scartando le espressioni più ambigue o oscure o fortemente metaforiche che non si incontrano negli esempi di poesia narrativa “non sperimentale” (quelli a cui siamo più abituati, quelli che non spezzano il legame tra dati dell’esperienza comune e condivisa e le parole con cui si rappresentano eventi, personaggi, sentimenti):

    1. Ha due metri di fucile nella spina dorsale;
    2. ricamare insalate;
    3. galline recintate
    4. Al loro posto
    5. tarantola che gli sale dalle gambe
    e la medusa
    che vorrebbe abbracciarlo per il collo
    6. Domani si dovrà comandare al bar tabacchi
    7. il Vangelo posto sul manuale per le armi automatiche
    8. in cima, alla grondaia, finge di leggere
    9. serpe
    che gli parlò nelle orecchie
    10. Se sparo mi sparo
    11. Il canto del gallo bagna la sotterranea
    12. La voglia sul culo del tenente puntava a nord
    13. Fantasie del catrame
    14. Sui comignoli danza l’airone tatuato che si volta
    e scende dal letto.

    2. Parafrasando e riassumendo:

    Qualcuno (la voce narrante, un osservatore curioso del mondo) si chiede: cosa si nasconde nella testa di un pazzo. Anzi pensa di averlo individuato questo pazzo: è un tizio (anonimo) che svolta l’angolo
    uscendo dal bar. (Non si dice dove sia questo bar). Ha un cappotto marrone e l’aria di chi ama osservare da lontano, con le sopracciglia in su perché ha già visto. (La sa lunga, è uno che sa come vanno le cose del mondo). La vita attorno è normale, sotto controllo. Tutti sono a lavorare o se ne stanno in casa a travasare bottiglie o sono impegnati in altre faccende domestiche. Se in questo paese (normale) capitasse un pazzo (magari quello uscito dal bar), la vita sarebbe sconvolta o spazzata via come da un bufera.
    Qui c’è una cesura. Compare un nuovo personaggio: Il ladro professore, che ufficialmente viene chiamato dottore, ma che di fatto trascorre il tempo a cercare di fare quanto più denaro gli riesce. Il suo scopo e farne sempre di più, naturalmente, e scoparsi la segretaria. (ecc.). Viene aggiunto che il dottore (medico o semplicemente un laureato…) che vive – si può supporre – in quel paese, è pazzo o passa per pazzo; ma tutto sommato è un clown, uno che spera di essere ricordato (da morto o se se ne andasse da lì) perché divertente. Insomma, un pazzo buono o innocuo, non pericoloso. Come quelli che puoi trovare (!) sulla grondaia (sul tetto? perché i pazzi –altro elemento ironico e assurdo – starebbero sulla grondaia (come le rondini?) e sembrano/possono essere dei killer. Questo deve aver partecipato a una guerra (di oggi, pare, se di fianco ha o porta con sé un cellulare vecchiotto). Dalla guerra è scampato, essendo un po’ comunista e un po’ figlio di puttana – qui un’altra frecciata ironica e a-ideologica ovvio! – facendo il doppio gioco. Viene ora introdotto un altro elemento di ambiguità: Qui non si capisce chi sia uno ( il dottore, il pazzo buono) e chi l’altro ( il pazzo pericoloso, il killer). E vengono fatte due ipotesi: se si tratta del dottore, pare sia un pedofilo o comunque uno che finge di leggere ma tiene d’occhio le bambine; se invece è il killer, quello che usciva dal bar (col fucile nella schiena o dietro la schiena), c’è il rischio che spari proprio al dottore spione che sta sulla grondaia. Lo farebbe – dice la voce narrante – non per vendetta ma perché disturbato. Non si dice da cosa, ma si suggerisce che il tipo probabilmente ha nostalgia di quando (non si precisa il tempo) lì – in quel paese – c’erano solo campi e che una volta (ancora non si precisa il tempo) si era perso in quella campagna. Pare che allora abbia visto un topo morto, le ceneri di un bivacco; e – ecco un elemento visionario – una serpe che gli parlò nelle orecchie con voce femminile. Sembra una serpe- Beatrice, un po’ “popolana”, che lo richiama ( proprio come successe a Dante) a un dovere : non comportarsi come gli altri umani, che vivono da barboni nella povertà e nella sporcizia credendosi padroni del mondo solo perché ci stanno sopra e possono calpestarlo, ma elevarsi (aspirare al cielo), leggendo intanto la Bibbia, tanto per cominciare. E poi, quando ci si è elevati, spazzar via tutta quella gentaglia (tutti quei finti padroni e tutte quelle mignotte che si tirano la figa all’alba dei settant’anni e – chissà perché , ma è molto Vecchio Testamento – anche i bambini che calpestano le aiuole e persino i vigili (da anni Cinquanta) che aspettano Natale per la mancia. Poi una specie di dilemma del pazzo killer: sparo a me o sparo al dottore. Sparando (al dottore) farebbe – si dice – il bene dell’umanità. Quale umanità? Boh, pare che l’umanità sia quella d’oltre confine, da cercarsi ai due poli opposti della modernità e dell’arcaicità: in America o in Siberia. Poi c’è un ambiguo: Via, scio! (del narratore? del killer che sta riflettendo se uccidere o meno?). E compare un arcangelo Gabriele un po’ dissacrato, donnaiolo e in una posizione non proprio angelicale (sta seduto in bagno, probabilmente sul water). Parrebbe lui il mandante o il suggeritore o l’annunciatore (giustiziere?) di questo omicidio. E poi un’invocazione ( di chi? del killer? O dell’arcangelo Gabriele) alla Vergine incoronata….

    [Continua]

  11. APPUNTO 2

    Questione del senso di questo esperimento di Mayoor.

    Pongo una serie di domande ai vari commentatori (Mayoor compreso):

    1. Dove starebbe qui la «fusione» di poesia e di prosa?
    2. Si può individuare nei versi un po’ d’indignazione e di denuncia (generica), ma dove sarebbe la voglia di cambiare? e in che direzione?
    3. Dove starebbe il «realismo», e per giunta «pazzesco»?
    4. Perché questo di Mayoor sarebbe uno «scrivere libero e rivoluzionario»?
    5. Dove starebbero oggi – non nel Cinquecento o nel Settecento o nell’Ottocento – l e cose “statiche” a cui questa poesia reagirebbe? O la «scossa di terremoto», che butterebbe all’aria «la situazione più banale»?
    6. Cos’è questa esaltazione (unilaterale per me) della musicalità e del ritmo in poesia?
    7. Che tipo di *oscurità* (attiva, dinamica, che fa pensare o ambigua, evasiva, che vuole stupire e sorprendere ma nulla più?) troviamo in questa poesia?
    8. In che senso il procedimento adottato da questa poesia sarebbe o somiglierebbe alla costruzione di un «ologramma» (cioè, se capisco bene, la poesia o le sue immagini sarebbero trdimensionali)?
    9. Cosa comporta (per la poesia) puntare ad «immagini di immagini» invece che a « immagini di realtà»?

    Oltre a queste domande (che non vogliono essere banalmente provocatorie o lo vogliono essere per suscitare un approfondimento delle questioni che sono state poste), vorrei far presente la mia diffidenza verso l‘«uso del frammento», che Mayoor sembra voler privilegiare come scelta di poetica particolarmente innovativa. (A parte il fatto che in questo testo il frammentismo è circoscritto, come ho cercato di mostrare parafrasandolo).

    P.s.
    Sui rischi del frammentismo rimando a questo ironico scritto di un poeta polacco, Jan Brzechwa, segnalato da Paolo Statuti:

    Come diventare un vate
    11APR

    Jan Brzechwa

    Feuilleton satirico di Jan Brzechwa(1898-1966), noto poeta polacco, autore di molte favole e poesie per bambini, di testi satirici per adulti e traduzioni della letteratura russa.

    L’innovazione nel campo della poesia si sviluppa da noi lungo tre binari, e ciascuno di essi è illuminato da lampi di genialità. Tuttavia grazie alle sensazionali ricerche dei nostri teorici, perfino un genio si lascia soggiogare e avvincere dai loro infallibili principi. Per questo, 4876 poeti delle terre polacche, hanno reso felici i lettori con opere memorabili. Per quanto spetta a noi, desideriamo limitare la nostra modesta fatica a una sistematica presentazione dei tre metodi creativi fondamentali, per le migliaia di futuri poeti, considerando anche che siamo in un periodo di forte incremento demografico.
    METODO I : CREAZIONISMO ANTISINTATTICO
    Come hanno giustamente osservato i nostri illustri teorici dell’avanguardia, la più gravosa “palla al piede” della poesia è la parola. E pertanto tra i principali compiti del poeta figura l’annientamento della parola, tramite la sua frammentazione in elementi inarticolati allo scopo di atomizzare la visione.
    Immaginiamo quindi, che un poeta indotto dall’abitudine a pensare in modo logico, abbia previsto questo componimento tradizionale:
    L‘ OPERAZIONE
    Il dottore ha eseguito
    l’operazione,
    il paziente è morto,
    grazie a ciò
    il defunto
    si è reso conto
    dell’assurdità della vita.
    Questa poesia colpisce per la sua commovente profondità, parla della morte, si avverte l’alienazione esistenziale di un defunto frustrato. Ma è al tempo stesso una composizione appesantita dalla zavorra della parola e da un banale arierismo sintattico.
    Dunque qui interviene il geniale innovatore e agisce in base al principio del creazionismo antisintattico, togliendo alle parole la loro piatta semiasologia, e con una ispirata deformazione, libera il subconscio creativo, ottenendo così una reazione, dove il valore estetico nonché espressivo della parola cessa di esistere.
    Leggiamo dunque con crescente ammirazione:
    SBAGLIATA OPR
    Doteseoper
    pazmor
    grazci
    defu
    sireco
    assurta.
    Nei frammenti dell’insieme il poeta cerca la verità sul mondo, dimostrando la grottesca impossibilità della comunicazione.
    METODO II: CREAZIONISMO INTUITIVO
    Il poeta innovatore può anche attingere dalle tradizioni poetiche nazionali, ciò che lo proteggerà dall’accusa di cosmopolitismo nella sconnessione dell’anacoluto sintattico. A tale scopo basta prendere i versetti di tre vati del romanticismo.
    E quindi da Mickiewicz:
    “Ma come uomo di saggio e sicuro giudizio”
    (“Pan Tadeusz”, libro VI),
    da Słowacki:
    “In lunga fila”
    (“Inno al tramonto del sole sul mare”),
    da Krasiński:
    “La gente udrà soltanto aspri strepiti”
    (“Dio mi rifiutò…)
    Scriviamo tutte queste parole in foglietti separati, mescoliamoli in un cappello ed estraiamo a sorte. Togliamo l’interpunzione e avremo una poesia davvero contemporanea:
    STREPITI DI GIUDIZIO
    In fila aspri soltanto
    come uomo lunga
    di saggio
    strepiti di giudizio
    udrà
    la gente e
    di sicuro Ma.
    Questa poesia, equivalendo a un cogliere in flagrante gli stati psichici non razionalizzati, tormenterà il lettore.
    METODO III: CREAZIONISMO SEMPLIFICATO
    I due metodi precedenti si basano sul disordine formale di determinati sistemi di verbalizzazione. Ciò esige dal poeta una ispirazione costruttiva, erudizione e una particolare sensibilità per le dipendenze linguistico-semantiche. Invece il creazionismo semplificato permette perfino di trasformare le inibizioni alfabetiche in una mitocreazione poetica.
    A tale scopo bisogna prendere un buon giornale e copiare alcuni frammenti del programma radiofonico, dandogli una forma grafica di avanguardia. Grazie alla metamorfosi creativa del testo, otteniamo un componimento di grande tensione emotiva:
    RADIONODO DELLA VITA
    Musica
    musica
    programma del giorno
    calendario
    ginnastica
    lingua inglese
    musica
    canzone del giorno
    L’inserimento di alcune parole sconvenienti in ordine alfabetico tra le singole frasi eleverà il livello intellettuale del componimento.
    Applicando uno solo dei metodi proposti o mescolandoli in qualunque proporzione, chiunque può diventare un poeta-innovatore, e perfino un vate, concentrando in sé i problemi della poesia polacca del XX secolo.
    Jan Brzechwa

    (https://musashop.wordpress.com/?s=Come+diventare+un+vate&submit=Cerca)

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