6 pensieri su “Segnalazione

  1. Sono andato ieri (14 maggio 2016) allo Spazio Frida per la presentazione del “Il gioco delle parti” di Ezio Partesana. Ho ascoltato Paolo Giovannetti e Markus Ophälders; e il simpatico scambio di battute tra loro e l’autore. Poi, tornato a casa, mi sono andato a rileggere il dibattito svoltosi sul sito di Poliscritture sotto il post di Donato Salzarulo (https://www.poliscritture.it/2016/04/06/la-societa-della-comunicazione/) e vorrei riproporne all’attenzione i seguenti punti:

    1.
    In un mio commento (https://www.poliscritture.it/2016/04/06/la-societa-della-comunicazione/#comment-27283), pur dichiarandomi d’accordo sulla necessità di « evitare l’immediatezza, guardarsi dalle emozioni indotte e/o manipolate, dalle contrapposizioni manichee, dalle semplificazioni o parzialità dell’analisi storica, dall’appiattimento sul “presente”», avevo posto una domanda: «cosa allora, potrebbe/dovrebbe sostituire la propaganda (cattiva in sé o cattiva per determinazioni storiche?) nel rapporto storicamente diseguale e gerarchico tra chi sa (e non vorrebbe mentire) e chi non è nelle condizioni di sapere e pensare correttamente eppure vorrebbe?». E avevo espresso una preoccupazione:
    il discorso filosofico di Ezio Partesana pare accantonare il necessario rapporto che Fortini chiamava tra il filosofo e il tonto. «per cui il filosofo continuerà a filosofare e il tonto ad essere tonto [col] rischio di ratificare questa separazione: alle masse la propaganda, al filosofo la riflessione».
    Non mi pare di aver trovato nessun cenno di risposta da parte dei relatori a questa mia preoccupazione. Eppure a *noi* servono *anche* delle risposte…

    2.
    Nella stessa discussione su Poliscritture c’era stato un giusto richiamo “all’antico” di Giorgio Mannacio. Egli aveva ricordato che «i sottili giuristi romani, a proposito della pubblicità fatta dei venditori ai loro prodotti, distinguevano il dolus bonus (naturale esaltazione del prodotto venduto ) dalla pubblicità ingannevole (dolus malus) e cioè dei veri e propri raggiri elaborati per vendere». E aveva poi sensatamente sostenuto che «non ci sentiremmo di definire “ cattiva “ una pubblicità su un prodotto realmente utile a combattere una malattia così come non ci sentiremmo di definire “cattiva “ una propaganda fatta da un uomo politico su azioni realmente vantaggiose».
    Ma il punto più interessante (per me e molto vicino alla mia preoccupazione) era quando si era chiesto:«Se non si può fare a meno del “ controllo sociale “ come strumento per la stabilità degli aggregati sociali indispensabili e coessenziali alla “ struttura umana “ quale tipo di comunicazione/propaganda/ pubblicità perde una parte della sua “ intrinseca malvagità “?». Accennando, alla fine, addirittura ad un possibile e quasi paradossale incontro tra «una vasta corrente di pensiero di filosofia del diritto americana [che] cerca di recuperare sia il concetto dei valori fondanti la società sia – coerentemente ad una tradizione empirica dei paesi anglosassoni – la costruzione di “pratiche etiche “ concretamente individuabili e fattibili» con il «vecchio Marx» e «anche la vecchia Rivoluzione francese».

    3.
    Sempre in quella discussione, riprendendo altre preoccupazioni, presenti già nella recensione di Donato Salzarulo («Ezio Partesana […], con questo suo libro, eredita il loro [di Horkheimer e Adorno] discorso puntuto e, per certi versi, disperato. A rileggerlo, a distanza di anni, sono saltato sulla sedia. Così, ci eravamo illusi! Non può esistere una contro-informazione, una propaganda “vera”. Le buone intenzioni non modificano la sostanza manipolativa dell’atto, la sua intima falsità»), Cristiana Fischer aveva denunciato « la cupezza dell’universo mentale *espresso* da Ezio Partesana» e la sua – direi io – “torsione religiosa pessimista” («Mi ricorda qualcos’altro: siamo immersi nel peccato, non c’è salvezza che dalla grazia: “una mossa che liberi di un colpo”»). Fischer lamentava pure che non si capiva « come una esistenza partecipata totalmente dalla ideologia potrebbe mai elaborare ragione o speranza-rivolta». (In termini più semplici – “propagandistici”? -: uno che vede l’ideologia sempre e totalmente dominante come può puntare sulla ragione e sperare che essa possa produrre un rivolgimento della situazione?). E invitava a cercare « nella realtà del presente germi di aperture che rendano i soggetti abbastanza liberi da poter pensare e sperare». Aggiungendo ( sulla base di un verso di Cardarelli proposto da Giorgio Mannacio:«La speranza sta nell’opera») che per lei « la speranza appartiene alla sostanza umana come non rinuncia alla fatica di vivere», da situare « in uno sfondo religioso, non confessionale».

    4.
    Nella presentazione allo spazio Frida di Milano Ezio Partesana ha citato una frase di Hegel (mi pare) che all’incirca recita così: se la ragione ha ancora un’astuzia, la usi per parlare d’altro. Avrei voluto chiedergli cosa intenda per *altro”, ma non ce n’è stata occasione. A me però è parso che egli intenda usarla evitando ogni scontro diretto con la “propaganda” (perché “inutile”, “perdente”) e anche tenendosi alla larga dalle “piccole comunità della Rete” (abbastanza da lui svalutate e un po’ sbeffeggiate; e paragonate – mi pare che l’abbia ricordato Paolo Giovannetti – ai “salotti di una volta” che si “trastullerebbero” ai margini del sistema di dominio). Non condivido tale atteggiamento. Non è che io ricorra all’«utopia della fuga», come Partesana pensa. Semplicemente non credo che esista o si debba cercare « una mossa che liberi d’un colpo solo gli uomini dall’ideologia». E temo io che dalla sua convinzione che oggi il “gioco delle parti” tra ideologia e propaganda sia talmente pervasivo e inattaccabile, tanto da non «fornire appigli alla critica» (ma perché dovrebbe fornirglieli il gioco delle parti? È la critica che deve trovare i suoi appigli!) discenda una pericolosa rinuncia alla critica stessa ( o almeno a quella più *pubblica*, più rivolta agli “ignoti”). Quella che, ad es., si tenta di esercitare qui su Poliscritture, che si pretende «laboratorio di cultura critica», uno dei tanti, a suo parere, «rafforza entrambe» (ideologia e propaganda).
    Ora a me non pare affatto che l’ arma della ragione (illuminista ma anche marxista) non possa essere più usata contro la propaganda dovunque sia possibile; e sia pure entro i vincoli storici dell’ideologia da cui noi non siamo mai del tutto esenti. E neppure che, per esercitarla, si debba inevitabilmente accettare «una divisione (ulteriore) tra i pochi privilegiati, ma in misura sempre minore, “avvelenatori di pozzi” e la moltitudine assordata e assoggettata».
    Certo, le difficoltà per«combattere la menzogna e l’ignoranza e scrivere la verità» oggi saranno più delle cinque che indicò Bertolt Brecht (http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/11/ennio-abate-sulle-cinque-difficolta-per.html#more). Quelle cinque non vanno dimenticate. E, con Brecht (e Fortini) più che con Adorno, la verità (o quel poco che riusciamo a catturarne), se non riusciamo proprio più a dirla oggi « a coloro che di questi rapporti di proprietà soffrono più di tutti, che hanno [in teoria, aggiungo io] il maggiore interesse a cambiarli, ai lavoratori e a coloro che possiamo trasformare in loro alleati»( Brecht), dobbiamo comunque farla viaggiare nella « moltitudine assordata e assoggettata ». È una scommessa? Sì, e può bastare.

    1. Con qualche ritardo, giustificato da vicende personali, rispondo all’amico Ennio.
      A me pare che egli commetta un doppio errore, prima politico e poi filosofico, riguardo il rapporto tra “colto” e “ignorante”. Che sia una domanda seria e ineludibile, mi pare scontato, ma le conseguenze pratiche che egli ne trae – sospese tra una sorta di volontà di “andare incontro al popolo” e un tentativo di conferire dignità a qualunque tendenza alla forma (Fortini) – finiscono per concludere inevitabilmente alla reiterata richiesta, omologata da qualsiasi spettacolo televisivo o quarta di copertina, di parlar semplice e chiaro perché in fondo non c’è nulla di veramente importante che non possa essere detto con parole semplici. E sotto questa richiesta – come pure ho cercato di mostrare nel mio saggio – si cela quella, ben più cruciale per il controllo sociale, di una uniformità verso il basso. Se c’è differenza di cultura, insomma, il problema dovrebbe essere quello di far “salire” chi è in fondo alla scala (credo lo scrivesse, per dirne una, anche il tanto mal citato Don Milani), non il risentimento di chi attacca un intellettuale perché i suoi scritti – o musiche o quadri o volumi di storia – non sono con facilità accessibili a chiunque. La colpa, se così vogliamo dire, andrebbe per lo meno equamente divisa tra la struttura sociale del tardo capitalismo e la spocchia dei chierici (vero); segnarla solo a disdegno dei secondi è paradossale: non è proprio anche per questo che vogliamo, volevamo, fare la rivoluzione?
      L’errore filosofico discende da questo; è forse meno interessante far notare a Ennio come egli confonda ontologia e etica, piuttosto che discutere di dialettica tra le classi, eppure sono persuaso (e anche moderatamente sicuro d’averlo già scritto) che accusare la critica di mostrare i meccanismi del dominio, come se dare nome alle cose fosse ancora sotto l’antico mantra del portarle in vita, equivalga a dire che poiché gli uomini devono cibarsi necessariamente di pane e non di pietre, quel che si dà loro debba essere pane per forza di cose. Detta semplice, così evito rimbrotti, vero: vogliamo un mondo dove ognuno possa comprendere quel che accade e essere, al di là di invalicabili limiti di specialisti che la scienza e la cultura oramai hanno raggiunto, partecipare alla decisioni. Questa è una posizione etica, però, la politica ne deve seguire, non presupporre sia già realizzata perché così ci piacerebbe.
      E per venire finalmente al mio saggio (buffo: mi si fanno domande su recensioni e presentazioni, non su quello che pure ho scritto), la domanda su una “propaganda buona” che Ennio mi rivolge è quanto meno discutibile. Egli stesso usa i trattini per unire per unire comunicazione, propaganda e pubblicità, mostrando così di non aver compreso alcuni passaggi de “Il gioco delle parti”. Io non mi sono mai sognato di scrivere che qualunque comunicazione sia ipso facto propaganda; ho piuttosto cercato di mostrare le forme attraverso le quali la propaganda si appropria anche di alcune apparentemente innocue forme di comunicazione; un tempo si sarebbe parlato di sussunzione reale o formale, ma la sostanza non cambia: non è certo il cartello appeso sopra il portone del palazzo che avvisa della sospensione della fornitura di corrente elettrica per due ore il mio bersaglio.
      Per finire, e cercare di essere breve, che qualcuno si preoccupi della “cupezza dell’universo mentale” mia o addirittura di una “torsione religiosa pessimista”, sempre mia, mi fa venire voglia di scrivere una cosa sgradevole ma anche semplice: l’avete letto il libro?

  2. @ Partesana

    1.
    Avevo scritto: «il discorso filosofico di Ezio Partesana pare accantonare il necessario rapporto che Fortini chiamava tra il filosofo e il tonto. «per cui il filosofo continuerà a filosofare e il tonto ad essere tonto [col] rischio di ratificare questa separazione: alle masse la propaganda, al filosofo la riflessione».
    E Ezio mi aveva replicato così: « Sembra assodato che questo comporti una divisione (ulteriore) tra i pochi privilegiati, ma in misura sempre minore, “avvelenatori di pozzi” e la moltitudine assordata e assoggettata. È vero, e fa bene l’amico Ennio a preoccuparsene. La speranza appesa al filo è che scrivendo si susciti tanto odio quanto ne serve a preferire lo scontro a tutto il resto.» (https://www.poliscritture.it/2016/04/06/la-societa-della-comunicazione/#comment-27328).

    Mi sembrava, dunque, che prendesse sul serio la mia preoccupazione. E ancora adesso ammette che la mia sia « una domanda seria e ineludibile». Allora perché la svaluta, lasciando intendere che io approverei la posizione di quanti chiedono di «parlar semplice e chiaro perché in fondo non c’è nulla di veramente importante che non possa essere detto con parole semplici»?
    In una relazione su «Disobbedienze» di Fortini, ora pubblicata nel volumetto «Come ci siamo allontanati», ho scritto (condividendo mi pare evidente):

    « Nel secondo di tre importanti articoli intitolati «Scrivere chiaro» del 1974 affermava: «[Chi scrive (e chi parla)] suppone un destinatario capace di decifrare il suo messaggio. Dice «pane» e quasi tutti (sul territorio della Repubblica) lo capiscono. Dice «nella misura in cui»: lo capiscono solo quelli che hanno frequentato una sezione del Pci….» (I. p.55). E sul problema dello stile avvertiva: «Tutti dovrebbero sapere ormai che un certo stile e linguaggio […] serve a confermare l’autorità di chi lo emette più che a trasmettere una certa comunicazione. Così lo stile burocratico rafforza la burocrazia, lo stile funzionariale rafforza i funzionari, lo stile pretino i preti, ecc.» (I. p. 100). Consapevole che nel giornalismo «l’imbroglio ideologico ai danni del lettore» (I, p. 55) avviene nel momento in cui il linguaggio settoriale viene corretto con quello colloquiale, rifiutava la facile chiarezza: «Questa chiarezza la so usare ma non voglio usarla. Non parlo a tutti. Parlo a chi ha una certa idea del mondo e della vita e un certo lavoro in esso e una certa lotta in esso e in sé» (I, p. 56). Per lui il difficile di certi articoli non stava tanto nelle parole usate, ma piuttosto «nei passaggi da una proposizione alla seguente; è nei salti della sintassi. È in quel che non è detto, che è dato per sottinteso» (I, p. 56). E a chi lo rimproverava:«Parla più semplice sono un operaio, non ho studiato, io» faceva notare la malafede della richiesta: perché vantarsi di una situazione di svantaggio? (I. p. 56) E perché – obiettava – «spesso, a lamentare l’incomprensibilità degli «studiati» (o degli “intellettuali”) sono proprio gli «studiati»?».

    Ora, invece, discutendo sul suo libro ( o sui commenti ad esso, che non mi paiono trascurabili), accecato forse da un intento polemico, richiederei «una uniformità verso il basso», abbandonando persino l’obiettivo di don Milani («far “salire” chi è in fondo alla scala»)?
    (E non mi metto a ricordare quanto ho detto di recente a Mayoor « su oscurità autentica/oscurità decorativa in poesia» (https://www.poliscritture.it/2016/05/06/sulla-collina/#comment-28590); e ancor prima sulla necessità di render fluidi i rapporti tra livelli di sapere alti, medi e bassi nella vecchia intervista sulla poesia esodante che Ezio stesso mi fece).

    2.
    Quando un filosofo mi diagnostica una confusione tra ontologia ed etica, sobbalzo. Filosofo non mi sento ma volenteroso lettore di un po’ di filosofia sì. E credo di essere arrivato io pure a capire la distinzione tra il desiderio etico di « un mondo dove ognuno possa comprendere quel che accade e essere, al di là di invalicabili limiti di specialisti che la scienza e la cultura oramai hanno raggiunto, partecipare alla decisioni» e la politica da costruire per tentare di realizzarlo.

    3.
    L’invito a discutere di «dialettica tra le classi» lo accetterei ben volentieri, se mi si dicesse con chi posso farlo, vista l’odierna situazione culturale.

    4. «Sono persuaso (e anche moderatamente sicuro d’averlo già scritto) che accusare la critica di mostrare i meccanismi del dominio, come se dare nome alle cose fosse ancora sotto l’antico mantra del portarle in vita, equivalga a dire che poiché gli uomini devono cibarsi necessariamente di pane e non di pietre, quel che si dà loro debba essere pane per forza di cose» (Ezio).

    Questa proprio non l’ho capita e, se riferita a quanto da me detto, ancora meno.

    5.

    «Egli stesso usa i trattini per unire comunicazione, propaganda e pubblicità, mostrando così di non aver compreso alcuni passaggi de “Il gioco delle parti”» (Ezio).

    Faccio notare che quelle non sono parole mie ma di Mannacio; e io le ho solo riportate tra asterischi (*). Ecco la frase al completo: « Se non si può fare a meno del “ controllo sociale “ come strumento per la stabilità degli aggregati sociali indispensabili e coessenziali alla “ struttura umana “ quale tipo di comunicazione/propaganda/ pubblicità perde una parte della sua “ intrinseca malvagità “ ? Se questa intrinseca malvagità dipende dall’oggetto sembrerebbe logico salvare quella comunicazione che un oggetto diverso, ad esempio quello dei valori e non delle merci.» (https://www.poliscritture.it/2016/04/06/la-societa-della-comunicazione/#comment-27370)

    6.
    Ho scritto io invece: «Cristiana Fischer aveva denunciato « la cupezza dell’universo mentale *espresso* da Ezio Partesana» e la sua – direi io – “torsione religiosa pessimista” («Mi ricorda qualcos’altro: siamo immersi nel peccato, non c’è salvezza che dalla grazia: “una mossa che liberi di un colpo”»)».

    Per quel che riguarda la mia affermazione posso aggiungere soltanto che è un’impressione.

  3. Al fine di evitare una lunga e inutile discussione, invito amici e lettori a far riferimento al mio saggio, nel bene e nel male, e non a recensioni, impressioni, sentimenti, suggerimenti, spunti e quanto altro.
    Per cui: no, non c’è alcuna torsione teologica e men che meno una che invochi una sola risposta, una sola fonte o un libro solo; no, non c’è alcun clima cupo e men che meno dell’Universo, al quale non faccio mai riferimento; no, non c’è alcuna commistione tra comunicazione, informazione, propaganda e ideologia, che anzi tento di tenere ben distinte; no, non credo sia possibile – al momento e data la situazione – rendere fluidi i rapporti tra le classi, o meglio sarebbe dire i ceti, che accedono in misura diversa al sapere e all’Industria della cultura, con un gesto di buona volontà.
    L’unico “sì” che mi sento di dire riguarda la critica su una certa incompletezza del saggio; ma fa pur parte della sua forma essere così, anche per scampare le stesse forme di dominio che cerca di denunciare.

    Ezio Partesana

  4. @ Ezio

    Chissà perché da un bel po’ di tempo le discussioni dovrebbero essere inevitabilmente *inutili*. Ma il vento spira e lasciamoci trasportare. Orsù, di corsa! Passiamo ad altro!

    1. Guarda Ennio, pubblicamente prometto di rispondere e con dovizia di tempo e ragione a chiunque mi rivolga domande o critiche a quel che ho scritto. Invece a quanto la gente sente o immagina di vedere, perdona, ma proprio non ho in questo momento tempo da dedicare.

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