I quaderni d’Italo V

Riot police officers clash with protestors during a demonstration held as part of nationwide labor actions in Paris, France, Thursday, May 26, 2016. French protesters scuffled with police, dock workers set off smoke bombs and union activists disrupted fuel supplies and nuclear plants Thursday in the biggest challenge yet to President Francois Hollande's government as it tries to give employers more flexibility (AP Photo/Francois Mori)
(AP Photo/Francois Mori)

 

di Italo Lo Vecchio

In questo inizio di maggio dal meteo capriccioso, Sadiq Khan, un avvocato britannico figlio d’immigrati pachistani, di religione musulmana, ma “moderata”, s’affrettano a tranquillizzare i media, è stato eletto sindaco di Londra. Ma fino a che punto è “moderata” la fede in una religione monoteista?

Cos’hanno in comune il gruppo industriale Pirelli e la squadra calcistica  Inter FC? Sembrerebbe nulla, tranne il fatto d’essere state entrambe acquistate recentemente dalla Cina (cioè, dal capitale cinese). Ma non era l’euro a doverci difendere dalla “Cina”? Lo stesso euro che, svalutatosi del 30% sul dollaro in pochi mesi a partire dal 2014, non è riuscito tuttavia a impedire la deflazione in cui l’Italia annaspa? Gli economisti di regime, all’ipotesi d’una uscita dell’Italia dalla moneta comune e della conseguente svalutazione della nuova lira del 25% (quota necessaria a riallineare la lira al marco e a sostenere le nostre esportazioni), si stracciano le vesti disegnando uno scenario da tregenda, una sorta delle “sette piaghe d’Egitto” rivedute e corrette. Ebbene, l’euro s’è svalutato del 30%, e nessuno se n’è accorto. Nemmeno il Quantitative Easing voluto dalla Banca centrale europea è riuscito nel suo intento: spingere l’inflazione dell’eurozona verso il 2%. Ma sursum corda: dall’anno prossimo ci sarà la ripresa. Lo dice oggi Padoan, come nel 2010 lo diceva Tremonti per il 2011 – e il Centro studi della Confindustria assicurava, poi nel 2012 lo annunciò Monti per il 2013, e nel 2014 il mantra passò al duo Saccomanni-Letta.

(dedicato a chi pensa che la funzione schengeniana sia quella di mandarci a zonzo per l’Europa muniti della carta d’identità anziché dello scomodissimo passaporto)

Dopo Maastricht che ha tracciato il solco (mobilità di capitali), ecco a cosa serve Schengen che lo difende:

“Dobbiamo abituarci all’idea di un mondo impostato su un modello  economico di stampo americano, dove il precariato è la norma. Dobbiamo abituarci a vite con meno certezze immediate, fatte da persone che si spostano continuamente, e dobbiamo incentivare i loro movimenti”. E ancora: “La famiglia come l’abbiamo conosciuta esisterà sempre meno. Le persone, in primis i genitori, si devono poter spostare individualmente e per questo il nucleo famigliare non avrà più la funzione di stabilità sociale che ha avuto per la mia generazione”.

Parole kalergiane pronunciate dalla Ministra dell’Istruzione della Repubblica (almeno finora) Italiana Stefania Giannini, nell’intervista a Luca Steinmann dell”Huffington Post” (6 maggio 2016), che trovano puntuale riscontro in quelle del responsabile economico del PD Filippo Taddei (singolare curriculum il suo: docente alla John Hopkins di Bologna ma bocciato all’esame per l’abilitazione da professore associato in  politica economica dai commissari del MIUR. Corriere.it del 22 dicembre 2013), che sull'”Espresso” del 3 agosto 2015 ha spiegato, ricorda Steinmann, come il modello sociale a cui si debba tendere sia quello statunitense, nel quale “bisognerebbe tassare tutto ciò che è immobile e detassare tutto ciò che è dinamico”.

Perché il progetto è questo e, come ha osservato il professore di Lingue e Letterature romanze ad Harvard, Francesco Ersparmer, sulla sua pagina facebook il 6 maggio: “date a Renzi e al suo Pd ancora un anno o due e completeranno l’amerihanizzazione del paese, ossia lo faranno diventare come gli Stati Uniti fallimentari e nevrotici, da cui gli americani stanno cercando di liberarsi.”

Un nuovo giorno era sceso sulla terra a illuminare le menzogne e le malefatte di sempre e la guerra tra i poveri stava mobilitando di nuovo le sue truppe, dando avvio alle consuete scaramucce preliminari.

La congerie di facce spiritate che avidamente si bevevano gesti e sguardi del Reclutatore ritto su una cassetta di legno, s’era di buon’ora schierata nel piazzale di rimpetto al capannone della cooperativa , così chiamata perché i soci appartenevano tutti all’omonimo quartiere cittadino, vertice glorioso dell’ex triangolo industriale e baluardo strategico, un tempo, del comunismo puro-e-duro, che si ergeva possente ad arginare la fiumana di democristi della Foce e di Albaro. A seguito dell’implosione dell’Urss, il quartiere perse irrimediabilmente la propria identità politica e finì col divenire una sorta di terra di nessuno popolata di orfani del socialismo reale e di disoccupati dagli occhi spenti dalle feroci acquate della vita, il cui zombiesco vagare avrebbe fatto l’invidia di George A. Romero.

I tigrotti nostrani avevano preso a modello i felini del nord-est asiatico, e al pari di loro esercitavano con successo le doti di flessibilità e precarizzazione del lavoro, praticate nei proficui anni di tirocinio reso possibile dalla copertura offerta dal palcoscenico farlocco su cui si recitava la pantomima dell’Est contro l’Ovest. Doti che tanto piacciono ai signori dell’Ocse, sempre pronti a premiare con un’avanzata nella classifica dei topten mondiali i loro Pierini ruffiani e a punire con un bell’aggiustamento strutturale i loro Franti birichini.

Per il  resto, dopo essersi assegnati un congruo stipendio mensile,  i soci della Cooperativa consentivano a che sulle briciole del sostanzioso contributo governativo calassero come famelici passeri d’inverno i lavoratori precari, temporaneamente tolti dalla loro intrinseca condizione di soldati di terracotta appartenenti al silenzioso esercito salariale di riserva. In mezzo al quale quella mattina si faceva disperatamente largo Nevio, pungolato da un insistente bisogno di racimolare qualche cito [1] con cui rimpolpare la ridotta pecunia della cassintegrazione, ora poi che l’angoscia dello sfratto, arrivatogli con la posta del mattino bello caldo come una focaccina di Recco appena sfornata, ci metteva il suo carico di briscola paranoica.

Il capitale finanziario europeo (francese e tedesco, come di prassi) ha concesso prestiti consistenti alle banche greche quando già sapeva della difficile situazione economica della Grecia, invogliato nella sua cupidigia dal fatto che  prestiti e interessi gli sarebbero ritornati in “moneta buona”, senza il pericolo della svalutazione che avrebbe intaccato i capitali nel momento di restituirli.  Ed è andata proprio così: le banche sono rientrate dalla loro esposizione, il debito privato è stato sostituito con quello pubblico degli Stati prestatori europei e il popolo greco è precipitato in un vortice di sconquasso sociale di cui non si intravede la fine.

D’un forte governo antidemocratico, “atto a soggiogare e trascinare la popolazione con opportuni entusiasmi ideologici” (Gianfranco La Grassa, “Si contano gli alberi: e la foresta?”, blog Conflitti e Strategie, 8/6/2016) ci sarebbe bisogno per far rifunzionare l’Italia, liberandola dal vassallaggio agli USA e all’Eurozona? L’ipotesi mi pare pericolosa, non tanto per l’attuale democrazia da burletta che abbiamo, quanto per i precedenti storici. A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, il PCI si mise a imitare i “partiti borghesi” accettandone i mezzi, ma sostenendo che i fini erano differenti. Col passare del tempo, non solo i mezzi, già uguali, ma gli stessi fini non si differenziarono più.

Lo stile di vita americano non è negoziabile, ripetono come un disco rotto i presidenti statunitensi. Però pretendono di negoziare il nostro. Lo hanno fatto e lo faranno ancora, se va in porto il TTIP.

Tutto filava liscio nel terzosettore beneficiato dal vento in poppa d’un umanismo in verità troppo umanitario per non celare qualche delitto contro l’umanità. Non c’era ombra d’accumulazione di capitale sui libri mastri di quella regina delle cooperative a inficiare le teorie di lavoro alternativo e di alterità del modello, sempre più aureolate da illustri economisti alla ricerca del senso ultimo del mondo e della vita, ma senza uscire troppo dal seminato, perché anche in quel caso vigeva il detto: il troppo stroppia. Semmai l’accumulazione splendeva solare nei c/c bancari dei soci a spese della parte oscura del suddetto esercito, però quella era un’altra storia, e altri erano i nodi venuti a quel pettine senza denti che gabbava i santi con la legge in mano.

Ansante per la camminata, Nevio s’intrufolò tra i presenti che stazionavano immobili come tante statue lignee nel piazzale in attesa del miracolo quotidiano. E quando il suo sguardo speranzoso incontrò quello contabilmente inflessibile e germanico del Reclutatore, una sorta di feeeling si stabilì tra i due, o meglio una fredda intesa a senso unico basata sul tacito patto che funzionava in quei casi: Nevio pressato da un impellente bisogno di vendere le proprie braccia, e la Cooperativa che bisogno aveva anch’essa di ingaggiare braccia ancora valide, ma che le costassero molto meno di quelle in vendita sul mercato ufficiale. Così l’indice destro foderato di nicotina del Reclutatore puntò inesorabile come la canna d’un kalashnikov contro il petto di Nevio. Era fatta, e senza nemmeno bisogno di rivolgersi al “certo Tarcisio” consigliatogli dall’amico Onesto per rimediare un lavoro.

Di buona lena Nevio s’industriò a caricarsi sulle spalle scatoloni e imballi destinati al ventre buio d’un container che presto sarebbe salpato verso uno dei tanti buchi di culo del mondo fustigato da epidemie, guerre, siccità e carestie, mentre la striscia di cemento della banchina come per incanto s’animò di sinuose silhouette d’ebano dagli occhi color miele e le carni sode come il marmo, esalanti le melodie olfattive dei conturbanti profumi delle notti tropicali. E un brulicare di turgidi seni, di cosce affusolate, di ventri lisci, di natiche slanciate e tese come la pelle dei tamburi percossi dai loro avi nel fondo della foresta, prese a far compagnia al suo sguardo.

Con ancora gli occhi abbacinati dal mostoso riverbero di fianchi e glutei impegnati in lascivi ondeggiamenti del ventre e nelle nari i penetranti aromi delle spezie esotiche, Nevio non s’avvide d’un grosso involto abbandonato lì-in-mezzo-da-chissà-chi, e ci andò a sbattere contro, incespicando, cadendo e ruzzolando con il suo carico, che si stremenò [2] tutt’intorno. Lo spiazzo si disseminò di confezioni di medicinali e barattoli di latte in polvere destinato alla dieta dei lattanti degli ospedali dell’Africa profonda, quello stesso latte di quando la puerpera fa ritorno a casa col nascituro tra le braccia aduso alla nivea polverina e, non disponendo dei soldi sufficienti a comprarglielo con regolarità, si trova costretta ad allungarlo con acqua inquinata, col risultato che il bambinetto comincia a incamminarsi di buon’ora lungo il calvario della denutrizione e del calo delle difese immunitarie, se non prende prima la scorciatoia del cimitero per affezioni gastrointestinali altrove facilmente curabili.

E’ stata una vittoria della democrazia! esultano gli uomini politici in odor di mafia eletti nelle Istituzioni dopo la competizione elettorale.

Che cosa distingue l’uomo dall’animale? Il pollice opponibile? il linguaggio? la spiritualità? Niente di tutto ciò. Una cosa sola fa la differenza: la coscienza della morte.

Secondo molte culture religiose, la prima cosa che Dio fece fu di creare il Tempo, perché chi è padrone del Tempo è Dio. Così, agli uomini non è rimasto che creare la Storia.

“La mediazione è l’arte della politica”. Al seno di questo dogma sono state allattate generazioni e generazioni di uomini politici. Il suo risultato più ragguardevole oggi è che la mediazione è rimasta, mentre è scomparsa la politica.

“Gli uomini non dimandano / più nulla dai poeti”, affermava Palazzeschi un secolo fa nell’Incendiario, adducendo maliziosamente la perdita d’aureola del poeta dovuta ai “tempi cambiati” a ragione della sua istanza ludica: “e lasciatemi divertire!”.

I tempi hanno continuato a cambiare, e la situazione s’è rovesciata: oggi i poeti non domandano più nulla agli uomini. Le domande le rivolgono unicamente al proprio ombelico.

 “Vicino / mi sento […] al popolo in cui muoio, onde son nato”, ha scritto Umberto Saba (Cucina economica, vv. 20-1, 24). Ma l’attuale generazione dei poeti in provetta, che appartenenza può rivendicare?

Chinatosi a raccogliere scatolette e flaconi, a Nevio andò l’occhio sulle etichette e scoprì che nessuno dei medicinali recava stampigliata una data ancora valida, ma tutti risultavano scaduti da vari mesi se non addirittura da anni.

– Fffanculo la cooperazione e gli stronzi che ci marciano! – sbottò allora disgustato, infilando improvvidamente nel suo rosario di rabbia la carovana di ong crocerossa unicef fao caritas dame di san vincenzo e di quant’altro supponeva esser complice o anche lontano parente di quell’imbroglio. Non l’avesse mai detto! Attirato dall’incidente, il Reclutatore s’era avvicinato di soppiatto alle spalle di Nevio, e dalla sua posizione strategica ebbe modo d’ascoltare la sfilza d’insolenze che sortivano dalla bocca sconsiderata di quello sfrontato. Fremente di sdegno, l’uomo affrontò il miscredente che ancora non aveva imparato a stare al suo posto. E, piazzandosi a gambe divaricate di fronte a Nevio, dapprima lo squadrò da capo a piedi con pupille risfolgoranti dei lampi acri d’un disprezzo che penetrava fino al midollo, quindi, accentuando quanto più possibile l’aria bula [3] da capataz, gli soffiò infuriato in faccia, ruotando vorticosamente il dito indice dinanzi al naso a uncino del disgraziato:

– Tu sappi che è grazie alla nostra Cooperativa, che proprio ora hai mandato bellamente a-fare-in-culo, se oggi sei qui a lavorare anziché ciondolare come un appestato di bar in bar. O elemosinare come uno zingaro a un angolo di strada. Perciò se questo lavoro non ti sconfinfera sei liberissimo d’alzare i tacchi e toglierti dalle balle! stai sicuro che nessuno rimpiangerà la tua mancanza, ma il tuo atteggiamento irriconoscente no, quello proprio non lo tollero!

Molto civilmente Nevio s’accinse a rispondere rispolverando concetti ed argomenti fritti e rifritti nell’olio rancido degli interminabili scazzi politici tra i soci del Circolo operaio Rosa Luxemburg da lui frequentato durante i suoi depressi pomeriggi di cassintegrato, con i compagni più giovani fulminati sulla Damasco del terzosettore. E si provò a ribattere che sì, che quella era certamente la realtà… la realtà fenomenica, precisò dopo un’esitazione spesa nella frenetica ricerca della parola che diceva sempre l’Ernesto, lo studente-lavoratore fuori corso di Filosofia. Ma oramai era troppo tardi: inutilmente la sua bocca inanellava spiegazioni smozzicate con la fretta d’un marinaio alla prima libera uscita – … però bisogna guardare alla sostanza delle cose…  e scavare a fondo, come fanno le talpe, cioè, e allora… allora questa politica lavorativa imbastita col filoforte del no-profit è il nuovo modo… peraltro vecchio come il cucco! puntualizzò esaltato, di sfruttare i poveri cristi… tanto è vero che lui, a esempio, sì proprio me!, esclamò battendosi forte il palmo della mano sul petto orgoglioso, lui insomma, seguitò nell’improvvisata concione, prendeva esattamente la metà di quel che guadagnavano gli altri camalli a libretto per lo stesso sgobbo… sicché a chi è utile il mio lavoro utile se di utilità nelle mie tasche ne entra davvero ben poca? domandò con un sorprendente gioco di parole che lo ringalluzzì tutto facendogli però perdere il filo del ragionamento, che disperatamente cercò di ripigliare affidandosi a una sfilza di biascicati cioè… insomma… praticamente… però… che gli sortivano inconcludenti dalla strozza.

Prima che Nevio potesse terminare la sua abborracciata disamina dell’esistente, iniziata sotto il segno della viscerale ribellione e trasformatasi quindi in un’accozzaglia d’interiezioni e avverbi a funzione correttiva che in realtà non correggevano un bel niente, i camalli, richiamati da tutto quel baccano, obbedendo a un gesto largo e imperioso del Reclutatore, lo issarono in alto a forza di braccia che per un attimo egli immaginò s’attivassero a sostenere la sua disfida nel faccia a faccia con quel nemico così arrogante e prepotente, ma che invece lo scaraventarono al di là dell’area riservata alla Cooperativa.

La Loi Travail, in Francia, che ribalta la gerarchia delle norme che regolano i tempi di lavoro, i congedi e gli straordinari, e rende possibili i licenziamenti economici, proposta dalla testa di cuoio di turno, la ministra del lavoro Myriam El Khomri, si presenta come il corrispettivo d’oltralpe dell’italico Jobs Act. Dallo scorso marzo, nell’esagono si susseguono proteste, scioperi, manifestazioni, scontri, Nuit débout in Place de la République a Parigi, con centinaia di migliaia di partecipanti. Mentre a tutt’oggi, 3 maggio 2016, il malcontento dei francesi non accenna a diminuire, e probabilmente continuerà per un bel po’, la preoccupazione dei media nostrani sembra essere quella di non fornire troppa visibilità agli eventi: vuoi vedere che il cittadino italiano faccia 2+2 e scopra tutte le analogie? e vuoi vedere che poi il lavoratore italiano s’incazzi ricordandosi delle quattro miserabili ore di sciopero indette dai sindacati contro la Legge Fornero?

Proprio oggi l’economista “eretico” francese Jacques Sapir ha tuittato: “Una logica da ‘guerra civile’ è all’opera con la loi travail”.

dal treno

piccole mongolfiere di vischio incagliate tra le braccia invernali degli alberi. Sotto cigni di cristallo nuotano indolenti nel corso d’acqua incanalato da sponde di cemento

con l’acqua alla gola e il benservito sospeso sulla testa, l’ex rottamatore s’affanna ad arrestare la marcia imperiale del buon soldato Schäuble

café

la pastosa accoglienza d’un angolo di bar. Protetto da ombre oblique e distratte prese a sorseggiare il beaujolais appena arrivato

Non so voi, ma io, e scusate il francesismo, ne ho piene le palle di quegli intellettuali italioti da sognammerikano che col ditino alzato si sdegnano, recriminano, stigmatizzano se a un docente universitario dalla vita politica piena di pecche servili viene impedito a svolgere la sua lezione da un gruppetto d’esagitati perché il suddetto Prof., nell’articolo pubblicato su un quotidiano di regime, ha esortato gli italiani a prepararsi “spiritualmente” alla guerra in Libia.

Ma ‘ste anime candide che cianciano di libertà d’espressione, farcite di delikatessen sentimentali, paladine dei sacrosanti diritticivili in salsa individual-liberista, infognate a endorsamentare Amnesty International e a tifare per Greenpeace, devono avercelo proprio bello al caldo il culo per fregarsene delle algide ventate della tempesta che infuria sul nostro paese.

la bourse

alla fermata Bourse (ligne 3) scendeva dal métro per raggiungere a piedi la Bibliothèque Nationale, molto prima che Mitterand la trasferisse nel 13° arrondissement facendo costruire l’avveniristica sede di Quai François Mauriac. Osservando dai vetri del métro le sue torri ultramoderne sfilargli accanto, gli venne da chiedersi se le sue ricerche di allora sul commediografo Roger Vitrac sarebbero ugualmente possibili oggi in quegli edifici asettici e impersonali di cristallo e acciaio. E considerò che lì difficilmente avrebbe trovato l’empatia giusta per riempire pagine e pagine di appunti sul réprouvé Vitrac che Breton aveva bandito dal movimento surrealista perché alle riunioni di rue Grenelle preferiva le chiacchierate al bistrot con l’amico Artaud inviso a Breton. Poi scosse la testa con decisione. E si abbandonò al rammemorare, senza pensare che il métro continuava imperterrito la sua fuga in avanti, e che il nostos non era tra le opzioni dei viaggiatori privi di bussola come lui.

goethe immobilier

mentre guardava con un certo interesse le foto degli studio in vendita nel 4° arrondissement, il naso appiccicato alla vetrina d’un’agenzia immobiliare di rue Duval, gli venne in mente l’ammonizione di Goethe: Guai ad avere da vecchi ciò che si è desiderato da giovani. Forse che un eccesso di masochismo aveva fatto vivere l’autore del Faust così a lungo?

Nel rialzarsi malconcio dopo il doloroso atterraggio, Nevio udì la voce stentorea del Reclutatore latrargli dietro: – Va’ via, raza de n’aze! Nemeno ‘na palanca te pigiaè da me, brüto gondon! E adeso slogia, fèa, aia[4]… Nella foga della concitazione, all’uomo salì alle labbra anche un “piccolo sgorbio nero!” a completare l’opera, ma temendo con quell’appellativo – che un malevolo ascoltatore passato per caso da quelle parti avrebbe sicuramnte bollato come razzista, di nuocere all’immagine democratica della Cooperativa, preferì zittirsi, di modo che il Reclutatore terminò con una reticenza ciò che aveva iniziato con tanta veemenza accusatoria.

Da Twitter dell’8/6/16

8:30. Ho finito. 24 ore consecutive in ufficio. 16 ore di straordinari (gratis). Grazie UE, grazie euro, grazie @cgilnazionale

 Luxembourg

Non si pagava più per sedersi sulle sedie di ferro del Jardin du Luxembourg.

Ricordava con nostalgia l’anziana dame secca e ossuta delegata da qualche ente caritatevole che, con un sorriso gentile e il fare discreto, gli s’avvicinava per scucirgli un franco, l’importo dell’affitto orario della sedia su cui era seduto.

Né le brasseries popolari servivano più a contorno della viande grillée gli spaghetti al sugo scotti e freddi che lui si ritrovava nel piatto senza averli ordinati, ma che divorava con la fame arretrata dello studente in bolletta.

Chissà quante altre cose appartenenti a quel passato grigio seppia come le fotografie d’una volta erano sparite assieme alle bénévoles del Luxembourg e agli spaghetti scotti per contorno. Pensò che aveva tutta una settimana per scoprirlo.

Quindi cercò d’orientarsi nel presente, con in tasca il nuovo plan de la ville al posto dello sgualcito volantino del Comitato studentesco di lotta della Sorbona.

Note

[1]             Soldo.

[2]               Sparpagliò.

[3]             Spavalda. Caso tipicamente ligure di risparmio consonantico.

[4]             Vattene via, razza d’asino! Nemmeno un soldo avrai da me, brutto scemo! E adesso sloggia, fuori, aria.

5 pensieri su “I quaderni d’Italo V

  1. Così bisogna narrare (dalla radice gna, conoscere, come gnosco in latino e in greco), raccontare quello che si sa. E questo fa l’unità del pezzo, la stessa conoscenza dello stesso conflitto nello stesso passaggio storico. Non è diario, è un affresco.

  2. … uno dei “viaggiatori privi di bussola”, Italo Lo Vecchio traccia, in questo racconto, una mirabile tessitura (o partitira?), intrecciando fili di memoria (rammemorare) e fili riflessioni sul presente…Un ordito di cenere, grigio, amaro su quello che è l’oggi, la trappola del presente con le sue mistificazioni: la Ue, le cooperative “umanitarie”, la moneta che ci impoverisce, l’americanizzazione becera, lo sfruttamento dei poveri ricattati e costretti alla complicità con il sistema…Ma poi emergono dal passato dei veri medaglioni colorati di convinzione e di gioventù: il Circolo operaio Rosa Luxemburg e les bénévoles du Luxemburg…un tempo che sbiadisce come le foto color seppia

  3. @ cristiana fischer
    “raccontare quello che si sa”, ma sempre (almeno nel mio caso) sapendo di non sapere.
    @ Alberto Rizzi
    “ripartendo da zero; o quasi”. L’azzeramento è dato, il “nostro” tempo (credo) non è dei più facili, ma io cerco di tenermi fermo su quel “quasi”.
    @ Annamaria Locatelli
    “Ma poi emergono dal passato dei veri medaglioni colorati di convinzione e di gioventù”. Senza nostalgia, piccoli referti da condividere. Si esperisce anche così.
    Grazie a tutti

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