Federico Garcia Lorca. Il poeta alla guerra

lorca 2

di Alessandro Scuro

A FIOR DI TEMPO (3)

Il dibattito che occupò la Spagna intellettuale ed artistica nei primi decenni del Novecento è normalmente stigmatizzato nell’opposizione tra i “vecchi” della Generación del 98 e i “giovani di quella del 1927, nonostante entrambi i gruppi siano stati estremamente eterogenei per età e varietà d’espressione, oltre che di idee. Vengono normalmente inclusi tra i primi gli autori che, in contrasto con i precetti del modernismo allora in auge, esprimendosi generalmente in prosa, si occuparono di sollevare, al principio del secolo, le questioni sociali più impellenti e la necessità di una radicale rigenerazione del paese in seguito al desastre del 1898. Oltre ai saggi Unamuno e di Ortega y Gasset e l’opera lirica dei fratelli Machado, i noventayochistas sono ricordati per alcuni romanzi filosofici (Camino de perfección di Pío Baroja, La voluntad di Azorín e Amor y pedagogía di Unamuno, tutti del 1902), esemplificati nei dialoghi metafisici tra maestro e allievo, secondo lo spirito krausista, e confusi con la critica sociale del Larra [1] giornalista.

Le posizioni qui descritte sono necessariamente riduttive, soprattutto alla luce delle diverse posizioni che questi scrittori assunsero più tardi negli anni, ma sono sufficienti per comprendere cosa li distinguesse dalla generazione successiva, quella descritta da Ortega nel saggio sulla deshumanización del arte. Tra i cosiddetti poeti del ’27 ci sono senz’altro i nomi più noti della poesia spagnola dell’epoca, quelli che caratterizzano ancora oggi nell’immaginario il fermento culturale del paese all’approssimarsi del conflitto. Ortega aveva individuato nella generazione nascente uno spirito di rivolta contro la tradizione precedente, tratto inevitabile di ogni nuova tendenza; ma le sue conclusioni, al momento decisivo si rivelarono in gran parte erronee. Difficile mostrare docilità allo spirito del tempo quando l’oppressione e la violenza si fanno regola, a meno di non farsi complici, con il proprio impegno, il proprio assenso o il proprio silenzio, a partire dal momento in cui, secondo quanto sostiene John Beevor, «ogni nozione tradizionale di parentela e di comunità locale venne ciecamente distrutta».

La guerra civile raccoglie in un’istantanea un secolo e mezzo di storia spagnola e accomuna nell’esperienza, non solo le generazioni del primo Novecento, quelli che vissero il conflitto da  adulti o da ragazzi, ma anche quelle nate nei successivi quarant’anni, fino alla morte del dittatore (1975). Alcuni degli episodi più noti dei primi mesi dello scontro sono sufficienti a comprendere la scelta di fronte alla quale si trovano gli artisti, gli intellettuali spagnoli e ogni personalità pubblica al momento del conflitto, dilemma estendibile, aldilà di ogni classe sociale e ogni possibile grado di coscienza, all’intera popolazione del paese.

Un mese dopo il sollevamento dei generali, Federico García Lorca venne arrestato e ucciso dalle milizie franchiste nelle vicinanze di Granada, dopo che nei giorni precedenti erano stati uccisi alcuni professori universitari e il cognato del poeta, l’allora sindaco della città. Il suo assassinio destò un enorme scalpore anche al di fuori dei confini nazionali. Lorca era internazionalmente noto e conosciuto, stimato e considerato per la sua arte e il suo carattere cordiale, allegro ed entusiasta, lontano fino all’irrimediabile dalla violenza di quegli eventi, tanto è vero che tornò in Andalusia qualche mese prima della sua fine, senza dare peso agli avvertimenti degli amici sul pericolo del conflitto imminente. Di simpatie liberali, non aveva mai partecipato ad attività politiche di rilievo, né manifestato pubblicamente la sua opinione in merito al conflitto che lo sorprese nella sua terra, anacronisticamente distratto degli eventi. Se la sua poesia entra di diritto nei canoni osservati da Ortega, il suo ritratto coincide meglio con quello dei giovani ai quali si rivolse Machado in più occasioni negli anni precedenti alla guerra e durante il conflitto.

Machado e Lorca avevano in comune l’esperienza madrileña delle istituzioni krausiste di Giner de los Ríos, ed entrambi ne erano viva espressione [2], nonostante le evidenti distanze formali che dividevano le due generazioni. Non si può nemmeno definire l’opera del poeta di Granada come totalmente aliena da ogni contenuto umano, come volevano le teorie dell’arte per l’arte, della forma coltivata fino all’ossessione, delle quali fu senz’altro valido interprete e convinto sostenitore; ma esse si esprimono con canti gitani, con le grida strazianti dei negri di Nuova York, o ancora nell’attività della Barraca, il teatro ambulante con il quale il poeta ricorse i villaggi del paese per offrire rappresentazioni dei classici del Siglo de Oro, negli anni della repubblica. A completare il quadro delle ragioni, apparentemente insignificanti, ma più che sufficienti allora ad una sommaria condanna capitale e a fare di Lorca un pericolo antifascista (Ramón Ruíz Alonso, uno sei suoi arrestatori, dichiarò che «faceva più danni lui con la penna che altri con il fucile») sono le conclusioni Juan Luis Trescastro, l’esecutore: «Abbiamo ucciso Federico García Lorca. Gli ho sparato due proiettili nel culo in quanto omosessuale».

Al momento del delitto Machado, come molti altri, omaggiò il poeta, presto convertito in uno dei principali simboli della causa repubblicana. Da allora, secondo le sue parole, una fonte sgorga dal tumulo dove il poeta venne seppellito, piangendo in eterno: «Il crimine è stato commesso a Granada! Nella sua Granada!». Lorca era il tipico esempio dei giovani preparati per la pace ma che necessariamente, nelle previsioni ormai realizzate di Machado, si sarebbero trovati ad affrontare la guerra, schierarsi e difendere le proprie ragioni retrocedendo alla barbarie che li stava travolgendo. Lorca è però al tempo stesso la prova dell’illusione orteghiana di una poesia pura, indifferente alla realtà, come appare chiaro dalle dichiarazioni tardive di uno dei protagonisti dei decenni successivi, che conobbe Lorca da poeta in erba in cerca di consigli e di conferme, tale quale era allora. Nella primavera del 1936  Gabriel Celaya [3] incontrò per l’ultima volta Lorca, conosciuto alla Residencia de Estudiantes di Madrid. Il poeta basco si ispirava allora alla ricerca formale dei poeti del ’27, ma le sue idee coincidevano già con quelle che anni più tardi lo porteranno ad essere uno dei propulsori del movimento generalmente ricordato con il nome di “poesia sociale”, e racconta così il suo stupore, nell’intendere le confidenze che l’amico gli fece allora. Quella sera era presente con loro anche José Manuel Aizpurua, fondatore della Falange di San Sebastián, la città nelle quale avvenne l’incontro descritto:

Federico mi chiese perché non avessi voluto stringere la mano a Aizpurua, e perché, entrambi, lo avessimo coinvolto in una situazione così tesa. Io cercavo di spiegarglielo con frenesia, forse con settarismo, e lui, incidendo nell’umano, cercava di spiegarmi che Aizpurua era un bravo ragazzo, che aveva una grande sensibilità, che era molto intelligente, che ammirava le mie poesie etc. Finché all’ultimo, di fronte alla mia sempre più violenta testardaggine, reagì o volle forse farmi spalancare gli occhi di sorpresa, confessandomi una cosa terribile:

– José Manuel è come José Antonio Primo de Rivera [4]. Un altro bravo ragazzo. Sai che ogni venerdì ceno con lui? Proprio così. Usciamo assieme in taxi con le tendine abbassate perché né a lui conviene che lo vedano con me né a me conviene che mi vedano con lui.

Federico rideva. Credeva che tutto ciò fosse solo una stupidaggine da bambini. Non ci vedeva niente dietro. Rideva come di uno scherzo divertente. Però questo sorriso, questa fiducia nel fatto che l’uomo sia sempre umano, questo credere che un amico, fascista o no, è sempre un amico, gli costò la morte. Perché furono degli amici, amici che contava tra i suoi migliori, color che in fin dei conti risultarono essere soprattutto dei fascisti. Non lo fucilarono, no. Se ne lavarono le mani. E lo consegnarono a chi lo avrebbe fucilato.[5]

[1]
José Mariano Larra (1809-1837) fu uno degli autori più noti del romanticismo spagnolo. Autore di opere teatrali, è ricordato soprattutto  per i suoi articoli di costume e critica sociale, dallo stile pungente ed ironico, al quale molti, in seguito, si ispirarono. La sua tomba venne omaggiata da Azorín, Baroja e Unamuno, in segno di riconoscimento nel centenario della nascita. Larra morì suicida a ventisette anni.

[2]             Antonio Machado sì definì nel suo autoritratto «un hombre bueno», un brav’uomo in pace con gli uomini ed in guerra con sé stesso, con le proprie interiora, come si descriverà nei Proverbi e cantari, e questa, reale o meno, è ancora oggi la sensazione che il suo nome (certamente abusato e di facile manipolazione) suscita nella memoria collettiva. Nonostante la fama già raggiunta in vita, il poeta, la cui famiglia era caduta in disgrazie dopo la morte del padre,  si guadagnò da vivere come professore nelle scuole di Soria, Baeza e Segovía, i luoghi, oltre a Madrid e Parigi (dove fu traduttore, con il fratello Manuel, per la casa editrice Gautier) dove trascorse la sua esistenza, prima di morire in esilio. Tuttavia, come Mairena, mal sopportava il suo ruolo istituzionale, svolto senza grande entusiasmo, riservando per la sua poesia e i suoi scritti lo spirito pedagogico ereditato da Giner.

[3]             Gabriel Celaya (1911-1991). La sua raccolta Cantos Ibéros (1955), il cui componimento più conosciuto è «la poesía es un arma cargadade futuro» è considerato come la bibbia della poesia sociale.

[4]             José Antonio Primo de Rivera (1903-1936), figlio del dittatore Miguel e fondatore delle Falange, il partito fascista spagnolo, venne arrestato e incarcerato ad Alicante per le sue attività cospirative contro la Repubblica. Pochi mesi dopo l’insurrezione dei generali, nell’autunno del 1936, José Antonio venne ucciso divenendo una delle prime vittime illustri del fronte franchista.

[5]             Il testo di Celaya dalla quale è estratta questa citazione, pubblicato su «Realidad. Revista de cultura y política», è consultabile in linea.

5 pensieri su “Federico Garcia Lorca. Il poeta alla guerra

  1. L’immagine che Alessandro Scuro offre di Garcìa Lorca è molto aderente alla realtà. Vicina a quanto del grande poeta e drammaturgo spagnolo affermava Vicente Aleixandre:
    “Lo si può paragonare a un angelo, a un’acqua a una roccia; nei suoi più tremendi momenti era impetuoso clamoroso magico come una foresta, mutevole e variabile come è la Natura. Possedeva il candore di un bambino.”
    Perché fu stato ucciso?
    In un documento della polizia franchista di Granada, redatto il 9 luglio 1965, molti anni dopo l’assassinio, ritrovato dall’emittente radiofonica Ser e dal sito Eldiario.es., si legge che aveva confessato di essere socialista, massone (appartenente alla loggia Alhambra), che praticava l’omosessualità e altre aberrazioni.
    Per me c’è una lezione da tutto questo, che è valsa per l’Unione Sovietica di Stalin e vale anche per il presente: l’incompatibilità di una dittatura, di un potere assoluto con la presenza di persone incredibilmente grandi. “Lorca è un universo- sostiene Ian Gibson, il massimo esperto mondiale di Lorca,- egli si trova in tutto, nella musica, nella poesia, nella drammaturgia e dunque nella… politica.”
    Lorca è stato ucciso dal fascismo semplicemente perché era un genio.
    Ubaldo de Robertis

  2. …la figura di Garcia Lorca che traspare dall’intenso racconto di Alessandro Scuro mi sembra pienamente solare: un uomo e un poeta innamorato dell’arte, della vita e fiducioso negli esseri umani…Niente di più diverso di quello che si viene a verificare in tempo di guerra, soprattutto se civile, quando persino “i fratelli” o”gli amici” sono disposti a tradirti e a venderti… G. L. portatore di una visione del mondo troppo diversa per sopravvivere tra gli orrori e i carnefici

  3. requiem dei portali

    Con impazienza tu vedrai i cardini sbadigliare e sulla soglia un ospite
    come un spartito familiare, e nell’arena il volto di una carità insanguinata,
    farsa oscura di una sofferenza surreale, dolcezza di tasti in fuga e note indulgenti in sol diesis minore – lacrime… di quale Federico?

    Taurino valzer o duende irriflessivo? O seni inamidati delle stiratrici
    che volano come petti di colomba! Come vestite di broccato il folletto,
    come di stoffa pregiata è il canto vostro, e come un dono è il vostro trasalire
    l’energia domestica, né d’angelo o musa, dai confini dei miei malleoli – alta
    contraddizione!

    Non il cielo, ma la terra e la mia mente sono terrifici tornei, scabrosi disamori.
    Come il varo di una nave è la sua morte, come una nera lama è la notte all’aurora! Perché portali le radici di un requiem e occhi taurini nelle note?
    Non vi presterò mai la mia inquietudine, i miei doni, la regalità che mi fu negata!

    Antonio Sagredo

    Roma, 1 aprile 2014

  4. Federico sei il mio Re
    resta qui
    fa che possa udire il rintocco
    diciassette ore
    solo diciassette ore
    come al solito
    racconterai la fine
    di un giorno di sangue
    un grumo nel cuore
    che fa morire
    solo gli imbecilli-

    E.B. ieri

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