Due conversazioni  con Giampiero Neri

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 di Ennio Abate

25 agosto 2004

Un’indole contemplativa

A – Da quando ti ho conosciuto – saranno un quattro anni – ti ho sempre pensato come un uomo di indole contemplativa.

N – Sì, sono sempre stato un contemplativo, un uomo poco portato all’azione e molto di più alla meditazione. Riassuntivamente potrei dire un pigro.

A – E come s’è costruita questa tua indole?

N – Sulla scorta di letture meditative. Per esempio, di pensatori orientali come Lao Tse e Milarepa. Ma  le letture hanno solo consolidato l’indole preesistente poco portata al dinamismo, piuttosto casalinga e  introspettiva.

A – E nella tua infanzia ? Suppongo che ci siano state anche lì delle spinte in questa direzione.

N – Prima di amare i libri ho amato soprattutto gli animali. Ne ho avuti anche in regalo. Una volta mi  è stata regalata una tartaruga. Sono stati regali importanti nella mia vita d’allora e successiva. Sì, di questa mia indole c’è una radice nell’infanzia: l’osservazione degli animali non prevede di correre   ma piuttosto di riflettere.

A – E poi il bambino possiede grande forza d’immedesimazione e vivacità di sensazioni.

N – Certo. Mio padre aveva dei conigli. E anche dei piccioni viaggiatori, che non ho mai amato, per la verità.  I gatti sì. Purtroppo non ho avuto la possibilità di tenere un gatto in casa che mi sarebbe piaciuto enormemente. Avrei voluto,  ma mia madre era contraria e non ha favorito questa mia passione.

Una poesia  “di poche parole”

A – Nella tua poesia in genere e anche nel tuo ultimo libro, Armi e mestieri, mi ha sempre colpito la resa concisa del processo che precede la scrittura e che suppongo complesso. Pochi  versi, a volte ridotti ad un titolo. Prendiamo Natura a pag. 11: Da un camminamento / sotto la volta degli alberi / si arrivava a un recinto. / Si erano rialzati due vitelli / dal loro letto di paglia / una strana luce / passava tra le foglie. Di solito concentri un tema che potrebbe occupare capitoli e capitoli, occultando il suo complesso spessore emotivo, esistenziale e storico.

N –  Posso dire questo: intanto parlo di cose che mi hanno molto colpito. Nella poesia che citi, per quanto possa sembrare poca cosa vedere due vitelli che si erano alzati dalla loro posizione  di riposo,  per me è stata un’emozione.  L’emozione era data dal fatto che  dal colore del mantello di questi vitelli,   che era di un  bel marrone caldo e da una luce strana, dorata, che filtrava attraverso gli alberi  in quel momento,  ho avuto l’idea di un’apparizione, come di una vita che sorgesse in mezzo agli alberi. Insomma, io questi vitelli li ho ammirati nella loro bellezza. Sono anche animali belli.  Noi siamo abituati a vederli e li consideriamo forse poco dal punto di vista estetico,  però un vitello è un bell’animale.  Sicché in questa piccola radura nel bosco, dove questo tale teneva i vitelli  per farli crescere, io ho avuto un’emozione estetica. Certo nel renderla in poesia sono sempre attirato dalla sintesi.

Frammento e catena d’eventi

A –  Questo fatto e questa emozione, che tu esprimi in poesia con poche parole,  fanno parte però di una catena di eventi, che precedono e seguono. Tu, magari a distanza di tempo, ritorni su quest’insieme o solo sull’emozione? T’interessa  tutta la catena oppure solo il frammento?

N – M’interessa la catena, ma la mia non è un’osservazione fine a se stessa.  S’innesta in quella più generale dei rapporti conflittuali che ci sono nella vita. Noi siamo immersi in una conflittualità permanente. È una conflittualità tra le specie   ed è una conflittualità nella stessa specie, tra i soggetti della stessa specie.  Quella tra le diverse specie è più evidente  nei contesti naturali. In effetti, in città è difficile essere sbranati da un leone.  Ma l’uomo tende a nascondere questa verità. La rimuove, come se non ci fosse. In realtà questo buonismo  è assolutamente falso. Non c’è una pace universale, ma c’è una guerra universale.

A – Mi sembra di capire che la catena tu la riconduca esclusivamente alla natura, alla legge della natura che presiede agli eventi che tu osservi. Ma non vorrei spostare il discorso sul piano filosofico e allora preciso la mia domanda: a te interessa la catena degli eventi in quanto possibile base di una narrazione? Non mi pare. Tu non tendi a fare “romanzo”  anche se nelle 5 sezioni di Armi e mestieri  s’intravvede una storia per frammenti e che – se tu volessi – potrebbe essere distesa anche in ampi capitoli. E allora, secondo me, si vedrebbe dell’altro. Ma  non mi pare che ti sia mai  venuto in mente di fare un poema o di narrare  una “storia”.

N – No, di fare il narratore proprio no. Anzi, per quanto mi abbiano dato l’etichetta di «poeta architettonico» (è la tesi di Raffaeli), mi manca la capacità di strutturare una storia vera e propria. Io  sono colpito dall’attimo, dal momento, dal gesto. Il gesto è uno, è un momento. La mia storia si concentra su quel momento. Anche in pittura mi è sempre piaciuto un ritratto non finito. Ad esempio, quei ritratti che magari comiciano a penna  e finiscono a matita e che lasciano parti inconcluse.  Ne sono sempre stato incantato.

A – I romanzi, le storie t’attirano di meno.

N – Mi attirano per frammenti.  Non tanto l’opera complessiva.

A- Allora, rispetto a tuo fratello, che è stato invece un narratore, hai avuto anche una differente sensibilità artistica?

N – Certamente. Mio fratello m’ha detto una volta: – Sai  qual è la differenza fra noi due? Tu t’entusiasmi per quello che non capisci. Sottintendendo che lui s’entusiasmava per quello che capiva.  Effettivamente è così, non ho niente da obiettare.  Io sono portato per la zona misterica, più enigmatica, in cui la ragione non ce la fa, non basta e ci vuole chissà.

Armi e mestieri: una parafrasi di  Guerra e pace

A – In questa tua ultima raccolta poetica il titolo di una sezione è diventato quello complessivo? Perché?

N – Armi e mestieri è un titolo importante per me,  perché si rifà al motivo per cui io scrivo; e cioè  alla presenza di questa conflittualità vitale. Anche perché io sono segnato  dalla violenza, che da una parte mi attrae e  dall’altra mi fa  vedere il suo aspetto orrido. Su di me agiscono entrambe queste cose.  Da una parte due persone che litigano mi attraggono…In fin dei conti penso che questa violenza riproduca in estrema sintesi il principio del mondo della vita, che è di violenza.  Niente succede senza violenza. Neanche l’insalata riccia cresce senza violenza. Deve farsi largo tra altri tipi di insalata che vorrebbero sostituirsi ad essa. Il polemos è la legge più importante della vita. Quindi  Armi e mestieri   è per me importante per questo. In fondo può essere una parafrasi di Guerra e pace di Tolstoj. Ma a me è venuto in mente  semplicemente per una deformazione del titolo ‘Arti e mestieri’. I mestieri sono le attività che si fanno in tempi di pace,  per vivere. Anche se pure la guerra si fa per vivere.

A – Distruggendo una parte della vita, quella di altri.

N – E anche la nostra. Se no che guerra sarebbe?

A – Purtroppo…Pensando ai mestieri o alle attività economiche in generale, bisognerebbe poi capire quanta “guerra” vi sia già implicita. ‘Mestieri’ è però un termine di epoca preindustriale.

N –  Ma sono anch’io preindustriale.  Il secolo in cui mi riconosco non è certo il 2000. È il Novecento e anche più indietro. A parte il fatto che sono nato nel primo quarto del Novecento, come esperienze lavorative ho in mente proprio il mestiere del maniscalco, del calzolaio, del sarto, del barbiere. Erano tutti lavori individuali, mestieri appunto. Quelli io conoscevo davvero. Quando ero ragazzo, c’era il maniscalco, che sollevava nuvole di vapore, di acqua bollente, perché, per raffreddare il ferro di cavallo che, appena uscito dalla  forgia, era ardente, lo immergeva nell’acqua. E ho ancora in mente l’odore dello zoccolo  bruciato del cavallo,  che tra l’altro a me piaceva.

Enigma e Dio

A- Hai detto prima che sei portato per la parte più misteriosa della vita. Prendiamo allora Intermezzo a pag.9 di Armi e mestieri:  Quello stormo di uccelli /  si abbatteva vociante / sui rami di un albero / come a un traguardo. / Ma era un’altra la posta in gioco, / a dirigere il volo impetuoso. Quale l’altra «posta in gioco» che il dettato immediato della poesia sottace?

N – È la vita. Me lo sono chiesto io stesso, vedendo questo stormo di uccelli. Si precipitava sugli alberi con grande strepito. Pi, pi, pi!… Mi sono chiesto: ma perché devono correre come disperati? Ebbene, correndo così tanto,  loro riducono al minimo la possibilità di essere presi da cacciatori di qualunque tipo. Quindi la posta in gioco è la vita.  Loro corrono come correvano i soldati di Cesare,  come i legionari di Alessandro Magno.  Devono correre per vincere. E così gli animali. Gli animali hanno la velocità che hanno i bambini,  che agiscono con grandissima rapidità. Tant’è che vanno nei pericoli anche per quello.  Perché lo fanno gli animali? Perché la velocità li sottrae al cacciatore.

A- Tanto è dunque netta, per semplicità di linguaggio  e d’immagini, la tua poesia, tanto rimanda a una concezione della Natura coi suoi misteri e le sue vastità inesplorate e metafisiche. Un tuo critico, Pusterla, ha parlato nel tuio caso di «poesia in forma di voragine dissimulata». E molti altri insistono su mistero e enigmaticità. Diffido di quanti  ti tirano fin troppo in questa direzione, ma devo riconoscere che tu – e l’hai detto prima –  non ti sottrai.

N – Sì, concordo con queste interpretazioni. In effetti nel mio lavoro ci sono molte immagini che le confermano.

A – È vero. La tua mente contemplativa seleziona immagini  ora aurorali (…ha luogo una mutazione/ come di vita nascosta che venga alla luce, p.13) ora segni – comunque incerti – della divinità nella natura (Ad es. in Mimesi p. 14 : Delle figure e dei fregi / si osservano sulle ali delle farfalle /…/ sono una varietà di mimetismo / l’immaginario occhio di Dio che guarda.).

N – Sì, in questi passi c’è un distacco dall’osservazione naturalistica. Parlo appunto dell’immaginario occhio di Dio che guarda ma non interviene e lascia  che le cose vadano così.   Purtroppo abbiamo un Dio  che si disinteressa delle cose umane, come  pensavano i Greci. E come li rappresentò il «maestro di  Olimpia» nel frontone dove Apollo guarda impassibile mentre sotto di lui si svolge una battaglia di centauri. È un esempio della grande arte dei Greci conservato al museo di Olimpia.

A- Ma quest’impassibilità della divinità non ti turba?

N- Certo, però devo accettarla. Non  mi piace. Non mi convince, però  l’idea di una divinità che intervenga per salvare me e non un altro. Mi va ancora di meno. Quando ero un bambino, mia madre mi diceva: – Ringrazia Dio che tu non sei così.  Ed io pensavo: – E quell’altro, chi deve ringraziare? Allora Dio sarebbe ingiusto. Abbiamo un Dio che non interviene nelle cose umane. Quindi, sì, noi possiamo  pregarlo perché ciò può dar sollievo a noi. Ma i miracoli, quelle cose lì, non mi appartengono. Non appartengono all’idea che io ho di Dio. Io professo un vago teismo. Non penso che il mondo si sia fatto da solo. Penso che ci sia questo Mistero abissale della creazione, perché d’altra parte c’è un sistema di ordine. Anche la violenza, anche il male ha una sua ragion d’essere, una sua necessità.  Per esempio, per dirne una, sono stati  fatti degli esperimenti: in un‘isola hanno tirato via i lupi,  per cui la popolazione erbivora, i cervi  che erano lì, si sono moltiplicati. E poi cos’è successo? Che morivano di fame, perché ce n’erano così tanti che mangiavano tutto; e dopo non c’era più niente da mangiare. Anche una  legge del più forte  ha una sua ragion d’essere, è vitale.

A- Ma solo all’interno di un’economia naturale, sulla quale il lavoro dell’uomo stenta ancora a intervenire.

N – Certo, all’interno di un’economia in cui l’uomo non interviene o interviene poco, perché l’uomo è capace di scompaginare la natura.

La storia in Armi e mestieri

A – Passiamo dal tema della Natura a quello della Storia. Quale possibile storia è contenuta in Armi e mestieri?

N – È la storia del mio paese, che prende i personaggi del mio paese.

A – Di tutta la storia del paese  scegli alcuni personaggi e alcune vicende?

N- Dei frammenti, appunto. L’anziano assicuratore è solo uno dei personaggi. Un  altro personaggio è la casa, che era passata indenne / dalla guerra e dopoguerra /come la salamandra nel fuoco (p.32).   Un altro  era l’amico del padre.   Un altro la donna che esce come figura danzante  fra gli sparuti autocarri dei Tedeschi in ritirata (p. 60).  È un episodio che ricordo benissimo. Lei era uscita pensando che fossero arrivati gli Americani.  Aveva in mano un fiore, un gambo lungo, una rosa. Ha fatto così: è uscita come una furia,  ha roteato un po’ il fiore e poi l’ha lanciato sul camion.  Questa è stata la scena che io ho visto dalla mia finestra, perché lei  aveva il negozio  proprio di fianco alla mia casa.  Era un camion di tedeschi impolverati.  Uno di loro ha preso il fiore e l’ha lasciato cadere fuori dal camion. Senza cambiare faccia.  È stata una cosa molto drammatica.  Non ha detto niente.  Lei, mentre ha lanciato il fiore, ha capito.  È un episodio di fine aprile del 1945.

A – Si tratta di microstorie più che di storia o no?

N – Sì, sono quelle microstorie a cui guardo con attenzione. In fin dei conti, per fare un esempio, come ci viene raffigurato Confucio? Non mentre è lì sulla cattedra che spiega, ma nella vita quotidiana. Confucio entra in un tempio e si rivolge al custode del tempio e vuole da lui spiegazioni.  Quando escono, uno dei discepoli gli dice: – Ma, maestro, tu sei un esperto dei riti, come mai ti sei rivolto al custode per sapere qual è il rito di questo tempio? E lui risponde: – È questo il rito. Voglio dire che dalle cose minime vengono fuori quelle interessanti e anche grandi. Non  certo  dagli eventi più ufficiali. È molto più interessante il cavallo del Missori [la statua di bronzo al garibaldino Giuseppe Missori ora nella omonima piazza a Milano], quel ronzino con la testa abbassata,  che il cavallo impettito di Vittorio Emanuele II [in piazza Cairoli sempre a Milano].

Reticenza o saggezza?

A – La poesia  sulla donna «venuta fuori dal negozio» mi pare una critica sotterranea alla Liberazione e alle sue mitologie.  La critica non è esplicita e mi pare inserita come un dettaglio minimo nell’ultimo verso: ma erano Tedeschi in ritirata. Tu dai in poesia il frammento e tieni per te nella memoria il “resto”:   la tragedia storica che hai vissuto da giovane e sulla quale la tua memoria continua tuttora a lavorare. Solo forzandoti, aggiungi qualcosa di più a “commento”, come è avvenuto adesso nel nostro colloquio. Ma il lettore di oggi, specie giovane, non solo fatica ad entrare nel sostrato storico della tua poesia, ma rischia di ignorarlo. Posso permettermi di dire che mi pare un modo di non andare fino in fondo, di essere reticente sulla  storia?  Forse c’è per te – credo – quasi un’impossibilità a narrarla in maniera distesa. Perché?

N- È vero, perché in fin dei conti sai…

A- Preferisci mantenerla così, alludervi soltanto? Proprio alcuni giorni fa Rossanda su il manifesto scriveva che «non tutto quel che si è vissuto si può riprodurre». Lo diceva a proposito di Auschwitz, ma mi pare che potrebbe valere anche nel tuo caso.

N Sì, appunto. I motivi del mio silenzio sono molteplici. In ogni caso sono convinto che non si viene a capo di niente, che narrare in modi più espliciti non serve. O si centra il fatto emotivo  anche nel suo mistero…

A- Ma così lo accentui questo mistero.

N –  Sì, lo assecondo.

Descrivere senza giudicare?

A-  Non insisto. Ma allora che compito affidi alla scrittura?

N-  Il compito di oggettivare la mia esperienza, di descriverla senza giudicarla, di riportarla. Poi giudicheranno gli altri. Avranno delle sensazioni. È importante che la  poesia abbia come modello Omero,  che non dice se i Greci avevano ragione o meno. La poesia dev’essere il più possibile oggettiva.  Deve essere tale, come dice Dante,  sì che dal fatto il dir non sia diverso [Inferno, 32, 12] o seguire il consiglio di Puškin:  Descrivi e non fare il furbo. Giudicare sarebbe fare il furbo, perché o sei dentro nel momento oppure, se giudichi col senno del poi, fai  ridere. Col senno del poi sono piene le fosse. Cosa m’interessa che hanno avuto ragione i cesaricidi o Cesare?  Conta poco chi aveva ragione. Anzi importa niente. Importano i fatti. Poi giudicherà Dio.  Non certo gli storici. I grandi storici devono vedere i movimenti come se fossero un fiume, come se fosse un mare. Non giudicare. Giudicare lo fa il parroco. Io non rivendico niente. Anzi mi chiedo: «eravamo colpevoli?». Non rispondo: – No. E non per niente. Perché penso che eravamo colpevoli. Però sono colpevoli anche quelli che vincono. A me interessava dire questo.

A – A differenza di molti che  a mio parere  “coccolano” l’enigmaticità della tua poesia, penso che in essa gli eventi storici dell’Italia nel corso del Novecento abbiano una presenza fondante, anche se non li metti in primo piano. E mi meraviglia che i tuoi critici non scavino questo aspetto e i tuoi estimatori lo sorvolino come fosse secondario. Questa storia è tragica e dura ma bisognerebbe guardarla in faccia più di quanto si è fatto finora. E penso a quanto è avvenuto di recente in Sudafrica, dopo la conclusione del regime di apartheid. Lì hanno tentato di far emergere l’esperienza di odio  e di sopraffazione, la parte più oscura e violenta del conflitto che ha contrapposto bianchi colonialisti europei e neri. Hanno imboccato con coraggio la via dellla ricerca della verità, del dirsi le verità storiche possibili. Mi chiedo se il  nostro passato – quello di un fascista o quello di un comunista –  non debba essere scavato ancora con più rigore.

N –  Secondo me sì. E sono convinto che l’unico motivo per cui io scrivo è la storia.  In me prende le forme della natura, ma è sempre la storia che m’interessa.

A – Volevo osservare però due cose a proposito del rapporto fra storia e natura che mi pare presente nelle tue figure di animali emblematici. Quando parli dell’allocco che «si adatta naturalmente / alle necessità», della civetta che riscatta il «suo dimesso destino» di notte, del lavarello che «si adatta alla profondità», noto  innanzitutto uno slittamento dal naturale all’umano (storico), perché tu dici che l’allocco «nel suo lavoro paziente / si riconosce» o che la civetta «ha smesso la sua parte di zimbello» o che il lavarello «ha la testa piccola come di chi deve pensare poco». E a me pare che tale slittamento  riduca in primo luogo l’«oggettività» della descrizione (come accadeva agli  autori dei bestiari del Medioevo). Ma in secondo luogo poi mi chiedo cosa succederebbe se questi animali-emblemi invece di prendere  – come tu dici – «le forme della natura», prendessero (o riprendessero) le forme della storia?

N – È vero che  in queste figure l’oggettività si riduce. Esse sono infatti metafore del nostro vivere. Qualche critico ha pensato a degli autoritratti in maschera. Io concordo.

Memoria e verbo imperfetto

A – Per ultimo una curiosità filologica, che pure ha un suo significato profondo: l’uso del verbo all’imperfetto, che in questa raccolta  ricorre tantissimo.

N – Sì, è vero. Ma l’imperfetto è il tempo per eccellenza della parlata lombarda. Non ho mai sentito un mio familiare dire ‘cadde’ ma sempre ‘è caduto’. Uso il passato remoto solo in alcuni momenti. Ad es. a proposito di Corso Donati: e un altro colpo nel fianco e cadde in terra (Teatro naturale, p. 25).   Però, subito dopo, torno all’imperfetto: e in immensum cadendo messer Corso / prese la forma di un nome / stavo pr dire un vuoto torricelliano / mi aveva preso guardandolo / tra numerose iscrizioni.

A – L’imperfetto è anche il tempo della durata.

N- È un tempo malinconico, che non taglia, che trattiene, come un basso continuo.

A- È il tempo fisso della memoria.

N- Certo.

31  gennaio 2005

Sull’infanzia

A – Ripartiamo dall’infanzia e dagli anni della tua  formazione.

N – Sono nato ad Erba nel 1927. Sono stato figlio unico per sette anni, fino a quando è nato mio fratello Giuseppe (Peppo). Poi c’è un altro fratello, che aveva un anno meno di me, ma è morto a un anno. Come tutti i figli unici mi sono sentito avvolto dall’affetto, dalle cure dei miei; e anche dalla  predilezione di mia nonna, a cui penso spesso, perché è stata per me una presenza importante nella mia infanzia. Mio padre parlava poco, per cui  non ho avuto un dialogo con lui. Parlavo di più con mia madre. Ho cominciato ad avere degli amici all’età di nove, dieci anni. Alle elementari ne avevo avuto pochi. Frequentavo una scuola privata di suore, che non era molto distante da casa mia, per cui rientravo subito a casa. Avevamo una grande terrazza, di cui ho parlato anche nei miei scritti, un giardino. Un mio cugino, Sandro Frigerio, è stato  una presenza molto viva. I miei ricordi di questi primi anni sono però piuttosto confusi e non significativi.

Prime letture

A –  E le tue prime letture?

N – Mio  padre era un lettore e un collezionista di libri di storia e di letteratura. Questa sua passione l’ha ereditata soprattutto mio fratello. Mia madre mi leggeva qualche giornaletto per ragazzi. Ho letto i fumetti: Gordon, Mandrake. Mi piacevano molto. Mi colpiva soprattutto Gordon. I disegni erano molto belli e le storie erano fantastiche. Appena ho potuto leggere autonomamente – questo è capitato nelle medie, che allora erano le magistrali, divise in quattro anni di «magistrali inferiori» e quattro di «magistrali superiori», quindi un ciclo di otto anni come credo ancora oggi – ho approfittato della libreria di mio padre. E proprio nella sua libreria ho trovato i Ricordi entomologici del Fabre. Potrà sembrare strano – avevo 12-13 anni – che un ragazzo li leggesse. Sta di fatto che Fabre è un grande narratore e non per niente Erasmo Darwin il vecchio, il padre di  Carlo, l’aveva soprannominato l’Omero degli insetti. Era una lettura attraente, piacevole. Nel frattempo frequentavo la scuola.

A – A scuola come ti andava?

N – Ero uno studente piuttosto scarso. Con una buona memoria, ma con grandi difficoltà di carattere settoriale. Ad esempio, il disegno per me era una vera ossessione. Non riuscivo a tenere in mano la matita. Disegno geometrico: peggio che andar di notte per me. La matematica: altra  bestia nera dei miei primi anni di scuola.

Un insegnante influente

A – Tra gli insegnanti c’è stato qualcuno che ti ha influenzato più degli altri?

N – In questo periodo ho avuto la fortuna di  avere come professore d’italiano un intellettuale come Luigi Fumagalli, che abitava a pochi chilometri da Erba, a Arosio (Inverigo) e aveva propensione per l’arte. Scriveva anche,  con poco successo purtroppo. In ogni caso era impegnato sul fronte della letteratura.  E lui mi ha dato anche l’idea dello scrittore. L’ammiravo molto per la sua eloquenza, e anche per le sue stranezze d’artista.  Qualche volta ci faceva lezione all’aperto, nei giardini pubblici, cosa insolita allora. Non era certo un conformista, per cui mi ha fortemente influenzato.  Era anche un uomo di grande apertura mentale, assolutamente non fazioso.  Poi  è arrivata la guerra. Durante la guerra, verso la fine del ’43, lui ha  partecipato alla Resistenza  nel Partito d’Azione,  pur essendo stato prima fascista fino a  quando la guerra non ha assunto le caratteristiche  del disastro. Mi ricordo una sua frase: Sono stato fascista finché il fascismo non è diventato hitlerismo. Un’altra sua frase, ad es., era che rispetto alla guerra civile  bisognasse essere o di qui o di là, o da una parte o dall’altra, ma non agnostici.  Bisognava prendere posizione. Come membro del CLN era stato anche messo in prigione  a Como. Cosa che allora era pericolosa, non tanto perché lui avesse delle responsabilità precise, ma perché potevano esserci attentati fatti da altri e possibilità di rappresaglie prendendo i detenuti dalle carceri. Ecco, questo  è stato per me il personaggio più importante nella mia adolescenza. Il nostro rapporto si è poi trasformato in amicizia, quando ormai io ero impiegato in banca e mi ero sposato. Lui è morto nel 1980, a settant’anni. Era del ‘10. C’erano 17 anni di differenza fra me e lui. Quando si è giovani sembrano tanti.

In un ambiente “naturalmente” fascista

A – Parlando del tuo insegnante di riferimento, hai già introdotto nel discorso dei fatti storici. Tu sei nato e vissuto  in modo per così dire “naturale” in un ambiente fascista. I tuoi amici e coetanei erano fascisti, no?

N – Ma allora non si parlava di politica. E poi a me pare di poter dire che il fascismo ha avuto parecchie anime, a seconda di dove si è radicato.  Se nella campagna, a sud di Milano, ha avuto una connotazione di tipo agrario coi contadini che stanno sotto e gli agrari sopra, da noi, non essendoci latifondo, il fascismo era piuttosto borghese. Quindi  non si verificarono quegli attriti, lotte di classe…

A – Dalle tue parti non accaddero mai episodi che fecero nascere  qualche critica nei confronti del regime?

N – No. La vita era tranquilla. C’erano gli aderenti al  Fascio o i consenzienti. I dissidenti si contavano sulla punta delle dita e venivano considerati per lo più degli eccentrici.  Per quanto possa ricordare io, non ci furono episodi di violenza. E poi ero nato nel ’27. Ero giovane. Fino alla campagna d’Africa del ’35 c’era un vasto consenso. Mi ricordo vagamente la raccolta delle fedi, che è avvenuta in chiesa. Ed io, anche dopo la guerra, ho continuato nelle mie convinzioni. Semmai, la critica che ho fatto è stata di carattere  generale, sulla libertà di parola principalmente

A – Ma da studente  non raccoglievi notizie sull’andamento della guerra? A scuola non se ne parlava? Non c’erano voci contrarie?

N –  Facevo il liceo a Como. E ricordo che una volta sul tram c’era un mio amico, un certo Tomaso Grossi,  che mi diceva genericamente: – Eh vedi, gli uomini  vogliono la libertà. Non capivo bene a cosa si riferisse, ma credo che mi abbia dato  un primo segno di un modo di pensare  diverso su certe questioni. Allora le mie idee coincidevano con quelle del governo. Non c’era nessun attrito. E poi io allora non avevo idee politiche precise. Mi limitavo ad una certa  stima, un’ammirazione per Mussolini.

L’uccisione del padre

A – Allora il trauma dell’uccisione di tuo padre in un agguato  di partigiani dev’essere stato per te ancora più traumatico?

N – I due partigiani che hanno ferito mio padre – lui è morto dopo cinque giorni  all’ospedale –  non lo conoscevano.  Non erano della zona. Non ricordo  cosa ho provato allora. Soprattutto dolore. Avevo sedici anni.  Sentivo mia madre che piangeva. Ricordo queste sue lamentazioni ad alta voce. Io non riuscivo a provare odio. Si odia chi può essere individuato.  Né loro, credo, odiassero particolarmente mio padre. Sì, odiavano l’emblema, quello che lui rappresentava politicamente.

A – Si è poi capito perché avessero scelto come bersaglio tuo padre? C’erano dei motivi?

N – Mio padre era un notabile della zona e in quel periodo era stato nominato commissario prefettizio a Bosisio Parini, per esempio, e in un altro posto vicino, a Monguzzo. Lui ci andava in bicicletta, finito il lavoro in banca (era procuratore di banca), quando doveva partecipare a qualche decisione riguardante il Comune.

A –  Tu non hai mai sentito il bisogno di indagare su questa vicenda?

N – No. Personalmente non ho mai  voluto. Nella mia disgrazia sono stato preservato  dal ridurre la guerra fra due campi opposti a una cosa personale, a un fatto privato. L’ho vista come uno scontro cruento fra due fazioni. Nella mia mente da una parte c’erano i partigiani e dall’altra i fascisti. Essi non si conoscevano.

A –  E quando  si è profilata la sconfitta? Come hai reagito di fronte alla caduta del fascismo?

N – Non so dire cosa ho provato. Uno stordimento. Una sorpresa. Credevamo alle famose armi segrete. E poi pensavamo  ai Tedeschi come se avessero una forza quasi illimitata. In effetti li hanno fermati soltanto Tito e i russi a Stalingrado. Sì, allora ho provato uno stordimento. E poi c’era la paura di essere uccisi. Non avevo neanche il tempo di pensare a quello che succedeva. Mi ricordo che proprio il 26 aprile,  uscendo di casa, ho visto una scritta che diceva «Mancia competente a chi vede un fascista sorridere». Questo era il clima drammatico di quei momenti. Poteva succedere che ti uccidessero per strada. Comunque alla fine della guerra la mia famiglia si è trasferita a Varese. Lì ho fatto l’ultimo anno di liceo e a giugno sono stato promosso. Eravamo nel ’47.

Un poeta estraneo  ai cenacoli letterari

A – E dopo il liceo?

N – C’è stata una forte svalutazione della lira. Non si poteva vivere, per cui s’era imposta la necessità  per me di lavorare. Il lavoro l’abbiamo trovato nella stessa banca di mio padre, che mi ha subito assunto. Sono entrato in banca nel ’47, a vent’anni, e sono uscito nel ’95.

A – Hai lavorato sempre nella stessa banca?

N – No. Ho cambiato quattro banche per motivi di carriera. Nei primi vent’anni come impiegato d’ordine. Nei secondi vent’anni come addetto alle pubbliche relazioni.

A – E quando hai cominciato a scrivere?

N – Verso i trent’anni, dopo un periodo in cui mi sono interessato di musica (suonavo la chitarra, ho studiato anche alla Scuola musicale di Milano). Mio fratello aveva già cominciato a scrivere per suo conto e frequentava l’ambiente del Verri, in cui era diventato segretario. Anch’io, che avevo avuto sempre passione letteraria, ho cominciato a scrivere.

A – Per imitazione di tuo fratello?

N – No. Certo c’era uno stimolo in più. Però lui scriveva prosa. Aveva cominciato anche con qualche poesia che m’aveva fatto leggere e che per la verità mi piaceva, ma non aveva quelle caratteristiche di novità, di forza e di originalità che sono importanti  per scrivere poesia. Era perciò passato alla prosa, più consona alle sue possibilità. Io invece ho cominciato subito con la poesia.

A –  Ti eri posto il problema di pubblicare?

N – All’inizio avevo dato a mio fratello alcune poesie che a lui piacevano. Le ha fatte vedere a Porta, il quale non era tanto convinto. Poi le ha date a Alfredo Giuliani che abitava a Roma. Lui ha detto: – No, le poesie di Pontiggia non mi piacciono. Ma quanti anni ha questo Pontiggia? Comunque lasciamolo lavorare. Queste ultime parole mi sono rimaste impresse. Pensavo a un successo rapido e, visto che a Peppo piacevano queste mie prime poesie, pensavo che avrebbe potuto pubblicarle sul Verri. Invece ero stato bocciato.

A – Come hai reagito?

N – Ero molto contristato, però ho pensato: ora mi concentro, lasciamo perdere la pubblicazione. Lavoro e basta. E infatti mi sono concentrato sulla scrittura. Per un certo periodo di tempo ho avuto come interlocutore sempre il Peppo, che d’altra parte si rivolgeva a me per verifiche, correzioni, ecc. Poi sono andato avanti da solo.

A-  E quando sei arrivato alla pubblicazione?

N – Il primo libro, che è L’aspetto occidentale del vestito, l’ho pubblicato a 49 anni. Ma il mio primo editore è stato Giancarlo Majorino, che mi ha pubblicato sulla rivista Il corpo nel ’64. Avevo 37 anni. Quindi dopo sette anni di lavoro, di solitudine.

A- In quel periodo di lavoro solitario seguivi il dibattito  letterario?

N – No. Ero completamente fuori dagli ambienti letterari milanesi e nazionali. Addirittura, quando è uscito il libro che ha avuto successo – intanto me l’aveva chiesto addirittura Raboni  e io non pensavo di pubblicarlo perché non era ancora finito  e ne ha parlato Giudici sul Corriere della sera e poi ho avuto molte altre recensioni – io ero in banca a lavorare.  Non facevo nessuna vita di relazione. Degli scrittori conoscevo solo Majorino. Poi il Peppo aveva fatto vedere il mio lavoro a Sereni, il quale l’ha fatto uscire sul primo numero de L’Almanacco dello  specchio. Però io  Sereni non l’ho mai frequentato.

A – E come mai non ti facevi vivo neppure con Sereni?

N – Non avevo curiosità per il mondo dei letterati.

A – E cosa t’incuriosiva invece? Da cosa eri occupato?

N – Dalla vita in generale.

A – Ma allora in cosa consisteva la vita per te?

N – Consisteva nel vivere con mia moglie, coi miei figli. Sono sempre stato fuori da questi ambienti di letterati. E anche le mie letture mi spingevano a rimanere fuori.  Ho sempre avuto una diffidenza  delle riunioni. Poi, quando sono uscito dal lavoro in  banca e ho cominciato a partecipare a qualche lettura e poi anche alla vita pubblica,  mi sono reso conto che davvero sono più le spine che le rose. Invidie e meschinerie non mancano. A partire da una certa epoca il primo che si è interessato molto al mio  lavoro e nel ’72  sul Ragguaglio librario  ha scritto una critica e poi è venuto a trovarmi ed è diventato mio amico è stato Cucchi.  Anceschi ne aveva parlato nel ’70, Raboni nel ’71.

A – Ti hanno giovato queste critiche?

N – Mi hanno aiutato psicologicamente.

Nell’attrito tra due epoche

A – Da quanto mi dici devo pensare che mai, e soprattutto da quando hai cominciato a lavorare in banca, ti sei interessato di politica?

N – In un certo senso di politica non mi sono mai interessato. Ma in un altro senso io di politica vivo, perché continuamente polemizzo contro le false informazioni e la faziosità.

A – Ma questo più che vivere di politica a me pare vivere una contraddizione interiore. È come se tu fossi ancora  immerso emotivamente in quel periodo della tua giovinezza, nel suo mito e ti ritrovassi poi disarmato in  un’epoca che ti sembra la sua completa negazione. La tua esperienza di uomo maturo, sconfitto dalla storia («soccombente» come dici) è in attrito col tempo in cui vivi. Come ti gestisci questo attrito fra due epoche storiche che a me pare tremendo?

N – Sì, sono stato per molto tempo in attrito con la storia successiva di questo Paese.

A – Mi fai venire in mente una poesia di Fortini che ha colto questo dramma dello scontro tragico tra due epoche e due modi contrapposti di sentirle, riconoscendo però la comune sostanza umana dei contendenti. Senti:

Quel giovane tedesco

Quel giovane tedesco
ferito sul Lungosenna
ai piedi d’una casa
durante l’insurrezione
che moriva solo
mentre Parigi era urla
intorno all’ Hôtel de Ville
e moriva senza lamenti
la fronte sul marciapiede.

Quel fascista a Torino
che sparò per due ore
e poi scese per strada
con la camicia candida
i modi distinti
e disse andiamo pure
asciugando il sudore
con un foulard di seta.

[da F. Fortini, Una volta per sempre. Poesie 1938-1973, Einaudi 1978]

 N – Anche Fenoglio, uno scrittore che ammiro molto, ha saputo rendere omaggio ai combattenti delle opposte fazioni.

Nota di E. A.

Queste due conversazioni con Giampiero Neri sono tappe del mio avvicinamento critico a una figura umana affabile e ferma e alla sua poesia, limpida ma complessa e inquieta. Come si capisce dall’andamento del colloquio, entrambi concordiamo sull’importanza nella sua poesia della storia tragica (in particolare per l’Italia) del Novecento, che a me pare anzi la fonte reale decisiva.  Ma ad essa guardiamo attraverso il filtro di dissimili esperienze di vita e di concezioni del mondo. Neri – sulla scorta di Darwin, della saggezza antica e di quello che  definisce un «vago teismo» – tende a mantenerla sullo sfondo, a sentirla come inenarrabile ferita, a pensarla come teatro naturale o fiume vorticoso d’eventi, che gli uomini possono vivere o da vincitori o da vinti ma non giudicare e tantomeno  orientare in senso razionale. Io – sinteticamente – da un’ottica segnata soprattutto dalle lotte sociali del ’68-’69 e che non abbandona la lezione cristiana e quella marxiana. Da qui forse la postura rispettosamente “duellante” di entrambi. Che non scalfisce un’amicizia in apparenza insolita, ma  paradossalmente  fertile e che si va consolidando anche nella condirezione assieme ad altri de Il Monte Analogo, una «rivista di poesia e ricerca» da Neri ispirata. Spero che queste conversazioni possano continuare a lungo e confluire, assieme ad altri miei appunti sui suoi scritti, da me tardivamente scoperti, in un saggio che ho in mente di scrivere.

 Notizie biobibliografiche

Giampiero Neri (pseudonimo di Giampiero Pontiggia) è nato a Erba nel 1927 e vive a Milano. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: L’aspetto occidentale del vestito (Guanda 1976), Liceo (Acquario-Guanda 1986) e Dallo stesso luogo (Coliseum 1992), confluite successivamente in Teatro naturale (Mondadori 1998). Più recentemente ha pubblicato Erbario con figure (Lietocolle-libri 2000), Finale (Dialogolibri 2002), le quindici prose de La serie dei fatti (Lietocolle-libri 2004) e Armi e mestieri (Mondadori 2004).

*Articolo pubblicato sul  numero prova di Poliscritture (cartaceo) aprile 2005

 

2 pensieri su “Due conversazioni  con Giampiero Neri

  1. certo l’affermazione o dichiarazione del neri: “Non mi interessa la Poesia, ma l’Arte”, è da ridere, meglio mi fa sorridere.
    Se è la poesia del Raboni quella che gli interessa allora la dichiarazione è esatta, poi che non si può avere interessa per la poesia del Raboni che è totalmente “mortale”. ma a parte ciò: quale è la differenza /la distinzione/ fra Poesia e Arte: non c’è. Poi che vi è l’Arte della Poesia e la Poesia dell’Arte: credo che la confusione consiste nella denominazione: Arte e Poesia sono due termini distinti linguisticamente… ma sono la medesima cosa detta con due termini diversi.

  2. Francamente, della poesia di Neri fino a pochi anni fa avevo un’idea diversa da quella che ne ho oggi. Pensavo a Neri come a un occidentale influenzato da Lao Tse e Milarepa, mistici che egli stesso nomina anche in questa intervista. In effetti il linguaggio asciutto del frammento ricorda gli antichi waka giapponesi; ho anche apprezzato il fatto che Neri non abbia scritto haiku (un esercizio che qui da noi va di moda che io trovo insopportabile), che si sia scelto uno stile personale; insomma che ne abbia scritto a modo suo ma senza venir meno a quella tradizione. Il fatto stesso che la sua poesia sia rimasta inalterata negli anni sembra confermare l’idea di tempo e novità che son propri della tradizione orientale. Ora anche questa intervista mi conferma invece del suo disimpegno, di quanto vi sia di piccolo in queste… noterelle che sembrano prese da informazioni scientifiche di seconda mano. Nella poesia orientale si sente il respiro filosofico e religioso di una tradizione millenaria, ma qui sembra completamente assente. Neri non dice né allude a qualcosa. Cielo che si specchia in una pozzanghera, senza alcuna profondità. Poesia ben fatta ma replicabile all’infinito.

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