Intervista (teorica) a G. La Grassa di F. Ravelli

Marx da Nicola Corda

In  questa intervista, che è possibile leggere anche qui, Francesco Ravelli pone una serie di domande a Gianfranco La Grassa. A uno studioso, cioè, che negli ultimi decenni da un ripensamento di Marx, teso alla difesa e all’attualizzazione del suo lascito teorico (sintomatico il titolo del primo blog a cui ha collaborato: «Ripensare Marx»),  è approdato, come si dice nel ‘Chi siamo’ del successivo blog «Conflitti e strategie» (divenuto dopo un ultimo, recentissimo, ritocco: «Geopolitica. Conflitti e strategie»), ad «un sistema analitico fondato sulla teoria degli agenti strategici e del conflitto interdominanti a livello geopolitico».
Domande e risposte offrono una buona occasione per interrogarsi su una questione che a me pare tuttora decisiva e per molti versi irrisolta. Semplificando, la formulerei così: la storia fallimentare della costruzione del socialismo nel Novecento ha liquidato  anche la teoria di Marx? O, se il suo lascito non è andato del tutto in rovina, vale la pena d’interrogarsi ancora su “tutto Marx” (filosofo-scienziato-organizzatore politico) oppure, come fa La Grassa, salvare solo il “Marx scienziato”, liberandoci del suo “errore”, e cioè della sua « previsione del movimento [della società capitalista] verso il socialismo e comunismo»?
Avendo già letto l’intervista, ho trovato che le domande di Ravelli (ma in parte anche le risposte di La Grassa) sono esposte in un gergo specialistico faticoso da comprendere per chi non abbia dimestichezza col dibattito (spesso scolastico e persino noioso) sulla “crisi del marxismo”. Tuttavia, le questioni affrontate sono importanti e l’intervista merita di essere letta e discussa. E per agevolarne (innanzitutto a me stesso e magari a una parte dei lettori di Poliscritture) la comprensione, corro volentieri il rischio di tradurre in “lingua comune” sia le domande di Ravelli che le risposte di La Grassa.

Ecco, allora, come riformulerei le domande:

1. La Grassa ha falsificato (il richiamo è alla teoria del «falsificazionismo» di Popper: cfr qui) la teoria di Marx. Essa prevedeva la formazione di un «lavoratore collettivo cooperativo associato» (comprendente sia l’”ingegnere” che il “manovale”), cioè un soggetto capace di estromettere dal processo produttivo i capitalisti e guidare «la transizione socialista». Questa previsione non s’è realizzata. E allora cosa resta di valido in quella teoria?

2. Marx è stato un grande scienziato della storia delle società (soprattutto le moderne) e per primo ha svelato il funzionamento reale del «modo di produzione capitalistico borghese», dimostrando scientificamente che: – esso non fa che riprodurre una «diseguaglianza effettiva nel processo di riproduzione sociale» (semplificando: riproduce di continuo rapporti sociali diseguali); – «un’eguaglianza formale al livello del mercato» nasconde tale diseguaglianza reale. Oggi La Grassa ritiene che «la proprietà privata dei mezzi di produzione», centrale nella teoria di Marx, non lo è più. E al suo posto propone un modello teorico in cui centrale è il «conflitto strategico». Questo «cambio di paradigma» procede ancora nella direzione indicata da Marx o se ne distacca?

3. Marx, da uomo dell’Ottocento e in fondo positivista, era convinto che si potesse «riprodurre il concreto [la “realtà”] nel cammino del pensiero». Per La Grassa, invece, «noi non riproduciamo il concreto, ma ce lo possiamo soltanto rappresentare tramite campi di stabilità costruiti ad hoc per “fermare” il flusso incessante e inconoscibile della realtà»; e, dunque, di essa realtà si può raggiungere soltanto « una qualche parziale conoscenza». Quali le conseguenze di tutto ciò nel campo della lotta politica?

4. «Perché oggi gli intellettuali, salvo poche eccezioni, sono così meschini?» (In altri termini: esiste ancora o è possibile una funzione critica degli intellettuali?).

Ed ecco, sempre seguendo il mio intento didascalico ma basandomi sulle risposte all’intervista, come lo stesso La Grassa (ovviamente da me reinterpretato) riassumerebbe in un discorso unitario le sue tesi:

Marx è stato troppo influenzato dall’economicismo e dal determinismo della sua epoca. Egli ha presentato la «formazione economica» come fosse un «processo di storia naturale». E si è sbagliato, perché ha posto «a base della realtà sociale la produzione», deducendo da essa «le varie strutture dei rapporti sociali» fino a considerare come «raggruppamenti sociali decisivi, le classi, in base alla proprietà (potere di disporre) o meno dei mezzi di produzione». Io oggi ritengo insostenibile questa «centralità della proprietà (e quindi della produzione)». E perciò, così dicendo, non sto affatto «approfondendo il pensiero marxiano» (o continuandolo). Intendo, invece, mutarlo radicalmente, eliminando da esso soprattutto «un certo carattere di utopia» che l’ha fin troppo inquinato. É stato, infatti, un errore pensare sulla scia di Marx (come hanno fatto i socialisti e i comunisti o la sinistra da essi influenzata) che con «la proprietà collettiva dei mezzi produttivi» si potesse realizzare il socialismo o comunque una riduzione del conflitto sociale. No, il conflitto resta sempre centrale e inevitabilmente «porta diseguaglianza, c’è chi va sopra e chi sotto, chi vince e chi perde, ecc.». «La teoria di Marx non è in tutto e per tutto invalidata», perché in essa l’idea di profitto, cioè la necessità di produrre « più di quanto è necessario a mantenere l’umanità», è ben presente. Tuttavia, si deve rinunciare alla «inutile fede nella classe operaia o nelle popolazioni del “Terzo mondo”» che ha mano mano sempre più inquinato la scientificità dell’opera di Marx. Bisogna anche abbandonare la sua problematica (centralità della proprietà (e quindi della produzione), centralità del conflitto capitale/lavoro) e «spostarsi di campo». Perché, se è vero che prosegue ancora oggi una «lotta intorno all’appropriazione […] del pluslavoro/plusprodotto/plusvalore» di cui si appropriano soprattutto alcuni gruppi sociali rispetto ad altri, è ormai chiaro che si tratta «semplicemente [di una lotta] redistributiva». Essa non diventerà mai rivoluzionaria (non avrà, cioè, mai «significato ed esiti di trasformazione rivoluzionaria della forma fondamentale dei rapporti sociali da un’epoca storica ad un’altra»), come si è pensato per più di 150 anni. Caduta questa “grande illusione” cosa ci resta? Resta la storia. Che «prosegue la sua corsa e condurrà sempre all’IMPREVISTO, ci sorprenderà incessantemente e ci spiazzerà, costringendoci a rimettere drasticamente in discussione ogni nostra precedente supposizione, la quale si rivelerà pura chimera, una più o meno piacevole fantasia». Infatti, mi sono convinto – altro punto di differenza da Marx – che « la realtà sia inconoscibile, che sia probabilmente un flusso continuo, caotico e squilibrante, che tutto – persone e cose – travolge e trascina nel suo scorrere». E perciò, se non vogliamo fermarci e attendere la morte, come hanno finito per fare i comunisti, che «con tutta la loro mania di avere la “storia dalla loro parte”, di avere la garanzia che tutto sarebbe andato come da loro profetizzato, sono di fatto stati portatori di morte, di annientamento di ogni impulso e speranza per il futuro», dobbiamo « riconoscere che la vita è sempre sorprendente nel suo “presentarci il conto”. E’ decisamente il suo bello; E’ IL SUO ESSERE APPUNTO LA VITA!». Successivamente, avviata la discussione, nello spazio commento presenterò le mie osservazioni e obiezioni [E. A.]

INTERVISTA (TEORICA) A G. LA GRASSA DI F. RAVELLI

1. Il tuo tentativo di uscire dal marxismo teorico muove dalla falsificazione dell’ipotesi marxiana, da te illustrata nel corso di decenni di studio, circa la formazione del cosiddetto lavoratore collettivo cooperativo associato. Secondo Marx la socializzazione delle forze produttive sarebbe dovuta avvenire in seguito all’esaurimento della capacità del capitalista di controllare le potenze mentali della produzione (i saperi tecnici insiti nella direzione di un’unità manifatturiera). Venendo meno questa fondamentale funzione, i capitalisti sarebbero rimasti titolari della mera proprietà giuridica delle condizioni oggettive del processo di lavoro finendo per formare una nuova aristocrazia finanziaria dedita all’amministrazione dei pacchetti azionari delle fabbriche. Il prosciugamento del potere di disporre dei mezzi di produzione da parte del capitalista (ormai solo proprietario legale) avrebbe favorito la formazione di un nuovo soggetto sociale, il lavoratore combinato dall’”ingegnere” che dirige e dall’operaio che esegue la produzione. L’”ingegnere” è il tecnico, lo specialista della produzione in seno alla fabbrica; l’operaio è il “manovale”, colui che i processi di sottomissione reale hanno incollato alla macchina. È tale soggetto, non privo di decisive differenziazioni sociali al suo interno, che Marx reputa capace, in tempi certamente più veloci rispetto a quelli che hanno condotto al modo di produzione capitalistico, di attuare la transizione socialista. A distanza di un secolo e mezzo da quella previsione scientifica abbiamo appurato che il ruolo delle imprese e il gioco della concorrenza hanno cambiato la fisionomia del capitalismo e portato al tramonto della sua fase borghese. Ciò premesso, vorrei chiederti: cosa manterresti di Marx uscendo dalla porta da lui aperta? La nuova fase del tuo lavoro teorico esalta la funzione oggettivamente determinata degli agenti storici nel conflitto politico, e tuttavia noi sappiamo che anche per Marx gli individui non sono nient’altro che l’incarnazione di categorie e rapporti trascendenti la loro singola personalità. E’ questo un aspetto del suo pensiero che dobbiamo continuare a far valere nell’approdo verso una nuova teoria sociale complessiva?

In effetti, di Marx tengo fermo, e solo in parte tuttavia, quanto scritto assai brevemente nella prefazione a Il Capitale:

“Una parola per evitare possibili malintesi [purtroppo, l’aveva previsto, ma quanti malintesi da parte di presunti marxisti; ndr]. Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario [e anche dell’operaio, evidentemente; ndr]. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personalizzazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della societàcome processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”.

Evidentemente questo non è valido quando si stabiliscono rapporti interpersonali poiché allora balza in piena evidenza la singolarità di ogni individualità. Non si bada certo al fatto che uno sia capitalista od operaio o appartenente ad altra categoria sociale quando si ama o si odia, si prova amicizia e simpatia o il suo contrario, ecc. Tuttavia, anche per quel che riguarda le individuali particolarità si dà, seguendo Marx, maggiore importanza alla determinazione sociale (esperienza di vita in quel dato contesto culturale e di struttura dei rapporti nella società di una specifica fase storica) piuttosto che a quella biologica, di nascita. E tanto più conta questa determinazione sociale nello stabilire la collocazione di gruppi di individui in questa o quella classe della società. Tale collocazione in classi non annulla ogni particolarità individuale, ma prevale nel discorso teorico  relativamente all’analisi dei rapporti intercorrenti tra grandi raggruppamenti sociali, presupponendo che la struttura di questi rapporti definisca per l’essenziale il carattere di quella data società in quella data fase storica.

Dove mi distacco, da ormai molto tempo da Marx? A mio avviso, egli è influenzato da una buona dose di economicismo. Certamente, tratta prevalentemente di rapporti sociali, ma di quelli di produzione perché per lui sono questi a costituire la cosiddetta base economica della società, che sarebbe, pur con tutte le attenuazioni legate alla reciproca interattività, l’elemento decisivo in relazione alle articolazioni sociali di carattere politico e ideologico-culturale, non a caso definite sempre, nei vari scritti (anche dei marxisti in generale), sovrastrutture. Ed è molto forte l’affermazione secondo cui la formazione economica della società è da assimilarsi ad un processo di storia naturale. Qui il determinismo fa ben capolino e si afferma con ben evidente vigore.

Intendiamoci bene. Quando si fa teoria, e dunque si ricorre a molteplici astrazioni, si giunge necessariamente a semplificazioni che servono a stabilire quali elementi della cosiddetta realtà sociale, di cui stiamo parlando, sono da considerarsi più rilevanti rispetto ad altri di carattere secondario, dei quali tenere conto, ma solo in via di approssimazioni ulteriori. Per Marx, la vita di una società è soprattutto caratterizzata dalla produzione dei beni atti alla vita dei suoi membri; non certamente una vita animale, bensì dotata di potenti impulsi allo sviluppo e mutamento delle strutture interrelazionali. Produrre è comunque essenziale, è appunto la base della vita sociale; e si parla appunto di una base economica.

Ho più volte ripetuto, per far capire dove vedo l’errore di Marx, che la struttura materiale del cervello – i suoi processi fisici e chimici, ecc. – è essenziale per poter pensare. Da tale struttura non derivano però i vari pensieri quali “sovrastrutture” della “base cerebrale”. E allora, dalla produzione non discende la possibilità di dedurne (quale sorta di “processo di storia naturale”) le varie strutture dei rapporti sociali. Il porre a base della realtà sociale la produzione ha poi condotto a quello che per me è l’errore principale di Marx (da me accettato per non so quanto tempo, non cerco scusanti): la divisione dei raggruppamenti sociali decisivi, le classi, in base alla proprietà (potere di disporre) o meno dei mezzi di produzione; poiché, a parte la primitiva condizione animalesca, tutta la storia relativa allo sviluppo delle forze produttive umane vede in primo piano la terra e i vari strumenti, via via perfezionatisi, tramite cui si produce.

Produrre implica di fatto trasformare dati beni in altri adatti o a essere consumati ai fini della vita in società o a essere adibiti ad un’ulteriore produzione. Ed è appunto dalla centralità della proprietà dei mezzi produttivi che derivano tutti gli altri errori, da te ricordati nella domanda, relativi al costituirsi delle basi essenziali per la trasformazione del capitalismo nel socialismo e poi comunismo. Se si abbandona la centralità della proprietà (e quindi della produzione), a mio avviso ormai insostenibile, si deve ammettere che non si sta approfondendo il pensiero marxiano, se ne produce invece un mutamento radicale. Il fatto che quest’ultimo, partendo dalla centralità da me assegnata al conflitto strategico, non sia ancora arrivato ad alcuna conclusione definitiva (com’erano il socialismo e comunismo della visione marxiana) non implica che si debba fare marcia indietro. I poveri residui marxisti sono del resto ormai arrivati al comunismo pensato in termini simili a quelli dei primi cristiani.

Marx aveva formulato una teoria sociale scientificamente assai precisa e solidamente articolata, ma che ha mostrato di essere errata. Un’altra strada va presa; e va presa senza intendimenti pseudoreligiosi, bensì con lo stesso spirito di Marx. Tuttavia, questa strada non consente di prevedere alcun comunismo. La supposta (da Marx) fine della proprietà (privata) dei mezzi produttivi conduceva all’idea dell’embrassons-nous tra tutti i produttori. Il conflitto tra strategie non consente questa “armonia” d’intenti. E tuttavia, l’assenza di conflitto è solo l’idea di morte connessa all’entropia vincente e pienamente affermatasi. La vita è differenziale di potenza, diseguaglianza delle forze in campo, serie di mosse per vincere in una lotta (non più banalmente “di classe”). Tutto questo continua a far vivere la società degli uomini e a cambiarla d’epoca in epoca. Pensare che si affermasse, con la proprietà collettiva dei mezzi produttivi, una amichevole competizione e qualche minore contrasto non antagonistico, ha in effetti un certo carattere di utopia. Il conflitto porta diseguaglianza, c’è chi va sopra e chi sotto, chi vince e chi perde, ecc. Nell’attuale fase di sviluppo di ciò che ancora chiamiamo capitalismo, finito miseramente il presunto conflitto epocale tra borghesia e proletariato, tra classe proprietaria e classe operaia (solo salariata), non siamo ancora in presenza di una nuova e stabilizzata struttura dei rapporti sociali. Il conflitto tra gruppi appare dunque appannato mentre sembra in pieno vigore quello tra Stati; semmai con il corteggio degli scontri di carattere interreligioso, interetnico, ecc.

Siamo in un’epoca “di mezzo”. Abituiamoci e pensiamo diverso, pensiamo nuovo!

2)  A tuo avviso la grandezza storica di Marx risiede nella capacità analitica di disvelare la realtà soggiacente al modo di produzione capitalistico borghese. Questo si regge sulla compresenza di un’eguaglianza formale al livello del mercato e di una diseguaglianza effettiva nel processo di riproduzione sociale, dove si confrontano coloro che hanno il potere di disporre dei mezzi di produzione e coloro che, liberamente, erogano forza-lavoro. L’acquisizione della libertà giuridico-formale non dà conto del fatto che la forza-lavoro è, sul piano logico, la prima merce capitalistica, ossia quella merce il cui valore s’identifica con il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro stessa e, con lui, del medesimo rapporto sociale capitalistico. Ora, senza addentrarci nella teoria del valore-lavoro di Marx, nozione peraltro che egli non ha mai usato, vorrei porti una domanda sul rapporto epistemologico intercorrente tra il disvelamento marxiano e la tua riflessione sulsecondo disvelamento. Contestando la centralità della proprietà privata dei mezzi di produzione, e nonostante Marx intenda il capitale come rapporto sociale, le tue ricerche muovono nella direzione della messa a punto di un modello teorico basato sul conflitto strategico, la cui logica sarebbe attiva tanto negli apparati politici quanto nella produzione economica e nella sfera ideologica. Il secondo disvelamento sfonda i limiti del primo, lo approfondisce con originalità, ne nega l’esaustività rispetto alla forma assunta dal capitale postborghese, ma non il funzionamento “regionale”. Non è possibile retrocedere dalle acquisizioni di Marx, magari rispolverando decrepite concezioni liberali o fumose idee religiose, e al contempo è necessario comprendere il tuo sforzo di fuoriuscita. Il cambio di paradigma che proponi, ti chiedo, lo si potrebbe in generale leggere, anziché come un’evoluzione per sostituzione, nei termini di una continuità per approfondimento della scoperta marxiana?

In pratica, in quanto detto fin qui sta anche la risposta alla domanda che poni. Non si può approfondire Marx, si deve invece abbandonare il suo concetto centrale (la proprietà dei mezzi produttivi, ecc.) e spostarsi di campo. E’ ovvio che ne deriva un completo ribaltamento di tante sue categorie. E’ tutto un apparato teorico che entra in sobbollimento. Il problema è solo: dobbiamo averne paura? Ci sentiamo spersi se viene a mancare l’inutile fede nella classe operaia o nelle popolazioni del “Terzo mondo” (che accerchiano le “città capitalistiche”) o, come ormai ci si limita a predicare oggi, negli immigrati, nei flussi di disperati che possano venire a sconvolgere ogni ordine sociale di un qualsiasi tipo in quest’Europa serva degli Usa e preda di gruppi politici e ceti intellettuali allo sfascio, privi di qualsiasi idea sensata nel loro cervello bacato?

Tendenzialmente, sarei molto pessimista. Vedrei un’Europa ormai incapace di risorgere veramente, quanto meno intellettualmente e culturalmente. Abbiamo sostanzialmente il predominio dei liberali (e quindi liberisti in campo economico); coadiuvati nel loro compito di renderci servi di altre potenze da quella che ancora si chiama “sinistra”, una raccolta di deficienti e/o farabutti che non so se siano mai esistiti in altra epoca a questo livello di degradazione (probabilmente sì, ma non so quando né dove). Tuttavia, è probabile che questo pessimismo dipenda dal lungo logorio subito durante la mia vita già lunga e dalla vicinanza della “resa dei conti” (biologica, intendo dire).

Vorrei tuttavia non essere frainteso: secondo me, la teoria di Marx non è in tutto e per tutto invalidata. L’idea che il profitto capitalistico non sia altro che una forma storica del fenomeno più generale per cui si produce più di quanto è necessario a mantenere l’umanità – e con livelli di vita via via crescenti e importanti sviluppi e trasformazioni delle strutture sociali – è tutt’altro che peregrina. A me sembra ancor oggi peggiore l’idea neoclassica che il profitto dipenda dall’abilità dell’imprenditore nel combinare i fattori produttivi o, come pensava Schumpeter, dalla sua capacità innovativa. Questa abilità combinatrice e questa attitudine all’innovazione possono spiegare il maggiore o minore successo (o anche il fallimento) di alcuni capitalisti rispetto ad altri; possono spiegare il fatto che alcuni guadagnano di più, che altri addirittura perdono i loro capitali, ecc.; non danno invece ragione del fatto che, nel complesso, si ha un accrescimento della produzione.

Di conseguenza, è accettabile l’idea del pluslavoro/plusprodotto/plusvalore di cui si appropriano alcuni gruppi sociali rispetto ad altri. E dunque anche quella di una lotta intorno all’appropriazione di questo “di più”. Si è invece rivelata errata la convinzione che simile lotta abbia significato ed esiti di trasformazione rivoluzionaria della forma fondamentale dei rapporti sociali da un’epoca storica ad un’altra. E’ una lotta semplicemente redistributiva di quanto prodotto; più o meno acuta, ma non con effetti di rivoluzionamento di quella data società. In definitiva, si è dimostrata una gigantesca illusione quella della “rivoluzione proletaria” che avrebbe rovesciato il capitalismo, avviandolo verso forme sociali dette comunistiche. Oggi, continuare a coltivare siffatta illusione è assai più che una perversione; o si è decisamente mentecatti o si è dei colossali mentitori e imbroglioni, al limite dei veri criminali, da neutralizzare.

Per quanto riguarda il problema delle maggiori trasformazioni dette rivoluzionarie, c’è veramente tutto da rivedere, abbandonando intanto l’idea della “classe operaia” come fattore decisivo di un futuro mutamento sociale, pensato quale fine della “preistoria” e inizio della vera “storia” dell’umanità. Idea aberrante. Tale mutamento, se si fosse realizzato, sarebbe semmai stato la fine della storia; per nostra fortuna, questa continuerà esattamente come si è svolta finora con continui conflitti che conducono a risultati non previsti minimamente da nessun “profeta”. La storia prosegue la sua corsa e condurrà sempre all’IMPREVISTO, ci sorprenderà incessantemente e ci spiazzerà, costringendoci a rimettere drasticamente in discussione ogni nostra precedente supposizione, la quale si rivelerà pura chimera, una più o meno piacevole fantasia.

Possiamo fare (azzardare) delle previsioni? Certamente, anzi dobbiamo così procedere, altrimenti ci fermiamo e attendiamo la morte. Tuttavia, dobbiamo essere pronti a riconoscere che la vita è sempre sorprendente nel suo “presentarci il conto”. E’ decisamente il suo bello; E’ IL SUO ESSERE APPUNTO LA VITA! Mi dispiace dirlo: i comunisti, con tutta la loro mania di avere la “storia dalla loro parte”, di avere la garanzia che tutto sarebbe andato come da loro profetizzato, sono di fatto stati portatori di morte, di annientamento di ogni impulso e speranza per il futuro. E quindi hanno perso perché hanno creato un mondo di nebbia e grigiore, dove nulla poteva irrompere innescando l’entusiasmo e la curiosità del nuovo.

3) Nell’Introduzione del 1857 Marx espone il metodo dell’economia politica. Precisando che la risalita dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria del concreto, ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso, egli intende l’oggettività come sintesi di determinazioni (o unità del molteplice) che appare nel pensiero come risultato e non come punto di partenza. Per Marx sono le determinazioni astratte ad avere la capacità di condurre alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero, anche se qualunque categoria economica, per esempio il valore di scambio, presuppone pur sempre un insieme vivente e concreto già dato. Il discorso sarebbe lungo, ma il punto che qui interessa toccare è uno solo, ovverossia l’abbandono, nei fondamenti epistemologici del conflitto strategico, della pretesa marxiana di «riprodurre il concreto nel cammino del pensiero». A tuo giudizio, del resto, noi non riproduciamo il concreto, ma ce lo possiamo soltanto rappresentare tramite campi di stabilità costruiti ad hoc per “fermare” il flusso incessante e inconoscibile della realtà. Questa fugge di continuo, la sua condizione è l’assenza e la sua regola lo squilibrio. Se per l’economia politica classica le determinazioni astratte erano la condizione di possibilità della conoscenza che dal semplice (lavoro, valore di scambio etc.) risaliva al complesso (lo scambio fra le nazioni e il mercato mondiale), la tua riflessione ha come “punto d’inizio” una coerenza ipotetica che si deve essere pronti, pena il naufragio nei vortici del reale, a rivedere o persino a cambiare. E’ in virtù di tali ipotesi, dunque, che si può giungere a una qualche parziale conoscenza e a impostare la lotta politica. Ti chiedo, infine: se quello qui abbozzato fosse effettivamente il modus operandi degli agenti storici nel conflitto strategico, dovremmo allora concludere che pretendere di ricostruire la realtà nel pensiero sarebbe d’intralcio a una compiuta lotta per l’egemonia?

In effetti, sono sempre rimasto dubbioso intorno alla frase marxiana (Introduzione del 1857): “le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero”. Stiamo attenti a non confondere, identificando, il concreto astratto (e non sembri un bisticcio di parole) con il concreto reale, empirico.

Quando Marx ad es. pensa il valore quale quantità di lavoro (energia lavorativa in astratto, senza specificazioni dell’oggetto d’uso alla cui produzione è indirizzata) spesa per questa produzione – e dunque, in un certo senso (sempre astratto), incorporata nell’oggetto prodotto – sta immaginando una situazione concreta soltanto, appunto, mediante il pensiero; una situazione, dunque, creata per astrazione. Non a caso, affinché il lavoro speso rappresenti il valore, viene supposta la più perfetta libertà di scambio e la più perfetta eguaglianza degli scambisti. Detta libertà è sovente intralciata da “attriti” più o meno intensi, l’eguaglianza è sempre messa in discussione nella lotta che gli scambisti svolgono tra loro per ottenere un valore maggiore: il venditore si batte per prezzi più alti, il compratore per il contrario. Alla fine si stabilisce un prezzo, ma non è detto che questo corrisponda al valore quale quantità di lavoro erogata; a volte sta al di sopra, a volte al di sotto.  Il valore indica il punto da considerare quale attrattore del prezzo, pur se questo difficilmente (proprio per caso semmai) è esattamente eguale al valore.

In definitiva, il concreto di pensiero (il concreto astratto) non è mai l’effettivo concreto empirico, reale. Tuttavia, si suppone che, pur se in modo assai approssimato – e con eliminazione degli attriti, degli squilibri sempre in azione – il concreto pensato debba avvicinarsi alla corretta rappresentazione della realtà. In definitiva, quest’ultima è pensata come conoscibile, come ricostruibile, per sommi capi, nella sua reale dinamica. E’ proprio su questo punto che ho oggi molti dubbi. Mi convince di più l’ipotesi che la realtà sia inconoscibile, che sia probabilmente un flusso continuo, caotico e squilibrante, che tutto – persone e cose – travolge e trascina nel suo scorrere. Ed è qui che, come dici, penso ai campi di stabilità in quanto nostre creazioni teoriche per attribuire ordine alla “realtà” (tra virgolette questa volta) in modo da poter agire senza farsi travolgere dal processo reale (senza virgolette, ma solo supposto e mai accertabile per via di prove inconfutabili).

Possiamo parlare di realismo quando le teorie formulate – ed eventualmente gli apparati organizzati, strutturati, creati in seguito alle stesse – manifestano un certo successo nella loro applicazione, ci fanno conseguire risultati che spesso ci sembrano esattamente quelli perseguiti. Inoltre, si dimostrano sufficientemente esatte certe previsioni effettuate in base a simili teorie. Il grave è che solitamente un simile realismo viene subito eretto a vera conoscenza della realtà, che viene così cristallizzata in quella data rappresentazione. La teoria, che sempre deve fondarsi su ipotesi costantemente rivedibili (o anche abbandonabili se occorre), viene allora ossificata in ideologie con magari effetti di trascinamento (di massa) per dati periodi di tempo. Alla fine – almeno per quelle ideologie che non promettono altre vite, l’eternità, ecc. – tutto viene a cadere con gravi ritardi di comprensione, con fenomeni di squilibrio che si afferma in modo sempre più virulento, ecc.

Dobbiamo essere pronti all’abbandono di certe teorie, al riconoscimento delle loro gravissime e invalidanti degenerazioni ideologiche, dell’insuccesso crescente di ogni nostra previsione e azione. Difficilmente ci si riesce e tutta l’impalcatura creata da una determinata teoria alla fine degrada, produce miasmi velenosi e crolla trascinandosi dietro code di pensieri e immagini sempre più degenerate e dense di effetti sociali deleteri. Questo è accaduto al povero pensiero di Marx divenuto oggi privo di una qualsiasi valenza scientifica e ridotto a predicazione semireligiosa di bontà, giustizia, tolleranza, ecc. E il pensiero comunista ha seguito lo stesso iter, divenendo fattore di disfacimento culturale e sociale. Occorre una più che radicale bonifica del marxismo e del comunismo. Ma fa parte di questa bonifica l’effettiva ricostruzione del pensiero marxiano nelle sue ipotesi scientifiche di fondo. Certamente, ne scopriremo l’errore, anche in merito alla previsione del movimento verso il socialismo e comunismo. Tuttavia, la scoperta dell’errore può essere feconda di nuove ricerche, di più sofisticate ipotesi ricostruttive di una diversa teoria dell’attuale società. Questa è la scienza: l’errore non paralizza e anzi stimola il ripensamento e lo rende ancora più ampio e approfondito.

In definitiva, per rispondere alla domanda finale della terza domanda, negativa è la convinzione che il nostro pensiero conosca la realtà, la riproduca nella sua concretezza empirica e in ogni particolarità di quest’ultima. Dobbiamo però agire; e per agire è indispensabile pensare una “realtà”. A mio avviso, essa va costruita secondo l’ipotesi che siamo immersi in essa e tuttavia distinti da essa, trascinati nei suoi vortici e cionondimeno capaci di darci stabilità, equilibrio, necessari alla nostra entrata in azione. Dopo di che, è bene convincersi della transitorietà di ogni nostra supposta conoscenza, dei nostri eventuali successi che alla fine mostreranno la corda, ponendoci di fronte ad altre scelte improrogabili. E oggi è improrogabile, per chi è stato marxista e comunista, conoscere il vero significato di tali termini e capire che quella storia è finita. Senza tuttavia alcuna concessione a teorie e ideologie ancora più vecchie e cadenti: niente liberalesimo, niente fascismo, niente pensiero cristiano, e via dicendo. Sto evidentemente parlando dal punto di vista dell’analisi della società, non per la speranza di un’altra vita, soprattutto eterna, in qualche dove che non fa comunque parte del bagaglio teorico dello scienziato.

4) In quest’ultimo scambio mi permetterai di andare un po’ “a ruota libera”. Il tuo libro dell’anno scorso, Navigazione a vista, andrebbe lungamente meditato per comprendere a fondo il cambiamento di paradigma che la nostra tradizione teorica – il marxismo – dovrebbe intraprendere. Dirigersi verso i nuovi moli ai quali il sottotitolo fa riferimento è stimolante e necessario, a patto però che ciascuno giunga – con le forze di cui dispone – alla comprensione dell’effettivo avvenuto disuso del porto dal quale intendiamo salpare. A una tale compiuta comprensione molti devono ancora arrivare, e chi scrive è tra loro (già Antonio Labriola, d’altronde, ricordava che «superare è aver compreso»).   Detto questo a me le urgenze sembrano due e i problemi almeno quattro. Comincio dalle prime: a) il conseguimento della legge scientifica della forma capitalistica di tipo manageriale, che deve essere del medesimo livello d’astrazione di quella marxiana. Quest’ultima ha come oggetto il modo di produzione capitalistico classico (o borghese) e si basa sull’ipotesi, da te paragonata al galileiano studio del moto senza attriti, secondo cui i possessori di merci sono tutti di pari forza e in uno stato di perfetto equilibrio e di totale eguaglianza giuridica; b) la ricostruzione analitica dei modi in cui il conflitto strategico precipita nelle formazioni sociali particolari. Chi ti accusa di aver abbracciato la geopolitica a mio avviso non comprende l’urgenza di sviluppare questo punto.

Provo a riassumere anche i problemi, ciascuno dei quali, naturalmente, meriterebbe un’ampia trattazione: 1) il ritardo con cui arriveremo alla messa a fuoco della suddetta legge (ahinoi è ormai un secolo che balbettiamo); 2) l’entrata in crisi, lenta ma in parte già manifesta, di quella stessa tipologia capitalistica di cui ignoriamo la “forma di cellula”; 3) l’impossibilità di riferirsi al movimento operaio come soggetto storico capace della transizione sociale (una rivoluzione c’è stata, ma tra un capitalismo e l’altro. Dovremmo allora concludere che i “veri” rivoluzionari sono stati gli “strateghi del capitale”?; 4) la difficoltà «di giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme». Nel Manifesto della nostra tradizione c’è scritto che una parte degli ideologi borghesi è passata al proletariato. Perché oggi gli intellettuali, salvo poche eccezioni, sono così meschini? Evidentemente perché l’assetto sociale in cui operano, benché declinante, è ancora quello di gran lunga nel quale essi possono svolgere una funzione importante. Chi vorrà opporsi a questo ordine di cose dovrà attendere ben altri eventi di quelli avutisi negli ultimi tempi. Scoppierà allora la lotta, anche ideologica, utile per decretare chi realmente sarà giunto alla intelligenza di cui sopra.

Dovrò anch’io dunque andare a ruota libera. Sul cambiamento di paradigma, mi sembra che sia inutile spendere altre parole. Ed è pure superfluo insistere sul fatto che il cambio va accompagnato da una sempre più accurata ricostruzione del pensiero di Marx. E anche sul tipo di astrazione utilizzato da Marx nella cosiddetta “riproduzione del concreto” ho già esplicitato il mio pensiero. Resta il problema dell’oggettività o intersoggettività sottese alla teoria formulata.

Secondo me, l’oggettività è assicurata nell’impostazione marxiana dai processi storici che conducono a successive forme dei rapporti sociali, centrati come già rilevato sulla proprietà (potere di disposizione) o non proprietà dei mezzi di produzione. A differenza di quanto pensava, ad esempio, Althusser, le classi sociali in lotta (fondamentalmente borghesia e proletariato nell’ultima formazione sociale conosciuta, quella capitalistica) entrano in campo già formate: la borghesia proprietaria dei mezzi produttivi e il proletariato o classe operaia solo in possesso della forza lavoro. Se avesse avuto ragione il filosofo francese, contrariamente a quanto da lui pensato in merito alla “lotta di classe” quale demiurgo della storia, il processo sarebbe stato sostanziato appunto dal conflitto tra “soggetti” tramite cui egli pensava si sarebbero formate le classi in lotta (e perché proprio borghesia e proletariato?). Saremmo insomma stati in piena intersoggettività; le classi emergevano, “precipitando” nei due schieramenti contrapposti, dallo scontro in atto nella società che, evidentemente, in un primo momento sarebbe stata un imprecisato amalgama di soggettività differenti, infine coagulatesi nelle due classi antagoniste appunto mediante la “lotta”.

Se invece si pone all’inizio la proprietà o meno dei mezzi produttivi, abbiamo appunto un elemento – indipendente dalla lotta tra i due soggetti – che li fissa con precisa caratterizzazione e li rende antagonisti. La lotta tra i due ne consegue ineluttabilmente; e ne consegue pure, altrettanto ineluttabilmente, la vittoria del proletariato, la fine del capitalismo e il passaggio alla nuova forma di società. Nessuna casualità è ammessa: l’oggettività del processo è assicurata, così come l’avvento del socialismo e poi comunismo. Questo è il succo della teoria marxiana.

Indubbiamente, le mie ipotesi relative al conflitto strategico ricadono nell’intersoggettività; e non fissano in anticipo quali soggettività entreranno nello scontro più acuto e foriero di mutamenti sociali. Tanto meno si assicura che tali mutamenti abbiano qualcosa a che vedere con le speranze, dimostratesi largamente illusorie, circa lo sbocco comunistico (o anche soltanto socialistico). Per intanto liberiamoci di queste illusioni, che hanno negativamente caratterizzato i processi sviluppatisi dopo la Rivoluzione d’Ottobre – fantasticata quale rivoluzione proletaria e inizio della transizione al socialismo – e finiti miseramente, e ingloriosamente, nel 1989 (crollo del sedicente campo socialista dell’est europeo) e 1991 (crollo dell’Urss).

Ho ultimamente cercato – si veda soprattutto il mio libretto Tarzan vs Robinson (Piazza editore) – di dare un fondamento in qualche modo oggettivo a detto conflitto (tra le strategie di più soggetti in lotta per la supremazia nella società). Preferirei non parlarne qui perché si tratta di un discorso abbastanza lungo e che va senz’altro sviluppato a parte. Proprio per questo, non mi sento di iniziare qui una discussione in merito a quei quattro punti che tu indichi alla fine della tua intervista. Da lì semmai inizia un nuovo discorso. Dico solo che il ceto intellettuale odierno, per la sua massima parte, è ormai ad un livello di degrado che non consente alcuna possibilità di rinascita. Si tratta delle ulteriori degenerazioni di un movimento fortemente involutivo qual è stato il ’68. D’altronde, dopo essere stato, molto timidamente del resto, contrastato dalla parte più decrepita dei ceti dominanti europei, tale movimento ha goduto del massimo appoggio da parte di questi ultimi perché di fatto serve mirabilmente a quel disfacimento culturale che facilita il nostro asservimento agli Stati Uniti. Questo ceto intellettuale, e ancor prima i ceti dominanti europei servi, dovranno essere integralmente eliminati; e nel senso letterale del termine. Se non si riuscirà in quest’obiettivo principe, inutile rimuginare sulla ripresa di un pensiero critico che sappia fare i conti con i fallimenti dei cent’anni passati.

E con simile conclusione non proprio speranzosa termino il mio dire.

 

53 pensieri su “Intervista (teorica) a G. La Grassa di F. Ravelli

  1. Interessanti le tesi di La Grassa. Mi piace anche il modo in cui le porge, con cipiglio e grande sincerità. Non vuole essere diplomatico, accomodante, questo lo apprezzo molto. Non riesco a seguire proprio tutto dei discorsi politici ed economici ma nel complesso le sue idee a me paiono condivisibili o comunque forniscono materia di riflessione. Mi piace anche il lessico perché in certi passaggi mi suona familiare ovvero analogo a quello scientifico (intendo matematica, fisica) cui sono abituato. Ad esempio nel passaggio seguente

    “In definitiva, il concreto di pensiero (il concreto astratto) non è mai l’effettivo concreto empirico, reale. Tuttavia, si suppone che, pur se in modo assai approssimato – e con eliminazione degli attriti, degli squilibri sempre in azione – il concreto pensato debba avvicinarsi alla corretta rappresentazione della realtà. In definitiva, quest’ultima è pensata come conoscibile, come ricostruibile, per sommi capi, nella sua reale dinamica. E’ proprio su questo punto che ho oggi molti dubbi. Mi convince di più l’ipotesi che la realtà sia inconoscibile, che sia probabilmente un flusso continuo, caotico e squilibrante, che tutto – persone e cose – travolge e trascina nel suo scorrere. Ed è qui che, come dici, penso ai campi di stabilità in quanto nostre creazioni teoriche per attribuire ordine alla “realtà” (tra virgolette questa volta) in modo da poter agire senza farsi travolgere dal processo reale (senza virgolette, ma solo supposto e mai accertabile per via di prove inconfutabili).”

    tutti quei riferimenti al concreto, astratto, empirico, reale, attriti, rappresentazione della realtà, conoscibile, dinamica, flusso continuo, caotico, campi di stabilità, creazioni teoriche, processo reale, prove, e così via, mi mettono a mio agio perché producono in me delle associazioni con teorie matematiche e fisiche. Insomma ci vedo come un tentativo di rendere scientifica in senso proprio l’analisi sociopolitica ed economica. In effetti in giro si leggono dei tentativi addirittura di formalizzare matematicamente certi fenomeni sociopolitici. Per fare un esempio Sergio Rinaldi et al. “Corruption Dynamics in Democratic Societies”. Quel che vorrei sapere dall’autore se l’uso del lessico scientifico da parte sua è un invito a sviluppare l’analisi socio-politica-economica in tal senso allo stesso modo in cui, a suo tempo, Faraday con le sue geniali intuizioni verbali dei “campi di forze” suggerì a Maxwell la teoria matematica dell’Elettromagnetismo.

    1. Mi piacerebbe certo molto avere la funzione di un Faraday, ma so di dovermi accontentare di ben meno. Non ho comunque nulla in contrario al fatto che certi discorsi possano stimolare anche la loro trasposizione in linguaggio matematico. Tuttavia, sarei preoccupato se si volesse sostituire completamente la trattazione discorsiva con formule, grafici, ecc. Mi riesce difficile spiegare qui il perché. In termini sintetici (e quindi poco chiari lo capisco) diciamo che, se prediligo la non conoscibilità della “realtà reale” (diversa da quella “costruita” per la ricercata stabilità ai fini dell’agire pratico), è necessario che resti un notevole e non precisamente determinato alone di incertezza e di “vagamente intuito”; cosicché vi sia sempre la possibilità dell’abbandono della vecchia teoria e della costruzione di una nuova (sempre ai fini della stabilità per l’azione). In ogni caso, la ricerca che sto compiendo da anni, uscendo da Marx, è tutt’altro che terminata; quindi ci tornerò sopra chissà quante volte, compatibilmente con le forze fisiche e mentali e con i loro restanti tempi di utilizzazione.

  2. Ognuno deve procedere con il linguaggio che gli è più familiare. Non sono un esperto però ho l’impressione che le sue tesi si prestino già alla possibilità di una formalizzazione matematica in quanto mi sembrano sufficientemente definite. Occorre possedere competenze in matematica ed informatica per poterle sviluppare in tal senso. Bisognerebbe coinvolgere qualche giovane allievo che traduca le sue tesi in forma matematica in una “tesi”. Ad esempio ho visto sul web che Sergio Rinaldi (che non conosco, mi ci sono imbattuto per caso in rete) fa fare delle “tesi” del genere ai suoi allievi. Ne ho trovata una intitolata “Un’interpretazione modellistica del romanzo Jules et Jim” molto interessante almeno per la metodologia. Non credo ci siano difficoltà ad inserire nei modelli “aloni d’incertezza”. La butto lì, a disposizione ci sono oltre la teoria dei giochi anche i metodi del caos deterministico, in tal caso il risultato sarà probabilistico ma non per questo meno utile. Insomma non sarei troppo scettico a priori. Secondo me questo approccio andrebbe verificato. Oltretutto penso che il suo lavoro in questo modo ne verrebbe valorizzato in quanto si inserirebbe in un filone di ricerca interdisciplinare molto innovativo.

  3. non insegno più all’Università. Dei tre allievi che lì potevo avere, uno si è suicidato e due sono andati da tempo per i fatti loro. Comunque nessuno aveva competenze matematiche pur possedendo una mentalità prevalentemente scientifica. Adesso ho alcuni, pochi, bravi giovani (e meno giovani) che mi coadiuvano, ma hanno competenze filosofiche, storiche, sociologiche; di matematica proprio no.

    1. @ gianfranco la grassa
      22 luglio 2016 alle 8:54
      Potete però stabilire contatti con coloro (nelle università o altri istituti di ricerca) che hanno le competenze matematiche e informatiche per un progetto comune.
      Passando ad altri temi mi sembra che lei, nel conflitto strategico, dia molta rilevanza agli Stati Uniti come il potere più forte al mondo. Forse in passato lo è stato ma ora? L’acuirsi di conflitti etnici mai composti in secoli di difficile convivenza, il competere per la presidenza del paese della moglie di un ex-presidente con un affarista mi danno l’impressione di un paese allo sbando.

  4. Caro La Grassa,

    leggo nella sua intervista quanto segue:

    “Dico solo che il ceto intellettuale odierno, per la sua massima parte, è ormai ad un livello di degrado che non consente alcuna possibilità di rinascita. Si tratta delle ulteriori degenerazioni di un movimento fortemente involutivo qual è stato il ’68. D’altronde, dopo essere stato, molto timidamente del resto, contrastato dalla parte più decrepita dei ceti dominanti europei, tale movimento ha goduto del massimo appoggio da parte di questi ultimi perché di fatto serve mirabilmente a quel disfacimento culturale che facilita il nostro asservimento agli Stati Uniti. Questo ceto intellettuale, e ancor prima i ceti dominanti europei servi, dovranno essere integralmente eliminati; e nel senso letterale del termine. Se non si riuscirà in quest’obiettivo principe, inutile rimuginare sulla ripresa di un pensiero critico che sappia fare i conti con i fallimenti dei cent’anni passati.”

    Ora, come tutti o quasi i lettori di questo blog, appartengo al ceto intellettuale che lei vorrebbe eliminare.
    Al di là del fatto personale (non ho tanta voglia di essere eliminato, almeno nei prossimi anni), non pensa che in questa sua affermazione si possa leggere il peggio dei comunismi e, soprattutto, fascismi novecenteschi (e duemilleschi: vedi da ultimo il signor Erdogan)?
    Lungi da me difendere il ‘ceto’. Ma insomma con affermazioni come la sua trovo molto difficile dialogare serenamente. Anzi: dialogare tout court. E sospetto che il gelo in cui è immerso questo post molto dipenda dalla sua uscita.

    I miei più cordiali saluti,

    Paolo Giovannetti

  5. l’unica cosa che so è che da tanti anni dialogo con una serie di intellettuali e anche non intellettuali, ma comunque sufficientemente interessati a date questioni. Magari una volta ne trovavo un po’ di più con cui discutere; poiché oggi la tendenza (per me) aberrante chiamata “politicamente corretto”, condita pure con il sedicente buonismo, è diffusa in correnti culturali svariate, in particolare in quella definita di “sinistra”, su cui ho parlato infinite volte. Non ho gran voglia di ripetermi qui. Se poi c’è gelo qui per questo post, vorrebbe dire che qui albergano quei gruppi verso cui esiste anche da parte mia il gelo più completo. E continuate pure a cianciare di fascismo. Non mi turba per nulla. Tanto so bene quanti antifascisti opportunisti e finanziati dai predominanti americani ci sono oggi. Basta prendere visione delle ricerche di Joshua Paul sui “grandi padri” dell’Europa. Quanto ai sessantottardi, li ho frequentati abbondantemente e li conosco (o conoscevo perché qualcuno se n’ andato) di persona. Non so cosa farci; non ho simpatia per certa intellettualità. Non credevo che questo sito fosse in mano a questi intellettuali; a dir la verità nemmeno mi sembra tuttora. Se ho sbagliato, pazienza. Malgrado le apparenze, non mi scompongo più che tanto.

  6. Non so se sia superabile il “gelo” suscitato da questo post (che forse dipende anche dalla complessità dei temi generali di fondo toccati nell’intervista) e se riusciremo a tener fuori dall’auspicabile confronto il “politicamente corretto” o il “buonismo”. Ma proviamoci. Certo non è obbligatorio. E anche le testimonianze di semplice dissenso hanno qui diritto di manifestarsi.

    Per quel che mi riguarda è almeno dal 2010 che seguo il lavoro teorico di La Grassa, pur dissentendo con lui sulla interpretazione della figura di Marx ((Cfr. http://www.backupoli.altervista.org/IMG/ABATE_gen._2010_Ripensare_Marx_per_abbandonarlo.pdf ), su molti giudizi spiccioli e taglienti (ad esempio sul ’68 e sugli intellettuali su cui Paolo Giovannetti si è comprensibilmente impuntato), sulle scelte politiche di autonomia nazionale (sia pur di fase), a cui è arrivato il suo pensiero . Non credo però di insistere nella lettura dei suoi scritti per masochismo intellettuale. È che , nella generale confusione di idee degli ultimi decenni, ritengo alta la sua intelligenza delle questioni di strategia politica da molti trascurate ed utile sondare a fondo le tesi di uno studioso come lui, proveniente dalla “corrente fredda”della storia marxista. Insisterà perfino ossessivamente sui “buchi” della “corrente calda” del marxismo, alla quale nel mio breve periodo di militanza politica mi sono sentito più vicino . Ma i risvolti tragici della storia del Novecento impediscono di sorvolare.
    Vediamo, dunque, se, senza bloccarci su aspetti non irrilevanti ma secondari e indipendentemente dalla conoscenza più o meno approfondita dei testi di Marx e dei marxisti, riusciamo ad entrare nel merito della questione centrale che ho posto nell’introduzione: «la storia fallimentare della costruzione del socialismo nel Novecento ha liquidato anche la teoria di Marx? O, se il suo lascito non è andato del tutto in rovina, vale la pena d’interrogarsi ancora su “tutto Marx” (filosofo-scienziato-organizzatore politico) oppure, come fa La Grassa, salvare solo il “Marx scienziato”, liberandoci del suo “errore”, e cioè della sua « previsione del movimento [della società capitalista] verso il socialismo e comunismo»?».

  7. …non avverto nessun “gelo per questo post”. Si può non essere d’accordo, ma comunque confrontarsi sulle idee. Certo non sono una intellettuale, ma ho interesse per le tesi esposte, con domande e dubbi al seguito…
    . Se ho capito bene, abbandonato il determinismo di Marx riguardo all’evoluzione del capitalismo in società socialista, per GLG i conflitti e le strategie avrebbero lo scopo di permettere all’uomo di trovare dei campi di stabilità in una realtà perennemente in movimento, che sfugge sempre alla piena conoscenza, di cui il nostro pensiero astratto può solo azzardare delle ipotesi per il futuro.. la realtà concreta si realizzerebbe di volta in volta, presentando anche sorprese, a cui bisogna essere pronti.
    .Alcune domande a Gianfranco La Grassa:
    -questo bisogno di stabilità dell’essere umano, prevede in campo solo rapporti di forza o anche ragioni etiche?
    -le armi dell’ultimo secolo hanno un potere “persuasivo” senza limiti: si prevedono strategie alternative? O dobbiamo aspettare la fine del mondo per ricominciare la storia?
    -Nelle strategie l’ambiente che posto potrebbe occupare?
    -Qualche esempio di “sorpresa”, se possibile. Quelle già sperimentate in passato

  8. APPUNTO N. 1

    MARX COMUNQUE E “UN SUPPLEMENTO D’ISTRUTTORIA”.

    Ovunque il guardo io giro, trovo gente (intellettuali, eh!) che dichiarano finito Marx (e il marxismo). Seguo una discussione su «Le parole e le cose» e leggo, ad esempio:
    «il marxismo è praticamente finito, ne sono rimaste macerie ancora importanti, ma è tutto un fiorire di distinguo, di capovolgimenti pietosamente mascherati da revisionismi, ma ogni revisione si dovrebbe porre dei limiti, al di là dei quali sembra un’operazione di onestà dichiararsi fuori da quella tradizione. (Cucinotta http://www.leparoleelecose.it/?p=21997#comment-319696)».
    Leggo con attenzione gli scritti di G. La Grassa e trovo:
    « Non si può però rispondere semplicemente rispolverando “il suicida”, il vecchio marxismo che ormai, del resto, appare perfino ridicolo nei dibattiti promossi da piccoli gruppetti di “aficionados”, che oltretutto non so cosa abbiano di marxista data la povertà e sterilità delle loro accese discussioni e dei loro assilli problematici. Deve semmai essere ripreso lo “spirito” di Marx; non ci si può certo limitare al micragnoso liberalesimo, cioè all’individualità fondante la struttura delle relazioni sociali (tra presunti “eguali”), né ripiegare semplicemente sulla comunità o sulla Nazione, ecc. Credo che il discorso delle classi sia sempre rilevante; ma comprendendo che la dinamica capitalistica non semplifica la classificazione, anzi la complica sempre più. E non parlerei quindi più troppo spesso di “classi”; bensì, più genericamente al momento, di gruppi e raggruppamenti sociali».
    (http://www.conflittiestrategie.it/vogliamo-ripartire-cioe-ricominciare-a-pensare-di-glg)

    Ora io non sono nato con la foto di Marx sul comodino. Anzi me lo sono messo a studiare molto tardi. E come potevo. Nessun professore me l’aveva mai indicato come un autore importante da conoscere. (Quello di filosofia al liceo, un crociano, ce lo fece senza esitazione saltare). Ho cominciato a sentir parlare di lui solo nella seconda metà degli anni ‘60 e in una situazione per me – immigrato del Sud a MI – esistenzialmente sovraccarica; e poi soprattutto negli anni della mia militanza in Avanguardia Opraia (dal 1968 al 1976). Quindi ammetto letture parziali, disordinate ed eclettiche, niente affatto seminariali o accademiche, fatte di notte sul posto di lavoro come notturni sta alla SIP di Piazza Affari o negli intervalli tra una riunione e un’altra con operai di piccole fabbriche di Cologno o da genitore che assieme ad altri genitori si organizzava per migliorare le condizioni scolastiche dei figli. È, dunque, possibile che abbia avuto in quegli anni di “caos” e di lotte, come ho sempre dichiarato, soltanto una “infarinatura” di marxismo. E con questo? Avrà pur avuto un significato che alcune delle idee di Marx siano arrivate anche nei miei pensieri e mi abbiano fatto vedere in modo diverso certe cose (la società, la mia collocazione in essa, la politica, la letteratura) . Avrà pur avuto un senso, che in quegli anni invece di continuare a leggere solo romanzi, abbia “inseguito” – ripeto come potevo – su articoli di giornali e su libri tutto il dibattito che, partito dal discorso sulla “riscoperta di Marx” (ho ancora il libro «Raniero Panzieri. La ripresa del marxismo leninismo in Italia”, Sapere ed. 1972), è proseguito poi come discorso sulla «crisi del marxismo» negli anni ‘80 e si è andato sempre più sfilacciando: nelle tappe del «ripensare Marx» o del «Marx oltre Marx» fino al silenzio o alla cancellazione del discorso stesso su Marx da parte di molti che mi avevano spinto a studiarlo o alla sua sostituzione – specie tra gli accademici che mi parevano teste “forti” da seguire – con la «rinascita di Nietzsche» e dell’ heiddegerismo. O magari con le “coniugazioni” del “fantasma di Marx” con le analisi di Foucault, Deleuze, ecc. Ho sempre – ripeto – “inseguito”, anche negli ultimi decenni, gli scritti di Preve, La Grassa, Negri, Tronti, Bologna, Virno, Bellofiore, Finelli. Cioè di tutti quelli che a me sono parsi autori che sicuramente conoscevano l’opera di Marx meglio di me. Eclettismo? Può darsi. E tuttavia, malgrado gli effetti paralizzanti o d’incertezza, quel *qualcosa* che mi era parso di afferrare della “realtà” attraverso la lente delle mie letture marxiste e lottando con altri in condizioni non dissimili dalle mie condizioni di vita non si è mai perso del tutto, anche mentre il nome di Marx o la sua immagine si offuscava nel dibattito pubblico e la mia ricerca diventata più solitaria . Mi è rimasta la convinzione che difendendo «comunque Marx» difendiamo *qualcosa* di fondamentale della mianostra esperienza.
    Proprio come diceva con grande intensità e semplicità Fortini certo nel lontanissimo 1983 scrivendo la voce ‘MARXISMO’:

    Quelli che hanno la mia età Marx l’hanno letto alla luce delle nostre guerre. Hanno sempre sentito chiamare marxista chi le potenze delle armi, del profitto o del potere avevano voluto ridurre al silenzio. «E tu come li chiami i popoli oppressi o uccisi in nome di Marx?», mi si chiederà ora; forse supponendo che non abbia trovato il tempo, finora, di chiedermelo. Rispondo che sono dalla mia parte. Li conto insieme a quelli che dal Diciassette, quando sono nato, sono nemici dei miei nemici, a Madrid come a Shanghai, a Leningrado come a Roma, a Hanoi, a Santiago, a Beirut … I cacciatori di «bestie marxiste» (cosi si esprimono) devono sempre aver avuto difficoltà ad apprezzare le differenze teoriche fra marxiano, marxista, socialista, comunista, bolscevico e cosi via.
    Mi spiegherò meglio, per loro beneficio. C’è una foto russa, del tempo della guerra civile: un plotone di morti di fame, in panni ridicoli, cappellucci alla Charlot in testa, scarpe slabbrate; e a spall’arrn i fucili dello zar. Questo è marxismo. C’è un’altra foto, Varsavia 1956, un giovane magro, impermeabile addosso, sta dicendo nel microfono, a una sterminata folla operaia che il giorno dopo l’Armata rossa, come a Budapest, può volerli morti o deportati. Anche questo è marxismo. Con chi queste cose dice di non capirle, di marxismo è meglio non parlare neanche.
    Un certo numero di italiani miei coetanei sparve anzitempo dalla faccia della terra, combattendo borghesi e fascisti. Grazie a loro se le forze dell’ordine volessero perquisirmi, potrei mostrare che sui miei scaffali invecchiano le opere di Marx, di Lenin e di Mao, senza temere, ancora, di venire trascinato alla tortura e alla fossa com’è accaduto e ogni giorno accade a poche ore di aereo da casa nostra. Dieci o quindici anni fa poco è mancato che la civica arena o il catino di San Siro non accogliessero, come lo stadio di Santiago del Cile, le «bestie marxiste». So chi mi avrebbe aiutato, in quel caso: non sarebbero stati davvero quelli che mi conoscono perché hanno letto i miei libri. E ora approfitto di queste righe per salutare Alaide
    Foppa, mia collega di letteratura italiana a Città di Messico. La conobbi anni fa. In questi giorni ho saputo chi l’ha ammazzata, in Guatemala. Anche questo è marxismo.
    Cominciai nel 1940 col «Manifesto», per consiglio di Giacomo
    Noventa e Giampiero Carocci; senza alcun entusiasmo. Capii poi qualcosa da Tročkij e Sorel. Durante la guerra vissi in fanteria un buon corso di marxismo pratico. A Zurigo, nell’inverno 1943-44, non so quanti libri lessi, riassunsi e annotai, che parlavano di socialismo e di materialismo storico. Si faceva fuoco di ogni frasca, allora. Un opuscolo in francese, ricordo, mi fu molto utile; l’aveva scritto un tale che firmava con lo pseudonimo, seppi poi, di Saragat. L’apprendistato comprendeva testi anche troppo disparati: Malraux e Rosselli, Victor Serge e Silone, Mondolfo e Eluard …
    A guerra finita vennero letture meno selvagge: le opere storiche («Le lotte di classe in Francia»,« Il diciotto brumaio», «La guerra civile in Francia»), parte della «Sacra famiglia, i primi capitoli, splendidi di genio e forza sintetica, della «Ideologia tedesca, i due volumi del primo libro del «Capitale»: e a partire dal 1949 quei «Manoscritti economico-filosofici» del 1844 oggi tanto derisi e che mai hanno cessato di stupirmi per la loro capacità di guidarci da Hegel fino
    ai giorni che ancora ci aspettano; e di dirci parole di incredibile attualità. E altro ancora.
    Dopo vent’anni di diatribe storico-filologiche sul primo e il secondo Marx; dopo Lukàcs e Sartre, Bloch e Sohn-Rethel, Adorno e Althusser, Mao e gli amici torinesi di «Quaderni rossi», a quelle pagine non ho più sentito il bisogno di tornare se non nei termini di cui parla Brecht in una poesia intitolata, appunto, «Il pensiero nelle opere dei classici»:

    Non si cura
    che tu già lo conosca; gli basta
    che tu l’abbia dimenticato …
    senza l’insegnamento
    di chi ieri ancora non sapeva
    perderebbe presto la sua forza rapido decadendo.

    Non stiamo commemorando la nostra giovinezza. Anche se
    fondamentale, quel pensiero non è se non un passaggio dell’ininterrotto processo che porta da luce a oscurità poi ad altra
    luce, e dal credere di sapere al sapere di credere. Se ne compone (come quella di chiunque) la nostra esistenza. O per la gioia dei più sciocchi dovremmo ripetere qual che ci sembra di aver detto sempre e cioè di non aver creduto mai che il pensiero di Marx potesse fungere da chiave interpretativa del mondo più o meglio di quanto lo faccia, ad esempio, la poesia dell’ Alighieri? Una educazione alla storia ci faceva almeno intravvedere quel che era stato detto e fatto ben prima e sarebbe stato detto e patito molto dopo di noi.
    Quando, per l’Italia, almeno dal 1900, data del libro di Croce, ci viene gni qualche anno ripetuto che quella di Marx è filosofia superata, non ho difficoltà ad ammetterlo; sebbene subito dopo domandi che cosa significa superare la filosofia di PIatone o di Kant. Quando ci viene spiegato che la teoria marxiana del valore o quella sulla caduta tendenziale del saggio di profitto sono manifestamente errate, non ho difficoltà ad ammetterlo; anche perché mai l’ho impiegata per capire come vadano le cose di questo mondo. Quando mi si dimostra che l’idea, certo marxiana, di un passaggio dalla preistoria umana alla storia mediante la fine della proprietà privata, dello Stato e del lavoro alienato, si fonda su di una antropologia fallace e senz’altro smentita dai «socialismi reali», apertamente lo riconosco; anche perché ho sempre attribuita la figura d’un pro-
    gresso illimitato all’errore che afferma la indefinita perfettibilità dell’uomo, un errore illuministico-borghese che Marx ebbe a ereditare.
    Ma quando mi si dice che la teoria delle ideologie è falsa, che
    la lotta delle classi è una favola e che il socialismo è una utopia
    senza neanche l’utilità pragmatica delle utopie, chiedo allora
    un supplemento di istruttoria. Primo, perché il pensiero epistemologico contemporaneo, dalla critica psicanalitica del
    soggetto fino alla semiologia, conferma la fine d’ogni immediata coerenza fra parola, coscienza e realtà, come fra mondo e concezioni del mondo; secondo, perché a tutt’ oggi è difficile negare – e lo si sapeva ben prima di Marx -l’esistenza di ininterrotti conflitti di interessi tra gruppi umani per il possesso dei mezzi di produzione e la ripartizione del prodotto sociale; conflitti determinati dai modi del produrre e determinanti l’assetto, o lo sconvolgimento, dell’intera società. Per quanto è del terzo ed ultimo punto, convengo volentieri che esso rinvia ad una persuasione indimostrabile.
    La volontà di eguaglianza e giustizia pertiene alla politica solo grazie alla mediazione dell’ etica e della religione. Marx non ne ha data nessuna ragione migliore. Indipendentemente da ogni mito perfezionista, credo si debba continuare a volere (un volere che implica lotta) una sempre più sapiente gestione delle conoscenze e delle esistenze. Il «sogno di una cosa» è la realizzata capacità dei singoli e delle collettività di operare sul rapporto fra necessità e libertà, fra destino e scelta, fra tempo e attimo.
    Il movimento socialista e comunista si è fondato per cent’anni su quel che si chiamava l’insegnamento di Marx. Ne era parte maggiore l’idea che il passaggio al comunismo dovesse essere conseguenza dello sviluppo delle forze produttive, della industrializzazione e della crescita della classe operaia; e compiersi con una pianificazione centralizzata. In questi nodi di verità e di errore si è legato il «socialismo reale». Oggi gli esiti del passato ci impediscono di guardare al futuro. Sono esiti tragici non solo per cadute politiche, economiche o culturali né solo per costi umani; ma perché, anche al di fuori dei paesi comunisti, il «marxismo reale» ha accettato il quadro mentale del suo antagonista: primato della tecnologia, etica della efficienza, sfruttamento dei più deboli. Sembrano falliti tutti i
    tentativi per uscire da questa logica: massimo quello cinese.
    Eppure, Bloch dice, non è stata data nessuna prova che quella
    uscita sia impossibile. L’eredità marxiana è divisa: una metà è la nostra, l’altra é dei nemici del socialismo e comunismo, sotto ogni bandiera, anche rossa.
    Quanto alla mente geniale morta cent’ anni fa, è anche grazie ad essa che è stato ridimensionato il ruolo delle grandi personalità e dei loro sepolcri. Però ho visitato con commozione a Parigi il Muro dei Federati, a Nanchino la Terrazza della Pioggia di Fiori o dei Centomila Fucilati; mi fosse possibile, andrei a onorare i morti dei Gulag: sono tutti di una medesima parte, tuttavia parte; non ipocrita bacio tra vittime e carnefici. Marx ci ha infatti insegnato a capire una volta per sempre quale opera implacabile gli ignoti, gli infiniti vinti vincitori, compiano entro le società che preferirebbero ignorarli ed entro di noi; quali cunicoli scavino, quali fornelli di mina preparino anche in coloro che li odiano per aver voluto qualcosa che interi popoli oppressi continuano, morti e vivi, a volere.
    Tutta la storia umana, ci dice, deve essere ancora adempiuta
    interpretata, «salvata». E o lo sarà o non ci sarà più – sappiamo che è possibile – nessuna storia. O ti interpreti, ti oltrepassi, ti «salvi» o non sarai esistito mai.
    L’amico di Federico Engels non è stato davvero il primo a dircelo. L’ultimo sì, E meglio ancora ogni giorno lo dice, oscuro a se stesso, «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» («Ideologia tedesca», 1845-46, I, a). Anche questo è marxismo.

    1983
    (da F. Fortini, Non solo oggi, pagg. 145 – 149, Editori Riuniti, Roma 1991)

  9. In genere mi azzardo a parlare di questioni su cui sento di poter esprimere le idee con sufficiente precisione e “conoscenza di causa”. Altrimenti tendo a tacere. Le questioni etiche, ad es., sono senz’altro rilevanti, ma non mi avventuro troppo in esse (anzi quasi per niente). Di Marx tendo a prendere soprattutto l’atteggiamento scientifico perché quello filosofico, intanto, non appartiene al mio migliore (o meno peggiore) bagaglio di conoscenze; e poi perché a volte l’unica filosofia che gli viene attribuita è quella di un generico atteggiamento di benevola attenzione alle sorti dell’Uomo e ai suoi sentimenti di giustizia, di equità, di benevolenza, ecc. E questo è, a mio avviso, il vero tradimento di un pensatore che ha perso decenni della sua vita a studiare (criticamente) l’economia politica, in quanto unica scienza sociale effettivamente sviluppata ai suoi tempi e da lui considerata, rifacendosi alla scuola classica, cardine principale per trovare un fondamento oggettivo al discorso intorno allo “sfruttamento” di dati gruppi sociali da parte di altri. In effetti, uno degli insegnamenti marxiani che tengo pur sempre presente è appunto la teoria del valore-lavoro degli oggetti prodotti (quelli genericamente indicati con il termine di “beni” da coloro che guardano invece al valore di questi in base alla loro utilità; un termine che comunque si può a mio avviso utilizzare anche in un contesto teorico differente; basta intendersi). Proprio in merito alla teoria del valore, lascerei però perdere la mania, che ebbero i marxisti per un secolo e oltre, di voler precisare esattamente come quantità lo “sfruttamento”, arrivando ad interminabili discussioni capziose e sterili.
    Secondo me, il lascito migliore di Marx riguarda la “determinazione sociale” degli individui e il loro raggruppamento in quelle che furono dette classi; in ogni caso determinati comparti sociali, che rappresentano il nodo o punto di condensazione di una rete di rapporti, fra i quali egli scelse come principali quelli economici (“di produzione”) e che comunque coinvolgono quelli politici, ideologico-culturali, ecc. L’analisi dei processi sociali, e di quelli politici in specie, non va affidata alla solita tiritera delle dichiarazioni di questo o quell’individuo, per quanto importante sia il suo ruolo nella struttura interrelazionale della società. E’ necessario rifarsi appunto ai caratteri di determinati rapporti in quella data contingenza storica attraversata dalla specifica formazione sociale di cui ci si sta interessando e compiendo l’analisi. Il fatto è che Marx compì quest’analisi nell’ambito della società del suo tempo, quella in cui era appena terminata la prima rivoluzione industriale; e soprattutto in Inghilterra, non ancora del tutto nel continente (e nemmeno negli Usa). Scusatemi questa lunga citazione dalla prefazione alla sua vera fondamentale opera: il primo libro de “Il Capitale”:
    “Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgersi del processo allo stato puro. In quest’opera [lo ribadisco: la sua vera grande opera, in cui condensa un quarto di secolo di studi; ndr] debbo indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Fino a questo momento [sottolineo: fino a questo momento! Marx non fa il profeta per il futuro come certi marxisti, suoi inetti seguaci; ndr], loro sede classica è l’Inghilterra. Per questa ragione è l’Inghilterra principalmente che serve a illustrare lo svolgimento della mia teoria [è o no uno scienziato come sua scelta principale?; ndr]”.
    Nell’analisi del processo – che nei centocinquant’anni successivi (questo libro esce nel 1867) conosce ben altre rivoluzioni industriali e processi sociali estremamente complessi e radicali nelle loro svolte – egli non si dedica ad utopie. Nota una certa dinamica che comporta una serie di previsioni per quanto riguarda gli esiti del processo in questione. Non vede però, ad es., l’impresa, ma solo la fabbrica; l’organizzazione delle due è assai differente e gli sviluppi dell’una o dell’altra non sono proprio la stessa cosa. Inoltre, attribuisce importanza decisiva ai rapporti sociali (appunto le “determinazioni sociali” in primo piano), ma vede soprattutto preminenti per i loro influssi quelli di produzione; e da qui nasce tutta l’idea della tendenza alla formazione della società dominata infine dal corpo sociale dei “produttori associati” o “lavoratore collettivo cooperativo” (dal primo dirigente all’ultimo giornaliero, come sta scritto nel terzo libro de “Il Capitale”). Le cose non sono andate come la dinamica sociale capitalistica dei suoi tempi poteva far pensare. L’ho scritto e riscritto nei miei ultimi vent’anni di studio. E altro ancora spero potrà seguire, vita permettendo.

  10. Non sono certo un “teorico” del marxismo, se mai un praticante scalzo e libertario, quindi mi limiterò ad alcuni punti, probabilmente anch’essi “marginali” rispetto ai tanti toccati in questa intervista e che riguardano solo la pars destruens del pensiero di La Grassa.
    Mentre alcuni elementi di critica del pensiero marxiano da lui espressi sono più che condivisibili e da tempo patrimonio anche di una larga parte del marxismo eterodosso oltre che di diversi movimenti sociali e politici, il postulato da cui lui parte mi sembra alquanto discutibile. Mi riferisco all’idea che esistano un Marx scienziato e un Marx politico, “utopico”. Io invece sono convinto dell’indivisibilità di questi due aspetti nel pensiero marxiano e del fatto che se ci sono stati, come è indubitabile, degli errori di previsione o di impostazione, essi fanno riferimento proprio alla sua elaborazione “scientifica”, stando agli esempi – condivisibili – che fa lo stesso La Grassa. Determinismo ed economicismo sono due difetti dell’analisi scientifica di Marx anche se hanno avuto (ecco l’indivisibilità) importanti e negative conseguenze anche sulle sue teorie politiche.
    L’inseparabilità dello scienziato dal politico è in se stessa un elemento di ricchezza, a mio avviso, e, forse proprio una delle ragioni per cui Marx non è un cane morto, cosa di cui da tempo vorrebbero convincerci i vincitori, e quelli che salgono sul loro carro, che non vogliono più fantasmi in giro per il mondo, non solo per l’Europa. Ragionare diversamente vuol dire negare le origini filosofiche del marxismo, il legame tra hegelismo e marxismo, ecc. Bisognerebbe anche distinguere tra “errori” e “sconfitte”, a meno di ritenere che se un’idea viene sconfitta sia “scientificamente” sbagliata. Il rischio di posizioni come quelle di La Grassa e del disinvolto “spostamento di campo” che esse propongono, è proprio quello di ipostatizzare la sconfitta, dimostrandone l’inevitabilità. Il pensiero di Marx, nonostante la sua pretesa di assimilare il processo economico a una sorta di storia naturale, o forse proprio per questa, si sarebbe scontrato con leggi scientifiche o naturali che andavano in senso contrario. Ma, d’altra parte, una delle eredità del marxismo di cui non mi libererei così a buon mercato è proprio quella di aver mostrato la natura storica di certe leggi “naturali”.
    Sarei molto attento anche a sostenere che i comunisti (in modo generico e generalizzato: quali comunisti? in quali occasioni?) sono stati “portatori di morte”. Non solo perché così si rischia di scrivere un altro capitolo del “libro nero del comunismo” – immagino che questo sia un “cianciare di fascismo”, secondo La Grassa – ma perché, ancora una volta, si scambia un limite, un errore di previsione, con una volontà di annientamento. Come se la componente nichilistica del marxismo, ammesso che esista, e con questa rilevanza, fosse un atto doloso. Anche qui trovo una certa coincidenza tra quanto dice La Grassa e quanto affermano i sostenitori della natura violenta e sanguinaria del pensiero utopico, a cui sarebbero imputabili tutte le tragedie del novecento. Mi pare che la conseguenza comune delle due posizioni (anche se in un caso voluta e nell’altro forse no) sia di negare la necessità della rottura rivoluzionaria e della soggettività che richiede.
    E poi siamo sicuri che il ruolo delle classi e della lotta di classe sia stato sopravvalutato? E che non sia invece vero che la lotta di classe non sappiamo più leggerla e interpretarla, quando la fanno i detentori dei mezzi di produzione, specie di quelli ideologici? L’idea (sbagliata sia scientificamente che politicamente) che bastasse procedere alla collettivizzazione dei mezzi di produzione non comporta la conseguenza che la lotta di classe, o addirittura la storia, come dice Fukuyama, siano finite. Il fatto che il capitalismo abbia superato quasi indenne tutte le sue crisi, o che si sia dimostrato più “innovativo” e “sorprendente” del movimento operaio, non significa affatto che sia invincibile o semplicemente più “vitale” dei suoi oppositori. Direi che sta portando semplicemente (anche se non ineluttabilmente…) alla morte del pianeta.

  11. non apprezzo il pensiero utopico, sto da un’altra parte. E ho già scritto molte volte (oltre che qui sopra) che per me Marx non ha immaginato utopie. Ma se a uno piacciono “quelle cose”, per me va bene, però non le prendo in considerazione, me ne dispiace.

  12. Questo è il primo paragrafo del seminario tenuto a Conegliano nel settembre dell’anno scorso. E’ stato sbobinato e da me scritto. E’ molto lungo. Nei paragrafi successivi sviluppo la critica a Marx. Penso questo scritto che sarà pubblicato non appena possibile.

    IL SEMINARIO: RIFACIMENTO
    LEZIONE SUL PENSIERO SCIENTIFICO DI KARL MARX

    1. La prima osservazione che mi sento di fare è che Marx, al contrario di come viene solitamente (e stoltamente) considerato, non è un filosofo. Secondo me è a tutti gli effetti uno scienziato; comunque non un filosofo. Di filosofia ha trattato assai poco durante la sua vita e non in modo da poter figurare come un buon filosofo. Di fatto, chiude con questo ramo del sapere nel 1845 scrivendo una vasta serie di appunti – che lui stesso disse di voler affidare alla “critica roditrice dei topi” – pubblicati poi nel 1932 con il titolo di Ideologia tedesca. Nel 1847, scrive Lavoro salariato e capitale; e già dal titolo si capisce che si è indirizzato allo svolgimento di considerazioni economiche. Nel 1847 pubblica pure (in francese) Miseria della filosofia, un testo di critica e confutazione delle tesi di Proudhon che aveva scritto la “Filosofia della miseria”, il cui titolo effettivo è però Sistema delle contraddizioni economiche; e anche questo fa capire che si parla più di economia che di filosofia. In effetti, in questo suo scritto critico Marx inizia ad elaborare la sua teoria del valore, mutuata dagli economisti classici, però con una decisiva variazione che poi vedremo.
    In definitiva, si può tranquillamente affermare che, a partire dalla metà degli anni ’40 e fino alla fine della sua vita, Marx si è sempre dedicato allo studio dell’economia politica; e in particolare dei classici, di Adam Smith e David Ricardo. E più o meno tutti i testi, pubblicati e no, che egli scrive portano la dicitura di “critica dell’economia politica”. Si pensi ai ben noti Grundrisse (“Lineamenti di critica dell’economia politica) e Per la critica dell’economia politica. La sua opera principale (di cui è da lui pubblicato solo il primo volume) si intitola Il Capitale con sottotitolo “critica dell’economia politica”. E del resto altri testi rilevanti, lasciati a livello di appunti pubblicati postumi, sono stati indicati come Teorie sul plusvalore, Quaderni sul macchinismo, ecc. Infine, l’ultimo (o quasi) testo scritto è Glosse al manuale di economia politica di Adolf Wagner. Come ben si vede, la filosofia non era il suo interesse.
    Chi ha ridotto Marx a filosofo o non conosceva (e non conosce) un bel nulla di lui (salvo i primissimi scritti tipo i Manoscritti economico-filosofici del ’44) o era (è) un imbroglione del tipo di quelli sessantottardi, arroganti, presuntuosi, che si sono dedicati alla distruzione della scienza marxiana. Una scienza che ovviamente, come ogni altra, subisce processi di invecchiamento, di confutazione, di errori delle sue previsioni e, di conseguenza, di falsificazione delle sue ipotesi; ma che, proprio in questo modo, consente l’avanzamento di una conoscenza pratica del mondo nei suoi comparti utili alla vita umana.
    Tuttavia, un’altra errata interpretazione di Marx si annida proprio nella dizione di “critica dell’economia politica”. Alcuni rozzi economisti, pur tanto decantati da interpreti da strapazzo, hanno pensato che si trattasse di “critica della teoria economica”. Un’aberrazione dietro l’altra; Marx non è filosofo e non è economista! L’unica possibile, comunque la meno inesatta, definizione dell’opera di Marx l’ha formulata Althusser affermando che egli ha aperto il Continente storia alla scienza. In effetti, a Marx l’economia politica – scienza sociale già abbastanza sviluppata ai suoi tempi – serve per fissare alcune fasi di sviluppo ed evoluzione della “formazione economica della società”. E la critica che porta all’economia politica (classica) è proprio quella di aver eternizzato i rapporti sociali capitalistici, con ciò stesso impedendosi di pensare la futura storia di questa forma di società. “C’è stata storia ma ora non ce n’è più”; così Marx scrive criticando gli economisti classici. Non una critica radicale alla loro teoria economica, da cui invece mutua l’elemento decisivo – la tesi del valore di un prodotto in base al tempo di lavoro in esso incorporato – bensì confutazione della loro credenza che il capitalismo fosse la forma finalmente scoperta di ogni produzione secondo ragione e natura.
    Il capitalismo sarebbe ormai durato per sempre; questa la convinzione mai messa in discussione dai classici, nemmeno per un minimo dubbio in proposito. Per Marx invece si trattava solo di una fase dell’evoluzione della società umana, di una “storicamente determinata” formazione sociale; essa, per movimenti intrinseci, sarebbe mutata in altra. Ed è qui che s’inserisce la critica di Marx, che vede maturare appunto un’altra forma dei rapporti sociali proprio a partire da quella capitalistica. Perché, come egli disse più volte, “il capitale non è cosa, ma rapporto sociale”. Ed è questo rapporto che evolve, si trasforma, muta in qualcosa di assai differente (questo secondo la sua ipotesi, che è scientifica al 100%).

  13. Provo a dirlo nel modo più sintetico e – spero – chiaro possibile.

    1. Fra le grandi virtù del pensiero marxista, le persone che hanno avuto la mia formazione hanno riconosciuto (via Gramsci, ma non solo) il tema della proletarizzazione degli intellettuali.
    Cosa significa? La massificazione della funzione intellettuale rendeva e rende i lavoratori dell’intelletto (da intendersi in accezione allargata: dall’impiegato ‘di concetto’ al poeta laureato, passando attraverso la forza-lavoro insegnante ecc.) molto simili ai proletari. Donde idee e pratiche egualitarie, strategie di liberazione ecc. Appunto. Il lavoro fatto da Ennio sulle moltitudini “poetanti” e simili si inserisce perfettamente in questo discorso.

    2. Le attuali logiche della Rete (Internet), con l’evidente sfruttamento biopolitico che inducono, ci fanno capire fino a che punto il capitalismo entra nelle nostre vite, e le usa.
    A me sembra che una prospettiva marxiana aiuti a cogliere meglio il nostro quotidiano essere altro, alienati (esattamente adesso, mentre scrivo in illusione libertà, e il mio nome, le mie parole, i loro contenuti sono in corso di indicizzazione per alimentare big data da immettere sul ‘libero’ mercato). Non solo: credo che ciò incoraggi una spinta alla liberazione, che è utopica solo e precisamente nel senso che addita un possibile essere oltre, altrove, un superamento. Osservo solo che per dire quello che sto dicendo devo mettere in fila Hegel, Marx, Adorno e Foucault.

    3. Dunque: gli intellettuali non sono una questione secondaria, sovrastrutturale – per così dire. Per favore. La storia del marxismo è stata anche storia di certi dibattiti su cose artistiche, filosofiche ecc.

    In sintesi la vedo così. E scusate le banalità.

    1. Poiché, come dice Paolo, la storia del marxismo è stata anche storia di discussioni su cose artistiche e letterarie , credo si possa utilmente ricordare (senza lasciarlo in pasto ai nemici o alla nostra falsa coscienza) ciò che segue:
      Fin dalle sue origini il pensiero marxista ha dedicato molta attenzione alla “questione degli intellettuali”: gli stessi Marx e Engels erano degli intellettuali borghesi; si potrebbe dire, con Vittorini, che gli intellettuali sono coloro che hanno coscienza dell’ “offesa” che viene fatta al mondo… L’intellettuale, sostiene Lukács, può diventare rivoluzionario solo come individuo; deve prima abbandonare la propria classe. L’intellettuale ha una sua specifica forma di produzione, che è quella culturale, essenziale sia per coloro che vogliono conservare il dominio, sia per quelli che intendono invece rovesciarlo; a causa della sua posizione sociale “incerta”, questa figura viene sempre guardata con diffidenza, come un alleato potenzialmente infido. Nei partiti della terza internazionale e nella Russia di Stalin, vigeva come regola la supremazia i del momento politico su quello culturale; all’artista e allo scrittore veniva richiesto di piegarsi sempre di più alle esigenze del partito, trasformandosi in funzionari, propagandisti della linea ufficiale proposta dalla direzione politica. Si giunge così, in definitiva, a un asservimento dell’arte: che precede e anticipa quello – più pulsionale e inconscio – dell’industria culturale, del marketing e dei consumi. Zdanov nel discorso pronunciato al Primo Congresso degli scrittori sovietici del 1934, riprende la formula staliniana dello scrittore come “ingegnere di anime” e teorizza il cosiddetto “realismo socialista”.

      Colpisce nell’impostazione di Zdanov l’ asservimento della letteratura alla propaganda. L’opera balzachiana era un modello per Engels proprio per lo scarto tra ideologia dell’autore e forme estetiche, dato che Balzac era un legittimista Il realismo socialista teorizzato da Zdanov, al contrario, umilia lo scrittore a propagandista, anticipando la sua riduzione a intrattenitore spettacolare nella cultura dei consumi di massa.

      1. @ Zinato

        ” L’intellettuale ha una sua specifica forma di produzione, che è quella culturale, essenziale sia per coloro che vogliono conservare il dominio, sia per quelli che intendono invece rovesciarlo; a causa della sua posizione sociale “incerta”, questa figura viene sempre guardata con diffidenza, come un alleato potenzialmente infido.”

        Parlare di “meschinità” come fa Ravelli nella sua quarta domanda può parere ingeneroso. E pensare come fa La Grassa ad una drastica eliminazione dell’intero ceto intellettuale per la sua “degenerazione”, imputata del resto esclusivamente al “movimento fortemente involutivo qual è stato il ’68” è una semplificazione che urta, anche perché non spiega le cause materiali della “degenerazione” (meglio ‘trasformazione’, da collegare, credo, proprio allo sviluppo dell’industria culturale e dello spettacolo oltre che alla massificazione della scuola non sorretta – come ho scritto di recente rispondendo ad Alberto Rizzi – da un adeguamento delle ” strutture basilari (risorse economiche, edifici, organigrammi, programmi)”.
        E tuttavia oggi possiamo riproporre la figura degli intellettuali come portatori della “coscienza dell’ “offesa” che viene fatta al mondo”?
        Esito a condividere, anche perché il dibattito sulla “questione degli intellettuali” è andato avanti.
        Io ricordo quel libro di AA. VV., “Sentimenti dell’aldiquà” che collegava l’ “opportunismo” degli intellettuali alle trasformazioni introdotte dall’informatizzazione. E ancora molteplici analisi sui cosiddetti “lavoratori della conoscenza”.
        Avranno anche questi tentativi i loro difetti di semplificazione, ma qualcosa in più coglievano della “degenerazione”/’trasformazione’.

  14. Mi dispiace per La Grassa. Marx è uno “scienziato”, ma la “scienza” che pratica non è quella galileiana. Si può “falsificare” l’ipotesi che il Sole giri intorno alla Terra, ma non la proposizione con cui si apre il Manifesto: «La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi.» Cosa ha significato per Marx aprire alla scienza il continente della storia, se non quello di cogliere nelle astrazioni del pensiero la determinatezza storica delle contraddizioni sociali? Perché comincia il Capitale con l’analisi di una categoria come la “merce” e non, come facevano gli economisti, con la “popolazione”? Merce è categoria che contiene dentro di sé la contraddizione: è nello stesso tempo “valore d’uso” e “valore di scambio”…«A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici.» Avrebbe potuto Marx scrivere un paragrafo sul “carattere di feticcio della merce e il suo arcano” (contenuto non in qualche opera giovanile ma nel primo libro del Capitale), senza professarsi apertamente scolaro di quel grande pensatore che era Hegel? Le categorie di pensiero che Marx usa producono nello stesso tempo “scienza” (ossia conoscenza della storia e della società ) e “critica”, ossia svelamento, demistificazione, messa in discussione…Marx non si può ridurre a filosofo, sociologo, economista, ma non si può neanche ridurre a “scienziato”, dimenticando il “critico” e il rivoluzionario. È un caso se nell’elenco delle opere, compilato da La Grassa per il seminario, non compaiono titoli come il “Manifesto del Partito comunista”, “Critica al programma di Gotha”, “Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte”, “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850”, “Le guerre civili in Francia”, ecc…?
    Su una cosa sono d’accordo con La Grassa: Marx non ha fornito ricette per l’osteria dell’avvenire. Il che non significa che non abbia cercato di conquistare l’avvenire dalla parte del proletariato, scrivendo “manifesti”, criticando “programmi”, ecc. In una parola, intervenendo attivamente a favore di questo o quel gruppo contro altri. Proprio perché la storia è “storia di lotte di classi” e le classi non lottano tra di loro – questo Marx lo sapeva – preoccupandosi soltanto di avere in testa il “pensiero scientifico dei modi di produzione”, m’interessa capire da che parte sta La Grassa. Brutalmente: dalla parte del lavoro o del capitale?

  15. detto altrettanto brutalmente. Uno che si domanda ancora se si sta dalla parte del capitale o del lavoro appartiene ad un'”era geologica” per me indefinibile. Non è che non abbia appartenuto anch’io a quell’era, ma qualche annetto è passato, un fallimento storico di proporzioni gigantesche si è verificato. Non ne sono rimasto deluso e accoppato né ho pianto né sono stato preso da nostalgie ; ne ho preso atto e ho ripensato a tutto ciò che avevo passato ed elaborato in vita mia. Tutto lì, altro non ho da dire.

  16. in vent’anni ho scritto migliaia di pagine di ripensamento e rielaborazione (a partire da Marx perché quella è la mia teoria di riferimento e in cui mi sono formato). Ho però ripensato non più in modo “duale” con i soliti due antagonisti belli, puri, scarnificati, della tradizione “classica”. E ho preso atto che questa società è degradata, in disfacimento, per opera di coloro che giocarono ai “grandi rivoluzionari”, riducendo un pensatore come Marx (però di centocinquant’anni fa!) ad un povero ebete utopista e tanto, tanto buono, tutto pieno di amore per i giusti e gli eguali. Lui che sapeva bene come erano “gli umani”. Fra l’altro, andava giù pesantissimo con chi non la pensava come lui.
    E mi piace concludere, come quand’ero marxista più tradizionale, con alcuni bei passi di Max Weber: “Che la scienza sia oggi…..posta al servizio della coscienza di sé e della conoscenza di situazioni di fatto, e non una grazia di visionari e profeti, dispensatrice di mezzi di salvazione e di rivelazioni, o un elemento della meditazione di saggi e filosofi sul significato del mondo, — è certamente un dato di fatto inseparabile dalla nostra situazione storica, al quale, se vogliamo restare fedeli a noi stessi, non possiamo sfuggire […..] A chi non sia in grado di affrontare virilmente questo destino della nostra epoca bisogna consigliare di tornare in silenzio……schiettamente e semplicemente nelle braccia delle antiche Chiese, largamente e misericordiosamente aperte”. A queste Chiese appartiene pure quella, ormai ridotta all’osso, del comunismo, alla quale torneranno in sempre meno poiché nemmeno promette un’altra vita in un mondo posto “al di là” di ogni concretezza empirica così sconfortante.

  17. APPUNTO N. 2

    MARX DIVISIBILE (IN SCIENZIATO E FILOSOFO) O INDIVISIBILE?

    Difficile raccapezzarsi fino in fondo su tale dilemma ( e sperando che non sia una discussione come quella del sesso degli angeli…). È ingarbugliato, contiene un sacco di implicazioni e rimandi culturali (allo scontro sotterraneo tra umanisti e scienziati o tra le “due culture” di cui parlò Snow negli anni ’60; al Diamat d’epoca stalinista cui Ernst Bloch contrapponeva il suo «Principio speranza»; alla critica antiumanistica di Althusser; ecc.). La Grassa e Preve ci hanno discusso/litigato per decenni. E le possibilità di conciliare o avvicinare queste due modalità di pensiero sono minime. Tuttavia, malgrado le risposte francamente liquidatorie di La Grassa, a me pare lo stesso utile, visto che comunque ci legge e ci conosciamo, muovere una serie di obiezioni al suo modo di fare tabula rasa di una tradizione; e sia della *sua* che della *nostra* storia.
    Eccole:

    1. Perché una distinzione euristica tra scienza e filosofia – legittima se non estremizzata – o una preferenza di tipo personale («In genere mi azzardo a parlare di questioni su cui sento di poter esprimere le idee con sufficiente precisione e “conoscenza di causa”. Altrimenti tendo a tacere») devono comportare una separazione definitiva tra due campi del sapere, uno smembramento specialistico del corpus dell’opera marxiana? (A me pare che qui la formazione nel PCI stalinista di La Grassa venga in primo piano e cancelli pure la possibilità ancora tenuta presente nel Lenin di «Stato e rivoluzione» di tenere assieme scienza e utopia).

    2. Perché il riconoscimento della legittimità di altri punti di vista e modi di indagare la – tra l’altro da lui ora dichiarata “inconoscibile” – realtà («Le questioni etiche, ad es., sono senz’altro rilevanti») in lui rimane astratto e slitta troppo facilmente in svalutazione del campo un cui afferma di non “avventurarsi troppo”?
    In effetti dà giudizi drastici e a volte troppo sprezzanti sulle attività di quelli che si occupano di questioni etiche e filosofiche. Scrive: «l’unica filosofia che [a Marx] viene attribuita è quella di un generico atteggiamento di benevola attenzione alle sorti dell’Uomo e ai suoi sentimenti di giustizia, di equità, di benevolenza»? Ma è così? Basta leggere qualche pagina di Adorno per capire la distanza tra una certa riflessione filosofico-antropologica di matrice marxista e la chiacchiera dei gazzettieri. E perché vede nell’attività di chi si occupa del Marx filosofo il « tradimento di un pensatore che ha perso decenni della sua vita a studiare (criticamente) l’economia politica»?

    3. Davvero il Marx filosofo è irrilevante o secondario? La Grassa scrive: «Di filosofia ha trattato assai poco durante la sua vita e non in modo da poter figurare come un buon filosofo. Di fatto, chiude con questo ramo del sapere nel 1845 scrivendo una vasta serie di appunti – che lui stesso disse di voler affidare alla “critica roditrice dei topi”». Ora, non ho le competenze e il tempo per addentrarmi in una indagine storico-filologica delle opere di Marx per controbattere. Ma ammettiamo, come egli dice, che si possa « tranquillamente affermare che, a partire dalla metà degli anni ’40 e fino alla fine della sua vita, Marx si è sempre dedicato allo studio dell’economia politica; e in particolare dei classici, di Adam Smith e David Ricardo»; e che «Das Kapital» sia « la sua vera grande opera, in cui condensa un quarto di secolo di studi». Mi chiedo: perché si dovrebbero ritenere irrilevanti o senza rapporto con questa produzione scientifica la precedente filosofica? Magari molti dei lettori di Marx hanno anch’essi privilegiato unilateralmente o rigidamente il “giovane Marx” filosofo o altri ancora ne hanno fatto un «profeta per il futuro» o uno studioso che « si dedica ad utopie». E con questo? Non si possono leggere e studiare utilmente le opere giovanili di Marx fuori da quest’ottica distorta? E ancora: una cosa è *ridurre* Marx a filosofo (che so, saltando del tutto «Das Kapital»); altra è riconoscere accanto al Marx “maturo” e scienziato l’importanza del suo periodo filosofico. Perché rendere impermeabili queste due fasi della sua ricerca e farne degli scompartimenti stagni incomunicanti? E poi è sicuro che i problemi filosofici (e/o etici) non interferiscano più nella ricerca del Marx scienziato? Si può saltare tutto il suo impegno nella Prima Internazionale come irrilevante? Si può saltare il giudizio dello stesso Engels che diceva: «Lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario»?

    4. Ancora: perché privilegiare( e in maniera così estremizzata) lo scienziato? Anche lo scienziato “sbaglia”. In modo certo diverso dal profeta ma, se si può imparare dagli errori del primo, perché non anche da quelli del secondo? Giustamente Ferrieri ha osservato: «ci sono stati, come è indubitabile, degli errori di previsione o di impostazione, essi fanno riferimento proprio alla sua elaborazione “scientifica”, stando agli esempi – condivisibili – che fa lo stesso La Grassa».

    5. A parte l’accertamento filologico di quanto sia stato grande il peso della filosofia o dell’atteggiamento scientifico nella vita di Marx – questione che rischia di chiuderci in un dibattito scolastico – mi chiedo ancora: cosa comporta *politicamente* l’insistente sottolineatura del Marx scienziato, ieri e oggi, da parte di La Grassa. Ieri (quando La Grassa era nel PCI) poteva servire a polemizzare contro noi “sessantottini” (“grundissisti”, “operaisti”,ecc.). Ma oggi?
    Ammettiamo per un attimo che, sì, il Marx che conta sia solo lo scienziato e che bisogna disfarsi del Marx filosofo, utopista e profeta e che tali interpretazioni abbiano inquinato tutte le esperienze politiche della sinistra e del ’68 e degli operaisti, ecc..
    Quali le conseguenze e – preciso – *per noi* oggi?
    E qui affaccio un dubbio (senza riferirmi a La Grassa): non vorrei che la scienza di Marx diventi il *latinorum* con il quale gli azzeccagarbugli di ogni epoca liquidano i problemi di *noi*, sì, gente comune; e che essa abbia – al di là delle differenze esteriori (conflitto strategico invece che armonia) lo stesso ruolo gerarchizzante (e paralizzante) che aveva nel Medioevo la visione del mondo fondata sulla teologia, quando rappresentava la società in *ordini* sociali immutabili (oratores, bellatores, laboratores).

    6. Detto in parole sempre povere, è che il « «cambio di paradigma» proposto da La Grassa a me pare elimini proprio l’elemento che aveva spinto *noi*, che non apparteniamo a nessuna élite e non vogliamo ridurci a tifosi di questa o quella élites, ad affannarci nello studio di Marx, proprio perché nelle sue opere (sia giovanili che mature, sia di filosofo che di scienziato), dimostrando l’oggettività dello sfruttamento capitalistico e svelando che l’ uguaglianza formale a livello del mercato copriva una «una diseguaglianza effettiva nel processo di riproduzione sociale» offriva strumenti di conoscenza e al tempo stesso di lotta. Se, invece, come si dice nell’intervista, questa diseguaglianza reale è di fatto insuperabile (soprattutto ad opera dei lavoratori che sono confinati in una lotta, che, come ho riassunto nella mia introduzione all’intervista, è «semplicemente redistributiva di quanto prodotto; più o meno acuta, ma non con effetti di rivoluzionamento di quella data società», detto fuori dai denti, che me ne faccio del nuovo paradigma? Se esso prevede un Marx scienziato riservato a chi ha mentalità scientifica, se mi liquida come “umanista”, “buonista”, “utopista”o “passatista”?

    7. Posso persino ammettere che il «cambio di paradigma» di paradigma sia azzeccato e inevitabile. E che La Grassa può avere ragione sul piano della dottrina, della teoria. Qua tutti siamo “apprendisti” e “praticoni”. E lo riconosciamo anche troppo facilmente. Ma l’impressione che la nuova dottrina mi/ci taglia fuori, che non dica quando e come si possano affrontare i nostri bisogni, che li ritenga in fondo irrilevanti non mi pare campata in aria. E allora? In Marx c’era un’ipotesi di superamento dei conflitti di classe o di una riduzione del conflitto o come diceva Fortini del passaggio a una contraddizione più alta grazie all’azione dei lavoratori ( o del «“lavoratore collettivo cooperativo” (dal primo dirigente all’ultimo giornaliero»). Se questa prospettiva è scientificamente sbagliata e va liquidata come utopia, illusione, sogno; e devo solo prendere atto che lo svolgimento storico mi ha fatto o mi farà fuori assieme a quelli che stanno nella mia stessa condizione, ha ragione Giovannetti a scrivere che appartenere ad un ceto intellettuale da eliminare non è come minimo una bella prospettiva. Ed è in pieno contrasto con l’esaltazione della Vita che fa La Grassa («« riconoscere che la vita è sempre sorprendente nel suo “presentarci il conto”. E’ decisamente il suo bello; E’ IL SUO ESSERE APPUNTO LA VITA!»). Perché è semplicemente l’annuncio della «mors mea» e della vita solo per chi già domina (o subdomina).

    P.s.
    1.
    Ferrieri ha scritto:« Il pensiero di Marx, nonostante la sua pretesa di assimilare il processo economico a una sorta di storia naturale, o forse proprio per questa, si sarebbe scontrato con leggi scientifiche o naturali che andavano in senso contrario». Non mi pare che La Grassa “falsifichi” Marx rifacendosi a presunte leggi naturali «che andavano in senso contrario». Credo che egli spieghi l’obsolescenza della teoria di Marx in base ai mutamenti storici successivi. Vedi, anche in questi suoi commenti, quando accenna all’impresa, alla mancata formazione del «“lavoratore collettivo cooperativo” (dal primo dirigente all’ultimo giornaliero, come sta scritto nel terzo libro de “Il Capitale”)».

    2.
    Farei più attenzione a squalificare gli appartenenti ad altra «era geologica» o a fargli la predica. Stiamo discutendo e siamo ancora vivi nella stessa epoca. Posso capire che le obiezioni che muoviamo a La Grassa l’abbia già sentite e sia infastidito dal fatto che si ripetano. E tuttavia chi può dire che, anche se destinate alla sconfitta, non contengano buone ragioni recuperabili ancora chissà fra quanto tempo. E poi, come disse Fortini in un incontro del 1986, è meglio «scaldarsi con quello che si ha. Io su molte cose preferisco essere un arretrato, un tonto, perché non posso, non ho tempo, non ho testa. È giusto che sia così, Non servono le ultime novità. Un buon manuale liceale spesso è sufficiente». Il “gelo” di questa discussione viene anche dalla difficoltà di rendere fluidi e comunicanti (per quel che è possibile) questi modi di pensare da “tempi diversi”. Se Lenin riuscì a parlare ai contadini che avevano una mentalità arcaica, perché dovremmo inchinarci all’insegnamento elitario di Weber: «A chi non sia in grado di affrontare virilmente questo destino della nostra epoca bisogna consigliare di tornare in silenzio……schiettamente e semplicemente nelle braccia delle antiche Chiese, largamente e misericordiosamente aperte”»?
    No, il silenzio per noi non è una buona cosa. E siamo da tempo fuori dalle «antiche Chiese». Chiediamo altro che braccia misericordiosamente aperte. Vogliamo semplicemente continuare a ragionare.

  18. A proposito di capacità di sorprendere e di disponibilità a sorprendersi. Ringrazio Ennio per aver riportato quella lunga citazione di Fortini. Talvolta, infatti, il “nuovo”, o ciò che si vuole tale, non è affatto sorprendente; lo è di più, secondo me, un passo di qualche era geologica fa come quello di un autore che sembra inserirsi nella nostra discussione come se ci stesse ascoltando qui e ora. Ci dà una grande lezione su cosa sia il marxismo. E su come sia sterile – e pure poco marxista, se vogliamo – accanirci a dimostrare quale sia il “vero” Marx. Ha ragione Fortini quando dice, dopo aver elencato una lunga serie di “errori” di Marx, tra cui quasi tutti quelli che abbiamo citato qui: “Ma quando mi si dice che la teoria delle ideologie è falsa, che la lotta delle classi è una favola e che il socialismo è una utopia senza neanche l’utilità pragmatica delle utopie, chiedo allora un supplemento di istruttoria”. Sì, chiediamolo anche noi questo supplemento di istruttoria. Chiediamolo a noi stessi, perché non c’è nessun tribunale in grado di emettere la sentenza.

  19. Caro Ennio, innanzitutto su Lenin. Sono sorpreso di sentire che in “Stato e rivoluzione” ci sia dell’utopismo. Io non l’ho mai notato. Un certo dottrinarismo proprio nel citare una marea di testi di Marx ed Engels, ma l’utopismo non lo vedo. E non lo vedo in “Che cosa sono gli amici del popolo”, nel “Che fare”, nell’“Imperialismo”, nella “Rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky”, ne “L’imposta in natura”; sto citando testi che vanno dai suoi 23 anni fino alla fine della sua vita. Non parliamo di “Materialismo ed empiriocriticismo”, dove si constata una notevole rigidità positivistica (un po’ alla Engels, diciamo). Nella sua lettura della “Scienza della logica” di Hegel (di cui gli mancava la terza parte, quella sul “Concetto”) interpreta la dialettica come una semplice interazione universale. E alcuni filosofi (fra cui Preve) mi avevano confermato che questa non è la dialettica hegeliana, semmai la classica logica che si usa anche nel campo delle scienze naturali. Inoltre, Lenin parlava non solo ai contadini, ma era ottimo oratore per le masse popolari, che sapeva “infiammare”. Tuttavia, è più che noto che considerava la stessa “classe operaia” come limitata, se non guidata, alla semplice lotta tradunionistica (sindacale, redistributiva). Aveva distinto tra “classe in sé” e “classe per sé” (quella dotata di coscienza) dove però la coscienza era portata “dall’esterno”, dalla da lui definita “avanguardia della classe”, cioè il partito, che era formato “da una parte degli ideologi borghesi che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme” (questa è frase di Marx ne “Il Manifesto” del 1848) con alcuni elementi operai di levatura ben superiore alla media. E, detto francamente, nel partito bolscevico il 90% e più dei dirigenti apparteneva al primo strato; gli altri facevano parte della “base” che obbediva, ammettiamolo infine. E questa percentuale era caratteristica di tutti i partiti comunisti del mondo, perfino di quelli che vollero essere “di massa” come il Pci. E’ chiaro dove sta la “classe rivoluzionaria”? E’ la portatrice d’acqua come il famoso Astrua nei confronti di Fausto Coppi. Ci si guardi bene dall’irridere simile funzione; Coppi aveva bisogno di Astrua, eccome! Però questi sono i ruoli e le funzioni dei differenti personaggi.
    Detto per inciso, io sono rimasto vicino al Pci dal 1953 al ’63; poi mi spostai verso le “Edizioni Oriente” (dirette da Mario Geymonat, figlio di Ludovico) e verso quel gruppo che poi divenne il Pcd’I (m-l). Ho partecipato alla scissione degli m-l tra “linea rossa” (Mao) e “nera” (Liu-sciao-chi) all’epoca (1966) della “Rivoluzione culturale” in Cina e infine, nel ’68, ero già per i fatti miei, ma sempre abbastanza vicino per tre-quattro anni agli m-l mentre ho senza cessa diffidato (termine assai moderato) degli “operaisti” e poi di “Lotta Continua” (essendo a Pisa in quegli anni, e fino all’inizio anni ’80, ne ho visto la nascita dalla frattura in tre tronconi del “Potere operaio” pisano, che aveva come dirigenti Sofri e Cazzaniga).
    Venendo a Marx, noto che nel 1845 aveva 27 anni. Francamente voler mettere sullo stesso piano gli scritti di quei primi anni di studioso con quelli scritti poi fino ai 65 (età della morte) mi sembra azzardato e non semplicemente poco filologico. Quanto all’errore (di previsione, che però significa quindi errore nell’ipotizzare gli elementi fondamentali di una determinata dinamica delle strutture sociali), non lo svaluto né condanno minimamente. Anzi ho ripetuto più volte che l’errore è decisivo per l’evoluzione del pensiero umano e per la prassi in uso nella società di ogni data fase storica. Il detto “sbagliando s’impara” è uno di quelli che più apprezzo e seguo. Perfino “desidero” sbagliare. Solo che tutti noi tendiamo a perseverare nell’errore (altro detto ben noto: “errare è umano, perseverare è diabolico”). E’ molto naturale in noi, anche nei geni come Marx.
    Qui non posso diffondermi su quanto ho spiegato infinite volte: i seguaci avevano in fondo già capito che non si andava formando il corpo dei “produttori associati” (fondamento imprescindibile della cosiddetta proprietà, cioè potere di disposizione, collettiva dei mezzi di produzione), tanto è vero che i dirigenti (non proprietari!) vennero presi per “specialisti borghesi” (cioè collocati nella classe antagonista, nemica). La “classe operaia” divenne solo quella sbrigativamente detta delle “tute blu”, quella cui Lenin assegnò correttamente una mentalità solo tradunionistica, ricorrendo ad una tipica “ipotesi ad hoc”, quella del “partito-avanguardia”, che però era semplicemente (anche nel PC cinese di Mao) una effettiva élite di rivoluzionari di professione, in possesso delle varie capacità strategiche per la guida delle masse in specifiche condizioni di disordine e dissoluzione delle istituzioni del precedente potere (tipo ciò che avvenne nel 1917 nella Russia zarista). Solo che non si prese atto che così facendo si invalidava di fatto la teoria marxiana, che andava quindi decisamente riaffrontata e riformulata. La cosiddetta proprietà collettiva dei mezzi di produzione divenne semplicemente proprietà statale (e con la fusione/confusione di partito e Stato). Da ciò fenomeni grandiosi come la velocissima industrializzazione dell’Urss, divenuta a lungo seconda potenza mondiale, e poi le successive involuzioni e i disastri fino alla miserevole fine del 1989-91. In Cina resiste al momento, perché si è dato discreto spazio e sviluppo alle forme del mercato e dell’impresa (che non hanno nulla a che vedere con il socialismo; quanto al comunismo, chiedo un po’ di decenza).
    Questo il punto in cui siamo e, secondo la mia opinione, è possibile constatare dov’era l’errore di Marx (a parte la “falsificazione storica”); e usarlo per rimettere in moto il cervello e pensare qualcosa di nuovo, ammettendo che è pur sempre qualcosa di transitorio, perché si manterrà per un buon periodo di tempo allo stato di continuo ripensamento e, dunque, “ribollimento” di idee. Le epoche di transizione sono ineliminabili. Se tuttavia uno insiste ancora a pensare la vecchia disposizione delle “classi” – per di più con l’impoverimento radicale della lotta tra borghesia e proletariato (o classe operaia) a mero scontro capitale/lavoro, tipico concetto da sindacalista – è per me fuori di ogni e qualsiasi possibilità d’essere preso in considerazione; si perde solo tempo a discutere con costui. Quanto al “principio speranza”, non l’ho mai nutrito, mi è sempre sembrato abbastanza inefficace in pratica. Comunque, male non fa, anche se non muta gran che le situazioni. D’altra parte, io spero sempre di non morire l’indomani. Finora è andata bene; arriverà però il momento della parola fine anche su questa speranza. E siccome ricordo ben 60 anni e passa di storia, devo dire che la speranza di comunismo si è già assottigliata quasi del tutto. Della candela iniziale, siamo adesso ad un moccolo di sì e no un centimetro con una fiammella che ormai non ce la fa più a reggere. Io gli ho semplicemente dato una piccolissima (ma proprio piccola) soffiata e l’ho spenta. Non mi sento turbato dal fatto che altri non facciano lo stesso. C’è anche il detto: “chi vivrà, vedrà”.

  20. Io ripartirei dalla prassi invisibile ma non inesistente (a esempio il volume “Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi” visibile sul sito claschcityworkers.org )

    E da una critica senza indulgenze dello stalinismo e delle sue molte propaggini, nel centenario dell’ottobre e dell’ottantesimo della guerra di Spagna. Cfr.
    https://anticapitalista.org/2016/07/18/ottantanni-fa-rivoluzione-e-guerra-civile-in-spagna/

    Del resto, che altro fare?

  21. Scusa, La Grassa, ma qual è il modo di produzione che caratterizza le formazioni sociali del nostro presente storico? La contraddizione capitale/lavoro è ancora operante o non lo è più? La caduta del muro di Berlino e la “catastrofe geopolitica” (parole di Putin) del crollo dell’URSS hanno esteso il capitalismo neoliberista in società, prima dominate dal capitalismo di stato, ma non si è modificato il modo di produzione. Se le epoche (marxianamente) sono caratterizzate dai modi produzione, si può dire che quei drammatici eventi hanno fatto storia, ma non epoche.
    Capitale e capitalismo non sono la stessa cosa. Non sono così ingenuo da non capirlo. Se la “legge” del capitale è rappresentata dalla formula essenziale D-M-D’ (la seconda D contiene un delta che è dato dal profitto, senza il quale l’operazione non viene effettuata), essa può essere perseguita in varie forme capitalistiche. I capitalismi variano, ma la legge è quella. So che i capitalismi (come i lavori) odierni non sono più quelli ottocenteschi, so che al tempo di mio nonno non c’era il computer, il traffico aereo, il turismo di massa, Google e Facebook, ma le contraddizioni che il Capitale faceva vivere a mio nonno non sono molto diverse da quelle che viviamo oggi.
    David Harvey in un bellissimo libro che Le consiglio – si parva licet – ne indica ben diciassette: 1) Valore d’uso e valore di scambio; 2) Il valore sociale del lavoro e la sua rappresentazione mediante il denaro; 3) Proprietà privata e Stato capitalistico; 4) Appropriazione privata e ricchezza comune; 5) Capitale e lavoro; 6) Capitale come processo o come cosa; 7) L’unità contraddittoria di produzione e realizzazione; 8) Tecnologia, lavoro e umanità a perdere; 9) Divisioni del lavoro; 10) Monopolio e concorrenza: centralizzazione e decentramento; 11) Sviluppi geografici disomogenei e produzione dello spazio; 12) Disparità di reddito e di ricchezza; 13) Riproduzione sociale; 14) Libertà e dominio; 15) Crescita composta senza fine; 16) La relazione del capitale con la natura; 17) La rivolta della natura umana: alienazione universale.
    Il fatto per me interessante e decisivo è che ognuna di queste contraddizioni costituisce per Harvey (e per tutti quelli che ci stanno) ragione sufficiente di lotta anticapitalistica. Un libro così posso regalarlo alla nipote diciannovenne. La terrei, invece, ben lontana dalla sua ultima produzione. Non perché desidero censurarla. Ma perché non porta in nessun luogo, non apre nessuna finestra, non individua ragioni di vita e di lotta. Che dopo il crollo del “comunismo reale” non si potesse rispondere più con le parole che sapevamo prima, mi è chiaro da oltre un quarto di secolo. Ma che si debba rispondere spegnendo il moccolo, direi che è affare suo.

  22. Ho letto in altri tempi Harvey e mi [ha] interessato moderatamente. Adesso non ricordo quello che ha scritto, ricordo che non m’interessava più che tanto. Credo sia inutile proseguire una discussione tra sordi. Ho già detto: chi vivrà, vedrà. Per il momento, vedo cose che mi consolidano nella mia intenzione di non attenermi a quell’anticapitalismo falsamente marxista, che già criticavo quando ero agganciato a moduli di pensiero seguiti fino agli anni ’80 e poi abbandonati progressivamente. Si regali pure ad una diciannovenne il libro di Harvey o altri anche un po’ più “moderni”. Credo che non se ne farà gran che. In ogni caso, sono d’accordo che non le si regalino i miei libri; sono abbastanza buono verso i giovanissimi, che si divertano intanto. Anch’io ho nipoti e oltre i vent’anni. Mai invitati a leggermi, parliamo d’altre cose più piacevoli. Rabbrividisco al pensiero di una povera diciannovenne con il libro di Harvey con tutto quel casino di cose messe giù alla rinfusa così come almeno le leggo qui. Cari amici, vi saluto e vi auguro buona vita; so che la state già vivendo nel pieno di una merdosa società capitalistica. Tutti i “grandi critici” se la spassano bene, certo meglio di me. Chissà perché?

    *
    Nota di E.A.

    Ho corretto l’unico errore di battitura presente nel commento aggiungendo ‘ha’ e cancello il commento successivo: ‘scusate qualche errore, non ho riletto prima di pubblicare’.

  23. Il testo che ha presentato Ennio su Poliscritture è, indubbiamente, molto denso anche perché presuppone la conoscenza ‘a monte’ di tutto un percorso teorico di La Grassa ovviamente non ‘restringibile’ nell’ambito di una intervista.
    E, a seguito dei commenti pur tuttavia ricchi e non ‘gelati’, e per evitare di entrare dentro il dilemma (*è difficile raccapezzarsi fino in fondo su tale dilemma* (Ennio) – soprattutto perché la ‘natura’ del dilemma implica posizioni aut-aut, o con me o contro di me, o capitale o lavoro (Salzarulo), e pertanto ‘zero’ complessità –) volevo portare l’attenzione su qualche punto che mi ha particolarmente stimolato.
    Innanzitutto La Grassa è in buona compagnia con tutti quei pensatori (poeti, filosofi, psicoanalisti) che hanno ritenuto il ‘reale’ non conoscibile se non parzialmente.
    Sia che ciò avvenga per ‘intuizioni’ (che però, se non sono tradotte in linguaggio razionale, rimangono inoperative) e sia per approssimazioni, ‘fissabili’ in temporanei flash – dipendenti, tra l’altro, dall’angolazione teorica del ‘fotografo’ –.
    Queste situazioni di hic et nunc, inoltre, sono sempre esposte alla pressione prodotta da quell’incessante flusso – nel quale ci stiamo pure noi che riflettiamo – e che le (e ci) modifica in parte o del tutto.
    Solo che noi (alcuni di noi), ci ‘picchiamo’ di aver capito tutto e crediamo di poter gestire la ‘realtà’, confondendo la ‘ipostatizzazione’ – temporanea e funzionale al farci capire alcuni frammenti di essa – con una nostra capacità demiurgica.
    La teorizzazione che ne consegue, diventa così una specie di ‘ordine’, che, se è utile per il tempo storicamente necessario a fare la verifica teoria-prassi, diventa dannoso quando si trasforma in ideologia, ovvero in un ‘per sempre’.
    L’osservazione di Ennio (*che me ne faccio del nuovo paradigma? Se esso prevede un Marx scienziato riservato a chi ha mentalità scientifica, se mi liquida come “umanista”, “buonista”, “utopista”o “passatista”? *) mi dà molto da pensare.
    Sarebbe come dire che il nuovo paradigma DEVE rispondere a delle esigenze particolari, cioè avrei bisogno di una ‘teoria per me, per altri come me”?
    E, pertanto, non voglio un Marx ‘scienziato’ bensì un Marx ‘umanista’? Oppure, estrapolare dal Marx ‘scienziato’ gli aspetti ‘umanistici’ di Marx?
    Ma perché non lasciare a Marx quello che è di Marx e cercare allora un altro pensatore ‘umanista’?
    Se ho bisogno di un medico, il fatto che costui mi sia anche amico non può anteporsi alla sua analisi ‘scientifica’, denegandola.
    Forse, però, è come scrive Salzarulo: *Marx non ha fornito ricette per l’osteria dell’avvenire. Il che non significa che non abbia cercato di conquistare l’avvenire dalla parte del proletariato, scrivendo “manifesti”, criticando “programmi”, ecc. In una parola, intervenendo attivamente a favore di questo o quel gruppo CONTRO (sottolineatura mia) altri.*
    Certamente. Sennò che cosa lo avrebbe portato a scrivere “Il Manifesto del Partito Comunista”?
    Allora Marx (e il suo spirito scientifico) deve essere tenuto in vita solo in quanto ‘garante’ del comunismo? Tenere in vita il “padre fondatore”? Che garantisce l’antagonismo?
    Ma lo spirito scientifico dovrebbe seguire le dinamiche interne al suo oggetto d’indagine e le sue ‘proiezioni’ partono dai dati che ha accumulato, more scientifico, ovvero secondo descrizione, spiegazione e previsione.
    Se viene a saltare uno di questi passaggi, se, ad esempio, si scopre che la produzione di fabbrica si trasforma in produzione industriale, cambia anche tutto il resto del modello perché coinvolge ‘attori’ di tipo diverso. Se muta la coerenza interna muta anche la proiezione.
    Pertanto, quanto ad osteria, anche Marx avrebbe fatto, involontariamente, i conti senza l’oste. L’oste che, guarda caso, è proprio la ‘realtà’ che storicamente si muove, quella che (‘allora’) gli permetteva di considerare soltanto ciò che passava sotto la sua analisi osservativa, *fino a quel momento*.
    Infatti, nella sua affermazione: “«La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi» va messo l’accento sull ‘esistita fino a questo momento’, e, quanto a ‘classi’, il criterio che lui seguiva per definirle era ovviamente legato al campo d’indagine di cui egli disponeva; era “datato”.
    Certo che siamo portati a fare inferenze, ad astrarre alcuni aspetti e a generalizzarli. Ma sono operazioni mentali che, in quanto tali, poi devono tornare alla ‘realtà’ – sia pure parzializzata – per potersi confrontare.
    Nello stesso tempo il pensatore di Treviri aveva parlato di “Capitale come rapporto sociale”, salvandosi così in corner da ogni eventuale accusa di determinismo, legato ad una fissità antinomica tra soggetti contrapposti ab initio (capitale/lavoro), la cui ‘contraddizione’ sembrerebbe essere il ‘primum movens’ di ogni e qualsiasi processo. I rapporti sociali sono ‘dinamici’ non possiamo costringerli in ‘predizioni’. Un po’ come dice La Grassa * non può essere fissato in anticipo quali soggetti entreranno nello scontro*.

    E’ fuori pista affermare che *le contraddizioni che il Capitale faceva vivere a mio nonno non sono molto diverse da quelle che viviamo oggi*. (Salzarulo)
    Sarebbe come negare che il tempo è passato, che degli eventi sono successi e si corre il rischio di entrare a piè pari proprio in quella logica che il sistema odierno (di cui sappiamo ben poco e che ostinatamente continuiamo a chiamare ‘capitalistico’ recitando come mantra quelli che sarebbero i suoi principi costitutivi) VORREBBE imporre, negando ogni differenza. Ne diventiamo i suoi inconsapevoli paladini.
    Sarebbe come intendere la presenza di una ‘base capitalistica’ con le caratteristiche dell’ASSOLUTO che si contrappone in modo ANTITETICO ad una base umana, concepita analogamente in termini di ASSOLUTO, e pertanto non storici.
    Il concetto di ‘contraddizione’ lo trovo molto presente nelle affermazioni di Salzarulo (“le contraddizioni che il Capitale faceva vivere a mio nonno”; “la determinatezza storica delle contraddizioni sociali”; e, anche quando parla di D. Harvey, scrive * ognuna di queste contraddizioni costituisce per Harvey (e per tutti quelli che ci stanno) ragione sufficiente di lotta anticapitalistica*.
    Ho l’impressione che ci siano delle precisazioni da fare (si parva licet) sull’uso dei termini quali lotta, conflitto e contraddizione. Mentre lotta e conflitto esprimono delle tensioni più o meno accentuate per il raggiungimento di un fine nonché le articolazioni necessarie, ivi compresi i compromessi ed esprimono pertanto vitalità, di converso la contraddizione è sterile. Essa si istituisce – al pari del dilemma, di cui è parente – nella opposizione antitetica o/o per cui l’opzione che viene richiesta è quella di essere ‘partigiano’, o con me o contro di me. E per uscire dalla contraddizione – che paralizza – non c’è che buttarsi, o da una parte o dall’altra. E’ un invito al rovesciamento ribellistico (*ragione sufficiente di lotta anticapitalistica* scrive Salzarulo) che mira ad abbattere il sistema, ‘in generale’.
    E per giustificare questa ‘scissione’ antitetica, ecco aprirsi la strada al pensiero ideologico. Anche per questo, garantirsi di avere la Storia (della lotta di classe) dalla propria parte è d’obbligo.

    Sempre si parva licet, alla nipote diciannovenne consiglierei di regalare un altro Harvey, (“Harvey”, un film di H. Koster, 1950) dove in modo gustoso si prendono in giro i luoghi comuni, le organizzazioni mentali ‘rigide’ mettendole a confronto con una visione certamente ingenua ma, proprio per questo, aperta a finestre meno prevedibili. Un film divertente in cui realtà e immaginario giocano le loro parti.

    E, per non far mancare nulla alla nipotina in questione, ci mettiamo anche una lettura un po’ truce, fondata sull’egoismo dell’essere umano e all’importanza che viene data alla competizione, anche violenta, per ottenere onori, piaceri e ricchezze, perché con il soddisfare quelle ne deriva la prosperità sociale mentre con l’altruismo, e la conseguente inerzia e rinuncia, abbiamo una situazione di depressione sociale.
    Si tratta di una favola, The fable of bees, or private vices, publick benefits (1714) – La favola delle api. Vizi privati e pubbliche virtù -, dell’olandese Bernard de Mandeville, uno scrittore e medico vissuto in Inghilterra tra la fine del 1600 e i primi del 1700, scritta all’interno del dibattito sulla concezione etico politica. In contrasto con la dottrina dell’innato senso morale dell’essere umano, Mandeville si riconnetteva piuttosto a Th. Hobbes riconoscendo il fondamentale egoismo dell’uomo.
    Rivoluzione francese ancora da venire!

    R.S.

  24. Sarò breve, spero non troppo, per non dare adito a equivoci, come se volessi trattare con leggerezza l’argomento, invece darò molto per scontato. Innanzitutto che la storia umana deve essere salvata, come dice l’ampia argomentazione di Fortini.
    Ma forse bisogna anche dire che la formulazione che Salzarulo chiama “scientifica”: tutta la storia è storia di lotte di classi, è riportabile al movimento della contraddizione storica di Hegel. La storia umana come movimento, contraddittorio, e quindi in un processo di superamento (aufhebung) verso il meglio in quanto contiene il passato, e questo converge (si sostiene) con un provvidenzialismo cristiano, come inteso da illuministi e romantici.
    Per Marx le lotte delle classi, invece che la autocoscienza, sono il motore, e anche per lui il movimento è sostanzialmente, anche se non necessariamente, verso il meglio.
    Si può anche descrivere però la storia come continua lotta del bene contro il male, o viceversa. Anche in questa prospettiva si possono raggiungere “astrazioni determinate”, individuando le intelligenti e multiformi strategie del demonio per impadronirsi dell’anima collettiva (e le alleanze e convergenze di pensiero religioso con il marxismo stanno a dimostrarlo).
    Se, come penso, la frase del Manifesto, è il fondamento -riposizionato sui piedi- della storia per Marx, la sua scienza è l’astrazione determinata nel quadro teorico dell’economia politica. Ed è anche la sua filosofia, in quanto collega ideologia e rapporti sociali di produzione, come, se ricordo bene, ha scritto Preve.
    Oggi, come intellettuali proletari, vediamo la verità della nostra ambigua posizione (Giovannetti e Zinato), per il legame complesso (in sostanza contraddittorio) che l’ideologia ha con l’articolarsi del dominio e dello sfruttamento: ampio terreno per la filosofia.
    Per il lato scienza, il conflitto operai capitale non è più sufficiente per dare conto dell’articolazione dell’attuale modo capitalistico di produzione, quindi ha ragione GLG (con cui scopro di avere condiviso militanza ml, linea rossa vs linea nera) ad esplorare il ciclo DMD1 con analisi allargate.
    Stringo la conclusione: se Marx “scienziato” e “filosofo” ha dato le linee fondamentali per decodificare il nodo in cui stiamo, entro il rapporto sociale di produzione chiamato capitalismo, “leggere” questa posizione in modo più ampio e articolato è il minimo richiesto.

  25. @ La Grassa

    Caro Gianfranco,
    mi spiace, se la discussione con te (intensa come vedi e di questi tempi – in estate poi! – inattesa) tende a bloccarsi. Il fatto è che la tua “uscita dalla porta di Marx” è fin troppo chiara e non può essere indolore. Scrivi: « Della candela iniziale, siamo adesso ad un moccolo di sì e no un centimetro con una fiammella che ormai non ce la fa più a reggere. Io gli ho semplicemente dato una piccolissima (ma proprio piccola) soffiata e l’ho spenta».
    Ed è quello che non m’aspettavo o non auspicavo. Istintivamente preferisco non mollare la *mia/nostra* storia, iniziandone un’altra che mi pare su altra base e “vecchia” in partenza. (Mi riferisco ad un altro tuo recente documento pubblicato qui: http://www.conflittiestrategie.it/stato-interesse-nazionale-perche-scegliamo-in-questa-fase-lautonomia-nazionale e che analizzerò appena possibile nel mio “appunto n. 3”).

    A quanti vorranno poi restare nei “dintorni di Marx” l’onere di trovare una cornice che del suo lascito salvi altro da quello che tu proponi o una diversa via uscita, Si vedrà, appunto.
    Per ora, identificandomi istintivamente con il “moccolo” , ripropongo per opportuna riflessione il finale de «La ginestra» di Leopardi:

    E tu, lenta ginestra,
    Che di selve odorate
    Queste campagne dispogliate adorni,
    Anche tu presto alla crudel possanza
    Soccomberai del sotterraneo foco,
    Che ritornando al loco
    Già noto, stenderà l’avaro lembo
    Su tue molli foreste. E piegherai
    Sotto il fascio mortal non renitente
    Il tuo capo innocente:
    Ma non piegato insino allora indarno
    Codardamente supplicando innanzi
    Al futuro oppressor; ma non eretto
    Con forsennato orgoglio inver le stelle,
    Nè sul deserto, dove
    E la sede e i natali
    Non per voler ma per fortuna avesti;
    Ma più saggia, ma tanto
    Meno inferma dell’uom, quanto le frali
    Tue stirpi non credesti
    O dal fato o da te fatte immortali.

    P.s.
    Velocemente due pignonerie su due tue obiezioni marginali:

    1.
    Su Lenin. Non ho scritto che in Lenin ci sia dell’utopismo. Ho parlato della « possibilità ancora tenuta presente nel Lenin di «Stato e rivoluzione» di tenere assieme scienza e utopia». Intendendo la sua capacità di non essere solo “scienziato” ma di “sporcarsi” se vuoi coi linguaggi della gente comune. Come mi pare tu stesso ricordi quando dici: « Lenin parlava non solo ai contadini, ma era ottimo oratore per le masse popolari, che sapeva “infiammare”».

    2. Mi sono chiesto: « Davvero il Marx filosofo è irrilevante o secondario?». E anche: «perché si dovrebbero ritenere irrilevanti o senza rapporto con questa produzione scientifica la precedente filosofica?».
    Non ho voluto, che tu dici, « mettere sullo stesso piano gli scritti di quei primi anni di studioso con quelli scritti poi fino ai 65 (età della morte)» .

  26. @ Simonitto (Rita luglio 2016 alle 17:14)

    Cara Rita,
    alcune precisazioni veloci. Scrivi: «L’osservazione di Ennio (*che me ne faccio del nuovo paradigma? Se esso prevede un Marx scienziato riservato a chi ha mentalità scientifica, se mi liquida come “umanista”, “buonista”, “utopista”o “passatista”? *) mi dà molto da pensare».
    Forse perché pretenderei che «il nuovo paradigma [DEBBA] rispondere a delle esigenze particolari» o addirittura io voglia una teoria su misura per me e per altri come me? Non è così.
    Se rileggi bene vedrai che : – intendo discutere, vagliare, ragionare sul «cambio di paradigma» proposto da La Grassa e interrogarmi (dubbioso) anche sul fatto che sia nuovo e soprattutto sulle sue implicazioni politiche (ricordi Darwin e il darwinismo sociale?); – non lo contesto in assoluto o lo considero in partenza falso, tant’è vero che ho scritto: « Posso persino ammettere che il «cambio di paradigma» sia azzeccato e inevitabile. E che La Grassa può avere ragione sul piano della dottrina, della teoria».
    Constato però che esso comporta una “esclusione/svalutazione” per me, per i lavoratori, gli intellettuali di massa, la “gente comune”. Ci dice che non siamo né possiamo essere attori della storia e che solo alcune élite possono decidere e fare. Mi sbaglio allora a pensare che – come ancora ho scritto – si tratta di un «annuncio della «mors mea» e della vita solo per chi già domina (o subdomina)»?
    Se è questo che la nuova scienza della società dice, mi pare logico e umano esprimere i propri sentimenti di rifiuto o i propri sospetti. E anche chiedere «supplementi d’istruttoria» e ulteriori verifiche. Anche perché nulla è ancora assodato. Poi se il nuovo paradigma s’imporrà e verrà accolto dalla comunità scientifica, come sono state accolte le scoperte di Galileo o Darwin (non quelle di Marx a pensarci…), come forse mi sono liberato dall’illusione di sentirmi al centro dell’universo (ammesso che l’abbia mai avuta!) e ho accolto di buon grado il fatto di non discendere da Dio ma da scimmioni, finirò per accettare di essere spodestato dal ruolo che Marx prevedeva per il proletariato in cui sono finito a vivere.

  27. In «Storia delle teorie economiche» (Einaudi, 1955, vol. 2, pag. 552), Marx scrive: «Nelle crisi del mercato mondiale erompono le contraddizioni e le antitesi della produzione borghese. Ora, invece di indagare in che cosa consistono gli elementi in conflitto, che nella catastrofe giungono a esplosione, gli apologeti si accontentano di negare la catastrofe stessa e, di fronte alla loro regolare periodicità, si ostinano a ripetere che se la produzione si regolasse secondo i manuali, non si arriverebbe mai alla crisi.»
    Contraddizioni, antitesi, elementi in conflitto sono concetti scientifici che usa Marx. Probabilmente il barbone di Treviri non aveva il concetto di scienza che hanno gli epigoni di Popper. Della storia, dell’antropologia, della religione, della psicologia, ecc. forse non si può fare scienza allo stesso modo della matematica, della fisica, della chimica, ecc.
    Ritengo ancora valido il metodo (dialettico) di produrre conoscenza di Marx. Le conoscenze non sono di classe come pretendevano i seguaci del Diamat. Ciò non toglie che ancora ci sia chi mistifica sull’origine del profitto e sostiene che non derivi da quella particolare merce che è la forza lavoro. Il primo “scambio ineguale” avviene nei luoghi di produzione.
    Tornando a noi: stiamo vivendo da quasi un decennio una crisi profonda del capitalismo (o dei capitalismi). Come sosteneva il barbone, è nelle crisi che erompono le contraddizioni del capitale, contraddizioni che possono essere ricomposte con innovazioni tecniche, ma anche ricorrendo a violenze, guerre, ecc. Tanto per fare un esempio storico, la famosa crisi del 1929 è stata risolta soltanto negli anni Cinquanta, dopo che il mondo era passato attraverso la Depressione degli anni Trenta e la guerra globale del decennio successivo.
    In una situazione così, persone come me che non sono grandi economisti e grandi teorici, hanno bisogno di strumenti diagnostici per orientarsi nella crisi e lottare perché essa venga scaricata il meno possibile su quelle che un tempo venivano chiamate masse popolari.
    Capisco che questo problema forse non interessa ad alcuni teorici impegnati in cambi di paradigmi e ad alcuni partecipanti a questo dibattito. Che devo fare? Ne prendo atto. E, siccome la crisi si sta scaricando e si scaricherà, oltre che su noi, sui nostri figli e nipoti, mi preoccupo dell’idoneità o meno degli strumenti teorici utili a dare battaglia. E’ utile Hobbes? Forse si. Sicuramente è più utile al club dei miliardari provenienti da tutte le parti del globo(Russia e Cina compresi) che in un anno guadagnano tanti miliardi di dollari che, se opportunamente espropriati, si potrebbe porre fine alla povertà del mondo dalla sera alla mattina. Non sono forse questi i migliori rappresentanti dell’egoismo umano e dell’homo homini lupus?…Questa è la prima verità: il capitalismo del nostro tempo, dopo il crollo del “comunismo reale”, è diventato sempre più predatorio. Organizzare teoricamente e praticamente la lotta contro i predatori mi appare, a questo punto, compito più urgente di qualsiasi altro.

  28. Avevo già avuto modo di commentare i libri di La Grassa assai stimolanti. Approfitto comunque di questa intervista per ribadire il mio pensiero. Parto da una considerazione personale e cioè che non sono attrezzato per affrontare una discussione esegetica sul pensiero di Marx ma mi limito ad osservazioni pragmatiche legate ai miei studi e alla mia esperienza. Bene comunque hai fatto a impostare una serie di chiarimenti in quanto i libri di La Grassa sono spesso assai criptici e lo è in taluni punti anche l’intervista di Francesco Ravelli.
    Secondo me i punti discutibili nel pensiero di Marx sono da una parte l’aver affrontato l’evoluzione della società secondo un concetto prettamente deterministico e dall’altra, l’aver concepito la sua struttura, e in particolar modo l’economia, in modo eccessivamente rigido. Avevo ricordato nei precedenti commenti come ci si meravigliava da studenti di economia del fatto che le tabelle input-output impostate da Leontieff servissero in Unione Sovietica per impostare una rigida programmazione produttiva fonte di enormi sprechi mente in occidente le si utilizzasse con profitto per organizzare dinamicamente le future scorte di magazzino con lo scopo di ridurle al minimo necessario.
    Dicendo ciò condivido senz’altro l’impostazione di La Grassa e cioè: “la realtà è un flusso continuo, caotico e squilibrante” prodotto da forze contrastanti alle quale non è possibile mettere la camicia di forza di uno schema rigido. Studiare una società in evoluzione lo si può fare a titolo indicativo utilizzando i sistemi complessi quale può essere ad esempio il modello preda-predatore in cui ogni contendente cerca di sopraffare l’altro senza però giungere alla sua distruzione in quanto, in quel caso, determinerebbe la sua stessa fine.
    Che la realtà sia frutto di una costante contesa non è un concetto nuovo in quanto già evidenziato dagli antichi filosofi della natura che vedevano nel dinamismo degli opposti la condizione essenziale per lo sviluppo. L’assenza di contesa porta ad una subdola forma di morte.
    Per Eraclito: ‘tutto si genera per via di contesa’. In Esiodo si trova la distinzione tra contesa ‘trista’ che porta alla guerra, e contesa ‘buona’ dove “l’artigiano gareggia con l’artigiano”. Ma la contesa la si deve sempre intendere anche riferita ai campi più vasti del pensiero.
    Non so dire se la contesa di oggi sia buona o trista in quanto siamo spesso al limite e si sviluppa contemporaneamente su un piano nazionale ed uno internazionale e quest’ultima influenza enormemente quella nazionale ed anzi la dirige.
    La Grassa vede bene questi problemi che tendono ad allargare il discorso a concetti di geopolitica. Nei suoi libri richiama spesso alla necessità di una nuova via per l’interpretazione della società ormai allargata al mondo ma non fornisce indicazioni né sul piano nazionale né su quello internazionale e la ragione è perché, probabilmente, siamo in una fase nuova e assai caotica dell’evoluzione sociale. Tenendo conto degli attori che agiscono sulla scacchiera mondiale: Stati, società multinazionali, grandi centri finanziari, proprietari dei mezzi di produzione, managers a vari livelli, lavoratori ecc, dell’evoluzione tecnologica in atto e delle esigenze espresse in modo sempre più consapevoli dalle classi lavoratrici di tutto il mondo, stiamo assistendo ad una fase nella quale la contesa sta producendo un magma ribollente da cui forse uscirà qualcosa di nuovo e imprevedibile. Quanto durerà questo fermento è pure difficile da prevedere.
    L’unico aspetto sul quale mi pare si possa e si debba intervenire nel frattempo è operare ai fini di un riequilibro sociale a favore delle classi più colpite in quanto la contesa, nella sua imprevedibilità, comporta senza dubbio forti squilibri.
    Detto ciò, vorrei dire a Francesco Ravelli, autore della interessante intervista, che non vedo come si possa giungere a definire una legge scientifica ‘della forma capitalistica manageriale’. A parte che non mi pare così determinante agli effetti di una maggiore comprensione del capitalismo moderno, soprattutto in questa fase di grande incertezza, la richiesta mi pare in contrasto col presupposto critico portato al pensiero di Marx, e cioè che la realtà è, di per sé, non solo caotica ma anche inconoscibile e, in ogni caso, ‘indirigibile’ . Definire una legge che formalizzi entro campi di stabilità, rapporti ed evoluzione di questa trasformazione del capitalismo, significherebbe comunque ricreare uno schema rigido e inadatto a consentire azioni programmatiche di lungo respiro. In pratica sarebbe riproposto lo stesso errore compiuto da Marx.
    Quanto al ceto intellettuale odierno che dovrebbe essere ‘eliminato’, e di cui ci si chiede se mai in passato ne sia esistito alcuno con lo stesso livello di degrado e di corruzione, beh, poiché mi diverto e trovo interessante ricercare nel passato origini e corrispondenze con pensieri e situazioni odierne, ecco qui un riferimento in Esiodo che definisce i magistrati ‘divoratori di doni’ (VIII secolo aC)! Ma anche in Parmenide: “…Costoro (i contestatori), sono trascinati sordi e ciechi ad un tempo, razza di uomini senza giudizio”. (riportato da Costantino Paizis: Dal Caos agli atomi attraverso la Polis).
    Verrebbe da dire, seppure con tristezza, che il mondo e l’uomo sono fatti così! Anche questo, tuttavia, va inserito nel modello di contesa.

  29. “….richiama spesso alla necessità di una nuova via per l’interpretazione della società ormai allargata al mondo ma non fornisce indicazioni né sul piano nazionale né su quello internazionale e la ragione è perché, probabilmente, siamo in una fase nuova e assai caotica dell’evoluzione sociale”.
    Appunto. E la fase caotica non è solo oggettiva, come sempre avviene nella transizione tra epoche diverse. Dipende pure dal ritardo con cui ancora non si sta prendendo in debito conto l’usura e vecchiezza delle teorie d’un tempo (marxismo come liberalismo con tutte le loro stranumerose varianti) ormai diventate più o meno sclerotizzate ideologie. Quanto alla realtà inconoscibile, ho avanzato l’ipotesi (certo “timidamente”) che tendiamo a stabilizzarla con una “realtà” costruita apposta per consentirci d’agire. Di conseguenza, dal successo o meno di questa azione (o anche dalle previsioni relativamente corrette formulate in merito alla dinamica effettivamente in essere, mentre noi siamo nella mera posizione di osservatori) arguiamo la verosimiglianza delle ipotesi formulate. Il guaio avviene quando si continua ad aver fede in date ipotesi perché ci abbiamo creduto per tutta una vita o perché, se fossero vere, porterebbero alla società “dei giusti”; tanto agognata e mai vista neppure all’orizzonte. Mi dispiace, la falsificazione di certe ipotesi non è invenzione di Popper, è quanto accade sempre a qualsiasi affermazione; e non soltanto teorica, scientifica. “Liberté, fraternité, égalité”! Andiamo, per favore: falsificate in toto e senza bisogno di Popper. E così pure quella ipotesi di Marx (per lui una certezza assoluta, non una ipotesi, diciamocelo) di cui ho ormai parlato spesso e, smentita la quale, cade tutta l’impalcatura del socialismo (solo prima fase, ma indispensabile per giungere alla seconda, il comunismo; almeno si sappia ciò di cui si parla!). Continuate a credere; però vi ritengo inferiori ai veri religiosi che credono in un Dio onnipotente, ecc.; una cosa mica da ridere come i poveri pensatori umani. E credono ad una vita eterna, non a questa così effimera. E credono che sopravviva l’anima, senza questo misero corpo che ci dà delle gioie e però tanti dolori; infine degradando e conducendoci alla sofferenza e poi morte, che è sempre brutta malgrado tanti insensati cerchino di abbellirla con discorsi talmente inutili. Tuttavia, “chi vive sperando, muore cantando” (bah, questo detto mica mi convince).

  30. «Il guaio avviene quando si continua ad aver fede in date ipotesi perché ci abbiamo creduto per tutta una vita o perché, se fossero vere, porterebbero alla società “dei giusti”; tanto agognata e mai vista neppure all’orizzonte.[…] E così pure quella ipotesi di Marx (per lui una certezza assoluta, non una ipotesi, diciamocelo) di cui ho ormai parlato spesso e, smentita la quale, cade tutta l’impalcatura del socialismo (solo prima fase, ma indispensabile per giungere alla seconda, il comunismo; almeno si sappia ciò di cui si parla!). Continuate a credere; però vi ritengo inferiori ai veri religiosi che credono in un Dio onnipotente, ecc.; una cosa mica da ridere» ( La Grassa)

    Non voglio affrontare per la coda un discorso sulla religione o sugli elementi religiosi che s’insinuano anche nelle ideologie politiche. Ma non capisco perché la fede in certi valori “laici” (una società giusta o più giusta, il comunismo) sia un guaio e quella in un Dio onnipotente no. O le credenze son tutte un «guaio» ed è meglio liberarsene. O hanno un senso (come pensava il Marx, non so da filosofo o da scienziato!) perché aiutano a sopportare le pene della vita e placano l’angoscia della morte. Se la vita non può essere cambiata, diventano indispensabili come le medicine (magari palliative). Trovo, insomma, una provocazione inutile dichiarare «inferiori» un certo tipo di credenti rispetto ad altri.

  31. Mi sembra chiaro che io non sono favorevole alle credenze. So che ci sono, non pretendo di abolirle, ma non le coltivo. Magari, chissà, ne avrò coltivate alcune tanto tempo fa. Adesso le uniche credenze che ho sono di non credere. Posso tuttavia cascarci ancora senza accorgermene. Appunto, senza accorgermene; appena me ne accorgo, corro ai ripari. Non sono mai stato religioso, non sono mai riuscito a pormi il problema di Dio con annessi e connessi (in un certo senso non sono né credente né ateo né agnostico; mai posto il problema, tutto lì). Tuttavia, diciamo che ritengo fortunati quelli che credono di avere un’altra vita eterna in un altro mondo, senza il peso del corpo, e possibilmente (se non si è dannati) in letizia continua. Che senso ha essere convinti che con la nostra morte tutto finisce per noi; e tuttavia, in un futuro lontano, ci potrà essere il comunismo, vissuto come società “giusta” (e Marx non lo descriveva affatto in questi termini! Non era un utopista favoleggiante). Io credo che ci sarà sempre il giusto e l’ingiusto, il buono e il cattivo, il sincero e il mentitore, il socievole e l’asociale e via dicendo. E i contrari saranno sempre imbricati insieme in ogni individuo, in ogni gruppo sociale, in ogni Stato, ecc.. Anzi, uno (individuo, gruppo sociale, Stato ecc.) crede di stare agendo bene, e all’improvviso un “altro” gli getta in faccia che è ingiusto, ingannatore, malintenzionato ecc. ecc. E lo aggredisce per ristabilire la giustizia, il bene, l’equità e altre balle varie. Almeno a livello di analisi e studio, lasciamo perdere le balle in questione. Cerchiamo di capire – sapendo che incorreremo sempre in errori che dovremo correggere indefinitamente – in quale fase storica viviamo, quali sono i contrasti tipici d’essa e soprattutto i principali fra essi. E rendiamoci conto che siamo in un’epoca di transizione, in cui continuiamo a servirci di impostazioni teorico-ideologiche (vanno sempre insieme con varia proporzione nella combinazione) di una vecchiezza preoccupante. “It’s a long way to Tipperary it’s a long way to go”. Avviamoci verso Tipperary, la nuova epoca, ma non sappiamo quando ci giungeremo. Sappiamo solo che troveremo ancora giusti e ingiusti, amici e nemici, alleati e traditori, benevoli e carogne. Non però nel semplice senso che Bepi è buono e Toni è cattivo; sono entrambi un po’ di tutto, sono cioè vivi e veri, non delle macchiette per imbonire il “poppolo”. Basta credere (e magari obbedire e combattere). Liberatevi dei sogni. Questo non implica per nulla affatto evitare le scelte e anche battersi per esse. Solo, senza tante utopie e non sostenendo, in modo manicheo, che noi siamo il buono e lottiamo contro il cattivo. Crediamo che sia meglio trovarsi in una determinata situazione piuttosto che in un’altra (e altri crederanno il contrario e ci verranno addosso; e allora via con il combattimento). Sempre così, non sarà mai finita, mai la mortifera società della “giustizia” e dell’armonica convivenza.

  32. @ La Grassa

    Scusa se faccio il pignolo, ma il tema mi pare interessante e collegato alla questione centrale del post.

    PER INSISTERE SUI CREDENTI

    «Mi sembra chiaro che io non sono favorevole alle credenze. So che ci sono, non pretendo di abolirle, ma non le coltivo. Magari, chissà, ne avrò coltivate alcune tanto tempo fa. Adesso le uniche credenze che ho sono di non credere. Posso tuttavia cascarci ancora senza accorgermene. Appunto, senza accorgermene; appena me ne accorgo, corro ai ripari» (La Grassa)
    Ma è la soluzione giusta? Mi pare una questione secondaria dichiarare o meno le proprie credenze. Più interessante mi pare capire come uno si pone rispetto alle credenze proprie ed altrui. La tua posizione rispetto a chi crede in una religione è di tolleranza («non sono favorevole alle credenze» ma «non pretendo di abolirle») e magari di ammirazione benevola («ritengo fortunati quelli che credono di avere un’altra vita eterna in un altro mondo». Più scettica o sbeffeggiante, invece, rispetto alle credenze in mutamenti diciamo “terreni” o “sociali” (il comunismo), che hai visto o subito più da vicino, credo. Da qui forse la suddivisione tra credenti di serie A e di serie B nel precedente commento. Ancora inspiegata, mi pare. Perché, se, come dici, « i contrari saranno sempre imbricati insieme in ogni individuo, in ogni gruppo sociale, in ogni Stato, ecc» (cioè non ci sono cose che valgono oggettivamente più di altre e i tentativi di «ristabilire la giustizia, il bene, l’equità» sono in partenza tutte «balle» (qui lo zampino di Nietzsche!), non capisco come fai a stabilire una gerarchia tra credenti di serie A e di serie B. Perché i primi sarebbero «fortunati» e i secondi no? Forse che i credenti (nelle religioni) di serie A si limitano solo a credere e non operano per «« ristabilire la giustizia, il bene, l’equità» ( o magari altri valori gerarchici invece che egualitari) secondo le loro credenze, come pure fanno dal canto loro i secondi?
    È la separazione che tu fissi tra te e gli altri due tipi di credenti che mi pare non regga. E contraddittoriamente ora ti definisci « né credente né ateo né agnostico» ora come uno che avrebbe un’unica credenza: il «non credere» eppure crede che « ci sarà sempre il giusto e l’ingiusto, il buono e il cattivo, il sincero e il mentitore, il socievole e l’asociale e via dicendo. E i contrari saranno sempre imbricati insieme in ogni individuo, in ogni gruppo sociale, in ogni Stato, ecc.».
    Non è che in fondo siamo tutti un po’ credenti (in qualcosa) e ci battiamo per qualcosa (più o meno precisa, più o meno sognata, immaginata, ripensata) e in modi più o meno manichei. Non dirmi che, quando tu ti batti per il «Marx scienziato» o quando proponi di battersi «senza tante utopie», non hai la tua dose di manicheismo, più o meno correggibile!

    P.s.
    Ancora un brano di Fortini che sfiora il tema e mi pare utile da ripensare:

    Quando si dice che il movimento operaio non é una religione né una filosofia della vita si esprime un desiderio. Per milioni di uomini, se non di una religione, certo di una filosofia della vita si
    è trattato e si tratta. La pretesa storica del pensiero rivoluzionario (e più ancora dell’azione rivoluzionaria) è stata proprio quella di essere una filosofia della vita in azione; di proporre una interpretazione dello stato umano, della storia; di dare un luogo alla ragione e alla passione, di spiegare il perché, non solo il come, della scienza, della religione, della morale, dell’arte.
    Da questo punto di vista la Seconda e la Terza internazionale non sono state, nella sostanza, diverse tra loro; perfino stalinisti e trotzkisti hanno concordato, in fondo, nella «chiave», nel «metodo» che doveva interpretare in modo unitario ‘ la realtà umana. Il «marxismo» insomma, nei confronti del «limite oscuro», ha avuto un atteggiamento duplice: o ne ha fornita una interpretazione illuministica, scientistica, positivisti-
    ca o «materialistica», di un materialismo pronto ad accusare di cedimenti idealistici, mistici e rrazionalistici chiunque osasse guardare, appunto, oltre i «limiti oscuri», perché il biologico venisse stoicamente assunto, in modo razional-scientifico, nella luce della «coscienza», senza tentennamenti: oppure ha taciuto, ha girato attorno all’argomento, *lo ha separato*. E quelli che hanno scelto questo secondo atteggiamento sono i più [1].
    Identificare il «limite oscuro» con l’irrazionalismo e con la «reazione» vuole dire arenarsi o retrocedere ad una separazione adialettica, di tipo positivistico; vuol dire ripercorrere un cammino già percorso sessant’anni fa. Guardare in faccia il «biologico», l’«irrazionale», l’«inconscio», dargli un luogo nella nostra prospettiva, non vuol dire considerare tutto questo come alcunché di irriducibile perché diverso e nemico o, tutt’l più, ancora da ridurre nei termini della ragione discorsiva; ma come qualcosa che i segni e i messaggi, per quanto ambigui, sono necessari ad ogni nostro momento, inseparabili dal loro opposto, costitutivi degli uomini di domani e non solo quelli di ieri»

    (F. Fortini, «Religione» in «Non solo oggi», pagg.243-244, Editori Riuniti, Roma 1991)
    [1] Fino alla grande comicità della frase: «Anche noi comunisti abbiamo il senso del mistero», che udii pronunciare da un oratore nel microfono ufficiale sulla folla che nella sera umida di Campo dei Fiori rendeva omaggio a Pasolini assassinato; frase che sembrerebbe inventata, non testimoniasse di un secolare equivoco che nessun «compromesso storico» riesce a sanare [1980].

  33. Ma possibile che non si capisca una cosa così elementare. C’è chi crede fermamente di avere un’altra vita, eterna, quindi che mai finirà nel nulla. E lo crede per sé, non per i propri discendenti. Invece ci sono i comunisti che credono di finire nel nulla (cosa che credo anch’io) e però sono convinti che chissà fra quanto ci sarà la società dei giusti e degli eguali. Molto altruisti, certo, pensano ai loro eredi; e chissà fra quanto. Allora diciamo che questi sono di serie A perché pensano agli altri, fra qualche secolo. I primi sono di serie B, egoisti, pensano al loro individuale benessere per tutta l’eternità. Io non sono né l’uno né l’altro tipo. Andrò nel nulla e del comunismo fra secoli non me ne sbatte un …… ecc. ecc.
    E poi basta con questo comunismo d’accatto. Marx pensava che le condizioni sociali di base per la trasformazione del capitalismo (appunto la formazione del corpo dei produttori associati) fosse già in formazione. Io parlo di errore, ma logicamente con il senno di poi. Marx era realistico, vedeva lo sviluppo industriale (di fabbrica!) nell’Inghilterra (dove viveva e andava tutti i giorni per ore e ore al British Museum; altro che partecipare alle riunioni politiche a cianciare del “meraviglioso futuro” come un sessantottardo qualsiasi). L’Inghilterra era il suo “laboratorio” e in quello vedeva ciò che poi non si è realizzato; e già lo aveva capito Kautsky e ancor più Lenin che parlava apertamente dei dirigenti salariati come di specialisti borghesi e negli operai di fabbrica vedeva solo la “classe in sé”, al massimo capace di “coscienza tradunionistica”. La coscienza rivoluzionaria era portata dall’esterno, cioè dal partito in quanto avanguardia della classe; formata in gran parte dagli “intellettuali borghesi giunti alla comprensione del processo storico nel suo insieme” (frase comunque scritta da Marx nel ben noto pamphlet che è il “Manifesto” del ’48) unitisi ad alcuni (ben pochi) operai di particolare intelligenza, che comunque mai hanno occupato i primi posti nella dirigenza dei partiti (sia socialdemocratici che comunisti, della II come della III Internazionale). Alcuni sono stati figli di operai o contadini, come lo sono alcuni imprenditori capitalisti particolarmente duri e severi verso i compagni dei loro padri. La nascita non è poi la condizione sociale vissuta e procacciata ai figli dai padri.
    Marx era convinto che i processi in atto nel capitalismo del suo tempo (leggersi la parte finale del cap. XXIV del primo libro de Il Capitale) costituivano già le basi della prima fase, il socialismo, per il cui perfezionamento occorreva solo l’abbattimento dello Stato borghese difensore della proprietà privata dei mezzi di produzione da parte di ormai parassiti, proprietà che doveva andare collettivamente appunto al corpo dei produttori associati (“dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”, III libro de Il Capitale). A questo punto, mentre nel capitalismo stavano, secondo il suo parere, formandosi barriere allo sviluppo delle forze produttive, queste sarebbero state abbattute con la rivoluzione proletaria che si impadroniva appunto dello Stato. E allora sarebbe esploso uno sviluppo gigantesco della produzione che avrebbe messo fine alla scarsità dei beni e avrebbe realizzato concretamente il principio comunistico: “a ciascun secondo i suoi bisogni”. Ognuno sarebbe andato nei magazzini, negli spacci o che so io a prendersi tutto quello che gli occorreva senza più prezzi (indice di scarsità); e quindi senza moneta né buoni lavoro (che ci sarebbero stati ancora nella prima fase socialistica, in cui ad ognuno doveva essere dato soltanto “secondo il suo lavoro”). Visione chiara e precisa, totalmente falsificata dalla storia.
    Nel socialismo reale del XX secolo non si sviluppavano più le forze produttive (quanto meno dalla seconda metà degli anni ’50) mentre il mondo capitalistico era in piena crescita e con la III rivoluzione industriale alle porte. Chi vuole ancora sognare, lo faccia pure. Ma in Marx vi era una previsione basata sulla concretezza e materialità dei rapporti sociali e della loro trasformazione. Il comunismo da voi fantasticato è immaterialità pura. Allora perché non credere all’anima che s’invola dopo la morte? Visto che ci assicura la vita eterna. Voi non assicurate nulla di concreto esattamente come le religioni. Solo che dite a tutti: morirete, non c’è nulla dopo voi, ma i vostri successori, di qui a qualche secolo, acc….. come staranno bene con il comunismo. E’ chiaro che cosa le masse hanno nuovamente scelto: le religioni dell’al di là. Al di qua ci siete voi con la vostra tristezza e malinconia per le speranze perse e cui vi aggrappate con quella che ad un “esterno” appare disperazione.

  34. @ La Grassa

    APPUNTO N. 3
    (riferito a questa intervista e al documento pubblicato qui: http://www.conflittiestrategie.it/stato-interesse-nazionale-perche-scegliamo-in-questa-fase-lautonomia-nazionale)

    AUTONONOMIA NAZIONALE INVECE CHE ANTICAPITALISMO?

    Ma possibile che non si capisca una cosa così elementare. Io e quelli che stanno partecipando a questa discussione non siamo «altruisti», «buonisti», «sognatori», «convinti che chissà fra quanto ci sarà la società dei giusti e degli eguali». Non diciamo a tutti: «morirete, non c’è nulla dopo voi, ma i vostri successori, di qui a qualche secolo, acc….. come staranno bene con il comunismo». Non siamo tristi e malinconici per le speranze perse. Non siamo « servi del potere statunitense». Non riproponiamo nessun «comunismo d’accatto». Questa è una caricatura che forse non va bene neppure per i tuoi ex compagni del PCI o emme-elle. Ma di sicuro non si incolla sulle nostre facce. Perché non rientriamo tra i credenti (di serie A o B) nelle cui schiere per frettolosità vuoi ficcarci. Abbiamo anche noi masticato Marx, la storia del marxismo e del movimento operaio come l’hai fatto tu (magari più all’ingrosso e però in condizioni sociali più difficili delle tue). Semplicemente non siamo arrivati alle tue conclusioni. [1] E non a caso ho citato il Leopardi de «La ginestra». Come lui, dopo una «strage delle illusioni» non dissimile in fondo da quella che ci è toccata vedere, non vogliamo abbandonare « il calle insino allora/ Dal risorto pensier segnato innanti» – nel nostro caso quello di Marx – rimanere nei suoi dintorni, «proteggere» la loro storia, non finire a recuperare, dopo esserci disfatti di essa, una certa «autonomia nazionale». Il che non mi pare pregiudichi affatto un atteggiamento di ricerca «col senno di poi», di «navigazione a vista» (io ho parlato di “esodo”, di “allegoria vuota”, concetti per molti versi vicini a questi), di presa in considerazione della “realtà”.

    Per concludere. Non ho problema a confrontarmi ancora, se ci stai, con le tue posizioni, ma la cooperazione con esse non può esserci, specie se insisti a mettermi/ci indistintamente nel mazzo dei “sinistri” da dileggiare.

    [1]
    Conclusioni che così riassumo:

    – Fallimento di Marx e del marxismo: «nulla di tutto [quello che Marx aveva previsto] si è storicamente verificato» e non resta che «prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo»;

    – Riduzione di Marx a scienziato. Il che fa quasi pensare ad uno studioso del tutto “disinteressato”, che, sì, constatava asetticamente lo sfruttamento nascosto nella forma di produzione capitalistica ma non intendeva quasi intervenirvi; uno che aspettava solo il parto “naturale” del socialismo ormai maturato nel ventre della società capitalista;

    – Storia ridotta a Vita. Cioè alla « vita [che] è sempre sorprendente nel suo “presentarci il conto”». (E qui mi pare evidente la sostituzione di Marx con il nichilismo e l’eterna ripetizione del conflitto di Nietzsche);

    – Politica ridotta a politica delle élites. Quelle concorrenti o guerreggianti tra loro e manovranti una massa confusa di dominati, proprio come oggi accade con Trump e la Clinton o Erdogan o Putin.

    – Abolizione di qualsiasi prospettiva anticapitalista: « non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi)» e non vale neppure più la pena di pensarci ((Claudio Napoleoni (1924-1988): «Cercate ancora » (1990)). Lo spegnimento del “moccolo” della lotta anticapitalistica dev’essere totale. E le lotte sociali servono solo se gregarie dei vari “Coppi della rivoluzione”: « nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone dell’andamento degli “affari” nel nostro paese»;

    – «Autonomia nazionale» per cui « ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni» per competere da nazione capitalistica nell’agone di altre nazioni capitalistiche identificazione con la propria nazione e alleanze d’interesse con nazioni rampanti o scalpitanti contro il predominio della supernazione USA; per cui Per cui le lotte sociali, se vogliono ottenere il loro piatto di lenticche, si devono subordinare ( come sempre fece il PCI) alla lotta politica “vera”:
    «Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti».

    P.s.

    Per altra utile riflessione:

    PADRE CARMELO E L’OPPRESSIONE SOCIALE

    «Mi son fatto un amico. Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è monaco e si chiama padre Carmelo. Sedevamo a mezza costa del colle, che figura il Calvario colle tre croci, sopra questo borgo, presso il cimitero. Avevamo in faccia Monreale, sdraiata in quella sua lussuria di giardini; l’ora era mesta, e parlavamo della rivoluzione. L’anima di padre Carmelo strideva. Vorrebbe essere uno di noi, per lanciarsi nell’avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo rattiene dal farlo.
    « Venite con noi, vi vorranno tutti bene ».
    « Non posso ».
    «Forse perché siete frate? Ce n’abbiamo già uno (1). Eppoi altri monaci hanno combattuto in nostra compagnia, senza paura del sangue ».
    « Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l’Italia ».
    « Certo; per farne un grande e solo popolo ».
    « Un solo territorio … ! In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice ».
    « Felice! Il popolo avrà libertà e scuole ».
    « E nient’altro! – interruppe il frate -: perché la libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose basteranno forse per voi Piemontesi: per noi qui no ».
    « Dunque che ci vorrebbe per voi? ».
    « Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa ».
    «Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre ovunque sono case e campagne! ».
    « Anche contro di noi; anzi prima che contro d’ogni altro! Ma col vangelo in mano e colla croce. Allora verrei. Così è troppo poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei a quest’ora, quasi ancora con voi soli »,
    « Ma le squadre (2) ?».
    « E chi vi dice che non aspettino qualche cosa di più? ».
    Non seppi più che rispondere e mi alzai. Egli mi abbracciò, mi volle baciare, e tenendomi strette le mani, mi disse che non ridessi, che mi raccomandava a Dio, e che domani mattina dirà la messa per me. Mi sentiva una gran passione nel cuore, e avrei voluto restare ancora con lui. Ma egli si mosse, sali il colle, si volse ancora a guardarmi di lassù, poi disparve.

    (da Cesare Abba, «Da Quarto al Volturno», in A. Vegezzi e F. Fortini «Gli argomenti umani», pagg. 196-197, Morano Editore, Napoli 1969)

    Note:
    (1) uno: fra Giovanni Pantaleo.
    (2) Quelle dei *picciotti*

  35. Tre riflessioni su padre Carmelo:
    1. Un terreno comune tra visione religiosa e aspirazioni politiche progressiste;
    2. Storicamente convergenze si sono date;
    3. Solo il cristianesimo ha pensato il rapporto tra storia e escatologia.
    Da qui si può ragionare in due direzioni: i presupposti culturali dello stesso Marx e del marxismo successivo; le implicazioni ideali necessarie, pare, nei conflitti sociali.

  36. Non dileggio nessuno, resto solo basito per l’incomprensione continua di quanto vo’ dicendo. Allora:

    1) Il comunismo è finito, morto e sepolto. E’ finito nel ’17 perché da allora tutte le rivoluzioni, guidate da partiti che si dicevano comunisti, sono state fatte dalle sedicenti avanguardie (partiti) con al seguito i contadini. Dove c’erano le masse operaie, chi ha tentato la rivoluzione (Luxemburg, ecc. in Germania) è stato massacrato ed eliminato in pochi mesi (per non dire giorni). Il socialismo detto reale non aveva nulla a che vedere con quello che pensava Marx (ma in fondo, prima del ’17, anche Lenin). Non c’era la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, solo quella statale e di uno Stato/partito in cui un ristrettissimo gruppo dirigente comandava al 100%; e chi non seguiva quella balla del “centralismo democratico” era espulso (anche dalla vita se possibile). L’Urss si è sviluppata con la potente direzione di Stalin (era comunismo? Non vi viene da ridere?). La Cina si è rimessa dallo sconquasso del “balzo in avanti” (anni ’50) e “rivoluzione culturale” (anni ’60) con Deng e uno sviluppo comandato dal centro ma affidato a imprese. Le 3000 imprese statali decotte dell’epoca di Mao sono state, con intelligenza e tempi adeguati, liquidate e trasformate in imprese che si sono affidate sempre più a “leggi mercantili”, pur con processo di trasformazione controllato e guidato, ma non certo dai “produttori associati”, invece da manager di buone capacità, quelli che Lenin chiamava specialisti borghesi. Quindi fine della balla della transizione al comunismo.

    2) Le velleità anticapitaliste raccontate dai sopravvissuti della passata stagione non hanno nulla a che vedere con quanto pensava e credeva di aver visto Marx, con analisi oggettiva della società inglese della sua epoca. Siamo entrati in un’altra epoca in cui finalmente le masse popolari (sempre più segmentate e stratificate e in cui i veri operai sono una minoranza ….. sempre minore) si dedicano, e al momento con scarsa efficacia (e ciò preoccupa anche me!), a difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro in continuo peggioramento. Lo Stato sociale è progressivamente smantellato. Sono assolutamente d’accordo nella difesa di queste condizioni di vita e di lavoro nonché dello Stato sociale. Basta che non mi si racconti che questa è lotta anticapitalista nel senso in cui la s’intendeva quando i comunisti sapevano che cos’era il marxismo. Difendiamoci e diciamo quello che esiste oggi, non inventiamoci fantasie che dividono e irritano chiunque ancora si ricordi effettivamente del comunismo d’antan.

    3) Viviamo dunque un’epoca di transizione; e solo per fare una similitudine, ma molto all’ingrosso, ho ricordato spesso quella tra il Congresso di Vienna (1814-15), momento della piena Restaurazione, e il 1848 che apre una nuova epoca, in cui appunto Marx pensa in un certo modo al “Movimento operaio”, modo fallito e smentito proprio dalla Rivoluzione del 1917. Finita miseramente l’epoca delle presunte rivoluzioni proletarie, finita quella dell’altrettanto presunta lotta rivoluzionaria nelle “campagne” contro le “città” (paesi capitalistici sviluppati), ho proposto di essere finalmente un po’ realisti e di dedicarsi all’analisi di fase, cioè per qualche decennio a dir tanto, senza mettersi ancora una volta a sciorinare ricette per abbattere ….. quale capitalismo? Parliamo indifferentemente di capitalismo riferendoci a quello vissuto all’epoca di Marx, a quello delle due guerre mondiali, a quello emerso con lo strapotere degli Stati Uniti. Siamo ignoranti come bestie (me compreso, sia chiaro) e continuiamo a straparlare senza un minimo di cognizioni su nulla. Allora riprendiamo da quelle che sono adesso le contraddizioni più acute. Ci sono quelle tra etnie e quelle tra religioni in primo piano. Ho avanzato l’ipotesi che queste vengano però accentuate e sfruttate nell’ambito della tendenza degli Usa a voler dominare incontrastati il mondo, mentre si vanno sviluppando potenze che via via dovrebbero contrastarli con crescente forza.

    4) Non sostengo che la lotta tra Stati ha preso definitivamente il posto di quella tra classi o tra dominanti e dominati (e già questa distinzione è frutto di mancanza d’analisi dei rapporti sociali). Le classi sono tramontate perché si basavano – e qui do a Marx piena ragione – sulla proprietà o meno dei mezzi di produzione. Questa caratteristica fa oggi ridere se la si vuole usare per definire ancora i rapporti sociali di un capitalismo del tipo statunitense (da me detto “dei funzionari del capitale”, dizione che non ricopre quella di “capitalismo dei manager”, anche se tende a ricomprenderla). Lasciamo stare le classi e seguiamo meglio l’evolversi delle modificazioni strutturali dell’odierna formazione sociale. Intanto però – quindi per questa fase storica che non so quanto durerà, ma è certamente transitoria – teniamo conto di questa lotta multipolare tra Stati/potenza che usano le etnie, le religioni, ecc., cercando di orientarle per quanto possibile ai loro scopi; ma certamente con notevoli perdite di controllo, che sono a mio avviso messe in conto.

    Volete quindi capire infine che ciò che dico lo dico con perfetta coscienza della sua assoluta transitorietà? L’unica cosa di cui sono convinto è che tale transitorietà è necessaria, che voler predicare teorie generali e presunte definitive – e per di più quelle di millant’anni fa, decrepite e orrorifiche – è solo frutto di mentalità dogmatica, che cerca sicurezza perché non si è capaci di vivere nella dura fatica di un nuovo pensare, sapendo che stiamo rimuginando cose labili e passeggere; eppure utili come passi di transizione in un’epoca di completo subbuglio, in cui tutte le precedenti certezze sono terribilmente sconsolanti. Si perde tempo e si rincoglioniscono ancor più i giovani, che già questa scuola merdosa in mano alle “sinistre” umanitarie (solo perché ipocrite) sta riducendo ad analfabeti. Non sto pensando ad alcuna teoria generale da proporre in alternativa al marxismo.
    “Porca la bissa”, si può infine essere capiti?

    1. Mi sento di condividere il ragionamento di La Grassa sui punti 1 2 3 4. Contemporaneamente sul piano antropologico /biologico la pulsione materna mi impegna in una interrogazione di trascendenza (che peraltro tutte le religioni contemplano) pulsione alla vita, alla propagazione, al nuovo della figliolanza, alla creazione di impensato. Le donne tengono questo segreto nella loro creaturalita’ biologica, gli uomini acconsentono ma forse non comprendono davvero.
      È innegabile che il pensiero del mondo occidentale degli ultimi secoli crede di assumere e insieme di trascendere la creazione umana, soprattutto femminile. L’unilateralita’ maschile della cultura dà per scontato il lavoro generativo femminile. Ma il problema si ribalta su di essi: perché generare in tale cieco e opaco futuro?
      Eppure, anche se sempre meno, qui da noi le donne continuano a generare: hic Rhodus, signori, hic salta.

  37. Vorrei dire in termini generali, che quella che stiamo vivendo, NON è la crisi del sistema capitalistico e neppure del pensiero di Marx, ma è la crisi del Sistema Generale. Corrisponde più o meno alla crisi per la caduta dell’Impero Romano o alla crisi del Sistema Feudale. Il mondo sta cambiando e nessuno può dire ora cosa ne verrà fuori. Certo un lungo period di grandi turbolenze.
    Chiederei poi a La Grassa di chiarire meglio come vede i rapporti geopolitici mondiali e come pensa si possa agire a questo riguardo

  38. L’impressione è infatti quella; sembra una “decadenza” lunga e largamente incompresa, ma non certo per semplice poca intelligenza, che semmai è più effetto che causa del “fatto”. Per i chiarimenti – che chiariranno assai poco, temo – rinvio a tutte le cose che vado scrivendo ormai da anni e che spero di continuare a scrivere ancora almeno per un po’.

  39. APPUNTO N. 4

    DOPO IL COMUNISMO COSA?

    «Il comunismo è finito, morto e sepolto. E’ finito nel ’17» (La Grassa). Se s’intende quell’«esperimento profano» analizzato da Rita di Leo o, come diceva Preve, il «comunismo novecentesco», si può concordare. E anche sulla data di morte. Ricordo che in qualche scritto Fortini parlava di “tragedia del 1917”. Ma in questa discussione chi sta sostenendo il contrario? Qualcuno dice che la « transizione al comunismo») sta proseguendo implacabile o magari in modo carsico? Per me, il dissenso tra noi è su altro. Quali conseguenze vengono tratte dalla constatazione di questa morte? Come dalla «morte di Dio» proclamata da Nietzsche alcuni trassero la conclusione che tutto fosse lecito per l’uomo ed altri – credo Sartre – vi videro l’occasione per un’assunzione di maggiore responsabilità e di una libertà umana senza più fondamenta nel divino, così, nel tirare le somme del fallimento di *quel* comunismo, trascurando il salto sul carro dei vincitori di tanti che non m’interessa, a me non pare giusto dedurre la necessità di abbandonare qualsiasi prospettiva anticapitalista. E vedete che concordo con La Grassa anche quando dice che non abbiamo più nessuna «idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi)». Obietto però che, se uno neppure si pone più il problema, mai si potrà pensare a una società diversa da questa capitalistica; e che – cosa non irrilevante anche se *non si vede* e per ora non è concettualizzabile – un qualche bisogno confuso di essa resta. Perciò il mio ragionamento all’incirca potrebbe essere questo: sì, l’ipotesi di Marx non s’è realizzata, ma la direzione del suo pensiero resta valida (specie se non riduco Marx a scienziato, che pure esiste ma non nella maniera che a me pare rigida e unilaterale con cui ne parla La Grassa). E perciò, ricordando il suggerimento di Claudio Napoleoni in «Cercate ancora » (1990), la mia tendenza è a tener conto della storia da cui veniamo, anche di sconfitta, ma diversifica al suo interno – accennavo alla corrente “calda” e a quella “fredda” -, non tutta disprezzabile; e da revisionare, sì, ma senza nevrosi da lutto e nostagie.

    Considero attentamente anche l’altra obiezione di La Grassa: di quale capitalismo parliamo. Di «quello vissuto all’epoca di Marx, [di] quello delle due guerre mondiali, [di] quello emerso con lo strapotere degli Stati Uniti»? Le sue trasformazioni storiche (di superficIe e profonde) non vanno azzerate o trascurate mediante un uso generico, onnicomprensivo e spesso demonizzante del termine. Tenendo a mente tutta la complicata e anch’essa spesso scolastica discussione su postmodernità, ipermodernità, transmodernità, mi chiedo: il capitalismo studiato da Marx, trasformatosi quanto vuoi e magari moltiplicatosi in capitalismi, non mantiene come suo tratto fondamentale (e irrisolto) quel contrasto tra uguaglianza formale del mercato e diseguaglianza reale, indicato dallo stesso La Grassa? Che è poi la cosa che riguarda la tanto trascurata trasformazione del lavoro d’oggi nelle società post-industriali.

    Dice ancora La Grassa: «Difendiamoci e diciamo quello che esiste oggi». Ma quello che esiste oggi non ha PROPRIO più nulla a che fare con il capitalismo studiato da Marx? La «proprietà o meno dei mezzi di produzione […]fa oggi ridere se la si vuole usare per definire ancora i rapporti sociali di un capitalismo del tipo statunitense» che egli chiama «dei funzionari del capitale», ma questo non significa che la lotta anticapitalistica andrebbe aggiornata e rafforzata e non abbandonata o ridimensionata a normale lotta redistributiva del «pluslavoro/plusprodotto/plusvalore» o ritenuta perfino dannosa se non subordinata alla strategia dell’«autonomia nazionale»?

  40. APPUNTO N. 5

    LE LOTTE DEI LAVORATORI (DELLE “MASSE”)

    Quando La Grassa s’interroga sulle mancate lotte dei lavoratori è giustamente preoccupato: « Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)?». E in questo commento aggiunge:: «Siamo entrati in un’altra epoca in cui finalmente le masse popolari (sempre più segmentate e stratificate e in cui i veri operai sono una minoranza ….. sempre minore) si dedicano, e al momento con scarsa efficacia (e ciò preoccupa anche me!), a difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro in continuo peggioramento. Lo Stato sociale è progressivamente smantellato. Sono assolutamente d’accordo nella difesa di queste condizioni di vita e di lavoro nonché dello Stato sociale. Basta che non mi si racconti che questa è lotta anticapitalista nel senso in cui la s’intendeva quando i comunisti sapevano che cos’era il marxismo. Difendiamoci e diciamo quello che esiste oggi, non inventiamoci fantasie che dividono e irritano chiunque ancora si ricordi effettivamente del comunismo d’antan». Concordo. Ma mi va di far presente due cose:
    – «La difesa delle condizioni di vita e di lavoro nonché dello Stato sociale» è un altro tipo di «cambio di paradigma» rispetto a quello proposto da La Grassa e richiederebbe un’attenzione maggiore alle “trasformazioni del lavoro” di cui sappiamo in fondo ben poco e delle inchieste per andare a vedere davvero cosa ribolle in esse. Ai suoi tempi sia Marx, sia Engels, sia Lenin ( malgrado giudicasse gli operai “tradunionisti”), sia Mao, un po’ d’inchiesta tra gli operai o le masse la facevano o la proponevano. Non mi pare – è una constatazione che riguarda sia «Poliscritture» che «Conflitti e strategie» – che di inchieste di questo tipo si sia sentita davvero l’esigenza. Mi chiederei perché.
    – Proprio in base all’esigenza di parlare delle cose che esistono oggi senza abbandonarsi a fantasie e a nostalgie per il «comunismo d’antan», andrebbero viste sotto altra luce le esperienze degli operaisti (almeno i “pensanti”!) di cui La Grassa ha sempre diffidato.
    Se si ha tempo, si ascolti la testimonianza di Mario Dalmaviva in questo video

    ) ripubblicato in occasione della sua recente morte). E si legga questo stralcio di testimonianza di Sergio Bologna:

    «« Per me invece l’operaismo è qualcosa da cui non riesco a liberarmi, fa parte della mia natura ed è a misura delle mie modeste capacità intellettuali. Non ho ambizioni superiori, forse perché non ho mai osato pensare la rivoluzione comunista, la distruzione dello stato borghese mi è apparsa sempre una prospettiva così lontana da impedirmi di “pensarla”. Anzi, dirò di più, io non ho mai condiviso l’idea di tanti compagni di essere i “veri comunisti”, quelli che hanno raccolto la bandiera del comunismo lasciata cadere dai partiti riformisti e oggi neoliberali. La mia adesione completa, convinta, all’operaismo derivava dal fatto che pensavo di ritrovarmi in mezzo a persone che consideravano il comunismo un’esperienza storica conclusa e che dinanzi a noi si apriva una strada ignota, tutta da scoprire, che doveva portare alla liberazione dalle due dominazioni: quella capitalista e quella del cosiddetto “socialismo realizzato”. A mio avviso solo dopo il ’77 Toni Negri si allontana anche lui consapevolmente dalla tradizione comunista e affronta l’ignoto del postfordismo. Lo fa anche nel momento in cui si allontana dalla prospettiva leninista-potoppina e in cui prende le distanze dalla lotta armata (che, diciamolo, è stata la più eclatante versione moderna del leninismo). Io ho continuato a studiare il comunismo da storico e mi sono trovato a dover metterne in risalto meriti – per esempio nel saggio ”Nazismo e classe operaia” – che gli stessi partiti comunisti del dopoguerra avevano voluto dimenticare e seppellire.
    […]
    quei 12/13 mesi passati in “Potere Operaio” non mi hanno lasciato dentro niente. Mi spiace dirlo, perché so quanto quell’esperienza ha significato per tanti compagni a cui sono ancora fortemente legato dal punto di vista umano e non solo. Fedeli a quella esperienza, hanno sopportato senza battere ciglio anni di galera e ancora oggi non riescono a distaccarsene, rimane l’esperienza fondamentale della loro vita. Io ho vissuto quei mesi in maniera schizofrenica, con la sensazione – continuamente ricacciata nel profondo dell’animo – che stessi tradendo quella diffidenza verso il leninismo che il mio spirito libertario considerava una componente essenziale della “nuova” militanza. Anche se in “Potere Operaio” ho trovato parti della mia vita, soprattutto dal lato affettivo, sia dal punto di vista intellettuale che dal punto di vista politico, il bilancio dell’esperienza in quella organizzazione per me è zero. Sicché quando si dice che me ne sono andato perché ero contrario all’uso della violenza non è vero, non è vero. Potevo essere contrario al modo in cui si pensava di esercitarla o ai personaggi su cui si pensava di poter contare (ho avuto facile ragione, ahimè). Ma la verità è che me ne sono andato perché “Potere Operaio” era la riproduzione di un modello bolscevico fuori tempo, analogo a quello di tutti i gruppi extraparlamentari, non aveva quella bella “diversità” che è propria dell’operaismo, anzi ne era la negazione. Ma forse sono io che non l’ho capito. Sta di fatto che solo quando me ne sono uscito ho ricominciato un certo lavoro teorico, ho ricominciato a respirare, a pensare politicamente, a rivivere dentro il movimento».

    ((http://www.commonware.org/index.php/neetwork/541-precisazioni-su-operaismo.)

    Voglio dire, insomma, che altri hanno proprio lavorato e da tempo in questa direzione. Anche questo è un «cambio di paradigma» che ha portato ad atteggiamenti più realisti. E mi chiedo se, affrontando con gli strumenti adatti e da vicino le trasformazioni del lavoro, come ha fatto Sergio Bologna negli ultimi decenni con le sue ricerche e i libri sul “lavoro autonomo di seconda generazione” non si capisca un po’ di più anche che tipo di capitalismo abbiamo di fronte.
    Mi piacerebbe capire cosa ne pensano La Grassa e gli altri partecipanti alla discussione. Aggiungo subito dopo un dubbio: se le «contraddizioni più acute sono, come scrive La Grassa, « quelle tra etnie e quelle tra religioni», anche una rinnovata attenzione alle possibili lotte dei lavoratori rischia di mancare l’appuntamento con i problemi aperti dalle «contraddizioni più acute». Per non parlare poi dei legami, che si potrebbero/dovrebbero stabilire o no con le riflessioni più geopolitiche. Sono questioni ingarbugliate e forse insolubili. Ma non mi farei scoraggiare e non dimenticherei mai l’esigenza posta da Donato [Salzarulo] in un suo commento (25 luglio 2016 alle 10:25):
    «In una situazione così, persone come me che non sono grandi economisti e grandi teorici, hanno bisogno di strumenti diagnostici per orientarsi nella crisi e lottare perché essa venga scaricata il meno possibile su quelle che un tempo venivano chiamate masse popolari.»

  41. avevo inviato risposta, ma non la trovo più. Ho internet che funziona e non funziona però sembrava partito. Invece….. Riprovo

    L’insegnamento di Marx, che non a caso non intendo dimenticare, è di aver analizzato la società del suo tempo (e nel suo “reparto” da lui ritenuto il più avanzato, l’Inghilterra, dove fra l’altro ha vissuto a lungo). E non l’ha analizzata da pasticcione eclettico come tanti intellettuali “rivoluzionari”. Dopo aver liquidato la sua precedente ideologia in quel mare di appunti (che lui non aveva alcuna intenzione di editare perché gli erano appunto serviti per spazzare via le sue superate concezioni) pubblicato ben dopo la sua morte come “Ideologia tedesca”, egli si è dedicato con grande pazienza allo studio dell’economia politica (classica) inglese, di cui restano altre migliaia di pagine poi raccolte e pubblicate da Kautsky e infine risistemate come “Teorie sul plusvalore”. Egli interpreta la realtà inglese del suo tempo utilizzando proprio quella teoria, cui apporta una “piccola” variante: la distinzione tra lavoro (fonte del valore di un prodotto) e forza lavoro, in quanto energia (manuale e intellettuale) contenuta nella corporeità umana e che ha essa stessa valore in base al lavoro speso per produrre quanto necessario alla sua sussistenza e riproduzione (non certo in senso biologico, bensì storico-sociale). Da questa “piccola” (detto in senso ironico evidentemente) variazione derivano tutte le migliaia di pagine de “Il Capitale” e altre opere (però minori). Solo che ne trae determinate conclusioni in un certo senso necessitate dall’applicazione di QUELLA teoria a QUELLA determinata realtà che egli vedeva come tipica dell’Inghilterra; e che per lui annunciava quanto sarebbe avvenuto in breve in tutto il mondo, allargandosi a macchia d’olio. Qui s’inserisce quello che definisco “errore” dopo ben un secolo di sfrenata ideologia “operaia”, che ha nei fatti abbandonato Marx in più di un punto pur credendo di restargli sempre fedele.
    In realtà, l’“errore” non è stato di Marx, ma dei suoi successori che, con tutta tranquillità, hanno riconosciuto la non formazione del corpo dei produttori associati (“dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”, dall’ingegnere all’ultimo manovale); hanno dunque separato i dirigenti dai veri e propri operai di fabbrica. Soltanto questi sono stati considerati la “classe rivoluzionaria”, provocando un corto circuito immane. Per fortuna, dopo il ’17 Lenin e più tardi Mao, ecc. hanno ripiegato sui contadini (sempre dicendo che, in ultima analisi, restava “in sé” rivoluzionaria la classe operaia, ma chissà quando) e hanno realizzato delle rivoluzioni da cui non è nata alcuna società socialista e tanto meno comunista. Tuttavia, io sto dalla parte di quelle rivoluzioni, che adesso hanno però dato tutto quello che potevano dare; e ciò che ne è risultato non ha più nessun significato anticapitalistico come lo agognano ancora i comunisti residuati. Accortomi di tutto questo bailamme, ne ho semplicemente preso atto, ho cercato di coerentizzare sempre meglio quanto teorizzato da Marx in modo da capire dove si è creata la “frattura” che gli ha impedito una corretta previsione della dinamica capitalistica successiva, così diversa da quella inglese (borghese) della sua epoca. E ho tenuto proprio conto dell’insegnamento fondamentale di Marx, sto cioè cercando di analizzare la società nella sua fase storica attuale.
    Per il momento, anche a causa (io credo) degli enormi ritardi accumulati in senso puramente ideologico (e quasi “mistico”) con cui mi scontro, si tratta di un’analisi “in progress” con tutte le incertezze del caso. Questo comunque ho fatto, in completa fedeltà all’insegnamento marxiano. Continuare a declinare mille volte il termine comunismo o anche solo anticapitalismo, non fa fare un solo passo avanti nell’analisi della fase attuale e delle diverse formazioni sociali esistenti in varie aree mondiali. Io vivo qui e di fatto sono influenzato, nell’analisi, dalla società detta “occidentale”. Anche perché la stessa teoria di Marx, da cui pur sempre parto, è “occidentale”, prende le mosse dall’idea che qui era il centro del mondo, che il capitalismo si sarebbe da qui allargato a tutto il mondo uniformandolo. Diciamolo pure: Marx pensava che la vera civiltà è la nostra, le altre sono solo in ritardo. Io non la penso così, ma la teoria che mi serve nell’analisi parte da quella di Marx che ha quell’impronta. Lo so e quindi mi rendo conto dei miei limiti. Ma solo per questo, non perché ho abbandonato l’idea di anticapitalismo, un’idea di nessun significato conoscitivo. Analizzo, come posso, la società del mio tempo e della mia area mondiale. Conosco i miei limiti e non cerco di superarli con quelli che nelle mie convinzioni restano solo desideri; molto onesti, molto buoni, ma non li vedo realistici. E quel che non vedo, non dico.

  42. …non so se sia realistico quanto penso o in qualche modo deformato..Quello che mi colpisce maggiormente del villaggio globale capitalistico in cui viviamo è la forza di coercizione e di persuasione esercitata sulle masse. ai fini di un profitto competitivo.Si può forse parlare di accresciuta violenza dell’uomo sull’uomo e sull’ambiente…Come contrastare questo andamento tra istigazione al suicidio e suicidio? Le credenze servono ancora? O c’è solo il navigare a vista per salvare il poco salvabile? Le lotte nel mondo del lavoro oggi riescono ad essere incisive? O nel clima del “si salvi chi può”, ciascuno pensa alla sua particolare situazione e si appiattisce sul quotidiano, a volte addirittura facendosi ricattare da chi lo sfrutta pur di non perdere la mesata? Forse mancano proprio le credenze, cioè ce le hanno strappate…

  43. Personalmente, appoggio le lotte per le proprie condizioni di vita e di lavoro. E ritengo che vadano salvaguardati per quanto possibile coloro che per varie ragioni (non solo individuali ma anche di gruppo sociale d’appartenenza) si trovano in maggiori difficoltà nel difendere queste condizioni base del vivere sociale. Non vanno però solo appoggiate le lotte di coloro cui si dà il nome di lavoratori perché salariati. Ci sono ormai molti altri che lavorano con introiti diversi dai salari; e questi a volte vivono anche peggio dei salariati e magari non hanno le stesse possibilità (in genere d’associazione) per difendere le loro situazioni non brillanti. Ripeto che questo tipo di lotta va sicuramente sostenuto da chi non è ormai completamente in un mondo altro (e assai ristretto) rispetto alla grande maggioranza della popolazione. L’importante è capire che questa non è lotta rivoluzionaria, non trasforma né abbatte il sistema sociale attuale che sempre più tende ad essere seguito anche in paesi che si sono sollevati dai livelli di sottosviluppo. In paesi diversi ci sono molte particolarità specifiche, ma la diffusione delle relazioni mercantili, la concorrenza, i redditi definiti profitti, ecc. non vengono contestati nemmeno in Cina, in India, in Brasile e via dicendo. Oggi poi si sta diffondendo nel mondo un notevole caos, susseguente a quello che si definisce multipolarismo e su cui c’è ancora una sordità impressionante presso le nostre popolazioni stordite da settant’anni di pace e di sostanziale benessere (comunque livelli di vita crescenti). Dobbiamo aspettarci una lunga epoca di transizione, assai difficile e anche dolorosa, in cui non sarà ben chiara la strutturazione sociale dei nostri paesi. Dobbiamo attrezzarci con teorie nuove o radicali ripensamenti delle vecchie; e cercare interpretazioni diverse di quanto sta accadendo rispetto a quelle sempre date in tempi andati con una pigrizia mentale impressionante.

  44. cambiando discorso, vorrei aggiungere che a me interessano gli studi condotti con un apparato teorico alle spalle e non semplicemente intrisi di empirismo sociologico spicciolo. Bene o male io ho un apparato teorico che è di fatto quello di Marx, con la variazione: dalla centralità della proprietà (non in senso giuridico) dei mezzi di produzione (che comporta un ben preciso indirizzo dato all’analisi dei conflitti sociali nella fase storica del capitalismo che, per Marx, era quello inglese) alla centralità del conflitto di strategie per la supremazia, che implica una diversa analisi delle lotte in corso nel capitalismo d’ultima fase (ultima finora). Certamente la variazione apportata implica drastici rimaneggiamenti dell’apparato teorico marxiano; e rimaneggiamenti in corso d’opera, non “precipitati” nella pretesa di una teoria generale della trasformazioni sociali come si trova ne “Il Capitale”. Tuttavia, un certo apparato teorico esiste, mentre certi sociologi si limitano alla rilevazione empirica di date fattualità. Studi a volte interessanti, utili, ma qualcosa di diverso da ciò che cerco io.

  45. SEGNALAZIONE
    (*A proposito di scientificità, di inchiesta, di “immaginari di partenza”)

    La storia orale nel mondo digitale. Parla Alessandro Portelli
    a cura di Daniele Bova

    Stralci:
    1.
    Alessandro Portelli ha scritto un saggio nel 2007,Generations at Genova(contenuto nella raccoltaStorie Orali) che, attraverso una serie di testimonianze dirette di chi ha vissuto quell’esperienza, ricostruisce le vicende di quei tumultuosi giorni. “Genova è il primo grande evento di massa dell’epoca dei cellulari – ci dice Portelli -, il primo evento di massa delle tecnologie digitali. Al tempo, è stato l’evento più accuratamente documentato dalla storia dell’umanità: c’erano tante telecamere e macchine fotografiche quanto persone. A me per esempio ha colpito il film diFrancesca Comencini, «Carlo Giuliani Ragazzo», in cui sostanzialmente riusciamo a seguire Carlo Giuliani dal momento in cui esce di casa fino a Piazza Alimonda. Questa modalità di fare storia è molto “presentista”: ha una funzione importante dal punto di vista giudiziario, di ricostruzione dettagliata degli eventi. Quello che invece fa la storia orale è un’operazione più centrata sulla “messa in prospettiva”. Il progetto al quale abbiamo dato vita (che poi è il seguito di un mio vecchio progetto sulla Pantera) consisteva nel focalizzarsi sul vissuto di alcuni studenti alla prima esperienza con le manifestazioni. Fecero interviste alla gente che era lì: l’idea era quella di vedere che tipo di impatto profondo avessero questi eventi; non si trattava di ricostruire, per esempio, se Carlo Giuliani avesse o meno un estintore, ma di indagare quali trasformazioni questa esperienza comportava nel vissuto personale, profondo, della gente che vi prese parte. *Per molti è stata la scoperta della violenza dello Stato. Mi è rimasta impressa la testimonianza di questa ragazza che mi disse: ‘Io avevo i girasoli in testa, tu perché mi manganelli che io ho i girasoli in testa? Non lo capisci che sono innocua?”.*
    Partendo da questo approccio di testimonianze dirette è stato possibile illuminare una nuova prospettiva degli eventi: una narrazione che per emergere ha avuto bisogno di tempo. “Abbiamo scoperto le ripercussioni che quei fatti hanno avuto sulle persone a distanza di anni – continua Alessandro Portelli – in molti hanno generato *una precisa e radicata memoria, il cui contenuto è quello di ‘non poter contare su nessuno’*. Dal momento in cui la politica e il sindacato se ne sono tirati fuori, gran parte dei racconti che ho ascoltato su Genova si riferiscono a persone che dicono ‘siamo disarmati, abbandonati’. Per alcuni questo ha contribuito a mettere fine alla loro esperienza politica, per altri è stato un incentivo a continuare. La stessa polarizzazione l’avevo verificata su un altro studio che avevo condotto anni prima su Valle Giulia: la scoperta delle cariche della polizia ingenerò in coloro che vissero quella situazione una sorta di spaesamento, esemplificato nella domanda, ‘ma come, non sono nemmeno operaio e tu mi carichi?’
    2.
    Chiediamo ad Alessandro Portelli se oltre a integrare con una pluralità di punti di vista “soggettivi” la narrazione storica dominante, l’approccio al racconto orale possa rivendicare affidabilità scientifica.
    “Dipende da che significato vuoi dare al termine scientifico – ci dice – se vogliamo applicare alle scienze umane i principi delle scienze naturali incontreremmo senz’altro dei problemi. *Con la storia orale bisogna fare i conti col fatto che gli eventi avvengono a un altro livello, a un livello immateriale, di credenze, convinzioni, emozioni* che determinano il senso di quello che è successo. Più che l’evento esteriore, andiamo a scandagliare cosa questo comporti a lungo andare nella vita degli ‘attori’ della storia, e soprattutto in che modo queste persone riescano a costruire un discorso intorno a quei fatti, a mettere in parole le loro esperienze. Una cosa molto interessante di questo approccio è, per esempio, accorgersi di quando i discorsi sono sbagliati, perché allora entra in gioco l’immaginario, il desiderio, la costruzione di senso: e bisogna giocare sullo scarto, sul dislivello che si viene a creare tra come è andatala realmente la situazione e come questa viene raccontata. Quindi si mette in moto un meccanismo che ti permette di costruire delle ipotesi plausibili (non delle certezze) su cosa gli eventi significhino per le persone che vi hanno partecipato. Sul perché vengono raccontati: in fondo, se uno le cose se le ricorda è perché per lui hanno un significato particolare. Se le cose te le scordi vuol dire che o sono insignificanti oppure che significano troppo…”
    Oltre a far leva sulla capacità di lettura della psicanalisi, su modalità che rimandano a un modus operandi antropologico, sulla continua attenzione “metalinguistica” rispetto al significato di ciò che viene raccontato, la storia orale pare basarsi su un modello più democratico rispetto a quello della storia “classica”. Portelli sembra in parte concordare su questo aspetto: “In merito alla questione dell’interdisciplinarità, c’è da dire che per fortuna abbiamo 130 anni di psicanalisi alle spalle: senza pensare che intervistare qualcuno voglia dire psicanalizzarlo, sappiamo benissimo che i sogni sono carichi di senso, così come le fantasie e i lapsus, e quindi anche se un sogno non è affidabile come fonte storica “oggettiva” è fondamentale lo stesso. Per quel che riguarda la maggiore democraticità, sono abbastanza d’accordo. Perché dai ascolto a una quantità di persone che di norma non vengono ascoltate; non è che gli dai propriamente voce: le persone la voce ce l’hanno. Semplicemente *le rendi udibili: perché di solito nessuno le sta a sentire*. Poi immetti questa esperienza all’interno di una narrazione storica complessiva”.
    3.
    Una grande questione dei nostri tempi è quella di trovare una chiave interpretativa che chiarisca il fenomeno dei cosiddetti attentati islamici. In particolare determinare il senso specifico della matrice islamica di questi attacchi: in che modo i terroristi sono affiliati all’IS? In che senso possiamo pensare che siano delle schegge impazzite? Come possiamo integrare alle nostre interpretazioni la lettura che li dipinge come frutto di una deriva psicotica, strettamente legata al mondo occidentale? “È difficile. Avresti bisogno di ascoltare loro – riflette Alessandro Portelli – e in questo contesto i soggetti da intervistare o sono morti, o sono sotto le lenti del sistema giudiziario. Inoltre per il lavoro storico c’è bisogno di prospettiva, di vedere come quello che accade si condensa nel tempo. Disporre delle testimonianze a caldo, anche di chi è stato vittima di attentati, può essere utile per confrontare quel che la gente racconta un anno dopo o sei mesi dopo.
    Detto ciò, a me ha colpito molto la storia di questa donna che a Monaco sosteneva che l’attentatore gridasse ‘Allah Akbar’. Se l’è inventato, perché è quello che uno si aspetta in una situazione del genere: un atto terroristico collegato alla presenza di un musulmano. È un errore profondamente rivelatore, che illumina non un fatto realmente accaduto, ma le dinamiche del profondo: *esiste cioè un senso comune per cui se c’è un atto di violenza viene automatico iscriverlo all’ideologia islamica*. Ora, in quel caso non era così, in altri casi sì; ma viene da chiedersi: perché nessuno chiama terrorista il killer che ha ucciso 19 persone in Giappone? Semplicemente perché non è islamico. Questo dipende da una costruzione che ci siamo fatti per cui ci dimentichiamo che la maggior parte delle vittime di violenza armata negli Stati Uniti, per esempio, sono cadute in stragi commesse da cittadini bianchi e cristiani: infatti nemmeno quelli li chiamiamo terroristi. Mi sembra che in questo preciso momento storico l’opinione pubblica sia imprigionata in un doppio vincolo: da una parte le sirene di un soggetto molto informe, chiamiamolo pure ISIS, che si ricollega all’estremismo islamico e che continua a rivendicare attentati; dall’altra un discorso mediatico che semplifica tutto, perché semplificare è molto più facile’.
    (http://www.unita.tv/…/la-storia-orale-nel-mondo-digitale-i…/)

  46. Mi sento sollevato. Giunto in ritardo a questa discussione, trattenuto dall’idea che potrei capitare nell’ennesima disquisizione su Marx e Marxismo, ecco che invece ne esce una interessante dichiarazione che (non) verte su due principi :
    1 – una “piccola variante: la distinzione tra lavoro (fonte del valore di un prodotto) e forza lavoro, in quanto energia (manuale e intellettuale) (…) Da questa “piccola” (detto in senso ironico evidentemente) variazione derivano tutte le migliaia di pagine de “Il Capitale” e altre opere (però minori)”. Affermazione dalla quale ricavo il sospetto che, chiarita la variante e sostituita con un’altra più aggiornata, si possa poi scrivere il Capitale II°, o un’altra cosa magari nel titolo meno pretenzioso. Su questo non ho pensieri tranne, mi domando, perché La Grassa sposti l’attenzione alla questione degli stati nazione e la ponga oggi come centrale ( ma non ho letto quindi mi astengo). Però, almeno Marx parlava di forza lavoro e qui bene o male uno poteva sentirsi parte in causa. Ma se guardiamo alla geo politica, sempre quell’uno potrebbe pensare: ma a me, in fondo, che me ne cala? E poi, è da che son nato che so di non contare niente su questioni come queste.
    2 – La realtà è in continua trasformazione, niente ingessature ideologiche che già abbiamo visto a cosa hanno portato. Letto così, perché non dovrei pensare a Bauman e alla società liquida? Ma La Grassa, è un dissidente (termine da leggersi come generico) oppure un intelligente seguace del suo “scienziato” preferito? Tanto altro, almeno stando all’intervista in oggetto, non ci vedo.

  47. SEGNALAZIONE
    (*A proposito di realtà conoscibile/inconoscibile o decifrabile/indecifrabile)

    Tolstoj, la storia e la promenade des Anglais
    di Antonio Sparzani

    Guerra e pace non è soltanto la complessa storia della bella Nataša, del principe Andrej, del conte Pierre Bezuchov e del loro rutilante contorno di aristocrazia russa, è anche in molte occasioni una riflessione sui più svariati temi della cultura dell’epoca e in particolare sulla storia in generale, che Tolstoj introduce descrivendo e ripercorrendo le vicende dell’esercito russo comandato da Kutuzov durante la disastrosa campagne de Russie intrapresa da Napoleone nel 1812.
    L’inizio della parte terza del terzo libro dell’opera suona così «La mente umana non riesce a concepire l’assoluta continuità del moto», che sembra un’affermazione a metà tra meccanica e psicologia, ma che fornisce all’autore lo spunto per una riflessione, tra l’altro non priva di risvolti matematici, sulla questione discreto/continuo che a quel tempo (Guerra e pace usci per la prima volta completo nel 1869) era attivamente dibattuto negli ambienti della matematica tedesca: Richard Dedekind pubblicò nel 1872 il primo sistematico risultato di questo dibattito, sistemando finalmente in maniera precisa la questione della continuità.
    Tolstoj (vedi già un accenno qui) certamente aveva sentito parlare e anzi in qualche misura appreso i progressi dell’analisi, come si capisce anche da quanto aggiunge poche righe dopo quell’inizio citato; eccolo:

    «Questa nuova branca della matematica, sconosciuta agli antichi, nel momento in cui ammette, a proposito dei problemi del moto, grandezze infinitamente piccole come quelle in cui si ripristina la condizione principale del moto (cioè l’assoluta continuità), corregge l’errore che la mente umana commette inevitabilmente quando esamina singole unità del moto invece del moto continuo.
    Nella ricerca delle leggi degli avvenimenti storici accade esattamente la stessa cosa.
    Il movimento dell’umanità, essendo l’espressione di un numero infinito di volontà umane, si compie in modo continuo.
    Impadronirsi delle leggi di questo movimento è lo scopo degli storici. Ma per afferrare le leggi del movimento continuo costituito dalla somma di tutte le volontà umane, la mente dell’uomo utilizza unità arbitrarie e discontinue. Il primo passo di ogni ricerca storica consiste nel prendere una serie arbitraria di avvenimenti continui e nell’esaminarli separatamente dagli altri; mentre nessun avvenimento ha, né può avere, un principio a sé, giacché ogni avvenimento scaturisce, senza soluzione di continuità, dall’altro. Il secondo passo consiste nell’esaminare l’azione di un uomo, re o condottiero, come una somma di volontà umane, mentre la somma delle volontà umane non si esprime mai nell’attività di un solo personaggio storico.
    La scienza storica, nel suo evolversi costante, esamina unità sempre più piccole, e per questa via tende ad avvicinarsi alla verità. Ma, per quanto piccole siano le unità che essa prende in considerazione, noi sentiamo che valutare un’unità separatamente dall’altra, o ammettere che sia possibile il principio di un qualsiasi fenomeno, è falso così come è falso ammettere che la volontà di tutti gli uomini si esprima nelle azioni di un solo personaggio storico.
    Ogni deduzione della storia si sfalda come polvere al minimo sforzo critico, senza lasciare nulla dietro di sé, per il solo fatto che la critica scelga come oggetto d’osservazione un’unità discontinua maggiore o minore. cosa che può sempre fare, dal momento che l’unità assunta dalla storia è comunque arbitraria.
    Solo sottoponendo all’osservazione un’unità infinitamente piccola, un differenziale della storia, vale a dire le tendenze omogenee degli uomini, e riuscendo ad integrare, cioè ad esprimere la somma di questi valori infinitamente piccoli, noi possiamo sperare di comprendere le leggi della storia». (Lev N. Tolstoj, Guerra e pace, trad. it. di P. Zveteremich, Garzanti, Milano 1982, pp. 1237-39)

    Significativamente Tolstoj dice «possiamo sperare di comprendere le leggi della storia», non dice che si possa arrivare a farlo. E anzi, sembra a me che tutto il suo ragionamento tenda a far capire come sia in verità impossibile raggiungere questo risultato.
    Ammesso naturalmente che esistano queste misteriose “leggi della storia”.
    Anche perché, e qui vorrei arrivare a riflettere sul tipo di “informazione storica” cui siamo quotidianamente esposti nella nostra epoca, nella quale sembra che “tutte” le informazioni facciano il giro del globo in pochi secondi: l’altro fattore che impedisce una vera conoscenza storicamente affidabile è proprio che queste informazioni son ben lontane dall’essere “tutte”: l’informazione che abbiamo, mediamente, è frammentaria, parziale, deformata, labile, e anche, inevitabilmente, controllata. Ed è questo che, terribilmente, produce ignoranza, talvolta ingenua, talaltra arrogante.
    Guardiamo i fatti che consideriamo rilevanti della nostra epoca, le guerre, i colpi di stato, i fanatismi estremi dai quali siamo ormai circondati: qualcuno sa chi davvero progettò l’assassinio di Kennedy? Forse c’è ancora qualcuno che lo sa, ma, una volta morto lui, nessuno più ne avrà idea. O le torri gemelle? Oppure quest’ultima ignominia della Promenade des Anglais? Certo i “servizi” trovano telefonate, messaggi, appunti, contatti, ma sapremo mai davvero chi e perché ha armato la mano del killer di turno? Sappiamo, o sapremo mai, chi e con quali mezzi ha organizzato il cosiddetto colpo di stato in Turchia?
    Abbiamo molte ipotesi, congetture, ogni tanto si scopre qualche nuovo documento che “getta nuova luce” su avvenimenti del passato, il che è bene, naturalmente, significa che magari ci approssimiamo di più a qualcosa che non sapevamo, ma se guardiamo alla mole di avvenimenti anche solo della storia moderna, c’è di che disperarsi: nel nostro particulare basta pensare a tutta la “strategia della tensione” che ha fatto centinaia di vittime qui da noi e sulla quale ancora nessuna “piena luce” è stata fatta.

    È come un grande mare pieno di onde: vediamo le onde e ciò naturalmente è molto utile per poterci navigare un po’. Ma sotto le onde ci sono le correnti, le maree, un complesso di movimenti dell’acqua che mai perfettamente conosciamo. Qualcuno che conosce le correnti sottomarine, almeno localmente, ci sarà certo, ma questa è la conoscenza che non si propaga.

    Accade come nella scienza: le vecchie teorie spariscono e vengono soppiantate da altre perché muoiono i loro migliori sostenitori. Nella storia invece muoiono quei, pochi, che sanno davvero cosa è successo perché l’hanno fatto succedere loro.

    (https://www.nazioneindiana.com/2016/07/26/tolstoj-la-storia-la-promenade-des-anglais/)

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