Gabriel Celaya: la poesia è un’arma carica di futuro

Gabriel_Celaya

di Alessandro Scuro

Interessato in gioventù alle sperimentazioni formali e alle elucubrazioni oniriche dell’arte per l’arte, come la maggior parte dei suoi coetanei, Gabriel Celaya fu tra i molti che in seguito agli eventi del 18 luglio del 1936 trovarono inadeguati quei versi raffinati, colpevoli quegli artifici indifferenti ad una realtà che non poteva più essere ignorata senza complicità. I poeti in erba degli anni precedenti alla guerra, inevitabilmente influenzati dalla Generación del 27, si ritrovarono a vivere il dilemma maireniano, travolti da una barbarie che la ragione non poteva sopportare. La morte, l’esilio e il silenzio rassegnato al quale la censura e la repressione fascista avevano costretto i superstiti, lasciava quei giovani orfani della maggior parte dei propri riferimenti. Impossibile per loro mostrarsi docili verso l’ordine immutabile delle cose, dopo aver visto stravolgere con i propri occhi speranze e possibilità, soffocate dalla tradizione più nefasta.

L’avvento del franchismo aveva spazzato via buona parte del patrimonio culturale della Repubblica e dei decenni precedenti, e il suo atteggiamento nei confronti del mondo intellettuale fu chiaro sin da subito[1]. Le morti di alcuni dei protagonisti di quegli anni, durante la guerra civile o in conseguenza dei suoi sviluppi, avevano lasciato impressi nell’immaginario comune i nomi e le parole dei protagonisti di quell’epoca. Difficile immaginare oggi la sensazione provocata in un giovane spagnolo degli anni Cinquanta dalla lettura dei versi di Antonio Machado, Federico García Lorca o Miguel Hernández. Alla diffusione delle loro opere e di quelle di altri poeti esiliati, scomparsi o messi a tacere, contribuirono in buona parte Celaya e i suoi contemporanei, ma anche i numerosi cantautori che ne musicarono e interpretarono i versi[2].

Il poeta basco fu autore della raccolta manifesto della poesia sociale, più che un movimento, una tendenza riscontrabile nell’opera di numerosi autori spagnoli che, a partire dagli anni Cinquanta fino alla morte del Caudillo, si schierarono apertamente, nella vita così come nei versi, in aperta opposizione al regime franchista e alla realtà del quale esso era responsabile. In Cantos Ibéros (1954) Gabriel Celaya parlava di una poesia necessaria come l’aria, come il pane quotidiano, un servizio di pubblica utilità a favore dell’immensa maggioranza, un’arma carica di futuro, uno strumento in grado di cambiare il mondo; versi e parole che a lanciarli contro un vetro l’avrebbero infranto. Il suo monito venne accolto non solo da molti coetanei e predecessori, ma anche dai giovani nati negli anni intorno alla guerra e cresciuti sotto le bombe, ai tempi della repressione più dura.

Inevitabile la loro partecipazione al coro delle proteste, che a partire da quegli anni iniziarono a farsi più rumorose, ma che, fino al termine della dittatura, nonostante la crescente attenzione internazionale per il paese, continuarono ad essere represse con ogni mezzo possibile. Il regime franchista aveva stretto nel frattempo accordi internazionali con il favore degli Stati Uniti (che preferirono tollerare uno scomodo alleato, piuttosto che perdere un territorio strategicamente necessario in chiave anticomunista) e si rivestiva di nuovo, conservando metodi autoritari e applicando ad essi le illusioni capitaliste[3].

Tra quei nuovi giovani poeti, nel gruppo catalano, c’era anche José Austín Goytisolo[4], autore del testo intitolato «Homenaje a Collioure», letto in occasione della visita alla tomba di Machado, il 22 febbraio 1959[5]. Non a caso quei bambini magri e insudiciati, che giocavano a far la guerra mentre il poeta, grave e lucido, andava incontro alla morte si ritrovavano, allora ad omaggiarlo. Le sua era per loro la testimonianza di un passato ancora in corso; le sue parole e la sua vita, scintille di un avvenire ostacolato da usurpatori di speranze.

Col passare del franchismo e della transizione democratica la poesia sociale è stata archiviata nel ricordatorio degli omaggi e delle celebrazioni di un periodo storico concluso; la Spagna è necessariamente trasformata rispetto ad allora e i toni di quella violenza appaiono forse fuori luogo oggi come negli ultimi quarant’anni. Molti dei protagonisti dell’epoca come lo stesso Celaya, sopravvissero al franchismo e continuarono a scrivere negli anni della giovane democrazia spagnola, sposando e difendendo le cause che la nuova attualità suggeriva, filtrata attraverso i residui della storia recente. Un decennio dopo la morte di Francisco Franco, Celaya attribuiva alla sua opera un’urgenza precisa: «La Poesia non cerca un fine in sé. Essa cerca un avvenire nel quale, consumata cesserà di essere quello che oggi è». Una poesia che non può essere mai, senza peccato, un addobbo, né una mera testimonianza di un passato incontrovertibile; ma una materia viva, utile al presente, necessaria ad ogni futuro nel quale sia ancora necessario liberare la vita da una sopravvivenza generata dal sopruso, in ogni sua forma.

Chissà come avrebbe commentato Benjamin gli eventi della guerra civile spagnola e della dittatura franchista e quale ispirazione avrebbe tratto da quei poeti, che forse non ha nemmeno mai letto, né conosciuto. È più che lecito in questo caso utilizzare ancora una volta un suo scritto, un misconosciuto saggio su La regressione della poesia di Karl Gustav Jochmann[6] nel quale l’autore osserva come «il progresso dell’umanità sia strettamente legato alla regressione di molte altre virtù, ma innanzitutto alla regressione dell’arte poetica».

Nel saggio di Jochmann la poesia è il linguaggio dei primi uomini, la facoltà più feconda, in quanto la più intelligente in un mondo dominato dalla scoperta e dall’immaginazione, nel momento in cui nessun’altra facoltà umana ha raggiunto un eguale sviluppo. Mano a mano che gli uomini riuniti in società sempre più complesse ed efficienti, hanno intrapreso le vie della tecnica, della scienza e del progresso, la poesia ha lentamente esaurito la sua funzione primordiale riducendosi, inservibile, a puro ornamento. Questo progresso esteriore che conduce la storia di ogni epoca deriva, secondo l’autore, dalle ragioni che «hanno imposto allo spirito dell’uomo un’orientazione dominante e quasi esclusiva» e in conseguenza delle quali «le forze dello spirito che, come insegna l’esperienza, sono suscettibili di conoscere uno sviluppo di una diversità infinita si sono dirette, in un momento dato, verso un unico obiettivo, sforzandosi in questo senso con un successo incontestabile».

L’analisi di Jochmann è certamente una delle fonti utilizzate da Benjamin per le sue Tesi sul concetto di storia. Non a caso il saggio si apre con una riflessione sulle affinità elettive che legano ogni creatore ai predecessori ed  ai posteri, incaricati di trasmettere e diffondere opere che non possono essere considerate soltanto nella loro contemporaneità. Jochmann individua la causa del progressivo abbandono dell’arte poetica, da strumento di trasmissione privilegiato a spettacolo superfluo, nella contemporanea affermazione di tecniche più efficaci nell’adempiere a questo e ad altri compiti ai quali la poesia in origine era chiamata. Quello che l’autore pone in dubbio è se la supremazia della scienza nei confronti dell’arte e dello spirito, questo progresso apparente, non sia nient’altro che il trionfo di una «immaginazione malata che tiene lo scettro di un’immaginazione un tempo così ricca». È così, spiega Jochmann, che «il fior fiore di una cultura che si definisce superiore diventa l’espediente  di una società imbruttita e non la libero sviluppo di un eccesso della sua forza vitale intellettuale».

Gli spunti di Jochmann e le tesi di Benjamin trovano nella storia dei poeti spagnoli uno scenario appropriato e nell’attualità uno specchio terrificante. Insieme alle parole di Celaya, confuse con l’eco delle sentenze maireniane, esse possono essere riassunte con alcuni versi di J. A. Goytisolo, usati ancora oggi da Paco Ibáñez per aprire i suoi concerti:

«In tempi di ignominia come adesso

su scala planetaria,  quando la crudeltà

si estende in ogni dove fredda e robotizzata,

c’è ancora brava gente a questo mondo

che ascolta una canzone o legge una poesia:

è il canto la voce la parola: unica patria

che non ci possono rubare nemmeno mettendoci

con le spalle contro il muro.

Che nessuno pensi mai:

non riesco più, mi fermo qua. Meglio guardarli

dritti in faccia e dir loro: sparate figli di un cane

siamo milioni e il pianeta non è vostro».

[1]             Al proposito esiste un noto episodio dei primi mesi della guerra che ha come protagonisti il generale Millán-Astray e Miguel de Unamuno, rettore, allora, dell’università di Salamanca, la più antica e prestigiosa di Spagna. Il filosofo, esiliato durante il regime di Primo de Rivera fu accolto con entusiasmo dalla neonata repubblica, ma il suo parere in merito a quell’esperienza si fece presto scettico, tanto da appoggiare inizialmente la soluzione dei generali. L’uccisione del sindaco della città e di alcuni  colleghi universitari da parte delle truppe franchiste, e i loro metodi efferati, lo costrinsero però a cambiare idea manifestando pubblicamente il suo dissenso. L’occasione si presentò il  12 ottobre del 1936, durante le celebrazioni del Dia de la raza (l’anniversario della scoperta dell’America, oggi Dia de la hispanidad). Dopo un acceso discorso del professor Maldonado sul cancro del paese, rappresentato dall’indipendentismo  basco e catalano, i presenti (simpatizzanti del sollevamento, falangisti, e militari), acclamarono l’intervento al grido di «Viva la muerte!». Unamuno non poté trattenersi, e accusò il generale e i suoi sostenitori di aver profanato il tempio della saggezza proferendo un paradosso inaccettabile, che solo uno storpio avrebbe potuto coniare. «Vincerete – proferì infine il rettore – ma non convincerete».  Il generale inviperito arringò la folla: «Viva la muerte! Muera la inteligencia!». Pare che solo l’intervento di Carmen Polo, moglie di Francisco Franco, salvò Unamuno dal linciaggio e da pene peggiori della destituzione dall’incarico. Unamuno morì l’ultimo giorno di quell’anno.

[2]             Tra le tante, significative, voci della canzone di protesta spagnola, declinata nei decenni secondo stili e connotazioni diverse, in particolar modo per il suo speciale rapporto con la poesia, merita una menzione particolare quella di Paco Ibáñez, la cui opera rappresenta una immensa antologia musicata del patrimonio lirico ispanico di tutti i tempi.

[3]             In seguito alla seconda guerra mondiale le potenze alleate non poterono che guardare con diffidenza al regime franchista, in virtù del suo legame con i nazifascismi appena sconfitti.  Tuttavia, la neutralità della Spagna  durante il conflitto e il suo ruolo in chiave anticomunista convinsero presto gli Stati Uniti a dare fiducia al regime franchista, inserendo il paese nel sistema di aiuti del piano Marshall, costruendo basi militari sul suolo spagnolo e appoggiando la sua candidatura nelle principali istituzioni internazionali. Il successo degli accordi venne definitivamente sancito nel 1959, in occasione della visita di Eisenhower. Negli anni Sessanta, infine, furono le politiche del ministro Manuel Fraga Iribarne a fomentare il turismo nel paese, approfittando della nuova immagine internazionale che il regime era riuscito a crearsi. Ciononostante, come afferma Viola, «l’efficienza repressiva prevaleva sulle tecniche di persuasione e di coinvolgimento delle masse popolari» e «il fascismo continuava ad essere la parola chiave per definire la filosofia e la pratica dello Stato» (Cortazar, Vesga). Le ultime fucilazioni avvennero pochi giorni prima la morte di Franco.

[4]             José Agustín Goytisolo (1928-1999), fratello maggiore di Juan, e Luís, entrambi scrittori, fu poeta e traduttore di autori italiani (Pavese, Pasolini). La madre, Julia Gay, mori nel 1938 a Barcellona sotto le bombe franchiste e ad essa è dedicata la sua prima raccolta. Il suo poemario più rappresentativo del periodo franchista è Salmos al viento, ritratto ironico della borghesia dell’epoca. Come Rafael Alberti e Gabriel Celaya collaborò attivamente con Paco Ibáñez che ha dedicato un intero disco alla sua poesia.

[5]             A  Collioure, oltre a Ángel González, José Ángel Valente, Jaime Gil de Biedma, Alfonso Costafreda, Carlos Barral y José Manuel Caballero Bonald c’era anche Blas de Otero, che a metà degli anni Cinquanta, in contemporanea con Cantos Ibéros di Celaya, aveva pubblicato un’altra raccolta fondamentale della poesia sociale, intitolata Pido la paz y la palabra.

[6]             Karl Gustav Jochmann (1789-1830), fu uno scrittore tedesco di origine baltica, autore di Úber die Sprache (1828).

 

12 pensieri su “Gabriel Celaya: la poesia è un’arma carica di futuro

  1. Riconoscente ad Alessandro Scuro per aver dato il giusto spazio nelle sue preziose Lezioni ad un poeta di grande e solido impegno civile quale è stato Gabriel Celaya.
    Lui a Guernica… c’era!

    “Risuonavano aspre, come un Morse/ le mitraglie che uccidevano senza scampo./ I miei amici cadevano, uno ad uno./ E io inebetito, quasi in sospeso,/ dimoravo nel superstite chiarore./ Perché è certo: non eravamo vinti./ E per questo io seguito a lottare/ con tutti i nostri morti, vivo. Vivo?” (Gabriel Celaya)

    Ubaldo de Robertis

  2. Se l’argomento verte sulla necessità di un maggiore impegno, umano e sociale, da parte dei poeti nostrani, presi come sono più dall’editoria che dalla garrota, dalle bombe e dall’oscurantismo delle tirannie, va da sé che siamo d’accordo. Bisogna però precisare che ora ci troviamo di fronte a un nemico indecifrabile, senza volto, che non è individuo ma comunità fatta sistema; e che la contrapposizione tra le diverse comunità è stata, in un primo tempo ingessata nel noi/voi senza possibilità di alcun esito, poi nell’io miserevole o altezzoso, poi nell’intrattenimento al più disubbidiente, tra l’ironico, il satirico e il trascendente (nel senso di andarsene via, verso un classicismo sempreverde – fulgido e splendente ). Se fino a non molto tempo fa, almeno esisteva chiara una solitudine pubblica, ora invece è privata; e grazie ai social anche bugiarda. Cha si fa? Secondo me non ha molto senso rintanarsi nel quotidiano realismo se ogni tanto non si tenti di guardare un poco avanti, e dalla parte giusta; parte che a pensarci bene non è nemmeno tanto misteriosa o politicamente troppo complessa: basta anche pensare il contrario di quel che viene detto, dibattuto, comunicato… e fare quel che non fanno tutti, nemmeno uniformarsi al dissenso televisivo: fai due conti e vedi, fanne tre e vedrai di più, quattro e c’è il mare aperto. Se non è così sprofonda, ma sprofonda davvero: è solo un’altra via, questa sì più difficile, per giungere al mare aperto; senza consolazione arriva amore, se nella rabbia torna la voce, se rincoglionisci almeno parla con gli animali. Perdersi a decifrare il gioco dei potenti non vale più, nemmeno come autodifesa. Come potrei scrivere, oggi “sparate figli di un cane / siamo milioni e il pianeta non è vostro”, solo quelli dell’Isis oggi parlano così. Per me oggi è guerra tra civiltà; che non sono due ma tre: quella dei tiranni (e dei servi), quella della barbarie e quella che pensa a un mondo diverso nel quale, però, già tenta di far crescere i propri figli.

    1. Non sono certo di aver compreso interamente l’intervento, ma provo comunque a rispondere. In quanto alla critica rivolta ai poeti odierni non era assolutamente nelle mie intenzioni, anche perché non avrei alcun elemento per sostenerla. Per quanto riguarda gli ultimi versi della poesia di Goytisolo, ho meditato se includerli o meno, ma alla fine mi è sembrato più giusto pubblicare il testo completo, anche se in relazione all’articolo mi interessava in particolar modo la prima parte.
      Da quando scrivo uso questi ed altri argomenti come pretesto per commentare l’attualità e tutto quel incontro e con cui mi scontro nella mia esistenza, in base alle considerazioni ampiamente esposte negli articoli di questa rubrica. La discussione estetica che collega quanto pubblicato finora non è un giudizio assoluto, ma tiene certamente conto dell’epoca alla quale si riferisce e, se in altri tempi la stessa funzione è stata svolta da chi ha saputo guardare più in là della realtà stravolgendo canoni e inventando linguaggi innovativi (negli ultimi anni i miei studi vertono soprattutto sul Lettrismo, che di ciò fa la propria ragione d’essere), ma quello che facevano allora Celaya e compagnia, utilizzare la propria poesia per rendere conto di una realtà oscena infrangendo una censura che ad alcuni costò la vita, per altri significò il carcere e per molti serie difficoltà, cercavano appunto di trovare alternative ad un mondo che trovavano inaccettabile. Questo è quello che tento di fare ogni giorno anche io come lei e anche per me significa prendere il più possibile le distanze da ciò che mi opprime e mi ostacola nella realizzazione di me stesso, adottando comportamenti differenti da quelli della maggior parte delle persone che mi circondano, da quelli suggeriti dai media o da qualsiasi istituzione si arroghi tale diritto che, per come la penso, spetta individualmente ad ognuno di noi, prendendosi la responsabilità dei propri atti e dalle proprie parole e rimettendosi in discussione ad ogni occasione. Sono altresì convinto che una comunità altrettanto cosciente non possa in alcun modo essere previa ad una presa di coscienza individuale e diffusa, e che ogni movimento collettivo trovi un senso solo quando espressione di plurime personalità e non di un gregge che si esprime attraverso un unico lamento.
      Ciò nonostante credo che per fare questo sia indispensabile delegittimare e rendere vano in ogni modo possibile tutto ciò che, volente o nolente, mi relega ai margini di una società nella quale non mi riconosco, ma che mi comprende e che ogni giorno sono costretto ad affrontare. Fino a che la realtà nella quale viviamo resterà normale e inevitabile per la stragrande maggioranza della popolazione e io e lei potremmo anche adottare tutti gli stratagemmi che conosciamo, ma pur forse con la coscienza pulita, saremmo costretti ad accettare ciò che ci circonda, con l’unica alternativa di restare isolati, o di fuggire in qualche angolo di mondo ancora vergine dove fondare un’umanità nuova con i nostri cari.
      Il senso di tutto ciò che scrivo è sempre quello di mettere in dubbio una realtà che non mi convince e mi mette a disagio, ma in questo devo continuare a fare i conti con il lavoro insoddisfacente e malpagato che occupa la maggior parte delle mie giornate (faccio il lavapiatti in un ristorante), al sopruso quotidiano di chi stabilisce ciò che mi è permesso, così come alla condanna che mi spetta ogni volta che decido di infrangere tale ordine, con il bene placito della maggioranza che addita.
      Da due anni vivo in Francia e la realtà che ogni giorno affronto è bene diversa dall’immagine che questo paese si porta con sé da tempo, lontana da ideali di libertà, uguaglianza, fratellanza, ma quella di un paese nel quale un nazionalismo cieco ed estremamente diffuso, unito alla fede incondizionata nel modello di vita che si è andato fin qui criticando e alla certezza di essere nel giusto, al di sopra degli altri, non mi sembra ininfluente nel commentare i fatti ai quali stiamo assistendo. Trovo abominevole la violenza degli attentatori, ma senza giustificarne i mezzi, trovo estremamente comprensibile il disagio dalla quale essa scaturisce e trovo altrettanto aberrante la violenza che genera queste situazioni in nome di ideali superiori, mietendo, da un lato e dall’altro vittime innocenti, tra le quali non esiste differenza di valore. Parlare di scontro di civiltà mi sembra in questo caso fuori luogo se si considera quello occidentale come un modello di civiltà superiore sotto attacco di una barbarie improvvisa che riesuma conflitti del passato. Da entrambe le parti l’unica civiltà esistente è quella di chi riesce a mantenere la dignità e a dare rispetto al prossimo senza rinunciare alla propria libertà, ma che, apparentemente senza via di scampo, viene costantemente annichilita dagli stessi cui viene concesso un potere che non spetta, poiché sempre disumano, tanto quanto si manifesta come attentato terroristico, tanto quando traveste una guerra in missione di pace o in un progresso apparente ed insostenibile.

  3. Grazie ad Alessandro Scuro che, con i suoi resoconti, ci permette di prendere contatto con momenti di storia di lotta, vissuti da un versante singolare, quello letterario.

    Se da un lato emoziona la passione di quegli uomini che hanno messo in gioco la loro vita per portare avanti il loro impegno di cittadini liberi utilizzando (e valorizzando) strumenti non convenzionali (*la poesia è un’arma carica di futuro, uno strumento in grado di cambiare il mondo*), nel contempo sconvolge osservare il destino attuale di quella gloriosa stagione, che, alla stessa stregua della *poesia sociale* rischia di essere *ridotta e archiviata nel ricordatorio*.
    Due notazioni mi hanno colpito di questo post:
    a) * Il regime franchista aveva stretto nel frattempo accordi internazionali con il favore degli Stati Uniti (che preferirono tollerare uno scomodo alleato, piuttosto che perdere un territorio strategicamente necessario in chiave anticomunista)*
    b) * un misconosciuto saggio su La regressione della poesia di Karl Gustav Jochmann[6] nel quale l’autore osserva come «il progresso dell’umanità sia strettamente legato alla regressione di molte altre virtù, ma innanzitutto alla regressione dell’arte poetica»*.
    Per quanto riguarda a) non servono commenti, salvo ricordare che in pieno conflitto gli Stati Uniti mantennero comunque rapporti commerciali sia con industrie tedesche che italiane e che, per mantenere il loro dominio di superpotenza, non hanno mai guardato in faccia nessuno, facendo e distruggendo alleanze a seconda del disegno strategico del momento. Altro che ‘liberatori’!
    Per b). E’ vero che l’espressione artistica si giova di quegli elementi immaginifici che attengono alla natura profonda del sentire, ancora così in contatto con l’ignoto e con il mistero. E che – una volta superata la fase dell’interrogazione, dello stupore a cui adeguare un linguaggio del tutto particolare (non è a quel periodo che risalgono le poesie poi messe in un cassetto?) – si è addivenuti ad una fase in cui l’ignoto non faceva più così tanta paura in quanto aggredito dalla scienza e dalla consapevolezza tecnica.
    Però la poesia, oltre a non avere solo questa specifica funzione ‘espressiva’ di stati d’animo e di conoscenza, ha anche una funzione ‘comunicativa’, di *trasmissione*. Non un semplice orpello, dunque, ma uno strumento *utile al presente, necessaria ad ogni futuro nel quale sia ancora necessario liberare la vita da una sopravvivenza generata dal sopruso, in ogni sua forma*.
    R.S.

    p.s. Interessante l’immagine in apertura. Un laboratorio artigiano. Strumenti essenziali. Leve, chiavi, viti. Martelli. Funzioni essenziali. Collegare. Disconnettere.

    1. La foto è quella dell’edizione Tusquets in mio possesso dei “Cantos Ibéros” di Celaya. Considerando che il lavoro svolto per molto tempo da Celaya, che si autoproclamò per l’appunto “ingegnere del verso”, mi sembrava inevitabile sceglierla per questo testo.

  4. «ora ci troviamo di fronte a un nemico indecifrabile, senza volto» e, dunque, «perdersi a decifrare il gioco dei potenti non vale più, nemmeno come autodifesa»? (Mayoor)

    E chi lo dice che sia indecifrabile? Che tentare di decifrare il gioco dei potenti è inutile?
    Di rinuncia in rinuncia (alla nostra storia) si arriva allo smarrimento e quasi alla bestemmia: «Come potrei scrivere, oggi “sparate figli di un cane / siamo milioni e il pianeta non è vostro”, solo quelli dell’Isis oggi parlano così».

    1. Il nemico aveva un volto e il nome era quello di Francisco Franco; intorno la cricca internazionale dei faccendieri: gente della sua specie anticomunista che anche per questo l’han tollerato, come fecero col Fuhrer del resto, inizialmente. Oggi il volto nemico si stempera ancor più nella valuta; la mano destra pensa all’arsenale delle armi, a sfrattare chi non paga e a lasciar morire chi non ce la fa. La sinistra si trova a Hollywood, qui da noi ha la sede distaccata di Via Delle Fratte 16, a Roma. Così può andare meglio, Ennio?
      La mia è bestemmia per l’irriverenza verso le persone che han lottato e quelli che ci han perso la vita? No, tutt’altro. E’ una scelta di campo: tra chi vede nemici continentali – nemici d’affari e “civiltà” – come nel caso della costituente alleanza dei paesi arabi, portata avanti militarmente dall’Isis ; si prefigura la configurazione di un diverso ordine mondiale, non più tra due blocchi contrapposti ma almeno tre: fine della guerra fredda tradizionale. Di male in peggio. Dire “Sparate figli di un cane” in luogo di spazi commerciali, dove sarebbe ridicolo anche pensare di costruire trincee, oggi ( oggi, non allora!) sarebbe come gettarsi in una mischia gridando: Tutti contro tutti! Una visione più oggettiva dovrebbe sconsigliare l’uso della parola “nemici”; il che non significa farseli amici – alla Moro Berlinguer – ma tentare di evitare l’ennesimo abominio.

  5. …ringrazio Alessandro Scuro per queste testimonianze, pensieri, poesie, che prorompono da animi liberi in tempo di repressione, dittatura, guerra ed hanno un sentire comune che trascende l’epoca e i luoghi…Esempi validi per noi che viviamo una mistificazione più subdola in difficoltà a far sentire una voce chiara e univoca…

  6. @ Mayoor

    Caro Lucio,
    è ancora fresco il post dell’intervista a G. La Grassa con la lunga coda di commenti. Lì sono esposte varie questioni politiche e strategiche piene di nodi da sciogliere. E dette però in un linguaggio che non si rifugia nel metaforico e cerca per quel che è possibile di decifrare l’”indecifrabile” e anche di nominare il “nemico” o i “nemici”. Non ho visto un tuo commento su quella controversa materia. Quando però in questo post – non so se volontariamente o involontariamente – sento definire lo sforzo (compiuto anche in quel post) di capire le mosse dei vari attori politici, economici, militari un «perdersi a decifrare il gioco dei potenti [che] non vale più, nemmeno come autodifesa», irritato, ho detto quel che pensavo. Bestemmia mi è parso il tuo ritenere degno di stare oggi sulla bocca di un terrorista dell’Isis i versi di Celaya. E «sconsigliare l’uso della parola “nemici”» (invece che invitare al massimo di precisione nell’individuarli) mi continua a parere atteggiamento confusionario e niente affatto « visione più oggettiva».

    1. Non ho letto il post di La Grassa perché prevenuto nei suoi confronti; per me il suo giudizio è viziato da ideologia, non a caso ha spesso chiuso i suoi interventi esprimendo speranza e fiducia in tempi migliori: tenete duro compagni, non è il caso di cedere allo scoramento. Quindi sul Che fare qualche pecca ce l’ha, e neanche tanto piccola. Ma prevenuto lo è anche lui: un briciolo in più di apertura mentale – se vuoi di tipo leninista – l’avrebbe trattenuto dal liquidare l’esistenza di movimenti popolari con tanta sufficienza, solo perché sembrano mancare di solide basi ideologiche ( cosa che in tanti non riescono a capire); un leninista ci avrebbe lavorato di più. Comunque gli do un’occhiata, grazie.

  7. Che bell’articolo per uno dei poeti che, con molti altri, riuscì a cambiarmi. Certo, non avevo ancora letto “Poeta a New York” di Lorca – che forse era già una risposta e un’arma contro i “nemici indecifrabili”. La visionarietà di quel Lorca da una parte ma dall’altra la bellissima umanità di Celaya. Grazie ancora.

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