Diritti del lavoro? Solo se universali …

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DIALOGANDO CON IL TONTO (6)

di Giulio Toffoli

Questo intervento assieme agli altri della rubrica «Dialogando con il Tonto» e a quello di Cremaschi, che l’hanno preceduto, continua, come i lettori di Poliscritture si saranno accorti, la riflessione su quel che accade nel sindacato. Il quale sta attraversando nel suo complesso una crisi di rappresentatività, figlia del generale arretramento delle politiche capaci di governare l’economia e dare centralità al lavoro. Tutti crediamo che una discussione sul suo ruolo sia indispensabile. Innanzitutto per evitare il progressivo azzeramento dei diritti e delle tutele dei lavoratori; e, se possibile, per invertire la rotta. Giulio Toffoli preferisce condurla mediante la satira, un genere corrosivo e irriverente che ha accompagnato la storia della letteratura dai classici ad oggi. Ci sentiamo di precisare che le opinioni del Tonto, come quelle di chi vorrà dialogare con lui – cosa già accaduta nella redazione – sono soltanto alcune delle tante possibili e non pretendono di essere la sintesi sulla questione sindacale dal punto di vista dell’intera redazione di Poliscritture. Che non è la sede per mediare le opinioni ma per discuterle – speriamo – in modi produttivi, anche quando esse appaiono distanti. [L. C.] 

Mi trovo fra le mani un fascicolo piuttosto ingombrante con in alto tanto di simbolino rosso della CGIL dal titolo: Carta dei diritti universali del lavoro. Il Tonto che me lo ha dato, con aria di sfida, ha aggiunto:

“Leggi pure, che tanto io non ho fretta …”

Si è seduto sulla mia Monk da cui troneggia come Carlo II dominando la sala, ha fra le mani un bicchiere di Fanta e ogni tanto si diverte a muoverlo ascoltando il rumore dei ghiaccioli che pian piano si fondono. Quando me lo ha dato in mano quasi mi sono spaventato. Si tratta di un testo corposo di ben 144 pagine impostate con una grafica ben studiata e con il solito sottotitolo accattivante che sembra guardare verso il nuovo che avanza: Nuova vita ai diritti. Poi, per ulteriore chiarimento: Testo e commento della proposta di legge di iniziativa popolare: Nuovo statuto delle lavoratrici e dei lavoratori.

Sfoglio le prime pagine e leggo nell’introduzione:

“Dignità, Libertà e Democrazia: questi sono gli obbiettivi che la CGIL si propone di realizzare … Libertà e Dignità delle persone che lavorano, attraverso il riconoscimento di diritti universali senza più distinzioni fra lavoratori … Democrazia, per dare efficaci generale alla contrattazione come strumento che regola i rapporti di lavoro, sottraendo i lavoratori alla rigidità della legge … In questi anni infatti il diritti del lavoro, anzi lo stesso “diritto ad avere dei diritti” è stato negato alla radice: è stata invece l’impresa la vera protagonista di quella legislazione … Precarietà, appalti, negazione delle libertà sindacali e dritti negati ai nuovi lavoratori sono stati gli elementi con i quali le imprese hanno scelto di competere nella globalizzazione … Non c’è niente di innovativo nelle leggi che negli ultimi vent’anni hanno reintrodotto il lavoro minorile, che consentono il demansionamento e i controlli a distanza …; non c’è modernità nei licenziamenti illegittimi …; nessuna modernità, infine è riscontrabile nelle norme che hanno cancellato il diritto alla continuità occupazionale … e che hanno esteso il precariato.

Nella proposta di Carta dei diritti universali del lavoro la CGIL dà una traduzione legislativa all’idea che i lavoratori hanno dei diritti che sono sempre riconosciuti. Questi sono esigibili, effettivi e inderogabili … Solo in questo modo il lavoro potrà essere competente, qualificato e valorizzato … dare valore ai saperi, di tutelare le professionalità, di estendere i diritti rispettando le peculiarità del lavoro autonomo … con l’obiettivo di ricostruire ed estendere Libertà e Dignità del Lavoro”.

“Non so – mi permetto di suggerire al mio interlocutore – mi sembra un classico testo sindacale, forse un poco verboso, con qualche retorica, segno di una strategia politica che cerca di allargarsi alla società civile assumendo una dimensione maggiormente attiva rispetto agli ultimi tempi dal punto di vista dell’azione concreta con i referendum e con questa certo inconsueta proposta di legge di iniziativa popolare”.

“Forse hai ragione tu – mi ha risposto – ma sai che io sono portato a dubitare. Non mi convincono le belle parole, ciò che viene venduto con la maiuscola, le formulazioni ridondanti che si rifanno a valori tanto universali da perdersi nell’astrazione di verità che vanno bene per tutti e poi nelle cose concrete nessuno fa proprie. Così quando si afferma che questa proposta punta al “riconoscimento di diritti universali senza più distinzioni fra lavoratori” non compie un gesto che implicitamente è già insito nella Costituzione? E’ possibile che fra individui di uguale condizione umana e lavorativa vi siano differenze? Se sì non è che qualche cosa non ha funzionato e che non è necessaria una nuova legge da aggiungere a mille altre, ma di ripristinare banalmente un principio generale che non è stato adeguatamente assunto come fondamento della nostra convivenza civile?”

“Certo quello dei diritti universali è un terreno fra i più complessi e non privo di asperità. Concetti come Dignità e Libertà nei luoghi di lavoro possono avere letture diametralmente opposte da parte dei contraenti di un contatto di lavoro, visto che nonostante le belle parole dei sindacati, gli interessi di chi detiene il capitale e di chi lavora non sono identici. Si possono avvicinare e forse in qualche caso possono anche coincidere, ma alla lunga le divergenze e le contraddizioni sono destinate a venire a galla”.

Non contento delle mie ammissioni il Tonto aggiunge:

“Ed allora come leggi l’affermazione: “In questi anni infatti il diritti del lavoro, anzi lo stesso “diritto ad avere dei diritti” è stato negato alla radice: è stata invece l’impresa la vera protagonista di quella legislazione”. Io la vedo come una dichiarazione di una sconfitta storica. Dove era il sindacato negli ultimi vent’anni? E’ vero che sono stati gli anni di Berlusconi, ma anche di D’Alema, di Prodi, di Monti, di Letta e infine di questo campione di Renzi … Sembra che tutte queste controriforme siano passate in una condizione di vera e propria vacanza del sindacato. Anzi, diciamolo, tutto è passato con tanto di tappeto rosso dei diversi governi, compresi quelli sedicenti di sinistra, nella completa incapacità di fare una opposizione. Qui, lo si riconosce a chiare lettere, non si sono intaccati alcuni risultati ottenuti negli anni settanta, cosa che si sarebbe fin potuta comprendere, ma si legge, nero su bianco, che è stato smantellato nei fatti l’intero diritto del lavoro …”.

“Forse non valuti adeguatamente le contingenze internazionali, le pressioni dei poteri forti, i giochi economici e tutti gli altri elementi che sono entrati in gioco. E’ stata una vera e propria battaglia dei giganti che ha visto il sindacato italiano, ma certo non solo lui, impreparato a reggere la sfida”.

“Posso anche convenire con quello che dici, ma di qui ad arrivare nudi alla meta ne passa … E poi rileggi le ultime righe di questa introduzione; a me sembrano da antologia del noir. Il richiamo a una serie di topoi che sanno davvero di retorica: “il lavoro potrà essere competente, qualificato e valorizzato … dare valore ai saperi, … tutelare le professionalità, … estendere i diritti rispettando le peculiarità del lavoro autonomo”.

Lavoro competente? Ma quale sarà mai questo lavoro competente mi chiedo in una società dove tutto tende a essere sempre più standardizzato?  Lavoro qualificato? Con che parametri … chi lo qualificherà, il sindacato o la dura logica della contrattazione dove il lavoro è poco e la concorrenza crescente? Lavoro valorizzato? Ma da chi … da Lassalle? Ed infine il richiamo ai “saperi” che sanno di vecchissima retorica operaista o ancora la “tutela delle professionalità” proprio quando cadono come birilli …

In ogni caso rimandiamo questa discussione ad altri tempi e prova a leggere i primi articoli di questa proposta. Ti faccio notare che la nuova legge è costituita da quasi 100 articoli, mentre alla vecchia legge 300 del maggio del 1970 ne bastarono 41. Una specie di superfetazione legislativa che almeno alle mie orecchie di non addetto ai lavori non suona proprio bene”.

“Beh, la nuova proposta, dopo un primo Articolo dedicato al Campo di applicazione soggettivo con l’aggiunta di un secondo comma abbastanza originale destinato a giustificare l’uso del genere linguistico maschile, nel primo comma del secondo Articolo mette i piedi nel piatto quando solennemente recita:

“Ogni persona ha il diritto di svolgere un lavoro o una professione liberamente scelti o accettati”.

E dopo due commi che ci informano che ogni persona ha il diritto di godere di servizi gratuiti di collocamento e di beneficiare dei livelli essenziali, stabiliti dallo Stato, e che devono essere implementate adeguate misure di politica del lavoro che assicurino che il diritto al lavoro sia reso effettivo, anche attraverso forme di sostegno economico e assistenza tecnica alla nascita e allo sviluppo di attività innovative che migliorino la qualità della vita e il benessere delle persone e della collettività, la tutela dell’ambiente e la cura del territorio, veniamo rassicurati con il comma 4, quasi prima fosse cosa non del tutto chiara, che:

“Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio”

Onestamente non mi sembrano grandi novità”.

“Ma è proprio qui che ti volevo portare. Sono io che faccio fatica a capire, sono proprio Tonto, o che uno non possa essere costretto a fare un lavoro con la forza, che non sia obbligato a lavorare se non dal suo interesse, insomma che sia libero non è cosa definita dalla Costituzione? Allora che serve tutto questo mare di parole … Non solo, fai un confronto con il vecchio Articolo 1 del testo del 1970. Che altro incipit, che altra forza. Senti:

“Art. 1 – Libertà di opinione. I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”.

Qui non ci si perde nel fumo delle parole universali e universalmente interpretabili, ma si pone al centro davvero il problema che in quei mesi fra il dicembre 1969 e il maggio 1970 era sulla bocca di tutti, nelle piazze e al centro del conflitto sociale. Non sono qui ad esaltare il tempo che fu, ma guarda l’uso misurato delle parole e la chiarezza del proposito. Non si pensava ai futuri operai che lavoreranno nelle basi sulla Luna, ma si rispondeva concretamente a ciò che succedeva nel paese. E’ così che si scrivono le leggi.

Se guardi l’Articolo 3 della nuova proposta ne avrai un’ulteriore conferma”.

“Visto che ormai mi hai preso all’amo lascia che vada a leggere.

  1. Ogni persona ha diritto ad un lavoro decente e dignitoso che si svolga nel rispetto della professionalità e con condizioni di lavoro eque.
  2. Il lavoro non deve essere degradante e deve consentire al lavoratore una vita libera e dignitosa, la utilizzazione delle sue capacità professionali e la realizzazione della sua personalità”.

“Siamo alla solite – mi incalza il Tonto – chi ha titolo per definire un lavoro decente e dignitoso o degradante? Il disoccupato come può fare una scelta e deve accettare quello che gli viene offerto … e quali sono le condizioni eque di un lavoro? Quelle del lavoratore che vuole un buon salario o quelle del datore di lavoro che ragiona pensando ai salari del lavoratore del Bangladesh? E poi quella perla sulla “vita libera e dignitosa” e “la realizzazione della personalità” fa pensare al mondo del lavoro come a un centro di assistenza psico-sociale e non alla giungla che invece è. Ma dove vivono questi signori?

Quando fu approvato lo Statuto dei lavoratori, in quel lontano 1970, fra l’altro, paradosso fra i paradossi, con il voto contrario del PCI e altre frattaglie di sinistra estrema, ci fu chi scrisse:

“Quarantuno articoli suddivisi in cinque titoli garantiscono le libertà nei luoghi di lavoro. Una particolare attenzione è verso tutti quei soprusi che il padronato impiegava per regolare i comportamenti dei lavoratori, dalla video sorveglianza alle indagini sulle opinioni.  Garanzie per i lavoratori studenti e per la ricerca del lavoro. Pienamente legittima l’attività del sindacato anche dentro la fabbrica.  Nella fabbrica non regnerà più l’indiscussa autorità del padre-padrone che d’ora in poi dovrà fare i conti con i sindacati, gli ispettorati del lavoro e gli istituti previdenziali”.

Riusciranno i 97 articoli della ben più pretenziosa Carta dei diritti universali del lavoro fare altrettanto ed anzi, come si vorrebbe garantire, meglio? Lasciami il diritto di dubitare …

Ben altro ci vuole perché il lavoro assuma di nuovo quella centralità sociale che ha perduto. Nella società della concorrenza, dell’individualismo, della meritocrazia, dello sfruttamento all’osso non saranno certo gli articoli di questo documento a modificare le regole del gioco. Ci vuole una nuova consapevolezza e una nuova coscienza sociale che non nascono nelle serre dei regolamenti formali ma nel fuoco della vita sociale. Ho l’impressione che noi siamo come gli astronomi seguaci del povero Tolomeo e c’è, deve pur esserci, da qualche parte un Copernico capace di fornirci una nuova visione di una realtà terremotata in cui ci siamo adagiati e che ci sfugge giorno dopo giorno sempre più di mano. Solo che non riusciamo a individuarlo …”.

“Ricordi – aggiungo cercando di rendere più allegro il clima che si stava facendo pesante – la scena finale di Men in Black, quello del 1997. Il personaggio principale sale in macchina e poi la prospettiva si allarga a dismisura fino a che la terra si riduce ad essere una specie di biglia fra mille altre nelle mani di uno strano mostro galattico che ci gioca ed infine le ripone tutte in un sacchetto. Proprio come facevamo noi da piccoli quando giocavamo con quelle biglie di plastica al cui interno c’erano le immagini dei ciclisti o dei giocatori di pallone … Non siamo che piccole pedine di un gioco infinito. Tonto non angustiarti, verranno altri Galilei, altri Newton, basta attendere.

In frigo abbiamo una riserva decente di Fanta … Aspettiamo”.

 

5 pensieri su “Diritti del lavoro? Solo se universali …

  1. Di fronte ai retorici (*Dignità, Libertà e Democrazia*) e ‘anacronistici’ contenuti della “Carta dei diritti universali del lavoro”(* Lavoro competente? Ma quale sarà mai questo lavoro competente mi chiedo in una società dove tutto tende a essere sempre più standardizzato? Lavoro qualificato? Con che parametri … chi lo qualificherà, il sindacato o la dura logica della contrattazione dove il lavoro è poco e la concorrenza crescente? Lavoro valorizzato? Ma da chi … da Lassalle? Ed infine il richiamo ai “saperi” che sanno di vecchissima retorica operaista o ancora la “tutela delle professionalità” proprio quando cadono come birilli …*) non ci resterebbe che piangere.
    Oppure, al bivio, optare per la soluzione fantascientifica del farsi inglobare dall’alieno (=dal sistema) per farlo esplodere dall’interno (Men in Black), senza rendersi conto che nel frattempo sempre piccoli alieni crescono in un gioco di proiezioni e introiezioni che non finisce più, perché *Non siamo che piccole pedine di un gioco infinito*.
    Oppure, ancora al bivio, optare per la soluzione mitico fantastica di Shangri-La, il luogo immaginario descritto nel romanzo “Orizzonte perduto” del 1933 (da cui è stato tratto anche il film omonimo di F. Capra nel 1937) dove una comunità vive in un tempo senza tempo, l’occupazione degli abitanti è quella di produrre cibo nella misura strettamente necessaria al sostentamento e di trascorrere il resto della giornata nell’evoluzione della conoscenza interiore della scienza e nella produzione di opere d’arte. Per ottenere ciò, dalla comunità sono bandite quelle manifestazioni ‘negative’ che hanno a che vedere con odio, invidia, avidità, ira, adulterio, eccetera.
    Non mi sento di sottoscrivere nessuna di queste opzioni.

    Ma, allora, se *ci vuole una nuova consapevolezza e una nuova coscienza sociale che non nascono nelle serre dei regolamenti formali ma nel fuoco della vita sociale*, e affinchè anche queste parole non rimangano confinate nella retorica (o annegate nella Fanta) che si fa?
    Dove e come si matura la consapevolezza?
    Quale sarebbe il *fuoco della vita sociale*.
    Al momento sembra calare il silenzio (estivo).

    R.S.

  2. Grazie per aver rotto il silenzio su questo post. Per il momento mi limito a dire che esso non è dovuto solo al clima più o meno vacanziero, ma dipende molto dalla miseria in cui è finito il lavoro nelle nostre attuali società. Più avanti dirò…

  3. …mi ricordo di quando le suore dell’oratorio, durante la famosa dottrna, ci dicevano che dio non va mai in vacanza, e se non altro il detto vale per tutti i problemi relativi al lavoro, che anzi diventano più acuti durante l’estate…
    Il testo della CGIL sui diritti di lavoratrici-lavoratori più che fornire soluzioni sottolinea la forbice sempre più divaricata tra il dover essere e l’essere nel mondo del lavoro…Chi oggi ne esce completamente escluso o estromesso (molti a cinquant’anni), chi ne rientra con vergognosa precarietà e ricattabilità non potrà che ridere (di rabbia) sentento citare i concetti di libertà, dignità e democrazia o quello della valorizzazione dei saperi…Spesso i cosidetti “diritti universali” riguardano brevi contratti uno a uno tra azienda (anche lo stato) e precario, dove quest’ultimo è “costretto” ad accettare l’impensabile pur di conservare uno straccetto di posto. Secondo me il sindacato potrebbe istituire un osservatorio sui fenomeni più biechi del precariato e del caporalato, e magari incoraggiare il formarsi di una rete comunicativa tdi modo da farli uscire allo scoperto…Oltre che essere più incisivo nel rinnovo dei contratti delle varie categorie e nelle manifestazioni…Non penso sia finita la funzione del sindacato, ma va completamente rivista alla luce del disastro a cui assistiamo, soprattutto a danno delle nuove generazioni…”Dirirtti universali”: siamo pienamenre d’accordo, ma non ne vediamo l’ombra…

  4. DOCUMENTARCI SULLE TRASFORMAZIONI DEL LAVORO (E DEL CAPITALE)

    Invece di piangere o rifugiarsi nella fantascienza possiamo studiare meglio il problema. Che non riducibile alla questione sindacato sì/no ma riguarda le trasformazioni del lavoro (e del capitale) che – diciamolo – conosciamo poco o per echi. Se ne sono occupati diversi studiosi in questi anni. E Poliscritture potrebbe documentarsi sui risultati di questo dibattito, produrre delle schede ragionate e correggere un po’ la diffusa ignoranza sulla questione.

    In questi giorni mi sono imbattuto in un lungo saggio a puntate, «E se il lavoro fosse senza futuro?» apparso su «Sinistra in rete» (i link delle puntate li trovate qui: http://www.sinistrainrete.info/component/search/?searchword=mazzetti&searchphrase=all&Itemid=101) di Giovanni Mazzetti. Di lui avevo letto in passato (anni ’80-’90) molti articoli e qualche saggio, ma poi l’ho perso di vista e lo ritrovo a dirigere il «Centro studi e inziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e redistribuzione del lavoro complessivo sociale» (http://www.redistribuireillavoro.it/).

    Mi ha ben impressionato l’approccio alla questione, perché Mazzetti tiene conto dei dubbi e dell’impreparazione sulle questioni economiche del pubblico a cui si rivolge. D’altra parte il saggio è vasto. ricco di riferimenti a complicate controversie specialistiche tra economisti di diversa scuola. E, per quel che ho capito, a una prima veloce lettura, valorizza gli aspetti radicali della teoria di Keynes contro il keynesismo accademico. Riassume bene tutto il dibattito sulla controversa questione della “fine del lavoro”, presentando questa formula come una metafora che, anche se alla lettera può essere facilmente confutata, allude a questioni di grandissima attualità, che non possono essere accantonate o eluse. Mazzetti mi pare un “pessimista realista” che mette in discussione il perno dell’attuale politica sindacale ancora basata sull’obbiettivo del pieno impiego; e, rifacendosi ancora tenacemente a Marx, non considera il lavoro salariale come «orizzonte invalicabile». Non ritiene più possibile quel «ritorno alla centalità sociale del lavoro», di cui parla il Tonto nel suo dialogo. E non so se sia lui il nuovo Copernico «capace di fornirci una nuova visione di una realtà terremotata in cui ci siamo adagiati e che ci sfugge giorno dopo giorno sempre più di mano». In attesa però « di altri Galilei, altri Newton», le sue tesi mi paiono ben argomentate e da discutere.

    Qui copio con titoletti miei alcuni stralci significativi dalla prima parte del suo scritto (http://www.sinistrainrete.info/pdf/formazioneonline_quaderno_nr_3.pdf):

    SULLE DIFFICOLTA’ DI RAPPRESENTARCI LE NOVITA’ DEL MONDO IN TRASFORMAZIONE

    Mentre mi ponevo queste domande [sul degrado del lavoro nelle attuali società], in un modo che può essere facilmente considerato retorico, sono stato folgorato dai risultati di una ricerca [1] su una piccola popolazione india della giungla amazzonica, i Piraha. Secondo gli antropologi che hanno vissuto con loro, nella cultura di quella tribù esistono solo tre grandezze aritmetiche – uno, due, molti – ed essi sembrano incapaci di apprendere qualsiasi altra forma di numerazione più articolata. Ad esempio non sanno distinguere due disegni nei quali sono raffigurati rispettivamente dieci pesci e cento pesci, perché entrambi rientrano nella categoria dei “molti”, nell’ambito della quale per loro non c’è differenza nella quantità di pesci. Questo fenomeno – che è molto meno lontano da noi di quanto si potrebbe ingenuamente credere, viste le grandi difficoltà con le quali, ad inizio Ottocento, si è passati al sistema metrico decimale[2] – mi ha ricordato l’aspetto centrale di ogni processo di apprendimento, ed esattamente che c’è sempre un particolare modo di presentarsi dell’esperienza, che consente o impedisce di elaborare le specifiche rappresentazioni attraverso le quali si struttura ogni particolare cultura. Il processo di apprendimento al quale siamo abituati – che fa parte, cioè, del nostro consueto modo di conoscere, e che costituisce il risultato della particolare acculturazione alla quale siamo stati sottoposti – comporta un confronto con problemi che sono già stati formulati. In questo caso, si tratta solo di appoggiarsi a soluzioni più o meno articolate, nell’ambito di una forma di pensiero che guida il cammino dell’imparare. Come ha spiegato Lurija [3], la coscienza non può essere concepita come un “campo aperto”, nel quale la mente svolge liberamente i suoi processi. Al suo stesso emergere essa prende già una forma e un contenuto corrispondenti alla determinata cultura di cui sono espressione, forma e contenuto che strutturano i processi mentali, delimitando ciò che è spontaneamente concepibile.

    Vale a dire che non sappiamo ancora come pensare, come rappresentare ciò che eventualmente cerchiamo di comprendere. Analogamente ai Piraha, che non riescono a confrontarsi spontaneamente con un “mondo” fatto dai numeri decimali, a causa dell’astrattezza di questo sistema16, non siamo in grado di confrontarci spontaneamente con alcune delle difficoltà causate dall’evoluzione del contesto sociale che è scaturito dal nostro stesso arricchimento. E se vogliamo sperare di fare un passo avanti dobbiamo avere la pazienza di imparare a misurarci con circostanze che, pur costituendo un prodotto delle generazioni precedenti e della nostra stessa azione, non conosciamo adeguatamente. In un certo senso dobbiamo riconoscere che, purtroppo, siamo diventati degli analfabeti nei riguardi della stessa dinamica sociale nella quale siamo inseriti.

    [1]
    La ricerca dello psicologo cognitivista Peter Gordon è stata pubblicata il 20 agosto 2004 sulla rivista on line “Science”.
    [2]
    In Europa, “alla base del sistema popolare di calcolo, prima della scolarizzazione di massa, c’erano la divisione per due e, se necessario, ancora per due. La gente imparava quindi ad immaginare che cos’è un quarto ed un ottavo, ma non un quinto e un decimo”. Witold Kula, Le misure e gli uomini dall’antichità ad oggi, Laterza, Bari 1987, pag. 275.
    [3]
    Aleksander R. Lurija, Uno sguardo sul passato. Considerazioni retrospettive sulla vita di uno psicologo sovietico, Giunti Barbera, Firenze 1983.

    LAVORO IERI E OGGI

    Il fattore determinante della 1 Prima della Seconda guerra mondiale quasi la metà dell’occupazione scaturiva, nei paesi economicamente maturi, dall’industria, mentre oggi meno di un quinto si colloca in quel settore di attività. Periodico di formazione on line a cura del Centro Studi e Iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo 6 produzione, come tutti ormai riconoscono, è infatti diventato “lo sviluppo della scienza ed il progresso della tecnica”. Ma tutto ciò non si è accompagnato ad un mutamento sociale che, sempre ad avviso di Marx, avrebbe dovuto intrecciarsi con quello tecnico, e avrebbe dovuto riguardare il modo in cui viene sperimentato l’arricchimento e viene reso possibile l’ulteriore sviluppo

    […]
    ai nostri giorni l’orientamento prevalente muove in direzione decisamente opposta. Coloro i quali lavorano si vedono imporre prolungamenti della giornata lavorativa e intensificazione dei ritmi; chi sta per andare in pensione viene ricacciato indietro e costretto a lavorare ancora per anni, anche se il mondo della produzione dichiara di non avere più bisogno di lui; chi trova un lavoro precario e malpagato è spesso costretto ad accollarsene un altro per la miserabile retribuzione che riceve. Insomma, con l’appello ai sacrifici per la crescita, si continua ad agire come se la produzione della ricchezza continuasse a dipendere quasi esclusivamente dalla quantità di lavoro erogato

    […]

    Ricostruiamo brevemente l’evoluzione storica. Da una situazione nella quale, appena un secolo fa, i più iniziavano a lavorare tra i dieci e i quattordici anni, per sfamarsi con poco più di un tozzo di pane6 , si è passati ad un’altra nella quale si comincia a lavorare mediamente intorno ai venticinque anni, magari soffrendo di un problema di sovrappeso corporeo. Le ore erogate annualmente da chi entra nel mondo della produzione sono precipitate, in Europa, da oltre tremila a circa mille e cinquecento/mille e settecento. La durata della vita media è nel frattempo cresciuta di circa trent’anni, e continua a crescere. La scolarizzazione superiore ha coinvolto milioni di persone, in una misura che, appena tre generazioni fa, con un terzo della popolazione analfabeta e i tre quinti con le sole elementari alle spalle, sarebbe apparsa inimmaginabile. La disponibilità di reti di comunicazione, di libri, di quotidiani, di riviste, e di altri strumenti di informazione è cresciuta in maniera ancora più esponenziale

    […]

    Dal prevalere della miseria, siamo entrati in una realtà caratterizzata da un’abbondanza inimmaginabile appena qualche generazione fa. Eppure il senso di frustrazione nei confronti delle difficoltà sociali che sono emerse negli ultimi tre decenni non è molto inferiore rispetto a quello che, all’inizio del Novecento, attanagliava i nostri poveri nonni in occasione delle precedenti crisi.

    […]

    Basta, infatti, interrogare uno qualsiasi dei lavoratori disoccupati o precari, che ormai in Europa cominciano a contarsi a decine di milioni, sul perché della situazione in cui si trova, senza ricevere una risposta sensata. Non solo non sa, in genere, spiegarsi le ragioni delle incertezze e delle angosce che sono piombate sulla sua esistenza. Ma, nel migliore dei casi, si rifugia nell’argomentazione più banale, imputando la sua “sfortuna” alla prevaricazione e all’arbitrio altrui. Non cerca una comprensione della dinamica dei rapporti sociali che evolvono contro di lui; si accontenta di trovare dei colpevoli ai quali imputare le sue – per lui inspiegabili – sofferenze. Nel caso peggiore condivide invece passivamente l’ideologia con la quale si cerca di convincerlo che non ci sarebbe una via alternativa alla precarietà, perché dovrebbe adeguarsi a circostanze nuove, più miserevoli di quelle di prima, del cui sopravvenire lui ed ancor più i suoi genitori sarebbero immediatamente responsabili. I padri e le madri non fanno, d’altronde, eccezione rispetto ai loro stessi figli. Nonostante l’età, nonostante l’esperienza, nonostante siano al lavoro da quindici, venti o trenta anni o addirittura siano in età pensionabile, subiscono allungamenti del tempo di lavoro, mutamenti nei rapporti gerarchici di potere della vita quotidiana, drastici ridimensionamenti delle retribuzioni e dei trattamenti pensionistici, oltre a significativi tagli di tutti i pubblici servizi. Spesso protestano, manifestando il loro malcontento anche in forme esteriormente grandiose, ma non per questo riescono a sottrarsi alla deriva sociale in atto da quasi trent’anni.

    […]

    Perché non ha fissato in alcun modo i momenti nei quali la sua vita come individuo sociale ha subito, nel bene o nel male, cambiamenti altrettanto profondi di quelli nei quali si riconosce come individuo particolare? Perché il contesto sociale si è trasformato in un vero e proprio labirinto, nel quale si dissolvono quasi tutti i comuni riferimenti passati e diviene praticamente impossibile ogni anticipazione positiva dell’avvenire?

    […]

    i giovani che cercano un impiego diventano spesso oggetto di angherie, oltre ad essere normalmente privati di una sostanziale fiducia nell’avvenire. Dal canto loro i lavoratori avanti negli anni, se non sono ancora stati espulsi brutalmente dal processo produttivo, sono sempre più additati come dei privilegiati da sottoporre al pubblico ludibrio24. La loro colpa? Il ragionevolissimo rifiuto di essere ricacciati indietro di mezzo secolo e di sopportare quelli che vengono erroneamente considerati come “necessari sacrifici”. Un rifiuto che, non accompagnandosi, in genere, ad una consapevolezza sul come contrastare questa deriva, finisce però con l’apparire come un pio, quanto inesaudibile, desiderio . Ma anche quella metà dei lavoratori che ancora non è stata completamente travolta dal regresso intervenuto negli ultimi venticinque anni, subisce sistematiche intensificazioni dei ritmi, continui prolungamenti del tempo di lavoro, drastici tagli delle retribuzioni reali e drammatici peggioramenti delle condizioni ambientali nelle quali svolge la propria attività. Oltre a dover spesso sopportare stupidi sermoni sul come riconciliarsi pacificamente con la pessima condizione nella quale è stata precipitata

    LE DISCUSSIONI SULLA RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO

    Tant’è vero che oggi il dibattito sembra essersi concluso con la tacita liquidazione di quel filone di pensiero e con il definitivo accantonamento di qualsiasi ipotesi di una riduzione dell’orario di lavoro. Ma un disoccupato che non sa argomentare su questo terreno è già un disoccupato perdente. Un pensionato che non sa confrontarsi con questo problema è già un pensionato relegato all’angolo. Un lavoratore che non sa dire nulla sulle prospettive future del lavoro è già un soggetto che non sa anticipare gli effetti della propria partecipazione al particolare modo di produzione nel quale è immerso, e dunque non sa incidere sulle contraddizioni che lo caratterizzano35. Un sindacalista che non sa dar criticamente ragione dell’attuale debolezza del lavoro salariato è necessariamente un soggetto in malafede.36 Un politico progressista che prospetta retoricamente la possibilità di uno sviluppo sociale senza analizzare ciò che lo ostacola, limitandosi a ripetere nel nuovo secolo i luoghi comuni sull’innovazione, sulla flessibilità e sulla concorrenza che hanno prevalso nella prima parte del secolo scorso, è come un disco rotto che scoraggia ogni anelito partecipativo. Uno studente che pretende di acculturarsi senza approfondire perché la società in cui vive incontra crescenti difficoltà a riprodursi, è destinato ad acquisire un sapere del tutto inconsistente.

    […]

    Se, come vedremo, “il lavoro in forma immediata sta cessando di essere la grande fonte della ricchezza” e ad essa si sta sostituendo, come possibile “pilone di sostengo di un (ulteriore arricchimento), lo sviluppo dell’individuo sociale”, ogni tentativo di restare sul terreno che ha prodotto buoni frutti nel passato, ma che è stato eroso dalla crisi, è destinato ad ottenere risultati miserevoli. I miseri risultati che stiamo, appunto, ottenendo con le lotte degli ultimi decenni. Ma per procedere altrimenti è necessario imparare a conoscere le forze in campo in maniera approfondita. Un approfondimento che ho cercato di fare nella seconda parte, tesa a cogliere le potenzialità di sviluppo insite nel “tramonto del lavoro salariato”
    […]

    Ho dedicato i miei sforzi a dipanare una matassa che serve a tessere la vita di ognuno, senza che la maggior parte di noi se ne renda conto. E nel farlo sono partito da un interrogativo apparentemente inquietante: per quale motivo, ragionando attorno al mondo nuovo che viene preparato dallo stesso sviluppo capitalistico, Marx ha contrapposto l’emergere dell’individuo consapevolmente sociale alla pura e semplice crescita ed egemonia del lavoro salariato? Quale differenza tra queste due forme dell’individualità sociale lo ha spinto ad una simile distinzione? Come si lega tutto ciò al tema politico e sociologico sollevato negli ultimi decenni da numerosi autori sulla “fine del lavoro”? E come si ripercuote tutto ciò sul “diritto al lavoro” sul quale è stata – politicamente – costruita la società moderna?

    SUL POSSIBILE CHE FARE

    Insomma è necessario che prenda corpo un soggetto in grado di elaborare pratiche produttive nuove, che oltrepassino la pura e semplice riproduzione del rapporto salariato, nell’ambito del quale abbiamo – positivamente – costruito la vita negli ultimi duecento anni. Ma per procedere in questa direzione si deve affrontare il problema che è stato sollevato a suo tempo dai cosiddetti teorici della “fine del lavoro”, tra i quali non mi annovero, ma ai quali sento che tutti noi dobbiamo concedere la necessaria attenzione, appunto perché, esplorando uno spazio al di là del dato, hanno posto in essere quel comportamento indispensabile per lavorare attorno al problema centrale di cui, in quest’epoca storica, abbiamo cominciato a soffrire.

    […]
    Certo, se si prende l’espressione “fine del lavoro” alla lettera, basta spiattellare i dati sull’aumento assoluto di quanti si offrono come “forza lavoro” a livello mondiale per credere di averla confutata. E’ cioè sufficiente riconoscere che c’è un numero crescente di soggetti che cerca lavoro, per negare che il rapporto di lavoro salariato sia realmente giunto al termine del suo sviluppo94. Ma se non ci si avvale di questa semplificazione arbitraria, che risolve un processo complesso in uno solo dei suoi momenti, tutto torna in alto mare, ed occorre affrontare un problema cruciale: il numero crescente di coloro che cercano e cercheranno lavoro è in grado di trovarlo?95Vale a dire, la velocità alla quale viene creato lavoro è tale da compensare il lavoro distrutto dal progresso tecnico oltre a far fronte all’impetuosa crescita della forza lavoro, determinata sia dall’aumento della popolazione mondiale, sia dal fatto che molti di coloro che prima non si riversavano sul mercato del lavoro, ma producevano in altra forma, ora lo fanno? Insomma, chi cerca di praticare il rapporto di lavoro su scala allargata dal lato dell’offerta, trova dall’altra parte, cioè dal lato della domanda, qualcuno capace di soddisfare questa richiesta nella misura corrispondente? I

    […]

    E mentre nel 2000 si quantifica in 160 milioni il numero dei senza lavoro nel mondo, nel 2003 lo si quantifica in 186 milioni. Siamo cioè ad un ordine di grandezza che supera comparativamente del trecento per cento quello degli anni Sessanta e che, cosa quanto mai significativa, colpisce soprattutto i giovani. Per non parlare delle forme di sottoccupazione – relative, appunto, ad una riproduzione stentata del rapporto salariato – che vedono coinvolte centinaia di milioni di persone
    (99. Nel 2003 l’ILO quantifica i sottoccupati in più di 500 milioni, la maggior parte dei quali guadagnava un salario inferiore ad 1 dollaro al giorno. Sul piano che qui ci interessa va poi notato che l’ILO ha sottolineato che mentre nei dieci anni dal ’93 al 2003 la popolazione giovanile è aumentata del 10,5%, il numero degli occupati relativi alle stesse classi di età è aumentato di appena lo 0,2%.)

    […]

    Una considerazione a parte va fatta per interpretare il presunto miglioramento del quale si gloriano i sostenitori della cosiddetta “flessibilità”. In Europa, sostengono, negli ultimi quindici anni, proprio grazie ad un crescente recupero delle dinamiche proprie del mercato, la disoccupazione si sarebbe ovunque dimezzata e in alcuni paesi sarebbe addirittura scesa ad un terzo rispetto agli anni Ottanta. Un confronto con simili argomentazioni è decisamente peggiore rispetto a quello sul quale ci siamo cimentati fino a questo punto. L’argomento poggia infatti su una vera e propria mistificazione. Chi non vive alla giornata e interagisce criticamente con il contesto che lo circonda sa che i dati statistici possono registrare delle differenze, sia perché è effettivamente intervenuto un cambiamento del fenomeno, sia perché la stessa situazione viene osservata nel tempo con criteri e con misure differenti. Eurostat, ed in Italia l’ISTAT, hanno introdotto nel corso degli ultimi venticinque anni numerose modifiche nei criteri con i quali vengono svolte le rilevazione campionarie del mercato del lavoro. Se oggi in Italia si usassero gli stessi criteri in vigore nella fase di ascesa del Welfare keynesiano, il tasso di disoccupazione non sarebbe al livello del 6,7%, come indicato nelle statistiche ufficiali, bensì risulterebbe addirittura del 15,2%.104 Ma al di là della disoccupazione vera e propria, non è forse la stessa precarietà di cui soffre ovunque il lavoro salariato105, sulla quale molti studiosi ormai convengono, che va interpretata come manifestazione di una incapacità di riprodurre il rapporto? O bisogna piuttosto accondiscendere con i più ingenui, secondo i quali si tratterebbe di una manifestazione consapevole e voluta del potere delle classi egemoni?

  5. Magari, quando avrò letto il commentone copincollato da Ennio, dirò la mia sulla trasformazione del lavoro. Intanto, per quanto riguarda l’attentato di Renzi all’organizzazione del lavoro penso questo: che pur considerando l’evolversi del lavoro, contratti e quant’altro, che forse si possono anche rivedere, quel che non mi quadra è la mancanza di tutele. La riforma manca di una degna premessa, ove si affermi almeno questo: visto e considerato che le finanza europea e internazionale ci rimprovera da sempre il fatto che abbiamo ingessato la contrattazione a spese “dell’inventiva” imprenditoriale, e visto e considerato che nemmeno Berlusconi (poi Monti) era riuscito a porvi rimedio, ora, prima di mandare allo sbaraglio milioni di famiglie, è nostra volontà che venga creata e assicurata una rete di protezione affinché nessuno si trovi a restare indietro.
    Io, senza questa premessa, col fischio che ci metto la firma.

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