Su “La poesia dell’Isis”

arabi-guerrieri

di Luca Chiarei

Segnalo l’articolo pubblicato nel numero 1132 di “Internazionale” dal titolo “La poesia dell’Isis”. Si tratta della traduzione di un articolo uscito sul “The New Yorker” a firma di Bernard Haykel, direttore dell’istituto per gli studi trans-regionali del Medio Oriente, Nord-Africa e Asia centrale della Princeton University e professore di cultura orientale e Robyn Creswell, docente di Letterature Comparate all’Università di Yale, poeta e redattore della rivista The Paris Review. Per chi l’ha perso potete trovare qui l’originale e una traduzione dal sito Asiablog.it.  Davanti ad un titolo di questo genere la prima reazione è stata quella dello spiazzamento: ma come, la poesia, l’arte della bellezza e del sublime associata allo stato islamico, al califfato dei tagliatori di teste e della dittatura teocratica?

Approfondendo la questione ho verificato subito che il titolo originale dell’articolo era un po’ diverso, e ancora più provocatorio, rispetto a quello della traduzione italiana: “Perché i jihadisti leggono la poesia – vuoi capire i jihadisti? leggi la loro poesia” che a mio parere rende meglio il senso di questa riflessione.

E’ indiscutibile che oggi il rapporto con il mondo islamico sia conflittuale, se pure con varie gradazioni che vanno dallo scontro violento e bellico, al confronto culturale. Sottrarsi a questo confronto, alla sfida che l’Islam nelle sue varie articolazioni politiche, in particolare quelle più radicali, non ha senso e forse è impossibile. Allo stesso tempo si deve riflettere senza sottacere la distanza che oggi separa la cultura occidentale e laica della tolleranza e della democrazia, e le proprie contraddizioni che hanno prodotto imperialismo, guerre e sfruttamento anche nei confronti dei paesi arabi. Come dicono giustamente gli autori “È impossibile capire il jihadismo – i suoi obiettivi, il suo fascino agli occhi delle nuove reclute e il suo successo – se non si esamina la sua cultura. Questa cultura si esprime attraverso una serie di forme, compresi i canti e i video, ma la poesia occupa un posto centrale.” A questo sforzo di comprensione dobbiamo orientarci e articoli come questo vanno in questa direzione.

L’importanza che la poesia assume nella costituzione di una identità collettiva, che sia un popolo o una comunità politica, non è certo uno specifico dell’Islam o del movimento della jihad. Nella tradizione culturale occidentale troviamo corrispondenze nella poesia epica, ad esempio, che entrava a far parte della narrazione collettiva di un popolo, costituendone l’identità culturale. Esempi classici sono i poemi come l’ “Iliade” e l’ “Odissea”, che stanno alla radice della nostra cultura; ma pensiamo anche a narrazioni come le saghe o, per restare in tema, il ciclo carolingio e bretone della celebre “Chanson de Roland” di epoca medioevale, frutto di una scrittura collettiva fatta da tanti autori anonimi, dove si narravano le imprese di Carlo Magno in Spagna contro i Saraceni – gli “infedeli” -, esaltando le gesta eroiche dei paladini Orlando e Rolando. Vi troviamo una corrispondenza speculare con il tipo di poesia illustrato nell’articolo, ovviamente in senso contrario (gli “infedeli” ora siamo noi…).

Oggi gran parte della poesia che si scrive in occidente, soprattutto quella dei “moltinpoesia” è incardinata nell’esperienza individuale del singolo; difficilmente il poeta si assume le proprie responsabilità davanti agli eventi della contemporaneità, anche se le occasioni per riflettere sull’assoluta gravità di quello che nuovamente accade in Europa  certamente non mancano. Venire a conoscenza che Is, Al Qaeda e movimenti simili “producono un’enorme quantità di poesia”, che “la maggior parte di questa produzione circola online, attraverso una rete clandestina fatta di social network, siti specchio e proxy, che hacker e servizi di sorveglianza fanno apparire e scomparire a velocità incredibile”; che i personaggi di spicco della jihad sono poeti acclamati come rock star; che tra i militanti ci si confronta a colpi di versi, che “di tutti i poeti jihadisti, Bin Laden era il più apprezzato e che “gran parte del suo carisma nasceva dalla sua padronanza dell’eloquenza classica.” non può che lasciarci sconcertati, soprattutto per la nostra mancanza di conoscenza reale di quello che accade alle porte dell’occidente (e anche dentro…).

In questo senso forse si possono comprendere le ragioni per cui tanti giovani, anche europei, trovano una risposta alla loro ricerca di identità nell’islam più radicale. In questa cultura trovano oggi quel “noi” che, in Italia come in Europa, dalla politica alla cultura, è disperso e frammentato in miriadi di modelli individuali. Una ricerca di senso che si va a saldare con il malcontento e disagio arabo che, dal primo califfato smembrato nel 1924 dopo la fine dell’impero ottomano, ancora si trascina senza che si vedano soluzioni possibili.

Detto questo non si può prescindere dal giudizio sul merito: l’esaltazione per l’uccisione del nemico nei modi più efferati, perché poi di questo si tratta, non potranno essere giustificati e nobilitati da endecasillabi o metriche classiche. Anche da questo punto di vista il tema è spiazzante: gli autori ne parlano e citano ad esempio come Al Nasr, una tra le più acclamate poetesse “ha scritto poesie in lode di Abu Bakr al Baghdadi, l’autoproclamato califfo dell’Is, e nel febbraio del 2015 ha pubblicato un articolo di trenta pagine per difendere la decisione dei vertici di uccidere il pilota giordano Moaz al Kasasbeh bruciandolo vivo”. Se pensiamo all’associazione quasi istintiva che di solito si opera tra poesia e “bello”, poesia e il sublime che abita il mondo… Evidentemente non è proprio così. L’analisi critica del testo poetico deve essere anche contestualizzata e non può prescindere dalla verifica etico-politica del contenuto, che in casi come questo non può essere accettato. Buona lettura.

11 pensieri su “Su “La poesia dell’Isis”

  1. Poesie dell’ISIS.
    Complimenti a Luca Chiarei per il suo scritto sulle poesie dell’Isis. Lo trovo molto comprensibile nell’esposizione e sanamente provocatorio cioè stimolatore di osservazione ulteriori.
    1.
    Non posso ovviamente valutare la validità “ estetica “ di testi che non conosco e non è questo – mi pare – il senso di quanto L.C ha elaborato. Relego pertanto sullo sfondo una domanda che , come è noto, si presenta sempre di fronte ad una poesia: dobbiamo limitarci a verificarne i valori estetico- formali o apprezzare anche il suoi contenuti etico-politici ?
    Aderisco senz’altro all’osservazione di L.C nel punto in cui rileva, esattamente, come non mancano nella nostra tradizione culturale esempi di poesia che esprime, attraverso una declamazione corale, le lotte di un popolo di una certa cultura contro popoli di cultura opposta.
    Sotto questo aspetto non deve meravigliare che accanto alla Chanson de Roland e tutti i canti che suonano : “ Si risvegli il Leon di Castiglia contro il Moro oppressor “ esistano composizioni che inneggino ad eroi d’altro nome contro i cristiani infedeli. Più indietro un poema eterno come l’Iliade canta la guerra degli Achei contro Troia e non risparmia a noi lettori lo scempio del cadavere di Ettore, nemico di Achille. Del resto basta leggere i libri di storia, più o meno attendibili nelle loro ricostruzioni, per convincerci dell’inestirpabile realtà degli orrori perpetrati equamente dagli uni e dagli altri e dai contrapposti giudizi che vengono dati agli autori di queste stragi. Così viene nutrito un agnosticismo che è certamente un elemento di disturbo nelle nostre riflessioni.
    Una di queste è la seguente. Perché mai non ci poniamo problemi di ordine diverso da quello strettamente estetico di fronte a testi truculenti del passato e ce li poniamo ora ? La risposta che so dare è questa: i testi del passato – ancorché si riferiscano a fatti realmente accaduti – sono “ favole “, termine che io uso in senso molto particolare come “ fatti che non incidono nella nostra vita presente “ cioè in quella catena di rapporti di vario tipo che costituiscono la trama del nostro vivere assieme ad altri. Questo atteggiamento è giustificato – se così si può dire – dalla considerazione che è rilevabile una sorta di abissale distanza tra il testo poetico e la realtà quotidiana. Ma tale rapporto è fatalmente destinato a capovolgersi quando la realtà quotidiana perpetua l’orrore e i fatti che lo suscitano sono “ interni alla trama del nostro vivere “ e sono destinati ad incidere in vario modo su di essi. E’ in fondo lo stesso atteggiamento di quei poeti antichi che riconoscevano la grandezza dell’Iliade e – nello stesso tempo e un po’ “ contraddittoriamente “ lamentavano. “ Quis fuit horrendos primus qui protulit enses “ ( Tibullo, I,10 ) quasi che le armi di Achille fossero spade di carta stagnola. E’ chiaro che le prime non lo ferivano mentre lo coinvolgevano in qualche modo – magari solo la paura di una delle tante guerre portate da Roma – le spade dei guerrieri reali del suo tempo .Ma a volte la guerra viene lodata come mezzo necessario per la salvezza di una certa civiltà. Nell’ode All’Italia il nostro Leopardi usa toni omerici per descrivere l’” orrida pena dei Persi “ la cui piaghe sono ascritte tutte come posta attiva dei Greci vincitori. Chi chiamasse Leopardi sarebbe commiserato come pazzo o ignorante. Se vale anche per il Nostro l’osservazione che egli canta di guerre passate il lettore ignorante avrebbe a suo vantaggio l’osservazione che Leopardi parla di tali guerre per stimolare a reazioni ( guerresche ? ) anche la nostra patria. C’è una sorta di strabismo in tutta la letteratura e non solo in quel settore di essa che si chiama Poesia. Di Céline disturba fino all’ostracismo letterario il suo antisemitismo ma si ammira – forse esageratamente – lo stile (vd Raboni ). Dobbiamo concludere per un’assoluta autonomia della Poesia dalla Morale e dal Giusto ovvero predicare che la Poesia non è tale se non persegue un fine giusto ?
    A tale domanda capitale – che avevo accantonato – sembra ineludibile ritornare. E il merito dello scritto di L.C è di avercelo ricordato.
    Penso che la riluttanza di molti poeti ad elogiare o condannare le guerre si fondi su una sorta di onestà, come si fonda sull’onestà l’atteggiamento di quei “ teologi atei“ che nel distruggere teoreticamente la religione cristiana hanno continuamente avvertito la necessità di “ ucciderla con onore “ . Resta da vedere chi sarà la vittima designata.
    2.
    Posto che – l’osservazione è banale – prima si vive e ci si aggrega e poi si fa poesia, credo che la presenza di una “ poesia dell’Isis “ sia una sorta di conferma di qualcosa cui ho accennato in un recentissimo passato a proposito della guerra asimmetrica (mi scuso per l’autocitazione ).
    Ero e sono convinto che l’Isis- uso termini convenzionali ed approssimativi ma di generale comprensione realizzi o tenti di realizzare, su una base sociale definita o definibile con sufficiente chiarezza, uno Stato vero e proprio, cioè una aggregazione sociale organizzata su idee, valori, credenze e culture specificamente proprie. Tutte queste forme di aggregazione si sono espresse in passato e continueranno ad esprimersi “ anche con moduli artistici propri “ e quindi anche con testi poetici definiti, nei loro contenuti, da idee, valori, credenze e culture specificamente proprie. Ma saranno specificamente propri anche “ i modi “ di tali espressioni artistiche perché mi sembra del tutto spiegabile che uno Stato nascente e “ liquido “ proponga una poesia orale ; che uno Stato in guerra proponga una poesia battagliera e così via.
    3.
    Le ragioni per cui alcuni “ occidentali “ finiscano nelle “ schiere dell’Isis “ vanno riscontrate in una serie di fattori che si possono riassumere in due parole “ delusione per un modello di civiltà e speranza in un altro modello “. Si tratta di movimenti meditativi antichi quanto il mondo che – sotto questo aspetto – non presenta nulla di nuovo. Rispetto a tali meditazioni ciascuno ha una propria responsabilità sia nella valutazione che nella scelta dei mezzi.

  2. Interessantissimo l’articolo del New Yorker tradotto su Asiablog.it. Questa frase mi sembra significativa: “La carica radicalmente innovativa della società proposta dall’Is forma uno strano contrasto con la cultura consapevolmente arcaica del movimento”. In realtà lo “strano contrasto” non è tale. Collegamento tra innovazione e tradizione c’è stato, per la cultura europea, nelle rinascite religiose del 1200 e nelle nuove chiese riformate, nell’illuminismo e i moti rivoluzionari fino al ’48, nei movimenti anarchici (al vangelo) e comunisti (a Marx e a un certo comunismo originario). L’isis è un movimento rivoluzionario che esalta la ribellione individuale, e libera anche le donne dai vincoli tradizionali, come è accaduto in Italia nella resistenza, e in Algeria per l’indipendenza. Sono considerazioni che mi fanno capire di più lo spessore di fenomeni come al qaeda e is.
    E’ una cultura diversa da quella in cui viviamo noi: la poesia, su registri limitati “lodi, invettive ed elegie per i morti” copre l’ampio territorio che per noi è creato da immaginario e costruzioni narrative. Dove la differenza appare più evidente è nel rapporto tra il o la singola poeta e la comunità, il noi, di riferimento. Il loro noi è unito in uno slancio (che fa anche paura), il nostro noi è frattale.
    Più facile identificarsi in “una d’arme, di lingua, d’altare,/di memorie, di sangue e di cor”, che nel laborioso districare i garbugli di fili che dovrebbero, fatto il lavoro, comporre l’arazzo futuro. Ammesso poi che si abbia anche pronto il disegno da realizzare…

  3. …ringrazio anch’io Luca per aver strappato un velo intorno ad una realtà che giunge a noi solo in una dimensione poco comprensibile e che ci fa paura…Ha sorpreso tutti la rapidità con cui si è andato formando questo embrione di stato, a cavallo tra vari Paesi, ora in avanzamento, ora in ritirata…ha sorpreso come la poesia, nella sua forma epica, abbia al suo interno un ruolo propagandistico, e non solo, importante…Ma poi la sorpresa decade se si pensa, come ci suggerisce Luca, ai vari poemi epici e cavallereschi che sono stati scritti nel tempo a testimonianza delle guerre tra i popoli…Nell’articolo sono riportati solo alcuni esempi della poesia dell’Isis perciò è difficile poter avere delle risposte ad alcuni interrogativi che si affacciano spontanei…Per esempio, se vi prevale la componente propagandistica, cioè lo scopo consapevole di infiammare gli animi dei guerrieri per imprese e gesti e che a noi spesso possono sembrare efferati ( anche per l’uso di armi “antiche” a fianco di quelle ultramoderne), ai fini del consolidamento di un potere contro altri… quali ideali e valori, se esistono, vengono trasmessi attraverso la poesia nella sua tradizione metrica più antica, cioè legata alle origini sacre del popolo arabo (anche Virgilio nell’Eneide per esaltare le origini divine di Roma)…Tale poesia quale potere di unire e di dare un senso alla vita può offrire ai giovani disorientati oggi, anche provenienti dall’occidente?…Lasciando da parte l’aspetto estetico, che comunque lo stesso genere letterario corale in sé possiede, quanta verità e quanta menzogna è presente in questa poesia?…Quali interessi nasconde e trame tra vecchie e nuove potenze?…Ci consegna anche qualche verità?

  4. APPUNTO 1. E SE QUEST’ARTICOLO PROPONESSE UN BEL RITORNO ALLA “RELIGIONE”?

    Ma avete letto bene l’articolo di Robyn Creswell, insegnante di letterature comparate alla Brown University di Providence nel Rhode Island, e Bernard Haykel, professore di storia e cultura del vicino oriente all’università di Princeton nel New Jersey ,che Tiziano Matteucci ha presentato nel link che ho segnalato?
    Mi pare un po’ ingenuo l’entusiasmo di alcuni commenti su questo post. È davvero così sorprendente ( ma per chi?) venire a sapere che Osama Bin Laden è stato « autore ed appassionato di prosodia classica araba»? Non amavano forse i nazisti la musica di Beethoven? E Matteucci è davvero convinto che «leggere di un Osama Bin Laden, autore ed appassionato di prosodia classica araba, aiuti ad ampliare la comprensione tra esseri umani»? Venissi a sapere che anche Renzi scrive poesie (lo faceva anche Bondi, quando era ministro, mi pare di ricordare; lo fece Ingrao da pensionato..) dovrei correggere il giudizio negativo sulla sua politica?
    I poeti di corte ci sono sempre stati, ma il valore (eventuale) delle poesie da essi scritte non dipende di solito dai panegirici spesso ipocriti che compilarono o dalla propaganda piatta di tanti loro versi. E allora, se ho imparato a non inchinarmi davanti a un Vincenzo Monti, perché dovrei ammirare Ahlam al Nasr, che secondo la madre “è nata con un dizionario in bocca” e che dalla sua bocca ha fatto uscire «poesie in lode di Abu Bakr al Baghdadi, l’autoproclamato califfo dell’Is, e nel febbraio del 2015 ha pubblicato un articolo di trenta pagine per difendere la decisione dei vertici di uccidere il pilota giordano Moaz al Kasasbeh bruciandolo vivo»?

    Anche il fatto che « l’Is, Al Qaeda e altri movimenti islamisti producono un’enorme quantità di poesia» è un fenomeno non dissimile da quello dei “moltinpoesia” che qui da noi – dovremmo dire – è prodotto dall’industria culturale capitalistica. Questo di per sé nobilita Is e Al Qaeda o, da noi, l’industria culturale)?
    Si può trovare interessante l’articolo proposto da Matteucci, perché pare colmare una lacuna diffusa. Che sappiamo, infatti, del mondo arabo e della letteratura in lingua araba? Ma la colma davvero questa nostra ignoranza? Ad esempio nell’articolo si parla tout court di poesia. Ma è davvero poesia quella di cui qui ci viene dato un assaggio? (Domanda che ci siamo spesso fatti per i versi dei “moltinpoesia”).

    Noi, che ci dibattiamo sui problemi mai del tutto chiariti che pone lo scrivere “poesia civile” (cfr. ad esempio http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/02/ennio-abate-la-polis-che-non-ce-2-su-il.html), dovremmo cancellare il nostro spirito critico /autocritico rispetto all’evidente successo di massa di questa poesia (ammesso che lo sia) di propaganda politica?

    Che capiamo poco dello jihadismo è vero. Ma che, per capire « i suoi obiettivi, il suo fascino agli occhi delle nuove reclute e il suo successo», ci sia bisogno di esaminare «la sua cultura», che « si esprime attraverso una serie di forme, compresi i canti e i video», tra le quali « la poesia occupa un posto centrale», mi pare un’affermazione azzardata. Almeno se non si ha chiaro che quella cultura è un misto di credenze, di autorappresentazioni ideali e – non voglio escluderlo – anche di possibili verità. Che potrebbero valere per me o per chi ha altro tipo di cultura, a patto che vadano accertate e evidenziate e non offerte a scatola chiusa, magari per senso di colpa (dovuto alla nostra ignoranza di quella cultura) o voglia dell’esotico o fascino per un fenomeno che ci appare più vitale del nostro “decadentismo occidentale”.
    E poi perché abbandonarsi ad un excursus storico (anch’esso abbastanza acritico) sulla poesia araba del passato? Per nobilitare quella di oggi? È come se noi qui ci rifacessimo alle glorie letterarie del Duecento, Cinquecento, Ottocento, ecc. per dar valore alla poesia che oggi scriviamo. Sarà pur vero che « nella cultura araba l’autorevolezza della poesia è senza eguali», ma lo è ancora oggi e per chi (e non solo per quanti)? C’è davvero quella «notevole continuità»? Scrivono ancora i due studiosi statunitensi: « A ogni stagione dei poeti dilettanti provenienti da tutto il mondo arabo recitano i propri versi davanti a un enorme pubblico di appassionati. I vincitori portano a casa fino a 1,3 milioni di dollari. È più di quanto riceva il premio Nobel per la letteratura, come amano sottolineare i sostenitori del programma, che l’anno scorso è stato seguito da settanta milioni di persone in tutto il mondo». Ma allora avere un enorme pubblico ad ascoltarti e portarti a casa un bel gruzzolo di dollari garantisce che si tratti di poesia e di buona poesia?

    Insomma a me pare che l’articolo non chiarisca cosa fanno di meglio o dicono di più dei poeti “nostri” quelli citati in questo articolo. « È una poesia collettiva e sentimentale, a volte perfino un po’ kitsch». E non abbiamo già i “nostri” slam poetry? « La poesia è concepita come un’arte sociale più che come una professione, e chi la pratica è sempre felice di esibire la propria bravura tecnica». Quindi la poesia consisterebbe nell’essere «sociale» (occuparsi, cioè, di temi sociali ed essere diffusa presso un vasto pubblico come oggi si faanche da noi coi reading magari non proprio di massa) e in una dimostrazione di «bravura tecnica»?

    Solo in un punto scorgo un cenno di riflessione critica. Quando i due autori dell’articolo scrivono: « Eppure la loro boria nasconde preoccupazioni profonde. Tutti i jihadisti hanno deciso di tagliarsi fuori dalla società, quindi anche dalle loro famiglie e dalle loro comunità religiose. È spesso una scelta difficile, che ha conseguenze durature. Presentandosi come poeti, come attori culturali profondamente radicati nella tradizione islamica araba, i militanti cercano di placare l’ansia di essere degli esclusi».
    A me pare, però, che proprio questa «ansia di essere degli esclusi» andrebbe indagata e capita meglio. Come meglio andrebbe capito «il dramma dell’eredità» che emerge nell’affermazione: « Bin Laden sta tramandando un dovere politico e una disposizione etica. La trasmissione dei precetti culturali da una generazione all’altra è una preoccupazione costante per i jihadisti». (Tema tra l’altro presente anche tra noi. Vedi scambio tra me, Fischer e Nova nel post su «Citizien Kane»). E lo stesso vale per quel loro «cosmopolitismo visionario», una sorta di “internazionalismo jiahidista”, che troppo ricorda il “nostro” mito (certo non di segno medievale ma laico progressista ) dell’”internazionalismo proletario”.

    Che poi «la cultura del jihad» sia «la cultura dei racconti cavallereschi» e prometta avventure e affermi che «i codici dell’eroismo e della cavalleria medievali sono ancora importanti» e che, rinunciando alla «loro nazionalità», i jihaidisti vogliano «inventarsi un’altra identità […] non nuova ma molto antica» è un problema non nuovo. (Lo storico Hobsbawm l’affrontò ne «L’invenzione di una tradizione». E anche Benedict Anderson lo trattò in «Comunità immaginate». Sarebbe utile rileggere e confrontare).

    Se si considera poi che «leggendo la poesia jihadista ci si accorge rapidamente che ha una forte componente teologica» e che «la dottrina religiosa è il collante principale della cultura, e molti teologi jihadisti sono autori di poesie», viene da chiedersi: ma il messaggio di questo articolo non è per caso un bel “torniamo alla religione e alla poesia religiosa”? E magari a quella di taglio quasi “protestante”, visto che «i jihadisti propongono un’interpretazione di tipo letterale, promettendo di spazzare via secoli di tradizione dottrinale e di offrire ai fedeli i veri insegnamenti della loro religione», proprio – e lo riconoscono i due autori – come fecero nel Cinquecento Lutero e gli altri riformatori.
    E che dire della lotta armata e della violenza, ora « aspetto centrale dell’identità musulmana, un imperativo etico e una necessità politica » e non più considerata «residuo del passato»? Come i jihaidisti pensano che la non violenza « ha contribuito al declino del mondo islamico», quanti qui da noi pensano che tornare a menar le mani e a muovere guerra possa farci uscire dal “tramonto dell’Occidente”?
    Da qui discenderebbe anche una funzione della poesia del tutto dipendente dall’etica religiosa e politica della Jihad. Poiché «per il jihadista, la poesia è un modo per dichiarare le proprie convinzioni o per portare la propria testimonianza». Non esiste dunque una *verità della poesia* che si distingua da quella religiosa o politica: «Non c’è spazio per le sfumature. Il compito del poeta è difendere apertamente e lucidamente la propria fede di fronte a chiunque dubiti, in patria come all’estero. Deve avere il coraggio di dire le verità che i suoi genitori e gli anziani della sua comunità vorrebbero tenere nascoste».
    Vi par poco? Son cose da approvare e far nostre? Ci penserei su ben più di due volte…

  5. Ma dov’è l’entusiasmo dei commenti? Di sicuro l’articolo ci informa sull’importanza della poesia nella cultura araba e nell’is: ha una funzione di coesione sociale. Anche perché non hanno tanti altri modi per divertirsi, né possono pubblicamente criticare.
    Che poi sia poesia come quella di Monti, o di Manzoni del soffermati sull’arida sponda, e che tanti poetizzino come qui i moltinpoesia, deve solo farci ragionare meglio su Monti e i molti.

  6. Flash.
    Giriamo ” circospetti ” intorno alla domanda: la poesia va giudicata SOLO per le proprie qualità estetiche oppure anche “PER ALTRO ” ? Circospetti perchè- più o meno di soppiatto -in ” Altro ” ci si mette di tutto, anche le proprie opinioni politiche che non siamo disposti a discutere. Non ha senso stupirsi perchè Bin Laden scrivesse poesie.Ma è una ” fuga ” non discutere fino in fondo sul rapporto tra la poesie ( ed anche altre arti ) e ” giuste scelte ” etiche ( e politiche ).

  7. SEGNALAZIONE

    POESIA ED ETICA IN UN SAGGIO DI G. LUCINI

    *Per approfondire la discussione avviatasi in questo post sul rapporto tra poesia e etica (e politica) anticipo uno stralcio da un mio scritto quasi ultimato: «Il poeta come «uomo integrale. Su “Pensiero poetico e critica integrale dell’arte” di Gianmario Lucini» (CFR, Piateda 2013). [E.A.]

    E credo che la connessione stretta e aprioristica che egli [Lucini] stabilisce tra etica e poesia («Per chi scrive, nulla può essere bello, (vero, buono, ecc.) se non è anche giusto, e viceversa», p. 41) [1] gli impedisca di problematizzare di più questo rapporto come pure in teoria sembra disposto a fare, poiché dogmatico di sicuro egli non è, e di dare una visione più critica e non “salvifica” della funzione che può svolgere la poesia nell’attuale società.
    Troppi sono i casi in cui la «buona poesia»( 41) si trova – guarda un po’! – proprio in compagnia dell’ingiustizia o magari chiusa nella bolla protettiva di una certa indifferenza (individuale o collettiva) alle ingiustizie. Questa contraddizione viene alla luce quando Lucini affronta il tema della “poesia civile”. [2] Infatti, quando fa l’esempio della poesia di Sandro Penna [3] (ma ci sarebbero tanti casi: di Balzac, di Céline, Benn. ecc.), sembra non accorgersi che, se – e lui onestamente lo riconosce – ci può essere «buona poesia» anche senza che essa sia “civile” o bella-buona-vera [4]
    La realtà (storica) della poesia (la fenomenologia del fare poesia) si presenta ben più complessa e oscura del «pensiero poetico integrale», in cui Lucini la vuole collocare. E si deve dunque ammettere, sì, che in Poesia ci sono posti occupati anche da una bellezza “malvagia” ( che dire dei “fiori del male”?) o, ancora più scandalosamente, persino da una “bontà fascista”. È questa realtà che il legame stretto tra Poesia ed un’etica (cristiano-cattolica, diciamolo) da lui stabilito, si lascia sfuggire. E, contro il suo stesso dichiarato ecumenismo (più che pluralismo) lo induce a reprimende contro i poeti, che spesso se ne stanno zitti di fronte alle guerre (e che suscitano – devo dirlo – anche la mia indignazione). Non lo fanno però, come lui dice, soltanto per «paura di un ostracismo sociale, per paura dell’isolamento o delle decisioni di chi detiene il potere, che potrebbe danneggiarli, o anche per questioni ideologiche personali» (p. 44), ma proprio perché – come nel caso di Penna – hanno la possibilità di fare «buona poesia» senza dover passare obbligatoriamente attraverso un’esperienza diretta delle guerre o delle ingiustizie sociali o una riflessione sugli orrori della storia. Bisogna cioè ammettere che ci sono poeti che producono poesia che è solo bella (o che, in questa società e con questi rapporti sociali, è solo bella e piace) e che forse solo con il tempo mostrare una sua (ipotizzabile , ma per ora non accertabile) diversa “bontà”. Come si deve riconoscere che tuttora c’è spazio per i lirici “puri” – e l’esempio di Penna calza a pennello – e non è detto che essi incontrino sotto altra forma, magari fantasmatica o metaforica, qualcosa (le guerre, gli orrori della storia, il Nulla, Dio, l’Altro) che li faccia passare dall’io al noi, dalla lirica all’epica o alla “poesia civile”. Scavando cioè anche con rigore nel loro “sentire”o procedendo eroicamente o asceticamente nella loro ricerca interiore magari a-razionale (a-politica o impolitica) troveranno altro, ma non necessariamente il bello e il giusto uniti insieme, inscindibili, che per Lucini sarebbero scopi indispensabili e irrinunciabili della Poesia. Si ha, dunque, poesia anche senza necessità che sia civile o impegnata o bella-buona-vera. E questo è un problema. Vuol dire che non possiamo affidare tutte le nostre speranza di miglioramento, d’incivilimento, di costruzione di una cultura diversa o di una società più giusta alla Poesia, come purtroppo finisce per fare Lucini. È la poesia (reale e storica) nel suo insieme ( civile e non) che va messa in discussione e sottoposta a una critica da una posizione che non può che essere partigiana e non ecumenica. Non esiste cioè la Poesia come Assoluto né si può parlare di essa come di un universale ( ma al massimo di un’aspirazione all’universale , sfiorato ma mai del tutto raggiunto .
    Il discorso da fare e che Lucini evita o non considera a sufficienza è quello sulla poesia (minuscolo) come campo di tensioni e contraddizioni, per cui chi dice la Poesia e crede di essere il sacerdote di questa entità universale mente o s’illude. Nella poesiac’è anche conflitto ( e a volte coesistenza ambigua) tra i poeti che mirano solo alla bellezza o alla poesia gioco o alla Poesia come Assoluto e i poeti che legano bellezza e etica ( religiosa o laica) o contestano la poesia bella per una poesia persino brutta o politica.
    Lucini sente questo punto contraddittorio del suo ragionamento sulla Poesia e cerca di rimediarvi ancora ricorrendo al sentimento; e afferma che «per scrivere poesia civile bisogna non soltanto “sentire” questa poesia ma avere anche una certa conoscenza di come vanno le cose, di chi possano essere certe responsabilità, di come funzionino certi meccanismi sociali e politici. Bisogna insomma “esserci dentro”, vivere in qualche modo l’esperienza del sentimento di appartenenza» (47). Così dicendo, è costretto, suo malgrado, a limitare la schiera di quanti possono o potrebbero scrivere “poesia civile” e, dunque, a ridimensionare la portata universalistica del suo ««pensiero integrale». La “poesia civile”, cioè, non è di tutti, non è un’esigenza universale, ma un genere o sottogenere della Poesia o – direi io – una parte, se non un partito da prendere. Poiché – con le sue parole – il poeta che scrive poesia civile deve “sentirla“, deve conoscere «come vanno le cose», deve volere «anche la giustizia, l’armonia nei rapporti umani, nell’ecologia, nell’economia, ecc.» (pagg. 47- 48). E queste cose valgono per lui, per me, per Dante, per Fortini, per tanti altri, ma non per Penna e tanti altri poeti, che questi valori non li hanno affatto vissuti o tenuti presenti o perseguiti né nella loro vita né in poesia. ( E i più recenti sviluppi del capitalismo – quelli studiati da Debord nel suo «La società dello spettacolo» – non hanno fatto che accentuare questa separazione e metterla, attraverso la TV, sotto il naso di milioni di persone, che vi si sono assuefatte). Una funzione etico-sociale della poesia ( per non parlare di quella politico-sociale, che a me sta ancora più a cuore e che in certe epoche è stata attiva…) è oggi ( e lo sarà ancora per chissà quanto tempo) sempre più marginale, mentre l’altra funzione – quella svolta dalla poesia- gioco o poesia-spettacolo, che si è acclimatata alle regole dei mass media e dell’industria culturale – sta prevalendo. Questo non vuol dire che le due funzioni non siano distinguibili oche non siano in tensione tra loro; o che non possano o debbano entrare in aperto conflitto, se forze sociali ritrovassero l’esigenza di avere una poesia estetico-politica piuttosto che lirica-estetico- individualistica. È certo che la musica di Mozart sia bella, ma non serve (automaticamente o proprio non serve…) a far avanzare la giustizia, l’armonia dei rapporti umani, ecc. Non aiuta di per sé, in termini pratici più o meno immediati, quelli che hanno da risolvere problemi pratici e urgenti, o devono uscire da condizioni materiali di vita pesanti o invivibili, che sono oggetto della preoccupazione di Lucini e mia e prima di Fortini. Che però aveva ben presente il lato oscuro della stessa poesia e della bellezza, il rischio cioè che essa diventasse «vino dei servi». E non cercava, come fa in questo saggio Lucini, di esaltarla come un bene universale né le affidava il compito di cambiare la cultura come lui pretende. La poesia o la Poesia non spinge di per sé al bene. ( L’esempio degli aguzzini nazisti innamorati della musica di Beethoven provano questa conciliabilità della poesia o dell’arte o della musica con l’orrore della storia).
    Si tratta allora di riconoscere oggi che la poetica di Lucini («Per chi scrive, nulla può essere bello, (vero, buono, ecc.) se non è anche giusto, e viceversa», p. 41) è o può essere soltanto una scelta o una preferenza personale o un’esigenza maturata nell’esperienza (extra-poetica o pre-poetica e poi anche poetica) di una parte (spesso una minoranza esigua) di poeti ( e di lettori). Non nasce in automatico o naturalmente dalla poesia. La quale in genere non ha già in sé una spinta “originaria” al bene e al bello insieme congiunti e gemelli (kalos kai agathos…). Né la storia della poesia dimostra che questo genere di poesia (in senso lato “civile”) sia stato il filone dominante. La spinta alla poesia civile può sembrare naturale solo per certi poeti. A molti altri appare scelta politica, imposta o suggerita dall’esterno in certe situazioni storiche. Soltanto se, per raggiungere la bellezza (o la Bellezza) si dovesse obbligatoriamente attraversare il terreno della storia, del “noi”, dei conflitti sociali, delle guerre, i poeti tutti sarebbero costretti ad affacciarsi oltre i «confini» della poesia» (Fortini), a rimetterla in discussione, o per trasformarla o per estendere alla vita, sempre come pensava Fortini, la sua spinta formalizzante. E si avrebbe quell’io-noi, di cui vado parlando a proposito di «poesia esodante», o un superamento della distinzione tra i generi della poesia, insomma un riavvicinamento o una integrazione tra lirica ed epica o tra poesia lirica e poesia civile.
    In termini secondo me più rigorosi questo problema (dell’autonomia assoluta o relativa della poesia) era stato affrontato da Fortini (purtroppo poco conosciuto da Lucini…) nel suo “duello” con la posizione di Adorno. (Cfr. « Dei confini della poesia»). Lucini, nella sua polemica ( da me condivisa) contro l’estetismo e nella riaffermazione del nesso etica/poesia, attribuisce però alla poesia (o all’arte) un valore assoluto (ed esagerato). Per lui la poesia (etica) è campo privilegiato e prioritario d’intervento. Ad essa sola affida il compito della ricerca di verità (48). Di più: sostiene che «solo l’arte può avviare una diversa cultura» (48). E qui affiora il suo taglio culturalista, apolitico o impolitico, quando, pur facendo le lodi dell’utopia, della devianza precisa che si tratta solo di «ribellione mentale» , «senza bisogno di nessun assalto alla Bastiglia, che sarebbe funesto ai più deboli, non certo ai più forti, come la storia ha ampiamente dimostrato»( p. 49). Questa affermazione mi pare rivelatrice del suo rifiuto di addentrarsi nel campo – in realtà minato e rischioso – del rapporto tra poesia e politica o poesia e realtà , specie se si vuol tenere debito conto del rapporto – conflittuale e non facilmente conciliabile – tra poesia e scienze o poesia e filosofia, riconoscendo che, sì, la poesia è strumento conoscitivo forgiatosi in epoca pre-industriale, ma non può aspirare più ad un ruolo di guida al posto di filosofia e delle scienze. Può contestarne – e lo deve fare – l’egemonia, criticarle quando necessario, ma se pretende di diventare, come Lucini in questo saggio teorizza, « pensiero poetico integrale», che sostituisce o integra razionale e a-razionale , cercare una verità a prescindere dalle verità parziale e temporanee della scienze (imprescindibili e non trascurabili), non farebbe che aumentare la propria marginalità. Ci può essere una poesia critica, come la tentarono i poeti della generazione precedente la nostra (Fortini , Sereni, Pasolini), non una Poesia che guida l’integrazione problematica e ardua dei saperi odierni.

    Note

    [1] Qui, a riprova di questa diffusa tendenza a collegare etica e poesia, devo riportare un giudizio di Michele Ranchetti su Fortini, che a me pare possa essere riferito, con i necessari distinguo ( Lucini mi disse che aveva cominciato ad accostarsi agli scritti di Fortini solo da pochi anni), anche alla poetica di Lucini:
    «Fortini volle leggere le mie poesie. Le lesse, le prese in mano con una padronanza assoluta, come di un maestro d’arte che esamina il prodotto di un aspirante artigiano. E anche qui,in una materia per me allora così privata e segreta, io mi accorsi di quanto fossero rilevanti, per lui, tutte le cose, direi tutte le forme dell’esperienza del vivere: lo scrivere, il discutere, le amicizie, i mestieri, le appartenenze, in un certo senso senza discrimine, perché non c’è nulla che non abbia importanza e significato. Soprattutto, non c’è nulla di cui non si debba rendere conto. Ma il suo, cosi almeno mi pare, ora più che allora, non era un giudizio estetico, neppure un giudizio morale o un giudizio politico. Tanto meno, un giudizio religioso: era una sorta di giudizio universale privato che comprendeva tutti gli elementi, dove il bene e il male appartenevano a una sfera estetica, cosi come alla sfera morale, per cui una poesia non poteva in un certo senso essere bella, se non era anche buona o giusta». (Intervento di Michele Ranchetti al convegno«1917-1941 “Nella città nemica” Fortini a Firenze – Atti della Giornata di Studi, 18 novembre 2004»)

    [2] Non senza qualche resistenza, perché dapprima sembra negare valore euristico a questo termine, riassorbendolo, con Croce, nel concetto generale di Poesia : «Nessuna poesia ha un solo carattere e anzi, la Poesia li possiede tutti, anche se in rapporto tra loro diverso, prché è la Poesia e basta» (p, 40). E in nota aggiunge: «Anche il Croce sembra d’accordo con questa concezione, quando scrive: “Epica o lirica, o drammatica e lirica, sono scolastiche divisioni dell’indivisibile: l’arte è sempre lirica o, se si vuole, epica e drammatica del sentimento”» (p. 40). E in altro punto scrive: «La poesia lirica può essere anche ottima poesia civile, e così quella tragica, quella elegiaca, quella satirica, ecc. “Civile” attiene in prevalenza a una sfera della sensibilità rivolta a un “noi” e un “voi”, o un “essi”, piuttosto che un “io” e un “tu”( p. 47).

    [3] «Non sto, infatti, affermando che chi non scrive poesia civile o di denuncia non possa essere un buon poeta. Sandro Penna, per dire un nome, non ha scritto un verso di poesia civile, che io ricordi, ma certamente è un grande poeta» (p. 46).

    [4] Come sostiene qui: «per chi scrive, nulla può essere bello, (vero, buono, ecc.) se non è anche giusto, e viceversa» (p. 41).

  8. 1.
    Non si può pretendere da alcuno che venga risolto in maniera definitiva il problema implicitamente sollevato da L.C . Nella chiave di lettura che ho voluto dare ad esso ( magari arbitrariamente ) rientrano il mio intervento e la mia noticina Flash. E’ seguìto il lungo intervento di E.A ( in garbata polemica con Lucini, mi pare ) , intervento che lascia al punto di partenza la questione.
    Non può essere diversamente e ciò perchè ( spero di aver interpretato correttamente il suo pensiero)
    Il rapporto tra poesia ( o se si preferisce La Poesia ) e determinati valori assoluti o presunti tali
    ( Verità, Morale … ) è complesso, anzi ambiguo ( preferisco dire così ).
    Sarebbe un fuor d’opera citare tutti quei pensatori che sono arrivati a tale conclusione.
    Cosa si può aggiungere, allora, di definitivo rispetto ad esso ?
    E.A cita nomi di alcuni poeti che – a suo giudizio – sono poeti autentici. Non ho alcuna ragione di contestare la sua valutazione ma siccome il giudizio di autenticità prescinde – nella sua stessa impostazione – da una valutazione di “ corrispondenza “ a valori etici o altro tipo , mi chiedo ( gli chiedo ) in base a quali diversi ( e magari difformi ) criteri attribuire ai poeti citati la qualità dell’autenticità poetica. Nel suo e nostro ragionamento la valutazione estetica precede l’altra.
    Da parte mia – e in un certo senso coonestando il suo discorso – ammiro la poesia di Lucrezio ancorchè , da altra parte, se ne censuri la declinazione rigidamente materialistica ed ateistica dei suoi versi. Ma la mia valutazione su Lucrezio è condivisa anche da critici di fede cristiana. Come la mettiamo ? Se procediamo oltre e arriviamo al “ terreno scivoloso “ delle valutazioni politiche – entro le quali si pone per certi versi anche la poesia “ civile “ – dobbiamo cambiare metodo di valutazione o no ? Io, personalmente, sono pronto a rimettere in discussione la questione dell’autonomia della valutazione estetica rispetto ad altre ma se a tale rifondazione non sappiamo o non vogliamo arrivare, il problema, alla fine, si riduce ad una valutazione legittima ma del tutto personale ( “ Io preferisco la poesia civile a quella intimistica …” etc ).
    2.
    Vi è una certa “ prepotenza “ nel voler imporre una linea coerente tra esperienza poetica e esperienza
    vitale quasi che i due livelli debbano necessariamente sovrapporsi ed identificarsi. Come avverte Marziale ( Epigrammi I,4 ) si può essere licenziosi nei versi e casti nella vita privata. Nel caso del poeta latino lo “ scarto “ è voluto e finalizzato ( didascalico ) e dunque non risolutivo del problema che va approfondito in altra direzione. Seguendola si avvertono ( io, almeno, le avverto ) continue contraddizioni tra la prima e la seconda. Ciò è “ naturale “ perché “ i due piani rispondono ad esigenze diverse. Alla fine si può forse dire che tali contraddizioni , in rapporto dialettico tra loro, finiscono per arricchirsi a vicenda ed offrire chiavi di lettura importanti . Ma, in via ancor più generale, è tutta la vita, nel suo complesso, che deve essere “ interpretata “ e solo all’esito di tale analisi si possono trarre conclusioni attendibili – se si ritiene necessario trarle –sul rapporto che ciascun poeta vuole o non vuole istaurare tra “ morale “ ( come esperienza vitale e cioè di contenuti ) e poesia ( che è esperienza di forme, almeno a mio giudizio )

  9. Alla fine che pretendiamo?
    di sentir cinguettare la rane o di sentir gracchiare un fringuello?
    Ad ognuno il suo verso, la sua natura.
    Per noi anche la nostra storia.

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