Pornolandia: la morte della sessualità

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DIALOGANDO CON IL TONTO (5)13 

 di Giulio Toffoli

Il mio rapporto con i mass media non è mai stato facile. Quando ero giovane la televisione, ancora in bianco e nero con un unico canale, era dominio incontrastato del partito di governo, la DC. Perciò come sola alternativa rimanevano i giornali e allora si credeva che alcuni fossero meno menzogneri degli altri e non legati alla greppia dei padroni del vapore. Perciò leggere l’Avanti o L’Unità era, o si contava ingenuamente che fosse un gesto di rottura. Il mio apprendistato politico sociale l’ho fatto proprio portando a scuola nella tasca della giacca L’Unità. Non è che fossi comunista, non lo ero e almeno nel senso storico della parola non lo sono mai stato. Ma certamente i miei compagni di classe mi hanno visto a lungo come quello che leggeva L’Unità.

Con il passare del tempo ho iniziato a comperare più giornali, in parte perché gli anni settanta hanno visto fiorire una pubblicistica a suo modo stimolante e del tutto estranea ai modelli tradizionali, in parte perché sembrava bisognasse sentire le diverse campane.

Il tempo logora anche le migliori intenzioni e la voglia di essere informato si è scontrata con la crescente miseria dei media. Ho perciò vissuto un vero e proprio processo di distacco da una pubblicistica che è diventata sempre più dozzinale, segnata da una supina acquiescenza ai poteri forti e alle leggi che hanno dominato gli ultimi due decenni del XX secolo e l’inizio del nuovo: le leggi del mercato.

Come è impossibile oggi guardare la televisione, dove la manipolazione dell’informazione si coniuga con la gara canora di urlatori che credono di poter imporre le loro opinioni grazie al tono della voce, similmente è difficile leggere giornali. Sono cresciuti di pagine trasformandosi in veicoli di pubblicità e in triviali strumenti di manipolazione dell’opinione pubblica, infatti la notizia è quasi scomparsa finendo nelle mani di presunti e spesso presuntuosi “esperti” che giorno dopo giorno blaterano all’infinito pontificando su tutto e negando sovranamente il più banale dei principi della logica: il principio di non contraddizione per cui possono un giorno dire una cosa e il giorno dopo l’opposto come se nulla fosse.

Nel loro sforzo di tenere avvinto il cliente i media usano come strumento principe quello di sbattere il mostro in prima pagina o in alternativa piangere le più calde lacrime di un vieto moralismo di fronte alla solita vicenda tragica. E’ necessario semplicemente che ci sia sangue e che si possa così rovistare nel fango facendosi di volta in volta cavalieri dell’ideale e portatori dei più profondi “valori umani”.

Di fronte a tale pubblicistica mi sembra possibile solo cercare di fuggire. Ogni tanto però anche oggi ci casco e così il caso di Tiziana Cantone, suicida si dice per un video pornografico di cui era protagonista presente in rete, mi ha spinto a cercare di capire. I giornali non mi hanno granché aiutato. C’era chi diceva che tutto era accessibile, che i video erano virali ma sarà per la mia ignoranza o per altro io di virale non ho proprio trovato nulla. Sono andato su internet e il caso ha voluto che mi sia imbattuto in un articolo di Pietro Barbetta che in modo reciso affermava: Porno. La morte della sessualità.

Difficile dire perché ho fermato la mia attenzione su questo testo piuttosto che su molti altri che trattavano lo stesso argomento: forse l’approccio quasi accademico, ricco di citazioni classiche e non, forse il tentativo dell’autore di “restare lontano da prescrizioni moralistiche” per poi nel complesso finirci dentro come e più di altri.

Sono certo però che la cosa che per prima e più di altre mi ha colpito è la descrizione del fatto obbiettivo da cui tutto il discorso poi si sarebbe dovuto sviluppare. Proviamo a leggere cosa dice l’articolista:

«La questione, nel caso di Tiziana Cantone, riguarda la pubblicazione di video porno che qualcuno avrebbe girato, in cui lei sarebbe stata protagonista, qualcosa relativo al sesso, nella sua dimensione brutale. In un momento impulsivo ci si può mostrare in modo inappropriato, assurdo. Per ragioni insondabili si esibisce il proprio corpo senza pudore».

Ora se c’è una cosa che ho sempre trovato intollerabile è il vezzo della pubblicistica nostrana che si è sempre esercitata a utilizzare il condizionale, in modo da lasciare un qualche cosa di vago in ogni sua affermazione anche quella più banale. Come dire al lettore: è successo così ma attenzione forse le cose non è detto siano avvenute proprio così … lasciando spazio a infinite altre possibili interpretazioni.

Il caso in questione è davvero emblematico. Infatti: “qualcuno avrebbe girato” un video ma ci vien sussurrato: forse le cose stanno in modo diverso? …

Video in cui: “lei sarebbe stata la protagonista”. Era la protagonista oppure no?

Non solo. Questo video avrebbe avuto come soggetto: “Qualche cosa relativo al sesso”. Ne abbiamo la certezza o tale video aveva come soggetto la corsa della cavallina? Come stabilirlo?

Poi ci vien detto che si trattava di: “sesso nella dimensione più brutale”. Difficile capire chi stabilisca quale sia il sesso “brutale” e quale quello “sublime”. Forse esiste un decalogo?

Infine due aggiunte l’una che sembrerebbe una giustificazione, ma dopo tanti dubbi istillati nella mente del lettore ci si chiede: giustificazione de che? “In un momento impulsivo ci si può mostrare in modo inappropriato, assurdo”. Cosa vuol dire mostrarsi: “in modo inappropriato, assurdo”. Quale legislatore stabilisce cosa sia appropriato nel mostrarsi e cosa no?

La seconda addenda aggiunge: “per ragioni insondabili si esibisce il proprio corpo senza pudore”. Ma le cose stanno proprio così?

Ora essendo poco esperto nelle tematiche della esibizione dei corpi e anche meno nell’uso dell’informatica, visto che si parlava di video ho pensato di rivolgermi al mio amico, il Tonto, che in questo settore è un mago, uno smanettone e si diverte a seguire le ultime tendenze.

Allora gli ho chiesto cosa ne pensasse.

“Cosa vuoi – mi ha detto – io di fronte ai suicidi provo sempre un senso di profondo rispetto. Ricordo una vecchia canzone di Claudio Lolli di quando eravamo ragazzi, Morire di leva. Era la straziante storia di un suicidio in caserma che si basava proprio sulla insondabilità di una scelta irreparabile. Perciò quando sento di casi come quello di cui mi parli tendo a voltare la pagina. Non sopporto i moralisti, i guardoni che sui giornali si strappano le vesti e poi se vai a vedere il loro portatile …”

“Nell’articolo di cui ti ho parlato – aggiungo – si dice fra l’altro che nella nostra società spesso:

«quel che sogniamo diventa reale, esce dal dominio immaginario e si mostra pubblicamente. In questi casi ci si può non svegliare più. Il rimorso di essere protagonisti di un evento pubblico, la cognizione che quell’evento sia passato dal regno dell’immaginario a quello reale può farci piangere, disperare, impazzire, uccidere».

Cosa ne pensi?”

“Non posso che pensare male. Fra l’altro non mi si parli di minorenni come alibi. Ciò che nessuno, in questa società profondamente ipocrita, ammette è che noi viviamo ormai da decenni in un mondo che ha radicalmente intaccato le regole di ogni norma morale e ha edificato una nuova dimensione della sessualità: siamo cittadini di Pornolandia. Un impero che si è piano piano strutturato partendo anche da esigenze ragionevoli, di liberazione del sesso dalle catene dei pregiudizi, ma che è poi cresciuto in modo impressionante e fuori da ogni regola. Io non sono che un dilettante e non ho dati certi perciò ti parlo basandomi su impressioni ma attenzione che non ho mai trovato nessuno che mi dicesse che stavo affermando il falso. Ricordi le riviste erotiche degli anni settanta, quelle che sulla scia di Playboy aprirono l’epoca del sesso in edicola? Anche se a noi potevano sembrare segnali di un processo di liberazione erano cose da educande ma poi l’industria ha preso il sopravvento e si è evoluta senza limiti di sorta. I giornalai hanno vissuto un’epoca d’oro vendendo videocassette e poi cd di tema esplicitamente sessuale. Un mercato infinito. Ti sei mai chiesto chi fossero gli acquirenti?”

“Beh, forse si può intuire” mi sono permesso di dire.

“Un mio amico giornalaio mi raccontava – ha continuato il Tonto – che era davvero una festa quando vedeva arrivare uno dei suoi abituali clienti a cui forniva materiale erotico. Il signore in questione apriva la sua borsa, introduceva una certa quantità di video, poi pagava senza dire nulla. A vederlo, aggiungeva il mio amico, si trattava di un borghese di quelli casa, ufficio, famiglia. Ma coltivava un suo privato vizietto …

E ora un’altra domanda: quali sono i siti internet più seguiti?”

“Mmm … ma sì, saranno quelli porno …”.
“Bravo hai vinto! Se tutti giovani e vecchi guardano compulsivamente YouTube, c’è poi una miriade di persone che guarda YouPorn. Nota l’assonanza, e non si tratta che della prima e più larga porta per un mondo che è infinito e che offre di tutto. Tutto è sul mercato.

Ecco perché provo imbarazzo quando vedo questi esercizi accademici di giustificare l’ingiustificabile.

Siamo tutti responsabili, siamo tutti coinvolti e siamo tutti schiavi del mercato.

Anzi vorrei dirti qualche cosa di più il voyeurismo di chi si presenta in tutte le possibili fogge su Facebook non è altro che la premessa di una pornografia diffusa. Il bisogno compulsivo di mostrarsi in tutte le fattezze non è altro che la premessa a mettersi sul mercato nelle forme estreme. Ovviamente i più non ci arriveranno, ma …

Nel momento in cui all’interno della società dello spettacolo ti metti in mostra e ti esibisci il confine tende a diventare sempre più evanescente. Quale è la differenza fra una che si presenta sulla passerella del Festival del Cinema di Venezia con un abito con lo spacco che fa vedere i peli del pube e chi invece si fa riprendere durante un atto sessuale privato? Forse l’audience, l’immaginario ma … soprattutto il mercato. L’una è un’artista, o almeno così viene presentata all’opinione pubblica, per la seconda invece la definizione è più difficile, può avere la fortuna di diventare una “attrice porno” e così trasformare la sua sessualità in uno strumento di profitto o cadere nella dura condizione della ingenua che non ha valutato bene le sue scelte. Ma sia chiaro a diciotto o a trent’anni sono scelte libere. La ricerca di attenuanti è solo un meschino gioco moralistico”.

“Tu perciò non sei d’accordo con l’autore dell’articolo di cui ti ho parlato che afferma:

«I racconti arcaici stanno all’origine della civilizzazione, mostrano le conseguenze di quanto accade dove non c’è protezione, dove il soggetto è inesorabile preda della necessità. Là, di fronte allo sgomento, non resta che il suicidio».

“Ma non farmi sorridere. Non cerchiamo alibi in Edipo o Ulisse. Fra l’altro le ancelle che Ulisse uccide avevano, fino a prova contraria, liberamente scelto di unirsi ai Proci. Ed ancora di più non mi convince il tentativo di trovare una specie di giustificazione dotta per cui: “La tragedia fa emergere un soggetto che si può sottrarre alla necessità”. In questo modo si cerca di nasconde il fatto che nella tragedia classica il soggetto è e resta dilaniato fra l’imperio del fato e il tentativo di affermare la propria libertà. Troppo facile cercare una specie di giustificazione alle scelte del soggetto che si è da sempre trovato a fare i conti  con i possibili esiti tragici delle sue azioni. Non vi sono mai state vere protezioni di fronte alle scelte che la vita ti impone di fare.

Aut aut.

Ciascuno di noi, ogni giorno corre il rischio di vedere tanto il proprio fallimento, quanto la possibilità di ottenere successo e godere del piacere della propria affermazione”.

“Non ti pare di essere – mi sono permesso di aggiungere – di un determinismo razionalistico che corre il rischio di diventare a sua volta una forma di moralismo? Ho qualche dubbio quando affermi in modo così reciso che chi entra in certi giri conosce sino in fondo le regole del gioco: il sangue versato dalle vittime non è pomodoro come sul palcoscenico … I giovanissimi entrano in possesso delle nuove tecnologie e sono trascinati nel gorgo delle mode, pena essere esclusi dal gruppo di amici, anzi dal Gruppo sempre più ampio della rete, la cui considerazione o meno diventa, per i più fragili, l’unico termine di confronto per decidere il proprio valore. A questo punto l’aut aut non esiste più, molti giovani, ma crescendo immaturi anche i meno giovani, sono trascinati in un vortice. I più induriti sopravvivono diventando cinici e servi ottusi del potere, altri investono se stessi interamente, portandosi appresso enormi problematiche personali irrisolte e diventano le vittime soccombenti. Questo potrebbe essere il caso della Cantoni, che si definiva “fragile e depressa” e a cui forse è mancata una significativa figura di riferimento”.

“Il problema – mi ha risposto il Tonto, quasi togliendomi la parola di bocca – è che nella società dell’immagine e dei social media, in cui siamo oramai pienamente inseriti, non si può sperare in una qualche indulgenza. La sua logica è spietata e coloro che rimangono nello stato di immaturità sono necessariamente ed irrimediabilmente travolti da una macchina che non dà scampo. Inutile far riferimento a logiche romantiche, come quelle che vengono vendute dal business dello spettacolo, la società è governata da un meccanismo darwiniano, di un radicale darwinismo sociale, che è spietato e ad esso bisogna saper rispondere altrimenti si viene schiacciati senza scampo. Chi non acquisisce coscienza di questa realtà diventa o carnefice o vittima del totalitarismo del capitale. L’unica uscita possibile è politica, si tratta di costruire una salda coscienza che consenta a ciascuno di noi di comprendere fino in fondo ciò che è in gioco senza alibi e infingimenti”.

“Per cui secondo te non è esatto quello che ha affermato Bateson:

«La pratica sessuale ha bisogno di restare dentro “il messaggio ‘questo è gioco’”».

“Anche questa mi pare una asserzione non priva di una dimensione moralista. Il sesso potrebbe essere “gioco” in una società liberata dalla duplice servitù del bisogno e del mercato. Nella società del capitale la sessualità è e rimane una merce. Inutile nasconderselo. Invocare la libertà del soggetto è altrettanto vano che affermare che ciascuno di noi è schiavo del mercato. La nostra condizione, almeno quella di noi occidentali, è davvero paradossale. Siamo liberi all’interno di una società che ci ha messo delle catene da cui solo con immensa fatica possiamo, almeno in parte, liberarci. Perciò chi invoca la civiltà e parla di: “saper dividere il privato dal pubblico, … distinguere ciò che può essere raccontato da ciò che è vissuto …” non fa che raccontare una favola. La civiltà occidentale accanto al suo volto di una alta cultura ha sempre presentato un altro volto ben più tragico, quello della violenza criminale su cui la civiltà è stata edificata. L’un aspetto non è mai stato svincolato dall’altro. Accanto allo spirito di finezza è costantemente stato presente uno spirito distruttivo, quella violenza che alla fin fine ha consentito di costituire il surplus materiale grazie al quale uno strato di intellettuali ha elaborato quelle regole di finezza che per altro sono spesso state infrante dagli stessi che le teorizzavano”.

“Mi hai convinto. Perciò a chi come l’articolista afferma:

«i limiti della civiltà e della cultura sono saltati, … tutto è uguale a tutto, … se qualcuno spara, posso sparare anch’io … si entra nel regno dell’insensibilità, che è anche il regno dell’insensato»

non possiamo che rispondere: quella civiltà di cui parli è solo un parto letterario della tua immaginazione. Nella società del capitale tutto è uguale a tutto. Siamo figli di Pornolandia e i suoi confini come quelli dell’impero di Carlo V, non conoscono il tramonto del sole. La sessualità è una merce e chi ingenuamente non se ne rende conto, proprio nell’epoca in cui tutto può essere ripreso e messo in rete in tempo reale, corre il rischio di esperire su se stesso il peso estremo di questa società e della sua follia.

Morire di porno è una tragedia ma è soprattutto un possibile rischio che bisogna mettere in conto quando si partecipa a un certo tipo di giochi”.

APPENDICE

Porno. La morte della sessualità

Pietro Barbetta
(http://www.doppiozero.com/materiali/porno-la-morte-della-sessualita)

 

I due volti della vergogna

La vergogna ha due volti. Da un lato è sentimento interno, che si prova di fronte a un gesto del soggetto, il soggetto si divide in due: la parte che ha commesso quel gesto, prima, la parte che giudica il gesto commesso come disonorevole, dopo. Il contrasto tra queste due istanze produce vergogna, come se il soggetto si svegliasse da un sogno. Per esempio, il sogno di essere nudi di fronte a persone di rispetto. Sogno d’inibizione. Freud ci ha insegnato cha accade a tutti, dunque la vergogna diminuisce.

La vergogna ha un lato interno e uno esterno, posso provare vergogna di fronte a me stesso, senza che altri conoscano le vicende che me la procurano. Per alleviare le pene della vergogna posso confidare le vicende che mi hanno condotto a vergognarmi. Ne parlo a persone di cui mi fido, ma mi metto a rischio. La persona che riceve le mie confidenze può custodirle, dirmi una parola di conforto, che serva a rendere la vergogna più lieve, ma può condannarmi oppure approfittare della mia confidenza, per render note queste vicende agli altri. Così si rompono le amicizie, così si creano le ferite familiari.

Ma c’è di più, può accadere che il gesto della vergogna diventi pubblico, come a Tiziana Cantone. In questi giorni il suo caso ne ha fatti emergere altri, una ragazza di quindici anni, una donna di quaranta.

La vita e la morte sessuale

La questione, nel caso di Tiziana Cantone, riguarda la pubblicazione di video porno che qualcuno avrebbe girato, in cui lei sarebbe stata protagonista, qualcosa relativo al sesso, nella sua dimensione brutale. In un momento impulsivo ci si può mostrare in modo inappropriato, assurdo. Per ragioni insondabili si esibisce il proprio corpo senza pudore. Accade che quel che sogniamo diventa reale, esce dal dominio immaginario e si mostra pubblicamente. In questi casi ci si può non svegliare più. Il rimorso di essere protagonisti di un evento pubblico, la cognizione che quell’evento sia passato dal regno dell’immaginario a quello reale può farci piangere, disperare, impazzire, uccidere.

La storia e la fenomenologia del gesto suicidario sono altrettanto importanti. L’impiccagione non è un omicidio/suicidio qualunque. Ha rapporti più stretti di quanto si pensi con la sessualità.

Eva Cantarella racconta che l’impiccagione tra gli antichi è gesto o destino femminile. L’impiccagione di Giocasta, moglie e madre di Edipo, l’impiccagione, da parte di Ulisse, delle ancelle infedeli, che hanno rapporti sessuali con i proci, sono i due esempi più noti. Cantarella aggiunge che in Arcadia e in Tessaglia le giovani vergini si impiccano per evitare lo stupro.

C’è un nesso arcaico tra impiccagione e sessualità, tra impiccagione e stupro, incesto. Il gesto di strappare i vestiti di dosso, che avviene durante lo stupro, ha qualcosa in comune col gesto del togliersi un capo di vestiario, il foulard, la cravatta, la cintura, per impiccarsi.

Le giovani vergini di Arcadia e Tessaglia s’impiccano per evitare la vergogna dello stupro, lo fanno in maniera preventiva, conoscono il loro destino e lo evitano impiccandosi.

Tragedia e realtà

Qual è la differenza? I racconti arcaici stanno all’origine della civilizzazione, mostrano le conseguenze di quanto accade dove non c’è protezione, dove il soggetto è inesorabile preda della necessità. Là, di fronte allo sgomento, non resta che il suicidio.

Con la tragedia, emerge la differenza tra il piano letterario, dove il destino si compie, e quello della vita reale, che produce l’immedesimazione, quindi la paura e l’angoscia di ripercorrere lo stesso cammino. La tragedia fa emergere un soggetto che si può sottrarre alla necessità.

In epoca moderna questa funzione è svolta anche dalla psicoterapia: Freud, nell’inesauribile capitolo sesto dell’Interpretazione dei Sogni, racconta dell’analisi di una donna che, nel dire al marito: “impiccati!”, esprime un desiderio sessuale verso di lui, avendo letto di recente che nell’impiccagione maschile si manifesta una repentina erezione.

Oggi però non ci sono più protezioni, la tragedia è morta, la psicoanalisi tramonta, come quando in un circo si toglie la rete, per accrescere la suspense, ma anche i rischi di morte.

Nel caso di Tiziana Cantone l’impiccagione avviene a posteriori, nachträglich, per usare un termine caro a Freud. Non è tragedia, è peggio, è tragedia che diventa realtà. Non c’è bisogno di andare a teatro, basta leggere il giornale, guardare la televisione, quelle scatole che dicono cosa davvero accade.

La tragedia è morta, è morto il dispositivo che mette in guardia il soggetto di fronte alle conseguenze dei suoi gesti; che, attraverso la scena, li rende possibili, ma non necessari. Siamo di nuovo preda della necessità. Abbiamo bisogno di una nuova cultura per rielaborare le conseguenze delle nostre azioni, una cultura meno psicotica.

Responsabilità

La psicologa Carol Gilligan, nel libro Con voce di donna, parla di un’etica della responsabilità più affine al femminile, un’etica in cui ogni nostro gesto, anche quelli che ci appaiono sommamente giusti, è inserito in una trama di eventi che possono stravolgerlo e farci vergognare di averlo “commesso”. In quel momento di crudeltà, abbiamo bisogno della tenerezza. Del gesto protettivo materno.

Non voglio essere frainteso, queste righe sono lontane da prescrizioni moraliste. La sessualità ha sempre contemplato orizzonti “perversi e polimorfi”, è una pluralità di pratiche differenti. Voyeurismo, feticismo, masochismo, sono azioni diffuse dentro la sessualità. La pratica sessuale ha bisogno di restare dentro “il messaggio ‘questo è gioco’”, come ricorda il titolo di un colloquio condotto da Gregory Bateson presso la Fondazione Josiah Macy, nel 1956.

La civiltà non è moralismo, è spirito di finezza nel saper dividere il privato dal pubblico, capacità di distinguere ciò che può essere raccontato da ciò che è vissuto, differenza tra il letterario e il reale.

Se il rapporto sessuale – con tutte le sue variazioni masturbatorie, clitoridee, anali, voyeuriste, feticiste, masochiste – diventa affare pubblico, che si svolge nella realtà di una macchina della verità (giornale, televisione, computer, internet, social network), vuol dire che i limiti della civiltà e della cultura sono saltati, che tutto è uguale a tutto, che se qualcuno spara, posso sparare anch’io.

Come ha sostenuto Ugo Morelli, in un saggio recente, si entra nel regno dell’insensibilità, che è anche il regno dell’insensato. In questo caso, la vergogna è sentimento che si può non provare, alieno. Dipende dalle inibizioni, dal tempo e dalla memoria. Tiziana Cantone questo sentimento lo ha provato, si è vergognata, e si è suicidata di fronte al cyberbullismo di quelli che vergogna non ne provano mai.

 

32 pensieri su “Pornolandia: la morte della sessualità

  1. Silenzio

    Nella voce della terra
    il lamento non ha ascolto
    quando passi resta muto
    come la paura della fanciulla
    Il solo ricordo dell’orrore
    spinge il passo a cercare luce
    fra le braccia di una madre
    che non sa .
    Ripetuti passi fino alla vecchia quercia
    che stende braccia e ombre
    sotto i grilli cantano ignari
    e anche un fiore si vanta del giallo
    Nessuno chiederà guerra al mondo
    sarà il sordo che morirà per primo?

    Emilia

  2. …sì, Emy, ci vorrebbe davvero la protezione della vecchia quercia, a questo punto della tragedia…Sia il Tonto che P. Barbetta sembrano concordare sulla quasi irreversibilità di una situazione incancrenita a causa dell’abnorme diffusione delle immagini tramite i social media, in cui, all’interno del sistema capitalistico, governa “…un meccanismo darwiniano, di un radicale darwinismo sociale, che è spietato e ad esso bisogna saper rispondere altrimenti si viene schiacciati senza scampo…Siamo figli di Pornolandia…L’unica uscita possibile è politica, si tratta di costruire una solida coscienza che consenta a ciascuno di noi di comprendere fino in fondo ciò che è in gioco senza alibi e infingiment…i (il Tonto)…”La tragedia fa emergere un soggetto che si sottrarre alla necessità…Oggi però non ci sono più protezioni, la tragedia è morta,la psicoanalisi tramonta…” (P. Barbetta).
    Secondo me, ricostruire oggi nella nostre menti, dei più o meno giovani, “la solida coscienza” e il senso della “tragedia” che permetterebbero di uscire dalla necessità per entrare nella possibilità di poter ancora compiere delle scelte diventa sempre più difficile..Non voglio disperare comunque, qualcosa forse si muove. Ma ciò che mi spaventa è il livello ormai compulsivo di certi comportamenti: l’alzarsi alla mattina e, insieme al caffelatte, divorare e trasmettere una dose massiccia di immagini, le dita ormai smanettano da sole e gli occhi stanno ipnoticamente nella traiettoria di un rettangolino di luce…attraversare strade e binari incollati al piccolo teleschermo , facendosi travolgere da vetture e treni…Se ci si guarda attorno e qualcosa colpisce l’attenzione, subito va intrappolata lì, nello scatolino portatutto. Sembra che esistano seggiolini da viaggio con incorporati teleschermi per neonati…Essere scelti, cioè sistematicamente invasi e schiacciati, diventa la regola e, quando non se ne può proprio più, si può ricorrere alla scelta di chiudere ogni teleschermo e farla finita…

    1. Annamaria hai descritto molto bene l’immagine dell’attrazione che esercita “la scatoletta” . Hanno creato una necessità , sembra che quasi nessuno ormai riesca farne a meno.
      La vita dentro, con tutte le sue tristezze , piccole gioie, dolori, esibizioni, fanatismi .
      Che dire un vero e proprio film girato da milioni e milioni di registi/spettatori che hanno in comune il problema della ricarica della batteria e del credito.
      Io come tantissimi altri ne sono in parte coinvolta. Non esco mai di casa senza prima essermi assicurata di avere la scatoletta in borsa. E’ come se lasciassi un pezzo della mia giornata chiuso in casa…
      Qualche volta di proposito l’ho lasciato abbandonato sul divano e al ritorno, telefonate che mi chiedevano perché ho acquistato il cellulare se poi lo lascio a casa. Assurdo o no?
      Quante volte vorrei distruggerlo, prendermela con il mezzo anziché con me stessa che non ho saputo fare a meno di quella attraente diabolica scatoletta.
      Talmente diabolica da distruggere la povera Tiziana Cantone e non solo lei.

  3. Non essendo certo che i lettori del sito seguano anche i post di “Poliscritture FB” che compaiono nella fascia destra del sito, segnalo anche qui questa reazione di Pietro Barbetta all’articolo di Giulio Toffoli:

    Pietro Barbetta‎ a POLISCRITTURE [FB]

    Esco da questo gruppo perché ospita aggressioni. Persone arroganti che senza conoscere distorcono il testo dell’autore. Non ci sto, questo non è dibattito. Anche Socrate non riuscì a discutere con Trasimaco. Cordiali saluti a chi, in buona fede, non è in grado di moderare i toni e promuovere il rispetto. Credo si tratti di imparare la differenza tra rispetto, morale e moralismo.

  4. La vicenda del suicido di questa ragazza pone in evidenza la questione dell’unità dell’essere; quell’unità che alcuni favoleggiano sia stata l’elemento cardine dell’epoca ellenistica, che si sarebbe perduta in modo definitivo allo scadere del secondo millennio dC.
    Il giudizio che diamo di noi stessi è sempre dovuto a condizionamenti esterni – figure genitoriali, cerchia delle amicizie, regole di comunità piccole, grandi e oggi anche globali – ma trova radici profonde in ciascuno, nella naturale osservazione di vivere separati da e nel corpo; pensiero che forse i nostri antenati giudicavano come irrisorio, perché più importante era l’unità tra coscienza e azione.
    Giulio leggeva il quotidiano l’Unità, e chissà che si credeva che fosse questa “unità”: di simili che fanno gruppo contro un nemico comune, di persone che la pensano allo stesso modo; pensava cioè all’unirsi con qualcosa che sta a all’esterno da sé. Quindi sceglieva tra il “noi” e “voi”. Ma avrebbe potuto anche scegliere tra “noi” e un generico “gli altri”. Sta di fatto che Giulio, diversamente ma come tutti, scelse la via estroversa, condivisa, l’unica per poter intervenire con qualche costrutto per cambiare, rimuovere o abbattere, il gigante Moloch. Questo mentre le persone sembrano non aver di meglio da pensare che cercare di far corrispondere il proprio essere al proprio aspetto fisico. Fighi fuori, quindi fighi dentro.
    Il dentro così ridotto crea l’unità di un monolite, non di un essere umano. L’essere umano apprende, si trasforma, può affermare il proprio sé. Il monolite va in pezzi, se crolla non ha futuro. E la mancanza di futuro è la principale causa del “moderno” suicidio. Non ci si chiede che vita è mai questa, ci si sente solo messi irrimediabilmente alle strette, senza via d’uscita.
    Sulla sessualità non ho quasi nulla da dire. Ho abbastanza anni da poter osservare quanto la natura faccia la sua parte, anzi la pretende. Ma “grazie al Clero” stiamo proprio messi male. Rispetto però tutti i pervertiti, per i quali la sessualità fa rima con fantasia. E avanti così, ma fino a quando?

  5. LETTERA APERTA
    a Pietro Barbetta

    Gentile Pietro Barbetta,
    mi spiace che lei abbandoni il gruppo di Poliscritture. Mi preoccupano soprattutto le motivazioni addotte per l’abbandono: Poliscritture ospiterebbe «aggressioni» di «persone arroganti che senza conoscere distorcono il testo dell’autore» e l’aggressione, nei suoi confronti, sarebbe stata perpetrata dall’articolo « Pornolandia: la morte della sessualità» di Giulio Toffoli, redattore appunto di Poliscritture. Preoccupato, come le ho scritto ieri sera in privato, sono andato a rileggermi stamattina l’articolo di Toffoli ed ecco le mie considerazioni.
    A dire il vero e dal mio punto di vista, a me pare che Giulio Toffoli abbia fatto della critica – spietata, tenace, accanita – al suo articolo, anzi a singoli passi del suo articolo. Ha polemizzato certamente, ma *in modo argomentato*. E io non esito a dire che questo tipo di *polemica argomentata* è già volontà di dialogo o, a essere prudenti, possibilità di dialogo. E – ripeto – proprio perché Toffoli ha argomentato le sue critiche, per me ci sarebbero state le condizioni per *iniziare* la discussione e non per rifiutarla come lei fa.

    (Per questo l’avevo invitata tranquillamente a commentare, scrivendole:
    AB 19:30
    Gentile Pietro Barbetta,
    ho appena pubblicato su Poliscritture un articolo di Giulio Toffoli che dialoga/polemizza con il suo “Porno. La morte della sessualità”. Mi piacerebbe un suo commento. Un caro saluto (https://www.poliscritture.it/…/pornolandia-la-morte-della-…/…).

    Non mi pare si possa parlare di un fraintendimento totale del suo testo. (Ma su questo punto mi aspetterei almeno dei chiarimenti da parte sua). Come poi le ho ancora scritto in privato «sicuramente Giulio Toffoli non la conosce e non segue Doppiozero». Ma un lettore che affronti la lettura di un suo articolo (e, che ha dichiarato: « Difficile dire perché ho fermato la mia attenzione su questo testo piuttosto che su molti altri che trattavano lo stesso argomento») deve necessariamente e preventivamente conoscere il lavoro fatto da lei e «Doppiozero» prima di pronunciarsi sul suo testo o poterlo criticare?
    Perché di critica si tratta, senz’altro. Ma non «offensiva», arrogante o mossa esclusivamente dalla «logica amico/nemico». Aggressiva, allora? Forse. Terrei conto però di una cosa che l’esperienza di situazioni del genere mi ha insegnato: l’aggressività di per sé caratterizza spesso – e soprattutto agli inizi – i rapporti tra persone che hanno impostazioni di pensiero differenti o anche contrapposti, ma non necessariamente si cristallizza o non può modificarsi.
    Ho rivisto i punti dell’articolo di Toffoli dove l’ aggressività c’è o potrebbe esserci (Cfr. Appendice) e aggiungo queste altre riflessioni:

    1. Lascerei da parte l’analogia che lei stabilisce con la discussione tra Trasimaco e Socrate: mi pare evidente che, nel nostro caso, la discussione tra lei e Toffoli non abbia neppure avuto inizio. Lei ha, cioè, escluso *in partenza* il confronto con lui. Analizzerei invece la situazione concreta: quella creatasi dall’incontro occasionale tra il suo testo e la sensibilità e intelligenza di un suo lettore di nome Giulio Toffoli; situazione che, a mio parere, potrebbe (o, a questo punto, avrebbe potuto) svilupparsi dinamicamente e portare ad una reciproca maggiore comprensione delle ragioni di fondo, sue e di Toffoli;

    2. Ammettiamo per un attimo che la critica di Toffoli abbia i tratti offensivi che lei le attribuisce. Le sensibilità dei singoli sono sempre diverse; ed io non pretendo che la mia impressione coincida con la sua o con quella di altri lettori che la dovessero condividere. Tuttavia, resta valida e ineludibile la questione che le ho posto e che va al di là di questo stesso episodio: «Posizioni estremizzate o aggressive sono (e non da oggi) quasi la norma in certi confronti tra intellettuali. E poi di aggressività in giro, e specie su FB, se ne trova tanta. Che si fa? La si lascia correre?». A me resta ancora una certa fiducia nei ragionamenti pacati (che pure mi costano fatica e tempo); e ritengo – forse illudendomi – che le posizioni “indurite” possano e debbano essere *lavorate* (corrette, limate, depurate) nel corso di discussioni a più voci, in cui il singolo esce dal suo eventuale o reale solipsismo ed è “costretto” a misurarsi con altri punti di vista. Posso sbagliarmi, ma questa è l’idea che guida il mio lavoro di coordinatore di Poliscritture.

    Chiarite queste cose, ribadisco pubblicamente quanto già le ho detto in privato: rispetto la sua decisione e spero in migliori occasioni di confronto. Un caro saluto
    Ennio Abate

    APPENDICE

    Stralci dall’articolo di Giulio Toffoli:

    1. Difficile dire perché ho fermato la mia attenzione su questo testo piuttosto che su molti altri che trattavano lo stesso argomento: forse l’approccio quasi accademico, ricco di citazioni classiche e non, forse il tentativo dell’autore di “restare lontano da prescrizioni moralistiche” per poi nel complesso finirci dentro come e più di altri.

    2.
    Ora se c’è una cosa che ho sempre trovato intollerabile è il vezzo della pubblicistica nostrana che si è sempre esercitata a utilizzare il condizionale, in modo da lasciare un qualche cosa di vago in ogni sua affermazione anche quella più banale. Come dire al lettore: è successo così ma attenzione forse le cose non è detto siano avvenute proprio così … lasciando spazio a infinite altre possibili interpretazioni.
    Il caso in questione è davvero emblematico. Infatti: “qualcuno avrebbe girato” un video ma ci vien sussurrato: forse le cose stanno in modo diverso? …
    Video in cui: “lei sarebbe stata la protagonista”. Era la protagonista oppure no?
    Non solo. Questo video avrebbe avuto come soggetto: “Qualche cosa relativo al sesso”. Ne abbiamo la certezza o tale video aveva come soggetto la corsa della cavallina? Come stabilirlo?
    Poi ci vien detto che si trattava di: “sesso nella dimensione più brutale”. Difficile capire chi stabilisca quale sia il sesso “brutale” e quale quello “sublime”. Forse esiste un decalogo?
    Infine due aggiunte l’una che sembrerebbe una giustificazione, ma dopo tanti dubbi istillati nella mente del lettore ci si chiede: giustificazione de che? “In un momento impulsivo ci si può mostrare in modo inappropriato, assurdo”. Cosa vuol dire mostrarsi: “in modo inappropriato, assurdo”. Quale legislatore stabilisce cosa sia appropriato nel mostrarsi e cosa no?
    La seconda addenda aggiunge: “per ragioni insondabili si esibisce il proprio corpo senza pudore”. Ma le cose stanno proprio così?

    3.
    “Nell’articolo di cui ti ho parlato – aggiungo – si dice fra l’altro che nella nostra società spesso:
    «quel che sogniamo diventa reale, esce dal dominio immaginario e si mostra pubblicamente. In questi casi ci si può non svegliare più. Il rimorso di essere protagonisti di un evento pubblico, la cognizione che quell’evento sia passato dal regno dell’immaginario a quello reale può farci piangere, disperare, impazzire, uccidere».
    Cosa ne pensi?”
    “Non posso che pensare male. Fra l’altro non mi si parli di minorenni come alibi. Ciò che nessuno, in questa società profondamente ipocrita, ammette è che noi viviamo ormai da decenni in un mondo che ha radicalmente intaccato le regole di ogni norma morale e ha edificato una nuova dimensione della sessualità: siamo cittadini di Pornolandia.
    […]
    E ora un’altra domanda: quali sono i siti internet più seguiti?”
    “Mmm … ma sì, saranno quelli porno …”.
    “Bravo hai vinto! Se tutti giovani e vecchi guardano compulsivamente YouTube, c’è poi una miriade di persone che guarda YouPorn. Nota l’assonanza, e non si tratta che della prima e più larga porta per un mondo che è infinito e che offre di tutto. Tutto è sul mercato.
    Ecco perché provo imbarazzo quando vedo questi esercizi accademici di giustificare l’ingiustificabile.
    Siamo tutti responsabili, siamo tutti coinvolti e siamo tutti schiavi del mercato.

    4.
    “Tu perciò non sei d’accordo con l’autore dell’articolo di cui ti ho parlato che afferma:
    «I racconti arcaici stanno all’origine della civilizzazione, mostrano le conseguenze di quanto accade dove non c’è protezione, dove il soggetto è inesorabile preda della necessità. Là, di fronte allo sgomento, non resta che il suicidio».
    “Ma non farmi sorridere. Non cerchiamo alibi in Edipo o Ulisse. Fra l’altro le ancelle che Ulisse uccide avevano, fino a prova contraria, liberamente scelto di unirsi ai Proci. Ed ancora di più non mi convince il tentativo di trovare una specie di giustificazione dotta per cui: “La tragedia fa emergere un soggetto che si può sottrarre alla necessità”. In questo modo si cerca di nasconde il fatto che nella tragedia classica il soggetto è e resta dilaniato fra l’imperio del fato e il tentativo di affermare la propria libertà. Troppo facile cercare una specie di giustificazione alle scelte del soggetto che si è da sempre trovato a fare i conti con i possibili esiti tragici delle sue azioni. Non vi sono mai state vere protezioni di fronte alle scelte che la vita ti impone di fare.
    Aut aut.
    Ciascuno di noi, ogni giorno corre il rischio di vedere tanto il proprio fallimento, quanto la possibilità di ottenere successo e godere del piacere della propria affermazione”.

    5.
    “Per cui secondo te non è esatto quello che ha affermato Bateson:
    «La pratica sessuale ha bisogno di restare dentro “il messaggio ‘questo è gioco’”».
    “Anche questa mi pare una asserzione non priva di una dimensione moralista. Il sesso potrebbe essere “gioco” in una società liberata dalla duplice servitù del bisogno e del mercato. Nella società del capitale la sessualità è e rimane una merce. Inutile nasconderselo. Invocare la libertà del soggetto è altrettanto vano che affermare che ciascuno di noi è schiavo del mercato. La nostra condizione, almeno quella di noi occidentali, è davvero paradossale. Siamo liberi all’interno di una società che ci ha messo delle catene da cui solo con immensa fatica possiamo, almeno in parte, liberarci. Perciò chi invoca la civiltà e parla di: “saper dividere il privato dal pubblico, … distinguere ciò che può essere raccontato da ciò che è vissuto …” non fa che raccontare una favola.

    6.
    “Mi hai convinto. Perciò a chi come l’articolista afferma:
    «i limiti della civiltà e della cultura sono saltati, … tutto è uguale a tutto, … se qualcuno spara, posso sparare anch’io … si entra nel regno dell’insensibilità, che è anche il regno dell’insensato»
    non possiamo che rispondere: quella civiltà di cui parli è solo un parto letterario della tua immaginazione. Nella società del capitale tutto è uguale a tutto. Siamo figli di Pornolandia e i suoi confini come quelli dell’impero di Carlo V, non conoscono il tramonto del sole. La sessualità è una merce e chi ingenuamente non se ne rende conto, proprio nell’epoca in cui tutto può essere ripreso e messo in rete in tempo reale, corre il rischio di esperire su se stesso il peso estremo di questa società e della sua follia.
    Morire di porno è una tragedia ma è soprattutto un possibile rischio che bisogna mettere in conto quando si partecipa a un certo tipo di giochi”.

  6. DA “POLISCRITTURE FB” A “POLISCRITTURE SITO”

    Fabio Ciriachi

    Ho letto il brano in questione. Giulio Toffoli non dialoga con Barbetta, non lo rispetta come interlocutore, si diverte solo a irriderlo, si domanda e si risponde, oltretutto in modo puerile, come quando stigmatizza l’uso del condizionale, fingendo di ignorare che su eventi di cui non si conosce l’esatta dinamica il condizionale è un obbligatorio segno di rispetto per chi legge. Ma Toffoli è abituato ad avere le verità sempre in tasca e non concepisce chi esprime, invece, legittimi dubbi (la propaganda, del resto, non ha mai dubbi, per statuto). Leggo da un considerevole numero di anni, e invito chiunque a giudicare “l’apertura al dialogo” di questo “Dialogando con il Tonto (5). Caro Ennio, difendi l’indifendibile. Toffoli ha trattato l’articolo di Barbetta come un pugile tratta il sacco da allenamento. Ricamaci intorno come vuoi. Nessuna apertura al dialogo può assumere forme così scostanti.

    Giacomo Conserva

    “Esco da questo gruppo perché ospita aggressioni…”è una parte del messaggio di Pietro Barbetta che è scomparso (se non ho le traveggole). Già questa scomparsa mi sembra inquietante: sul metodo: che senso ha fare una lettera aperta su Poliscritture a una persona che, non senza motivi, ha dichiarato chiaramente (in una lettera privata) di andarsene (non: “volersene andare”!!!)? Sul merito: non posso non concordare sulla valutazione di Pietro Barbetta e di Fabio C. sul testo di Toffoli, che trovo non solo di una stupidità, ma anche di una violenza infinita. Sul metodo ancora: come si fa a condannare al rogo una persona di cui non ci si preoccupa minimamente di scoprire il contesto in cui si muove, la lotta che porta avanti, l’uso non terroristico né banale né manipolativo degli strumenti analitici di cui dispone? Demenza. E non meno grave, Ennio, mi sembra che tu lo difenda in questa improvvida crociata. Come ho (privatamente) scritto altrove, mi sembra definitivamente non scusabile “non considererare discriminante il NON essere politicamente corretti, il non pensare di avere Dio (o la Storia; o la Giustizia; o qualunque altro valore possibile) dalla propria parte. Non solo si autorizzano gli idioti a diventare violenti, ma a pensare di averne ogni diritto (e dovere!)” Scusa Ennio per l’amicizia storica nostra e delle nostre famiglie, ma a questo punto mi sembra necessario dire PUBBLICAMENTE (il terreno che hai scelto tu) queste cose amare.

    Ennio Abate @ Giacomo Conserva

    Per ora solo per dire che non ho cancellato alcunché. Proprio all’inizio della mia lettera ho scritto: ” Poliscritture ospiterebbe «aggressioni» di «persone arroganti che senza conoscere distorcono il testo dell’autore» e l’aggressione, nei suoi confronti, sarebbe stata perpetrata dall’articolo « Pornolandia: la morte della sessualità» di Giulio Toffoli, redattore appunto di Poliscritture.”

    1. Da Poliscritture facebook a Poliscritture sito: Toffoli, tu sai esattamente cos’è accaduto nella vicenda Cantone? Se sì hai delle fonti invidiabili. Quelle a cui ho attinto io davano versioni diverse e contrastanti, che spaziavano dalle riprese fatte all’insaputa della Cantone fino alla sua volontà di usare il video per vendicarsi di un fidanzato. Morale: se devo parlare di quella vicenda e non sono arrogante e irrispettoso, devo usare il condizionale, fino a quando riscontri più circostanziati non disegnino un quadro attendibile dell’accaduto. Domanda: cosa c’è da “sorridere se non da ridere”, in questo? E perché sarei disonesto intellettualmente? E ancora, per la mia parte, quali sarebbero gli improperi? Vedi, questa è volontà di dialogo, senza pregiudizi, domande semplici. Per finire: su cosa si fonda la tua convinzione che come hai trattato tu la vicenda Cantone attenga al “sangue” mentre io e altri staremmo sulle “fragole”?

      Da Poliscritture facebook a Poliscritture sito: “A coloro che come tal Conserva Giacomo affermano” scrive Toffoli. Ecco, pare chiaro che era sufficiente dire “A Giacomo Conserva” e che l’artificio retorico di “A coloro che come tal eccetera” sia del tutto inappropriato (colpa grave per chi accusa gli altri di improperi); non parliamo, poi, del “tal” e del nome e cognome invertiti al modo dei carabinieri. Le sottigliezze lessicali di Toffoli sono la spia più fedele di qual è il livello del suo spirito critico. Non ho mai detto nulla sulla rozzezza argomentativa del Tonto perché i gusti sono gusti, e se ad altri piace, che lo leggano e approvino. Ma faccio presente che il clima di prepotenza di cui è permeato il Tonto su Barbetta (un’analisi testuale darebbe risultati impietosi), è lo stesso che ha allontanato da Poliscritture, anni addietro, una filosofa e una poeta, alle quali non facevano certo difetto la lucidità di analisi e la proprietà argomentativa, ma che, per quel minimo di rispetto che si deve a sé stessi, non potevano accettare di finire in ingranaggi come quelli da cui, sanamente, Barbetta si è allontanato. Poliscritture dovrebbe aggregare, avvicinare, mediare per condividere il più possibile, e invece finisce per dividere, allontanare, isolare. Politicamente non è un bel lavoro. E poi, non ce la raccontiamo, la vivacità della critica è altro dall’immotivato compiacimento con cui Toffoli ha preso a sberle il testo di Barbetta.
      *

  7. Dove Toffoli analizza alcune frasi dell’articolo di Barbetta mi pare non abbia compreso il ruolo professionale di quest’ultimo. Abbiamo visto in molti, credo, le foto o i video di giovani che si accoppiano in un parco pubblico o sui marciapiedi di Roma. Ero giovane negli anni della c.d. liberazione sessuale, ma l’accoppiamento in pubblico non l’avrei immaginato, oggi invece i giovani contemplano questa possibilità, senza senso di colpa, pare, e nemmeno, da quel che si capisce dalle foto, tracotanza. In questo senso sono “altri” da quello che io ero, e forse da quelli che sono oggi a me coetanei. Il dottor Barbetta invece, suppongo, di questi giovani si occupa con le cautele e il rispetto professionale che il suo approccio deve comportare nei loro confronti. (Il che non significa che egli non abbia valori morali e o politici a cui rispondere nel fare il suo lavoro, ma attraverso le mediazioni che il sapere che egli pratica richiede.)
    Quando Toffoli fa la critica di alcune frasi dell’articolo di Barbetta, prende dei grossi granchi. Esemplifico. A proposito della frase:

    «La questione, nel caso di Tiziana Cantone, riguarda la pubblicazione di video porno che qualcuno avrebbe girato, in cui lei sarebbe stata protagonista, qualcosa relativo al sesso, nella sua dimensione brutale. In un momento impulsivo ci si può mostrare in modo inappropriato, assurdo. Per ragioni insondabili si esibisce il proprio corpo senza pudore»,

    Toffoli pone una serie di domande, a cui premette: “ho sempre trovato intollerabile il vezzo della pubblicistica nostrana che si è sempre esercitata a utilizzare il condizionale, in modo da lasciare un qualche cosa di vago in ogni sua affermazione anche quella più banale”. Bene, il “vezzo della pubblicistica nostrana” è un sintagma sprezzante in tutti e tre i termini, nostrana pubblicistica e vezzo. Avrebbe potuto dire, in modo neutro: “non mi piace l’abitudine di dire in modo equivoco”, o “di far capire senza esplicitare”, o con chissà quante altre frasi che non avrebbero invece “abbassato” il testo di Barbetta.
    A me la frase di Barbetta, e tutto l’articolo, è sembrata volutamente trattenuta, per non voler dare per scontato che si trattasse di un vero video porno girato intenzionalmente da lei. Perciò il fatto accaduto viene qualificato come “momento impulsivo” e le “ragioni insondabili” mettono un alt alle interpretazioni sfrenate sul gesto di Tiziana Cantone
    Poi Toffoli aggiunge due interrogativi sul senso delle parole di Barbetta, che hanno il sapore di due insinuazioni: “Cosa vuol dire mostrarsi: ‘in modo inappropriato, assurdo’. Quale legislatore stabilisce cosa sia appropriato nel mostrarsi e cosa no?” chiede Toffoli. Cosa sottintende questa domanda? chiedo io a Toffoli, forse che mostrarsi è *comunque* impudico e rischioso?
    Il secondo interrogativo verte su questa frase: “per ragioni insondabili si esibisce il proprio corpo senza pudore”. Ma, chiede Toffoli, le cose stanno proprio così?
    Allora chiedo io a Toffoli: come starebbero o potrebbero stare le cose? che Tiziana Cantone ha esibito il suo corpo senza pudore per ragioni che si capiscono benissimo? E quali sarebbero?

    Il personaggio del Tonto, a cui è affidato un ragionamento più semplice, e che per ciò stesso si avvicinerebbe alla verità, parte subito dalla doppiezza dei moralisti che sono invece degli sporcaccioni, guardoni e/o esibizionisti. Che rapporto avrà mai Tiziana Cantone con questa categoria di moralisti/sporcaccioni? Presto detto: è parte offesa e quindi assolta in modo moralistico. In realtà fa parte anche lei di Pornolandia, un mercato infinito perchè “il bisogno compulsivo di mostrarsi in tutte le fattezze non è altro che la premessa a mettersi sul mercato nelle forme estreme”, Tiziana Cantone questo ha fatto.
    Qui Toffoli abbandona la analisi del testo di Barbetta per considerazioni generali:

    “La sessualità è una merce e chi ingenuamente non se ne rende conto, proprio nell’epoca in cui tutto può essere ripreso e messo in rete in tempo reale, corre il rischio di esperire su se stesso il peso estremo di questa società e della sua follia. Morire di porno è una tragedia ma è soprattutto un possibile rischio che bisogna mettere in conto quando si partecipa a un certo tipo di giochi”.

    Nel dipanare questa dichiarazione comprendo che a) che Tiziana Cantone è stata catturata da (e ha esperito su se stessa il peso di) questa società e della sua follia, e “chi ingenuamente non se ne rende conto” non sfugge a quel destino; b) c’è una possibilità di sfuggire e non cadere nella rete delle merci: rendersi conto.
    Qui forse c’è anche il nodo della opposizione tra Toffoli e Barbetta: lo psicologo si occupa di quelli che navigano persi nella rete, Toffoli invece si dichiara “poco esperto nella tematica della esibizione dei corpi e anche meno nell’uso dell’informatica”.
    Lo psicologo se ne occupa nel bel mezzo della situazione di fatto, Toffoli prospetta un astenersi a priori.
    Inutile dire che la realtà della situazione prevale su quello che avrebbe potuto non essere, invece è stato. Inutile dire che l’ideale della tre K (kuchen kinder kirche, cucina bambini chiesa), anche ai suoi lontani tempi, era appena un privilegio piccoloborghese.

  8. Da quando è iniziata l’avventura di “Dialogando con il Tonto” ho messo in conto, proprio per lo spirito dei testi, forme di dibattito anche vivace.
    Questo era nel conto; quello che ho scoperto con un qualche disagio è invece l’esplodere di risentimenti, di mugugni, di inviti alla censura fino alle recenti e mai prima d’ora arrivate ingiurie.
    E’ stata nostra strategia fino ad ora non rispondere perché pensavo che ciascun testo avesse una sua funzione di stimolare una discussione che per sua essenza è senza una conclusione ultima, visto che nessuno fra noi detiene la verità (almeno è quello che credevo, anche se qualche volta ho l’impressione che vi siano innumerevoli portatori di certezze …).
    Questa volta però ho l’impressione che si stia superando la soglia di tollerabilità.
    Innanzitutto ringrazio Ennio e Poliscritture per la cortese disponibilità a ospitare i testi di “Dialogando con il Tonto”. Ho sempre creduto che la firma fosse per ogni lettore segno e garanzia del fatto che i testi erano riferibili a una singola e ben precisa persona. Sembra però che vi siano lettori che continuano a confondere i livelli. Ciò mi stupisce e mi confonde, visto che per la più parte si tratta di gente che svolge l’attività di intellettuale o almeno opera in un contesto intellettuale.
    Al fine di eliminare ogni ambiguità rimetto nelle mani della redazione la mia partecipazione alla attività della redazione stessa.
    Ciò detto, sono davvero rimasto sconvolto quando ho scoperto ieri sera che il Barbetta invece che aprire un confronto abbandonava Poliscritture. Ma soprattutto mi colpiva la motivazione. Avrei “distorto il testo” dell’autore. Ma santissimi numi, ho riportato le parole testuali del pezzo del Barbetta; cosa di più? Può aver ragione, ma io non ne sono così convinto, Cristiana Fischer quando dice che avrei preso un granchio.
    Forse anche due …
    Può darsi benissimo che i miei sintagmi non siano stati politically correct come sembra sarebbe opportuno. Ma rimane un dato da cui non mi sposto, ovvero che faccio parte di quella vecchia scuola che crede che i fatti siano una cosa e le opinioni un’altra.
    Come non aggiungere che non sapevo nulla del sig. Barbetta e che nulla mi interessava sapere, perché fosse stato anche G. W. F. Hegel in persona avrei scritto le stesse cose, segnalando quelle che mi parevano e mi paiono delle fragilità di un testo che a mio vedere è e rimane infelice.
    Coloro come il sig. Ciriachi che affermano che l’uso del condizionale è d’obbligo visto che “su eventi su cui non si conosce l’esatta dinamica il condizionale è un obbligatorio segno di rispetto pe chi legge” mi fanno semplicemente sorridere se non ridere. Ma suvvia, un po’ di onestà intellettuale …
    Stiamo parlando di “sangue e non di fragole”!
    A coloro che come tal Conserva Giacomo affermano che il testo che ho scritto sarebbe di una “assoluta stupidità” e di “una violenza infinita” non ho proprio nulla da dire, se non chiedermi quali siano le motivazioni di un simile intervento che sa tanto di “esercito della salvezza”. Il Conserva aggiunge, ed è una insensatezza senza fine, che “avrei condannato al rogo una persona di cui non ci si preoccupa minimamente”, e aumenta la dose usando termini come “demenza”, senza ricordare che se un minimo di rispetto è dovuto a chi è criticato lo si deve riservare anche a chi critica.
    Che poi si scrivano cose tipo: “non solo si autorizzano gli idioti a diventare violenti, ma a pensare di averne ogni diritto” mi sembra di una gravità senza limiti. Il signor Conserva di quale inquisizione è il portavoce?
    Ma via, caliamo i toni! Usiamo le parole con più rispetto!
    Aggiungo ancora una volta che, al di là degli improperi che i signori Ciriachi e Conserva hanno usato, quando si passa sul terreno del concreto non ho visto una critica che sia una sensata e ben strutturata. Che sia un sintomo … e allora mi chiedo, de che?
    Ringrazio invece quelli che hanno dialogato con il Tonto criticandolo e mettendo in luce diversi aspetti di una questione che non è un giochetto fra intellettuali, ma, come ho già detto prima, ha a che fare non con “fragole ma con sangue”.

  9. …nel commento precedente facevo riferimento al meccanismo infernale dei social media che spesso travolge in comportamenti compulsivi, che lascia poco spazio alla coscienza. Tuttavia, credo, all’interno di esso non c’è nulla di amorfo e casuale. Chi vi entra vi trasferisce vissuti, giudizi e pregiudizi di ogni sorta: estetici, morali, rispettosi, moralistici, immorali, cinici…Così come succede nei rapporti umani, è inevitabile. I media influenzano, ma anche riflettono la società in cui viviamo. La sessualità in particolare, anche se esibita in immagini pubbliche,quini pornografia, non si sottrae alle più svariate valutazioni nate dall’educazione ricevuta, in particolare religiosa e sociale in generale. Perciò il tragico “destino” di Tiziana Cantoni ci porta anche a considerare il nostro modo occidentale di concepire la sessualità…P. Barbetta nel suo articolo, riferendosi alla ragazza dice, : “Per ragioni insondabili si esibisce il proprio corpo senza pudore”, parla anche di vergogna dimostrata nell’atto del suicidio…ma avrebbe dovuto premettere che queste sono “le regole” sul corretto modo di esprimere la sessualità nella nostra società. La pornografia circola alla grande, come ogni forma di schiacciante giudizio perbenista…In questo senso mi sembra aver ragione Giulio Toffoli quando dice che P. Barbetta cade in una forma di giudizio moralistico. Presso diverse popolazioni tradizionali africane o australiane la nudità dei corpi e la sessualità sono mostrate senza esibizione e senza vergogna… Non ha alcun significato assoluto “il senso del pudore”…Presso altre popolazioni ai corpi è imposto il velo o il doppio velo…Quanti condizionamenti ci schiacciano? Delle volte, per difendersi, bisogna fare più attenzione a quello che sentono gli altri che a quello che sentiamo noi. Il giusto può diventare sbagliato: penso ancora alla ragazza e a molti come lei

  10. DA “POLISCRITTURE FB” A “POLISCRITTURE SITO”

    Ennio Abate @ Conserva

    Chiarito l’equivoco sulla dichiarazione pubblica e non privata di Pietro Barbetta e, come già detto, sorpreso dei termini che hai usato (“stupidità”, “violenza infinita”, “condannare al rogo”, “demenza”, “improvvida crociata”, autorizzazione agli “idioti a diventare violenti” ),sul resto aggiungo solo poche cose. Sperando che col tempo questo episodio venga riportato ad un’analisi concreta, senza tirare in ballo vecchi fantasmi (Dio, Storia, Giustizia) che a me pare non c’entrino affatto con il mancato confronto – polemico o meno – tra Toffoli e Barbetta.
    Dico perciò che per me non si può stabilire in astratto quando si è o non si è «politicamente corretti» e che non mi sento di porre un argine alla critica. Le posizioni di Toffoli possono e debbono essere discusse e criticate (come le mie e quelle di chiunque). Meglio se in modo puntuale e argomentato, come ha fatto poco fa Cristiana Fischer. Perciò non ho fatto nessuna “crociata” in difesa di Toffoli. Difendo solo il suo ( e il mio e quello di altri) diritto ad esprimere quello che pensa e nei modi che gli sono propri. Poi sta agli altri redattori e commentatori approfondire, dissentire, correggere, dire il proprio pensiero. Anch’essi nei modi che gli sono propri.
    Ho sbagliato a tentare di far confrontare Toffoli e Barbetta ( il Tonto/Filosofo o lo Psicologo, in questo caso) e ad insistere nel non chiudere Poliscritture nell’ *inter nos* e aprirla all’*extra nos*? Non lo so. Stavolta è andata male. Comunque la via mi pare quella giusta. E proprio ieri sera avevo pubblicato su “ Poliscritture FB” un testo, « Per un’etica del riconoscimento» di Roberto Finelli che utopicamente parla dell’esigenza di raccordare «società esteriore nel significato tradizionalmente storico del termine, e, in pari tempo,società interiore, come definizione e messa in campo della struttura composita e non ingenuamente semplice e identitaria, della psiche dell’essere umano» o aggiungerei io – per rifarmi alla discussione in corso su «Per chi scrive Poliscritture?» –« tra continenti esplorati/inesplorati di realtà (politica e poesia, etc)». Vuol dire che inviterò il Tonto a confrontarsi con Finelli. E se dovesse andare male anche con lui, scoverò qualche altro possibile interlocutore. Prima o poi, aggirandoci tra tante rovine, qualcuno con cui intendersi lo troveremo! Forse…

  11. APPUNTI DI LETTURA (1)
    Nota bene: i miei appunti di lettura sono tra parentesi quadre.
    1. La tesi centrale dell’articolo di Pietro Barbetta, che si può leggere, in appendice, al dialogo di Giulio Toffoli, mi sembra racchiusa in queste frasi:
    «La tragedia è morta, è morto il dispositivo che mette in guardia il soggetto di fronte alle conseguenze dei suoi gesti; che, attraverso la scena, li rende possibili, ma non necessari. Siamo di nuovo preda della necessità. Abbiamo bisogno di una nuova cultura per rielaborare le conseguenze delle nostre azioni, una cultura meno psicotica.»
    A questa tesi l’autore perviene, dopo aver valutato
    a) Il ruolo del sentimento di vergogna (cfr. paragrafo “I due volti della vergogna”)
    b) Il ruolo educativo e protettivo svolto dalla tragedia classica e dalla psicoanalisi nei confronti della realtà: «Con la tragedia, emerge la differenza tra il piano letterario, dove il destino si compie, e quello della vita reale, che produce l’immedesimazione, quindi la paura e l’angoscia di ripercorrere lo stesso cammino. La tragedia fa emergere un soggetto che si può sottrarre alla necessità. In epoca moderna questa funzione è svolta anche dalla psicoterapia.»
    La conclusione è drammatica:
    «Se il rapporto sessuale – con tutte le sue variazioni masturbatorie, clitoridee, anali, voyeuriste, feticiste, masochiste – diventa affare pubblico, che si svolge nella realtà di una macchina della verità (giornale, televisione, computer, internet, social network), vuol dire che i limiti della civiltà e della cultura sono saltati, che tutto è uguale a tutto, che se qualcuno spara, posso sparare anch’io. »

    2. Questa prospettiva psicanalitica (o anche psichiatrica) e di storia culturale si può non condividere. Giulio Toffoli sicuramente non la condivide. Ma che percorso compie per dirci questo?
    a) «Sono certo però che la cosa che per prima e più di altre mi ha colpito è la descrizione del fatto obbiettivo da cui tutto il discorso poi si sarebbe dovuto sviluppare.»
    [Il “fatto obiettivo” è il suicidio per impiccagione di Tiziana Cantone. Ma Pietro Barbetta persegue tutt’altro obiettivo che descrivere accuratamente quanto è successo…Il “fatto obiettivo” nell’articolo è che questa giovane donna si sia uccisa per la vergogna. Tant’è che accenna velocemente ad altri episodi di cronaca dove proprio questo gesto diventa centrale: « Ma c’è di più, può accadere che il gesto della vergogna diventi pubblico, come a Tiziana Cantone. In questi giorni il suo caso ne ha fatti emergere altri, una ragazza di quindici anni, una donna di quaranta.» Correttamente, quindi, Pietro Barbetta parte dal descrivere in cosa consiste il sentimento della vergogna. L’annotazione critica di Toffoli mi sembra, quindi, fuori luogo.
    b) Toffoli scrive: «Proviamo a leggere cosa dice l’articolista:
    «La questione, nel caso di Tiziana Cantone, riguarda la pubblicazione di video porno che qualcuno avrebbe girato, in cui lei sarebbe stata protagonista, qualcosa relativo al sesso, nella sua dimensione brutale. In un momento impulsivo ci si può mostrare in modo inappropriato, assurdo. Per ragioni insondabili si esibisce il proprio corpo senza pudore».
    Ora se c’è una cosa che ho sempre trovato intollerabile è il vezzo della pubblicistica nostrana che si è sempre esercitata a utilizzare il condizionale, in modo da lasciare un qualche cosa di vago in ogni sua affermazione anche quella più banale. Come dire al lettore: è successo così ma attenzione forse le cose non è detto siano avvenute proprio così … lasciando spazio a infinite altre possibili interpretazioni »
    [Cosa centra “la pubblicistica nostrana” con Pietro Barbetta?…I condizionali, in questo caso, sono tutti d’obbligo e giustificati. Sulla drammatica vicenda è stata aperta un’inchiesta dalla Procura e ciò che si sa è quanto si legge sui giornali o si vede-ascolta alla TV. Che Barbetta voglia lasciare spazio “a infinite altre possibili interpretazioni”, mi sembra una conclusione arbitraria. Comunque, è un processo alle intenzioni. Ciò che Barbetta fornisce ai suoi lettori è esattamente un’interpretazione del gesto suicida di Tiziana Cantone e di altri casi. Anche quest’annotazione critica di Toffoli a me pare alquanto infondata e, comunque, fuorviante.]
    c) Toffoli continua: «Il caso in questione è davvero emblematico. Infatti: “qualcuno avrebbe girato” un video ma ci vien sussurrato: forse le cose stanno in modo diverso? …
    Video in cui: “lei sarebbe stata la protagonista”. Era la protagonista oppure no?
    Non solo. Questo video avrebbe avuto come soggetto: “Qualche cosa relativo al sesso”. Ne abbiamo la certezza o tale video aveva come soggetto la corsa della cavallina? Come stabilirlo?
    Poi ci vien detto che si trattava di: “sesso nella dimensione più brutale”. Difficile capire chi stabilisca quale sia il sesso “brutale” e quale quello “sublime”. Forse esiste un decalogo?»
    [Toffoli, nella migliore delle ipotesi, mena il can per l’aia. Si sta attaccando a delle proposizioni, tutto sommato, incidentali nell’economia dell’articolo. A Pietro Barbetta interessa “il gesto della vergogna”, che è stato alla base del suicidio-impiccagione di Tiziana. Tutto il resto: il video porno, il sesso “brutale” o “sublime”, sono secondari. Quasi certamente non ha visto il video e usa correttamente il condizionale. Lo fa, a mio parere, non per essere vaghi o suggerire chissà cosa. Soltanto per non uscire dal binario centrale: Tiziana si è uccisa per la vergogna. Conta questo. Il resto, non gli appare di sua competenza. Sbaglia? Non credo. Rispetto all’obiettivo che persegue (tentativo di interpretazione di un doloroso episodio di cronaca), penso che scelga correttamente a cosa dare importanza e a cosa no. Non capisco, invece, dove voglia andare a parare Toffoli: screditare Barbetta?…]
    c) Ancora Toffoli: «Infine due aggiunte l’una che sembrerebbe una giustificazione, ma dopo tanti dubbi istillati nella mente del lettore ci si chiede: giustificazione de che? “In un momento impulsivo ci si può mostrare in modo inappropriato, assurdo”. Cosa vuol dire mostrarsi: “in modo inappropriato, assurdo”. Quale legislatore stabilisce cosa sia appropriato nel mostrarsi e cosa no?
    La seconda addenda aggiunge: “per ragioni insondabili si esibisce il proprio corpo senza pudore”. Ma le cose stanno proprio così?»
    [“Dubbi istillati nella mente del lettore”?!…Ma stiamo scherzando. L’unico a istillare dubbi è il Toffoli lettore. Mi dispiace, ma questo modo di fare risulta davvero irritante. Non si possono sprecare più di 1500 battute per far le pulci a un periodo e due proposizioni scritte coi verbi al condizionale; come se Pietro Barbetta avesse scritto chissà cosa di madornale. Ripeto: non penso che intendesse parlare del video porno di cui Tiziana è stata attrice. Ha poca importanza se l’abbia fatto consapevolmente o impulsivamente. Se fosse appropriato o inappropriato. Ma della vergogna che lei ha provato e che è stata forse alla base del suo gesto suicida. Per provare vergogna, ha probabilmente compiuto gesti impulsivi, inappropriati, senza pudore. (Cfr. sopra “i due aspetti della vergogna” ).
    Posso dirla tutta?…Questa non è critica ad un articolo. Non è nemmeno cercare il pelo nell’uovo. E’ semplicemente fraintendere, travisare, non comprendere il ruolo e il significato delle singole proposizioni all’interno dell’economia complessiva di un testo. O, se si preferisce, della sua “logica di senso”. Per carità, di fronte a un articolo o, più in generale, a un testo, un lettore può comportarsi come meglio credo. Può anche vedere il nero dove c’è il bianco. È un problema suo. Ma non penso debba essere questo il comportamento corretto di un lettore che critica per dialogare. La critica vera non gira intorno al bersaglio. Si esercita sulla tesi centrale di un testo, sulle sue premesse e sulle sue conclusioni. Io finora questo nel dialogo di Toffoli non ho avuto il piacere di scorgerlo.]

  12. APPUNTI DI LETTURA (2)
    d) Andiamo avanti. È il Tonto che parla: «“Cosa vuoi – mi ha detto – io di fronte ai suicidi provo sempre un senso di profondo rispetto. Ricordo una vecchia canzone di Claudio Lolli di quando eravamo ragazzi, Morire di leva. Era la straziante storia di un suicidio in caserma che si basava proprio sulla insondabilità di una scelta irreparabile. Perciò quando sento di casi come quello di cui mi parli tendo a voltare la pagina. Non sopporto i moralisti, i guardoni che sui giornali si strappano le vesti e poi se vai a vedere il loro portatile …”»
    [Qui il Tonto la fa ancora più grossa. Dà implicitamente del “moralista” e “guardone” a Barbetta, che ha provato a riflettere sul gesto di Tiziana Cantone. Tra l’altro è contraddittorio, se di fronte ai suicidi, tende a voltare pagina perché si mette a discutere dell’episodio?..]
    e) Ancora: «“Nell’articolo di cui ti ho parlato – aggiungo – si dice fra l’altro che nella nostra società spesso:
    «quel che sogniamo diventa reale, esce dal dominio immaginario e si mostra pubblicamente. In questi casi ci si può non svegliare più. Il rimorso di essere protagonisti di un evento pubblico, la cognizione che quell’evento sia passato dal regno dell’immaginario a quello reale può farci piangere, disperare, impazzire, uccidere».
    [Questa citazione è completamente decontestualizzata. Non si capisce perché “quel che sogniamo diventa reale”…Si è completamente rimossa la tesi centrale di Barbetta…]
    Cosa ne pensi?”
    “Non posso che pensare male. Fra l’altro non mi si parli di minorenni come alibi. Ciò che nessuno, in questa società profondamente ipocrita, ammette è che noi viviamo ormai da decenni in un mondo che ha radicalmente intaccato le regole di ogni norma morale e ha edificato una nuova dimensione della sessualità: siamo cittadini di Pornolandia. Un impero che si è piano piano strutturato partendo anche da esigenze ragionevoli, di liberazione del sesso dalle catene dei pregiudizi, ma che è poi cresciuto in modo impressionante e fuori da ogni regola. Io non sono che un dilettante e non ho dati certi perciò ti parlo basandomi su impressioni ma attenzione che non ho mai trovato nessuno che mi dicesse che stavo affermando il falso. Ricordi le riviste erotiche degli anni settanta, quelle che sulla scia di Playboy aprirono l’epoca del sesso in edicola? Anche se a noi potevano sembrare segnali di un processo di liberazione erano cose da educande ma poi l’industria ha preso il sopravvento e si è evoluta senza limiti di sorta. I giornalai hanno vissuto un’epoca d’oro vendendo videocassette e poi cd di tema esplicitamente sessuale. Un mercato infinito. Ti sei mai chiesto chi fossero gli acquirenti?”»
    [Questa del Tonto è la tesi centrale del pezzo di Giulio Toffoli. Ora, questa tesi non è che contraddica quella di Barbetta. Semplicemente viene giustapposta. E, in un certo senso, potrebbe anche rafforzarla. Se Pornolandia è diventata la città in cui viviamo è chiaro che Tiziana può autorizzare il suo fidanzato o chi altro a farsi riprendere mentre pratica il sesso orale…Ma perché poi ne ha vergogna?…Perché si suicida?… L’articolo di Barbetta cerca di rispondere a queste domande e valuta positivamente il fatto che la giovane donna abbia provato questo sentimento, a differenza di certi cyberbulli che sono coi loro comportamenti “al di là del bene e del male” ]
    f) «“Un mio amico giornalaio mi raccontava – ha continuato il Tonto – che era davvero una festa quando vedeva arrivare uno dei suoi abituali clienti a cui forniva materiale erotico. Il signore in questione apriva la sua borsa, introduceva una certa quantità di video, poi pagava senza dire nulla. A vederlo, aggiungeva il mio amico, si trattava di un borghese di quelli casa, ufficio, famiglia. Ma coltivava un suo privato vizietto …»
    [Be’ di che meravigliarsi?… Non è che i borghesi non facciano sesso e siano esenti da feticismo, voyeurismo, sadomasochismo e tutti i polimorfismi o le perversioni che la sessualità umana immagina o pratica. Esistono grandi romanzi che da decenni hanno denunciato questi “privati vizietti” della borghesia. Una domanda, se il Tonto mi permette: questo suo non è moralismo?…»]
    g) «Bravo hai vinto! Se tutti giovani e vecchi guardano compulsivamente YouTube, c’è poi una miriade di persone che guarda YouPorn. Nota l’assonanza, e non si tratta che della prima e più larga porta per un mondo che è infinito e che offre di tutto. Tutto è sul mercato.»
    [Va bene l’abbiamo capito, tutto è sul mercato. Ma cosa c’entra questo con l’articolo di Barbetta?]
    h) «Ecco perché provo imbarazzo quando vedo questi esercizi accademici di giustificare l’ingiustificabile.
    Siamo tutti responsabili, siamo tutti coinvolti e siamo tutti schiavi del mercato.»
    [L’articolo di Barbetta un “esercizio accademico per giustificare l’ingiustificabile”?…Ho l’impressione che Giulio Toffoli non abbia, sostanzialmente capito l’articolo…]
    i) «Anzi vorrei dirti qualche cosa di più il voyeurismo [al massimo è esibizionismo!] di chi si presenta in tutte le possibili fogge su Facebook non è altro che la premessa di una pornografia diffusa. Il bisogno compulsivo di mostrarsi in tutte le fattezze non è altro che la premessa a mettersi sul mercato nelle forme estreme. Ovviamente i più non ci arriveranno, ma …
    Nel momento in cui all’interno della società dello spettacolo ti metti in mostra e ti esibisci il confine tende a diventare sempre più evanescente. Quale è la differenza fra una che si presenta sulla passerella del Festival del Cinema di Venezia con un abito con lo spacco che fa vedere i peli del pube e chi invece si fa riprendere durante un atto sessuale privato? Forse l’audience, l’immaginario ma … soprattutto il mercato. L’una è un’artista, o almeno così viene presentata all’opinione pubblica, per la seconda invece la definizione è più difficile, può avere la fortuna di diventare una “attrice porno” e così trasformare la sua sessualità in uno strumento di profitto o cadere nella dura condizione della ingenua che non ha valutato bene le sue scelte. Ma sia chiaro a diciotto o a trent’anni sono scelte libere. La ricerca di attenuanti è solo un meschino gioco moralistico”. »
    [Ma l’articolo di Barbetta non è una ricerca di attenuanti. Comprendere non significa giustificare. Le osservazioni del Tonto sono interessanti ma tutte fuori bersaglio. In ogni caso, non mi sembra che l’intenzione di Barbetta sia quella di ridimensionare la “libertà di scelta” e la “responsabilità” di Tiziana Cantone. Continuo a pensare che Toffoli abbia letto male l’articolo.]
    l) «“Tu perciò non sei d’accordo con l’autore dell’articolo di cui ti ho parlato che afferma:
    «I racconti arcaici stanno all’origine della civilizzazione, mostrano le conseguenze di quanto accade dove non c’è protezione, dove il soggetto è inesorabile preda della necessità. Là, di fronte allo sgomento, non resta che il suicidio».
    “Ma non farmi sorridere. Non cerchiamo alibi in Edipo o Ulisse. Fra l’altro le ancelle che Ulisse uccide avevano, fino a prova contraria, liberamente scelto di unirsi ai Proci. Ed ancora di più non mi convince il tentativo di trovare una specie di giustificazione dotta per cui: “La tragedia fa emergere un soggetto che si può sottrarre alla necessità”. In questo modo si cerca di nasconde il fatto che nella tragedia classica il soggetto è e resta dilaniato fra l’imperio del fato e il tentativo di affermare la propria libertà. Troppo facile cercare una specie di giustificazione alle scelte del soggetto che si è da sempre trovato a fare i conti con i possibili esiti tragici delle sue azioni. Non vi sono mai state vere protezioni di fronte alle scelte che la vita ti impone di fare.
    [Ho l’impressione che Toffoli non abbia assolutamente capito in che senso Barbetta tiri in ballo la tragedia classica. E’ una finzione che educa, un’arte protettiva. Giulio, un po’ come Tiziana, confonde i piani del “reale”, quelli dell’”immaginario” e quelli del “simbolico”…
    Comunque, dopo le parole citate da Toffoli, il testo di Barbetta recita:
    «Con la tragedia, emerge la differenza tra il piano letterario, dove il destino si compie, e quello della vita reale, che produce l’immedesimazione, quindi la paura e l’angoscia di ripercorrere lo stesso cammino. La tragedia fa emergere un soggetto che si può sottrarre alla necessità. »
    Barbetta non nega che un soggetto possa fare scelte tragiche. Sostiene semplicemente che la tragedia (intesa come rappresentazione, finzione, piano letterario) ha per gli spettatori una funzione di insegnamento. Ammonisce lo spettatore: “Se fai così, può finire male!…Il destino si compie!..” In questo senso con la tragedia emerge nella vita “un soggetto che si può sottrarre alla necessità”…Del resto, non era proprio Engels a sostenere che “la libertà è la coscienza della necessità”?]
    Aut aut.
    Ciascuno di noi, ogni giorno corre il rischio di vedere tanto il proprio fallimento, quanto la possibilità di ottenere successo e godere del piacere della propria affermazione”.»
    m) «“Non ti pare di essere – mi sono permesso di aggiungere – di un determinismo razionalistico che corre il rischio di diventare a sua volta una forma di moralismo?
    [Toffoli fa bene a mettere in bocca ai suoi personaggi questo dubbio…Ho l’impressione, infatti, che vi sia più moralismo nel suo testo che in quello di Barbetta.]
    Ho qualche dubbio quando affermi in modo così reciso che chi entra in certi giri conosce sino in fondo le regole del gioco: il sangue versato dalle vittime non è pomodoro come sul palcoscenico … I giovanissimi entrano in possesso delle nuove tecnologie e sono trascinati nel gorgo delle mode, pena essere esclusi dal gruppo di amici, anzi dal Gruppo sempre più ampio della rete, la cui considerazione o meno diventa, per i più fragili, l’unico termine di confronto per decidere il proprio valore. A questo punto l’aut aut non esiste più, molti giovani, ma crescendo immaturi anche i meno giovani, sono trascinati in un vortice. I più induriti sopravvivono diventando cinici e servi ottusi del potere, altri investono se stessi interamente, portandosi appresso enormi problematiche personali irrisolte e diventano le vittime soccombenti. Questo potrebbe essere il caso della Cantoni, che si definiva “fragile e depressa” e a cui forse è mancata una significativa figura di riferimento”.
    [Queste annotazioni che si possono condividere potrebbero essere lo sfondo dell’articolo di Barbetta. Anzi, in un certo senso, potrebbero essere la conferma della sua tesi, quella del venir meno del confine tra “finzione” e “realtà”…Comunque, dopo aver sostenuto e rivendicato soggetti liberi e consapevoli delle proprie azioni, ecco apparirne altri “fragili”, conformisti, immaturi, cinici e servi ottusi del potere, vittime soccombenti…Giulio Toffoli dava l’impressione fin qui di scartare una lente psicologica o psicanalitica o psichiatrica nell’analisi di un drammatico episodio di cronaca. Ora se ne viene fuori con la Cantone che si definiva “fragile e depressa” e “a cui forse è mancata una significativa figura di riferimento” (il padre, scrivevano i giornali). Toffoli mi sembra quanto meno contraddittorio…Può chiarire meglio con quale lenti legge il doloroso episodio di cronaca? ]

  13. APPUNTI DI LETTURA (3)
    n) «“Il problema – mi ha risposto il Tonto, quasi togliendomi la parola di bocca – è che nella società dell’immagine e dei social media, in cui siamo oramai pienamente inseriti, non si può sperare in una qualche indulgenza. La sua logica è spietata e coloro che rimangono nello stato di immaturità sono necessariamente ed irrimediabilmente travolti da una macchina che non dà scampo. Inutile far riferimento a logiche romantiche, come quelle che vengono vendute dal business dello spettacolo, la società è governata da un meccanismo darwiniano, di un radicale darwinismo sociale, che è spietato e ad esso bisogna saper rispondere altrimenti si viene schiacciati senza scampo. Chi non acquisisce coscienza di questa realtà diventa o carnefice o vittima del totalitarismo del capitale. L’unica uscita possibile è politica, si tratta di costruire una salda coscienza che consenta a ciascuno di noi di comprendere fino in fondo ciò che è in gioco senza alibi e infingimenti”.»
    [A questo punto, le tesi fondamentali di Toffoli sembrano due:
    1) Siamo cittadini di Pornolandia. Il sesso è diventato un mercato infinito.
    2) La società dell’immagine e dei social media è governata da un radicale darwinismo sociale e chi rimane nello “stato di immaturità” (come Tiziana Cantoni) viene irrimediabilmente travolto e ne diventa vittima.
    Ancora non riesco a capire come queste due tesi possano smentire o “falsificare”, come dicono i popperiani, la tesi centrale di Barbetta. Provare vergogna forse non è un sentimento negativo. Neanche imparare a distiguere “finzione” e “realtà” ( o, alla Lacan, “reale”, “simbolico” e “immaginario”). Quanto allo “stato d’immaturità” della Cantone, non saprei dire. Che si sia impiccata è un fatto e che l’abbia compiuto per vergogna anche. A questo punto, mi sembra più corretto Barbetta che parte per la sua interpretazione da questi due fatti. Il che non vuol dire che non esista il “mercato del sesso” o il “darwinismo sociale”. Ma non era oggetto del suo tentativo di interpretazione. È meglio sostenere che era libera, ma immatura e si è impiccata perché le è toccata vivere in questa società darwiniana, capitalistica, che riduce tutto a merce, ecc. ecc.?….A me, tutto sommato, questa tesi appare più astratta e generica di quella del testo di Barbetta. Ad esempio, mi sembra interessante l’annotazione impiccagione-sessualità, mi sembra interessante la sottolineatura sulla funzione d’insegnamento (educativa o protettiva) che può avere la finzione letteraria, mi sembra importante che in questa macchina crudele che è diventata la nostra società se qualcuno/a è costretto a vergognarsi per qualcosa possa ritrovare uno sguardo materno che lo/a protegga…Capisco Toffoli quando scrive che “l’unica uscita è politica”, ma se la politica latita ed è diventata una palude?]
    o) «“Per cui secondo te non è esatto quello che ha affermato Bateson:
    «La pratica sessuale ha bisogno di restare dentro “il messaggio ‘questo è gioco’”».
    “Anche questa mi pare una asserzione non priva di una dimensione moralista.»
    [Mi dispiace, caro Toffoli, ma non vedo nulla di moralistico in questa citazione di Bateson. E, non credo che si debba aspettare il comunismo (o un altro mondo possibile) per impegnarsi in pratiche sessuali non mercificate. Forse sostenere come fa Barbetta, sulla scorta di Bateson, che nella relazione sessuale debba prevalere il messaggio “questo è un gioco”, appare un po’ semplificatorio. La sessualità, Barbetta lo sa sicuramente meglio di me, è aspetto centrale della vita delle persone ed è non solo perversa e polimorfa, come diceva Freud, ma anche molto oscura, ignota, con frecce che vanno in tutte le direzioni compresa la pulsione di morte…Ma augurarsi che rimanga nella dimensione del gioco è da persone responsabili…]
    p) «Il sesso potrebbe essere “gioco” in una società liberata dalla duplice servitù del bisogno e del mercato. Nella società del capitale la sessualità è e rimane una merce. Inutile nasconderselo. Invocare la libertà del soggetto è altrettanto vano che affermare che ciascuno di noi è schiavo del mercato. La nostra condizione, almeno quella di noi occidentali, è davvero paradossale. Siamo liberi all’interno di una società che ci ha messo delle catene da cui solo con immensa fatica possiamo, almeno in parte, liberarci. Perciò chi invoca la civiltà e parla di: “saper dividere il privato dal pubblico, … distinguere ciò che può essere raccontato da ciò che è vissuto …” non fa che raccontare una favola.»
    [Che ci sia un’industria del sesso e il suo relativo mercato non ho dubbi. Affermare che “la sessualità è e rimane una merce”, mi sembra, invece, tesi indimostrata e indimostrabile…Toffoli dice che siamo incatenati, però “con immensa fatica possiamo almeno in parte liberarci”…Certo, con la politica. Ma la prima politica è quella di ogni giorno, quella della “camera da letto”…Non siamo obbligati a pagare sesso, né a farci riprendere nella nostra intimità, né a vivere tutto ciò che immaginiamo…Barbetta sostiene che culturalmente la tragedia è diventata di massa. Un po’ come il surrealismo di massa di Fortini. Combattere questa “tragedia di massa” che sta diventando la nostra cultura ed elaborarne una davvero nuova mi sembra compito importante: «Abbiamo bisogno di una nuova cultura per rielaborare le conseguenze delle nostre azioni, una cultura meno psicotica.»]
    q) «La civiltà occidentale accanto al suo volto di una alta cultura ha sempre presentato un altro volto ben più tragico, quello della violenza criminale su cui la civiltà è stata edificata. L’un aspetto non è mai stato svincolato dall’altro. Accanto allo spirito di finezza è costantemente stato presente uno spirito distruttivo, quella violenza che alla fin fine ha consentito di costituire il surplus materiale grazie al quale uno strato di intellettuali ha elaborato quelle regole di finezza che per altro sono spesso state infrante dagli stessi che le teorizzavano”.
    [Vabbè ma cosa c’entra tutto questo con il tentativo di comprendere perché Tiziana Cantone ha provato vergona e si è impiccata?…Nel suo tentativo di interpretazione Pietro Barbetta può essere assimilabile allo “strato di intellettuali che ha elaborato quelle regole di finezza” che si chiamano “civiltà”?…Siamo completamente fuori tema: “civiltà” non è termine riducibile a “regole di finezza” e, soprattutto, non è prodotto solo degli intellettuali.]
    r) «“Mi hai convinto. Perciò a chi come l’articolista afferma:
    «i limiti della civiltà e della cultura sono saltati, … tutto è uguale a tutto, … se qualcuno spara, posso sparare anch’io … si entra nel regno dell’insensibilità, che è anche il regno dell’insensato»
    non possiamo che rispondere: quella civiltà di cui parli è solo un parto letterario della tua immaginazione. Nella società del capitale tutto è uguale a tutto. Siamo figli di Pornolandia e i suoi confini come quelli dell’impero di Carlo V, non conoscono il tramonto del sole. La sessualità è una merce e chi ingenuamente non se ne rende conto, proprio nell’epoca in cui tutto può essere ripreso e messo in rete in tempo reale, corre il rischio di esperire su se stesso il peso estremo di questa società e della sua follia.
    Morire di porno è una tragedia ma è soprattutto un possibile rischio che bisogna mettere in conto quando si partecipa a un certo tipo di giochi”».
    [La citazione finale dell’articolo di Barbetta è monca, sostanzialmente incomprensibile. «La civiltà, scrive l’autore, non è moralismo, è spirito di finezza nel saper dividere il privato dal pubblico, capacità di distinguere ciò che può essere raccontato da ciò che è vissuto, differenza tra il letterario e il reale.» Si può non essere d’accordo con questo concetto di civiltà, ma “saper dividere il privato dal pubblico”, distinguere la “finzione” dalla “realtà” è operazione cognitiva fondamentale. Se, come sostiene Barbetta, è saltata, è problema di una drammaticità enorme.
    «Se il rapporto sessuale – con tutte le sue variazioni masturbatorie, clitoridee, anali, voyeuriste, feticiste, masochiste – diventa affare pubblico, che si svolge nella realtà di una macchina della verità (giornale, televisione, computer, internet, social network), vuol dire che i limiti della civiltà e della cultura sono saltati, che tutto è uguale a tutto, che se qualcuno spara, posso sparare anch’io.
    Come ha sostenuto Ugo Morelli, in un saggio recente, si entra nel regno dell’insensibilità, che è anche il regno dell’insensato. In questo caso, la vergogna è sentimento che si può non provare, alieno. Dipende dalle inibizioni, dal tempo e dalla memoria. Tiziana Cantone questo sentimento lo ha provato, si è vergognata, e si è suicidata di fronte al cyberbullismo di quelli che vergogna non ne provano mai.»
    Può darsi che il rapporto sessuale sia affare pubblico da molto tempo. Che sia saltata, però, la distinzione tra “finzione” e “realtà” è questione fondamentale e da non prendere sotto gamba. È strano che Toffoli non la sottolinei e non ne veda la gravità. Se così fosse la politica, ce la possiamo dimenticare.
    Quanto alla sua considerazione che “nella società del capitale tutto è uguale a tutto”, occorre comprenderne bene il significato. Qual è?…Che tutto è merce, come la sessualità?…Che tutto si può comprare col denaro?…Ma la quantità di denaro non è uguale per tutti e la merce ha un “valore d’uso” e un “valore di scambio”…Usare il corpo di una donna o di un uomo per copulare, non è la stessa cosa che usarlo per guidare un tram, insegnare o raccogliere pomodori. Simili generalizzazioni, dal punto di vista conoscitivo, non servono quasi a niente. Serve, invece, capire se davvero è saltata la distinzione tra “raccontato” e “vissuto”, tra “rappresentazione” e “realtà”. Se questo fosse vero, altro che “stato d’immaturità”. Saremmo riportati tutti a una condizione infantile, alla condizione di chi crede davvero alle favole e a Babbo Natale. Se è così, che fare? Raccontare il comunismo come una favola con l’eroe comunista che ci libererà dalle catene della società totalitaria e capitalista?…
    Conclusione provvisoria: scrivere oltre 16.000 battute per “dialogare” con un articolo di meno di 7.000 battute, senza mai far comprendere al lettore qual è la tesi centrale del pezzo in discussione, girandoci attorno, non argomentando nel merito, ma divagando e parlando continuamente d’altro (del sesso come merce, della società darwiniana, del capitalismo totalitario, ecc.) è attività che non si può definire di critica dialogante. Non so se sia sfogo, aggressione, ingiuria. È, comunque, attività improduttiva, che non genera conoscenza, critica reale, relazione anche aspra con i propri simili, ma di crescita culturale. Toffoli mi perdonerà la franchezza: ma questa volta ho l’impressione che abbia proprio “cannato”…]
    3 ottobre 2016

  14. Come quasi sempre e forse inevitabilmente, il dibattito, allungandosi, si allontana dal tema posto all’inizio e diventa un contenitore di opinioni suscitate dall’articolo iniziale, ma non sempre con esso strettamente correlate. Ho letto tutto, un po’ velocemente, ma non ho “studiato” i testi e quindi anch’io, per esigenze di tempo, devo procedere un po’ per impressioni. La lunga analisi di Donato Salzarulo mi sembra condivisibile almeno all’80 per cento e riassume (si fa per dire, perché anche questa analisi si dilunga molto) la questione del rapporto fra il testo di Pietro Barbetta e quello di Giulio Toffoli.
    1) Barbetta svolge le sue considerazioni, che in buona parte mi sembrano condivisibili, in uno stile un po’ accademico e richiamando citazioni dotte il cui difetto non sta nel fatto che siano dotte, ma nel fatto che creano una specie di nebbia intorno al nocciolo del suo discorso, che diventa così poco chiaro.
    2) Toffoli non si concentra sulle tesi di fondo di Barbetta, ma le usa piuttosto come pretesto per criticarle da due punti di vista. Il primo è quello dello stile, critica che mi sembra del tutto marginale ma che per Toffoli diventa invece centrale. Con questo espediente retorico introduce una critica più sostanziale, ma generica e spesso fuorviante, allungandosi nel criticare il rapporto fra sessualità e società di oggi, al di là e al di fuori dell’articolo di Barbetta.
    3) Tuttavia l’articolo di Toffoli non mi sembra scandaloso e non vedo perché abbia suscitato un’avversione, fino all’offesa personale, in Barbetta. Tutta la discussione su questo aspetto (aggressione ecc.) mi sembra più attinente ad aspetti psicologici personali e soggettivi (fra cui la permalosità) che alle convenienze, possibilità e utilità del dibattito.
    4) Toffoli, con le cui posizioni sono spesso in disaccordo, distorce l’articolo di Barbetta perché le sue posizioni ideologiche lo portano a darne una specifica lettura. Lettura spesso interessante (e anche in questo caso lo è), perché permette comunque di vedere i problemi da diversi punti di vista, ma mai “neutra” e preoccupata di capire a fondo le posizioni dell’interlocutore; piuttosto è preoccupata di esprimere le proprie. Insomma, Toffoli scrive con lo stile e i contenuti che una volta si sarebbero detti “trinariciuti”, sempre un po’ generici e dogmatici. Lo dico nel meglio e nel peggio. Ad esempio, leggendolo, mi è capitato di ripensare talvolta ai corsivi che Fortebraccio (pseudonimo di Mario Melloni) ha pubblicato sul quotidiano “l’Unità” dal 1967 al 1982. Pieni di espressioni sferzanti e tutt’altro che gentili, ma anche intelligenti e divertenti, pur nella loro chiusura entro un ferreo orizzonte ideologico che gli impediva di capire meglio i suoi bersagli polemici.
    5) Quando Toffoli usa l’espressione di «totalitarismo del capitale» con tutto ciò che lui vi collega, dà un esempio della genericità trinariciuta. Ho dedicato tempo fa alcuni giorni a cercare ed elencare le diverse definizioni di «capitalismo». Ne ho trovate più di trenta, anche l’una escludente l’altra. E fra capitalismo globale, mondiale, assoluto, totalitario, imperialistico, selvaggio, neoliberista, assassino ecc. ecc. non ho però mai trovato, fra gli scrittori che usano queste formule (e alcuni lo fanno anche in libri di centinaia di pagine), qualcuno che ne abbia dato una definizione dettagliata, documentata e dimostrata e valida “oggettivamente”, e non solo per piccoli gruppi o esclusivamente per l’autore.
    6) Inoltre Toffoli appiattisce il discorso entro una pretesa società attuale, dimenticando che certe forme di mercificazione del sesso, come la prostituzione, sono antichissime e ben vive anche in società di solito non definite capitalistiche.
    7) Ci sono comportamenti, rapporti e fenomeni sociali che cambiano vestito nelle diverse epoche storiche, ma che restano identici nel loro nocciolo duro. Se ci si concentra sul vestito e si perde di vista il resto, si scade nella distorsione ideologica e incomprensione dei fenomeni. Da questo punto di vista l’articolo di Barbetta ci aiuta di più a capire che non la critica di Toffoli.
    8) Da sempre il sesso è stato relazione sociale, rapporto di potere, innamoramento e amore, gioco, diversivo, divertimento, necessità naturale, perversione ecc. ecc. E anche merce, perché tutto, dove c’è un minimo di libertà, se crea una domanda, crea anche un’offerta, e lo scambio può essere gratuito, ma può essere anche oneroso. Solo in alcune utopie (ma in realtà vere distopie) il sesso come merce scompare, ma per due ragioni entrambe poco auspicabili: la prima è perché manca totalmente la libertà e tutti i cittadini devono seguire il programma imposto; la seconda è perché i rapporti sessuali sono gestiti da chi ha il potere politico, così ogni donna è tenuta a sottoporsi a rapporti sessuali con gli uomini che le desiderano, e viceversa, secondo delle regole imposte “per legge”. Esclusi i rapporti omosessuali e “perversi”, perché le utopie classiche non permettono questi usi del sesso.
    9) E di rapporti sessuali “privati” e “pubblici” abbiamo testimonianze iconografiche e scritte fin da quasi tremila anni. La pornografia, sia nelle versioni che potremmo definire “naturalistiche” o di documentazione, sia in quelle definibili “oscene”, è sempre esistita. Anche se poco materiale è pervenuto fino a noi, sappiamo che esistevano libri e dipinti pornografici nell’antica Grecia e nell’antica Roma. Perché è sempre esistita? Perché il sesso è un fatto centrale nella vita: perché la curiosità, la fantasia, la libido, il sesso come salute e come patologia, come provocazione, come fonte di guadagno, come forma di valorizzazione o di perdita dell’Io ecc. sono sempre state motivazioni di fondo di tutto ciò che riguarda la vita umana, compresa la letteratura (narrativa, poesia, commedia, tragedia). Ci sono anche grandi autori, classici, che si sono cimentati nella scrittura porno, in tutti i tempi. Non mi riferisco al Boccaccio, che si ferma a una trattazione del sesso non spinta alla pornografia, ma a pornografi veri e propri (nel Cinquecento, nel Settecento, nell’Ottocento e Novecento).
    10) Con la nascita della fotografia, sono subito arrivate anche le foto porno e con il cinema i filmati porno. I più antichi sono della fine dell’Ottocento, dei primi anni del cinema. E da sempre, chi ha voluto che la propria vita sessuale restasse nella sfera del privato, ha evitato di raccontarla. Persino di raccontarla a se stessi. Perché se la si mette per iscritto, fosse pure nella forma del diario, o la si fotografa o la si filma, vuol dire che si è disposti, in maniera magari non del tutto consapevole, a renderla pubblica. Forse a renderla pubblica solo postuma, ma a renderla pubblica. Chi scrive una lettera privata pornografica (o una mail), come gioco eccitante fra due persone, o chi fa qualcosa di analogo con la cinepresa, o è un ingenuo sprovveduto, o ha già messo in conto che lo scritto o il film può sfuggire di mano. È avvenuto nel passato e continuerà ad accadere. Ora, con gli attuali mezzi a disposizione per filmare, accadrà sempre più spesso, inevitabilmente. Qualunque discorso di carattere politico, sociale, economico, psicologico, morale, religioso o d’altro tipo non potrà nulla per contrastare la forza della tecnologia (questa sì, totalizzante, assai più del generico capitalismo). E del resto, perché farlo?
    10) Perché? Non trovo motivi per farlo, se non uno solo. Se un filmato porno è realizzato con la violenza o l’inganno contro la volontà del soggetto ritratto e se la sua diffusione costituisce una continuazione della violenza o una forma di iniziale violenza. Ma se manca la violenza o l’inganno, cioè se manca l’aggressione alla libertà altrui, la diffusione di un porno non costituisce, a mio parere, un reato, in nessun caso.
    11) Nei casi del cyberbullismo citati da Barbetta mi sembra che ci siano fattispecie diverse. Talvolta vi è la violenza, talvolta l’inganno, talvolta solo la diffusione non autorizzata di un filmato girato con il consenso degli interessati,
    12) In proposito le considerazioni da fare sono almeno due: la prima è che chi consente di farsi riprendere in una scena di sesso integrale (ma il discorso riguarda qualsiasi tipo di filmato), non ha modo di essere sicuro che il filmato non venga diffuso. Pertanto, se vuole evitare a tutti i costi questo rischio, deve evitare di farsi filmare, sia pure nella propria camera da letto con il proprio partner e solo per gioco erotico. La seconda osservazione è che se non si osserva una rigorosa “castità” filmica, qualunque sia poi il motivo della diffusione del filmato, si potranno piangere lacrime anche amare, ma sempre col sapore delle lacrime del coccodrillo. Certo, il cyberbullismo è comunque da punire; l’imprudenza e l’ingenuità della vittima non giustificano il comportamento scorretto di chi diffonde senza autorizzazione un filmato. Tuttavia la realtà resta quello che è e che è sempre stata (ci sono esempi vecchi di secoli di diffusione non autorizzata di ritratti osé, di lettere troppo confidenziali, di diari scritti solo per se stessi e così via), e che oggi è molto più diffusa perché la tecnologia lo permette. Come i secoli di storia dimostrano, né la repressione penale, né l’educazione, né la cultura riescono a bloccare il fenomeno.
    13) Quello che c’è di nuovo, oltre alla facilità di produrre e diffondere materiale porno, è il crearsi di una zona di comportamenti in cui la propria sessualità è vissuta come privata ma anche, insieme, come pubblica. Vita sessuale, ma anche forme diverse di confidenza. C’è chi pubblica in facebook (o trasmette via mail o col telefonino) foto e scritti e confidenze che ritiene private e che vuole comunicare solo a un ristretto numero di amici, per accorgersi poi che il documento diventa accessibile a tutti. Il comportamento contiene in sé elementi di ingenuità, di sprovvedutezza, di incompetenza tecnica, di eccessiva fiducia nei pochi amici a cui ci si rivolge, ma anche di radicale ambiguità. Ed è legittima la domanda: davvero non si voleva che il documento destinato a cinque persone arrivasse a mille o diecimila? Queste ambiguità psicologiche, spesso dovute a fragilità della personalità, sono assai diffuse. La fragilità psicologica ha sempre creato delle vittime. Possiamo auspicare che diminuiscano, e darci da fare perché se ne creino le condizioni sociali, culturali e giuridiche. Ma non possiamo azzerare il numero delle vittime. E ciò non c’entra niente col “totalitarismo capitalistico”. Perché l’influenza che le forme odierne di capitalismo hanno sul fenomeno riguardano il “vestito”, il modo, non la sostanza, che ha radici più profonde e antiche.

  15. 1) Toffoli, parlando di “Pornolandia”, parla soprattutto di un fenomeno, che è quello della produzione professionistica e industrializzata (o almeno a livello artigianale) di filmati pornografici. In questo caso si produce senz’altro della merce, come se ne produce in ogni settore merceologico. E il sesso non ha mai fatto eccezione né vedo perché dovrebbe farlo, se si evita di considerare il problema in termini morali. Qui esula, per mancanza di spazio e per altro, dalle mie intenzioni dilungarmi sulla “cinematografia” pornografica, sulla sua storia, sui suoi esiti estetici ecc. Mi piace però osservare, fatto che spesso si ignora, che oltre ai film porno (oggi in genere venduti in DVD o tramite siti Web porno specializzati) di cui sono protagonisti attori porno professionisti, che lo fanno per mestiere e, come ogni mestiere, per soldi; ci sono (e sono ancora più numerosi) i film porno i cui protagonisti sono volontari non pagati, che lo fanno per proprio piacere. Sia che si tratti di porno che nascono in casa, privatamente, e vengono solo in seguito commercializzati o comunque diffusi con autorizzazione, sia di porno girati sul set da produttori professionisti che raccolgono i volontari con annunci pubblici o col passa parola. Volontari non pagati, ma perfettamente consapevoli di ciò che fanno e firmatari di un apposito contratto. Perché lo fanno? Per divertimento, è la risposta. O per curiosità, talvolta. E non si tratta solo di giovani, ma di gente di tutte le età, maschi e femmine, eterosessuali e omosessuali.
    2) Infine, ultima ma importante considerazione, è che il sesso che si mostra nei filmati porno, salvo il caso dei prodotti molto artigianali fatti in casa, non è un “sesso naturale”, ma un sesso costruito sul set, per poco o molto che intervengano le operazioni di casting, di regia, di inquadramento fotografico e di montaggio del materiale girato. Spesso, e questo avviene quasi sempre nei filmati di maggiore impegno da parte della produzione, ciò che allo spettatore appare come un rapporto sessuale che dura dieci o venti minuti, è il frutto di un’operazione di scelta e di montaggio di due o tre ore di filmato realizzato in più sedute sul set (e talvolta da parte di più protagonisti, alcuni come attori che appaiono sul video, altri come controfigure che li sostituiscono in parte delle riprese). Questo fatto produce ciò che diversi psicologi e sessuologi hanno notato e lamentato: lo spettatore, soprattutto se giovane e poco esperto, può farsi un’idea molto distorta del sesso che lo influenza negativamente. Non va pertanto dimenticato, e ai giovani bisognerebbe dirlo più spesso, che il sesso dei film porno è un sesso artificioso, è una fiction del sesso, che non corrisponde se non molto approssimativamente alla vita sessuale normale della quasi totalità delle persone.
    3) Purtroppo (e qui alcune critiche di Toffolo colpirebbero il bersaglio, se indirizzate in modo meno generico), anche l’industria culturale normale a volte contribuisce a creare enormità pericolose, come ad esempio avere trasformato, con libri, centinaia di articoli e persino uno sceneggiato TV (prodotto, se ricordo bene, dalla TV di Stato) in due puntate proposto alle famiglie italiane, una porno star come Moana Pozzi in una specie di icona da ammirare, anzi da venerare, una donna quasi “santa”. Però Moana, fisicamente splendida ragazza, ha scelto il porno sesso volontariamente e lo ha praticato a un livello estetico ributtante. Pessima attrice nelle sue comparse in film normali, resta pessima attrice anche nei film porno, dove è protagonista di scene di sesso integrale dalle quali risulta che il sesso è un’attività di super-palestrati che si compiacciono di stranezze di ogni tipo e di oscenità ributtanti (da vomito, in senso letterale, non in senso morale), in cui il normale erotismo non ha nessun posto. È nell’esaltazione di un personaggio del genere, sdoganato e proposto come eroina, che sta davvero il peggio della mercificazione, non nel porno in sé.

  16. …ritorno a porre l’attenzione sulle vittime, anche se è vero che ci sono sempre state, ma evidentemente oggi soprattutto tra i più giovani ne cresce il numero,tutto un mondo sommerso, tanto è vero che la polizia postale favorisce la circolazione di iniziative per sensibilizzare i giovani al problema. Ho letto per caso della pubblicazione di un libro scritto da un poliziotto e diffuso gratuitamente nelle scuole di Brescia sul bullismo cibernetico e la sua prevenzione: “Pensa Per Postare” di Domenico Geracitone Ed. Euroteam.
    Nell’articolo di P. Barbetta un’altra cosa che non mi convince è l’aver accostato l’idea che la giovane suicida T. C. sia la vittima e, nello stesso tempo, “brava!” perchè ha saputo provare vergogna, diversamente dai bulli intorno a lei. Secondo me una vittima che debba provare vergogna è un’assurdità…Che poi l’abbia profondamente provata, dileggiata e disprezzata da chi in realtà si divertiva un mondo alle sue spalle, è probabilmente vero…Di un disprezzo virale, quindi infinito: non sarebbe cessato mai, lei non avrebbe mai potuto cambiar pagina. Ma le motivazioni del suo gesto estremo potevano essere state anche altre e disperanti: l’essersi sentita del tutto sola davanti alle richieste di aiuto, l’ennesimo abbandono che sottolinea il suo disvalore…la giustizia ingiusta che non solo non la protegge ma le impone la multa consistente in una cifra considerevole, di cui magari lei non disponeva…Perchè guai violare gli interessi dei vari siti, lì sì le regole sono ferree…

    1. Hai ragione Annamaria, il combinato-disposto (approfitto per fare propaganda al no del referendum)di soggetti e mancanze ha stretto il nodo di TC. Ma non mi pare che Barbetta le dica brava.
      Invece scrive che, vergognandosi, TC ha ristabilito una separazione tra realtà e mondo immaginario, quello della civiltà dello spettacolo e della sua logica spietata, di cui ha detto il Tonto.
      Sarebbe utile leggere l’intervista a Finelli su Megachip segnalata da Ennio su FB. Ne riporto un breve pezzo “La soggettività astratta del nostro mondo moderno … è una soggettività di povertà assoluta perché, a muovere dalla povertà del proprio sentire, dall’isterilirsi delle proprie emozioni, non è in grado di interiorizzarsi, di accedere a una propria interiorità. E’ una soggettività, si potrebbe dire, disincarnata”.

      * Nota di E.A.
      Indico qui il link per leggere l’intervista a Finelli per intero:
      http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=126576&typeb=0&per-un-etica-del-riconoscimento

      1. …secondo me, la vergogna “senza rete” fa di T. C. ancor di più una vittima. Se si fosse vergognata un po’ meno, forse sarebbe ancora tra noi…Se fosse stata aiutata a prendere consapevolezza della sua ingenuità ed anche degli errori commessi, che però non meritavano certo la pena capitale, e della stretta insensata e perversa in cui si era venuta a trovare forse avrebbe potuto trovare una via d’uscita…Sembra di assistere alla “cronaca di una morte annunciata”, che coinvolge intere generazioni, vittime e carnefici, senza protezione…

        1. Hai ragione di nuovo: se non avesse provato vergogna TC potrebbe essere ancora viva.
          Ma Barbetta scrive dopo che il fatto è avvenuto. E scrive dell’importanza di emozioni e sentimenti, perché tutto non sia uguale a tutto, il “regno dell’insensibilità, che è anche il regno dell’insensato”.
          Se fosse stata aiutata a prendere consapevolezza, dici tu, se le madri potessero essere più efficaci aggiungo io, se si perseguisse l’educazione di sentimenti e emozioni… “Ciò che è primario oggi … è rimettere in moto un percorso verso una capacità di individuazione e di riflessione, a partire dal senso che ci indica il nostro sentire,” scrive Finelli.
          “Questo tipo di società, incentrata sull’astratto capitalistico, non può che generare una soggettività astratta. […] Dello svuotamento e della superficializzazione del mondo non può non far parte, ovviamente, la superficializzazione dell’essere umano”, e credo che il Tonto potrebbe sottoscrivere queste parole.

  17. @ Ciriachi 4 ottobre 2016 alle 8:07

    POLISCRITTURE E IL SINGOLO REDATTORE

    Il clima – buono, cattivo, sopportabile, insopportabile – di Poliscritture lo costruiscono innanzitutto i redattori (e poi i commentatori). A creare tale clima in questi anni hai contribuito tu pure. Chiediti come. Secondo me in modo poco positivo: restando redattore quasi inerte (“sulla carta”); non scrivendo un solo articolo per il sito di Poliscritture (ma per altri siti sì); cogliendo la palla al balzo appena si presenta l’occasione – e questa dell’incidente con Barbetta era davvero golosa! – per denigrare Poliscritture e alcuni redattori in particolare. Non sopportando le loro posizioni politiche, hai preferito quasi sempre combatterle per vie traverse: ad esempio, come fai adesso, smontandone le «sottigliezze lessicali» ( che, se ci pensi bene, non sono poi tanto diverse dalle tue, sulle quali sorvoli). Ti sei messo nella posizione del “signorino” colto e snob che sta al di sopra della plebaglia: «Non ho mai detto nulla sulla rozzezza argomentativa del Tonto perché i gusti sono gusti, e se ad altri piace, che lo leggano e approvino».
    Quanto all’allontanamento «anni addietro» di qualche collaboratore/trice, preciso: sulla filosofa non so che dire, perché non so a chi ti riferisci, mentre la poetessa (Anna Cascella Luciani) si è allontanata dopo un scambio abbastanza accesso di opinioni tra me e lei sul Festival di Castelporziano che tutti possono ancora leggere su “Le parole e le cose” (http://www.leparoleelecose.it/?p=19739) ; e non si capisce perché da Poliscritture, a meno che nella sua mente la rivista non coincidesse con la mia persona.
    Sull’allontanamento poi vale lo stesso discorso che ho appena fatto per il clima: l’”ingranaggio” ( il *noi” di Poliscritture) è prodotto dall’interazione (o inazione) dei singoli redattori ( e commentatori) che vi partecipano. E finora, nella rivista e nel blog, le spinte ad « aggregare, avvicinare, mediare per condividere il più possibile» sono state di gran lunga predominanti su quelle – che pur ci sono in qualsiasi gruppo (docebat Fachinelli: http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/11/ennio-abate-riflessione-di-un.html) – tendenti a «dividere, allontanare, isolare». Lo dimostra il dibattito interno a cui tu stesso hai partecipato. Ti sei allontanato tu per tue valutazioni personali. Nessuno di noi ti ha allontanato. Nel blog per un certo tempo ha partecipato una commentatrice che si faceva chiamare ‘ro’. Non condividevo le sue opinioni né il modo in cui le esprimeva, ma ho sempre interloquito con lei armandomi di tutta la pazienza che possedevo. S’è allontanata lei. Nessuno di Poliscritture l’ha allontanata.
    Quindi, anche ora con Barbetta, mi chiederei se sia stato il cosiddetto « clima di prepotenza di cui [sarebbe] permeato il Tonto», cioè un singolo, a far allontanare, come tu dici, «sanamente» (?) Barbetta dal gruppo di “Poliscritture FB”. O qualcos’altro, su cui, non avendo al momento elementi certi, non faccio neppure ipotesi. Ma perché, ammesso che un singolo (Giulio Toffoli) l’abbia aggredito, uscire dal gruppo perché «questo gruppo ospita aggressioni»? E la stessa obiezione vale per la Cascella: se ha “litigato”con Abate su “Le parole e le cose” cosa c’entra Poliscritture?
    Una rondine non fa primavera e neppure un singolo redattore fa il clima di una rivista o di un blog. Questo vorrei ricordare a te a Conserva e a Barbetta. Ed è questo tuo accanirti contro il singolo – Toffoli in questo caso – come ha fatto anche Conserva e prima lo stesso Barbetta gridando all’aggressione che non va. Vi siete rifiutati di discutere e argomentare e criticare analiticamente le posizioni di Toffoli, come stanno facendo invece Cristiana Fischer, Donato Salzarulo e Luciano Aguzzi. Ammesso che Toffoli abbia « preso a sberle il testo di Barbetta», tu , Conserva e Barbetta avete risposto con altre sberle o con uno sdegnoso rifiuto. Questo sì, per me «politicamente non è un bel lavoro».

    1. Ho provato a dialogare con Toffoli facendogli semplici domande alle quali non ha risposto (puoi rileggerle anche nel sito di Poliscritture), ovvero perché fosse ridicola e intellettualmente non onesta, la mia obiezione circa l’uso del condizionale quando una notizia non ha elementi di certezza, e quali fossero gli improperi che gli avrei rivolto. Sono stato sostanzialmente un non-redattore, l’ho sempre ammesso, come ho specificato che mi sono trovato nelle vesti di redattore per un’iniziativa di Marcella che sapevo votata all’insuccesso. Vivo da qualche anno in un regime di energie limitate e non posso dedicare tempo a cose che non rispondono a un requisito fondamentale di immediato interesse. I dialoghi col Tonto non lo sono e se ho prestato attenzione a quest’ultimo è per la lettera di Barbetta. Con te mi sono scontrato politicamente più volte ma la cosa non ha mai costituito motivo di auto-esclusione; come non lo è stata l’accusa che qualcuno, non ricordo chi, mi ha mosso di avere posizioni filoisraeliane per le mie critiche a Hamas; non ho mai obiettato nulla circa le critiche negative ai miei scritti, ma permetterai che, come nel caso del mio pezzo sulla guerra del n° 12, se le accuse sono di essere chiuso su me stesso, cosa vuoi che dica?, è vero, vivo così, poche persone, scambi proficui, raccolgo quello che mi serve per andare avanti senza più guardare troppo indietro. La filosofa di cui parlavo è Brunella Antomarini e la poeta Stefania Portaccio, andate via più o meno insieme al primo liscia e bussa subito, come Barbetta (non sapevo, o non ricordavo, di Anna Cascella). Ti sembro un signorino? Magari! Per ora questo, poi vedo se mi è sfuggito qualcosa.

  18. Ahimè, Giacomo!

    “Agli amici”

    Si fa tardi. Vi vedo, veramente
    eguali a me nel vizio di passione,
    con i cappotti, le carte, le luci
    delle salive, i capelli gia’ fragili,
    con le parole e gli ammicchi, eccitati
    e depressi, sciupati e infanti, rauchi
    per la conversazione ininterrotta,
    come scendete questa valle grigia,
    come la tramortita erba premete
    dove la via si perde ormai e la luce.
    Le voci odo lontane come i fili
    del tramontano tra le pietre e i cavi…
    Ogni parola che mi giunge e’ addio.
    E allento il passo e voi seguo nel cuore,
    uno qua, uno la’, per la discesa.

    di Franco Fortini (1957)

  19. Nonostante continui a credere che interventi di replica da parte di chi scrive un testo, come quelli di “Dialogando con il Tonto”, possano avere più una funzione di chiusura di un discorso che di stimolo a una libera discussione questa volta mi permetto di intervenire una seconda e ultima volta.

    Format
    In primis mi par utile fare una specie di messa a punto sul format dei testi che ho in questo periodo offerto alla discussione dei lettori di Poliscritture. Fin dall’inizio era evidente che non si trattava di un modello politically correct. Anzi lo spirito era proprio l’opposto, si trattava di introdurre accanto ai testi letterari, saggistici, politici e di altro genere normalmente presenti sul sito un elemento di critica anche serrata della realtà che viviamo. Mi sembrava francamente che nel variegato mondo di Poliscritture mancasse qualche cosa del genere e che potesse essere utile aprire uno spazio di discussione of limits, senza guardare in faccia a nessuno. La finalità era di presentare opinioni che per loro natura vogliono essere fuori dal coro. Ciò può non piacere a chi è ormai aduso a ragionare secondo i modelli di una realtà dove domina la velina, il non detto, l’uso e l’abuso del condizionale.
    La speranza era ed è che vi sia chi ha il piacere di interagire con qualche cosa di ruvido e di problematico.
    Si tratta inoltre di testi che si articolano all’interno di una cornice abbastanza standard e contenuta, più o meno di tre cartelle, qualche volta un poco di più qualche volta un poco di meno. Perciò nulla da stupirsi per le 16.000 battute. (Addenda: si criticano le 16.000 battute e poi il buon Donato Salzarulo costruisce un puzzle di 30.000 battute. Forse un poco di coerenza non sarebbe male)
    Luciano Aguzzi ha fatto un parallelo certamente azzardato ma che a suo modo mi piace con il mitico Fortebraccio dell’Unità, che scriveva i suoi pezzi, quelli sì spietati e duri, proprio degli anni in cui la compravo e me la mettevo nella tasca della giacca andando a scuola. E’ un parallelo un poco audace, ben altro lo spessore dell’esponente comunista, ma se si vuole non mi offende neppure la citazione dei “trinariciuti” di Guareschi. Vista da questa morta gora anche quella pagina del conflitto fra democristiani e comunisti, rappresentata in modo certo poco simpatico dal catto-reazionario Guareschi, appare quasi gloriosa.
    Sì, i “Dialoghi con il Tonto” non sono certo un luogo per palati fini e per orecchie da educande.
    Bisogna farsene una ragione sempre che non si pretenda di parlare in nome di qualche Inquisizione e chiederne la eliminazione dal sito.

    Critiche
    Almeno cinque sono gli interlocutori con cui se avessi le forze dovrei cercare di riprendere i fili del discorso, da Emilia Banfi a Annamaria Locatelli passando attraverso Mayoor, Cristiana Fischer, Donato Salzarulo e Luciano Aguzzi. Innanzi tutto li ringrazio per i contributi che hanno, almeno in parte, meglio chiarito le idee al Tonto …
    Non me ne vorranno se mi fermerò brevemente solo sugli interventi di Luciano e Donato.
    Per ciò che riguarda l’intervento di Luciano Aguzzi, sottolineando che come è già successo ci siamo spesso trovati su posizioni molto diverse, devo dire che questa volta mi sembra abbia colto lo spirito del discorso che ho cercato di imbastire. Avevo infatti la finalità di toccare solo di sfuggita il caso singolo di Tiziana Cantone, proprio perché come ho fra l’altro scritto, non me la sento di esprimere neppure una impressione su quali siano state le cause profonde che hanno spinto questa donna a compiere tale gesto.
    I si dice non mi piacciono e non mi convincono …
    Mi è capitato di vivere l’esperienza di alcuni cari amici che hanno scelto quella strada e anche oggi, ad anni di distanza, mi chiedo perché lo abbiano fatto senza riuscire a trovare una risposta. Non ci sono le versioni dei famigliari, degli amici o della magistratura che tengano e possano svelare fino in fondo i motivi che spingono un uomo o una donna a compiere un gesto così estremo. Almeno a me appaiono gesti insondabili, scelte su cui non è possibile dire l’ultima parola. E certo non ho gran fiducia nella capacità della magistratura di rispondere a quesiti di questo tipo.
    Ciò che mi interessava era sottolineare che non serve a nulla rifarsi a modelli letterari classici, fra l’altro anche abbastanza ridicoli vista la realtà d’oggi, come il suicidio preventivo delle vergini dell’Arcadia, o piangere calde lacrime su una civiltà delle buone maniere perduta (ma poi quale?) o raccontarci che l’impiccagione è una forma di suicidio con un qualche appeal femminile o cose del genere.
    Questa tragedia come infinite altre mette in discussione noi. Siamo noi che siamo coinvolti nel senso più forte della parola. Forse proprio in prima misura noi della generazione che in nome della libertà senza vincoli ha perduto di vista completamente il fatto che esiste un banale principio secondo cui in una società minimamente funzionante non si dà libertà senza norme.
    Altrimenti è inevitabile che crescano le contraddizioni, sia chiaro non quelle di tipo politico, ma segnali ben più gravi di uno sfaldamento esistenziale e umano che si esprimono in una atrofia della dimensione emozionale e in una ipertrofia del cinismo e dell’indifferenza di chi passa la sua giornata su facebook o più in generale su internet.
    E’ proprio in questo contesto di mutamento radicale della natura dei rapporti sociali che uso e continuerò a usare, mi dispiace caro Luciano, il concetto di “totalitarismo del capitale” puntando però a riprendere, se sarà possibile, il discorso in modo più approfondito e rigoroso all’interno dell’analisi delle posizioni di Roberto Finelli partendo dall’articolo citato da Ennio e le cui coordinate sono state di recente riprese dalla Cristiana.
    Aggiungi che tendo a “appiattire il discorso entro una pretesa società attuale” … lo faccio perché, pur ricordando bene che esiste quello che si suole definire il più antico mestiere del mondo e che forme di letteratura erotica e di arte erotica sono sempre esistite, sono convinto che la società attuale abbia davvero modificato in modo radicale il modo di porsi e i rapporti fra gli esseri umani, ponendo sfide che sono davvero ardue da affrontare e che mettono in discussione i nostri modelli di interpretazione tradizionali. Per convenso non mi convince la teoria secondo cui determinati rapporti e fenomeni umani “restano identici nel loro nocciolo duro” nonostante il flusso del tempo. Tutte le teorie che si rifanno ad archetipi o che cercano in modo vario di negare la plasticità dell’essere umano mi paiono fragili, forse anche abili e piacevoli esercizi intellettuali ma che non reggono di fronte alla forza del mercato che tutto infrange e ricostruisce secondo il principio del primato del denaro.
    Ciò detto nel tuo intervento sono presenti tutta una serie di informazioni e di giudizi su cui nel complesso convengo e che mi pare arricchiscano, diversificano e problematizzano quanto asseriva il Tonto. Tutte note utili e che potranno forse in futuro diventare tema per un discorso più articolato sul problema della sessualità nell’età del capitale transnazionale.
    Diverso è invece il caso dello scritto di Donato Salzarulo che devo essere onesto mi ha colpito per quella sua scelta di intervenire con presunti “appunti di lettura” che tanto sanno delle note a margine di un testo di scuola … tipo “maestrina dalla penna rossa”.
    Comunque sia sembra abbastanza evidente che io e Donato abbiamo un modello di lettura del caso in questione radicalmente diverso infatti quello che contestavo al Barbetta era che la giovane donna si fosse uccisa “per la vergogna”. A mio vedere ciò che possiamo dire è che si è uccisa a causa della presenza in rete di un video e fin qui il fatto … che poi fosse “per la vergogna” o per altro motivo voleva dire entrare nel regno della interpretazione … questa sì da lasciare a una più attenta e meditata analisi fatta, con la dovuta prudenza e calma, cercando di mettere insieme tutti i frammenti rimasti del puzzle della Catone.
    Carissimo Donato non meno nessun “can per l’aia” o per altri ameni luoghi. Che a te il frammento del testo di Barbetta da me analizzato appaia marginale è una tua opinione e guarda caso non mi convince proprio per nulla. Similmente anche rileggendolo l’intero testo del Barbetta quello che non mi convinceva e non mi convince è l’impianto complessivo dell’articolo con quel suo gioco intellettualistico basato sulla mitologia, sulla disquisizione sull’uso dell’impiccagione come modello di suicidio più o meno femminile, “sull’etica della responsabilità affine al femminile” … e altre “amenità” del genere.
    Nessuna voglia di travisare alcunché ma semplicemente un richiamo alle condizioni del tutto originali in cui si è verificato all’inizio di questo XXI secolo e in una società della medialità e del narcisismo il caso Cantone, uno fra gli infiniti altri che sono accaduti e che accadranno, un dramma che è legato a noi, alle nostre responsabilità e alla realtà dei social media.
    Se proprio non hai inteso ciò che volevo dire nulla di male. Più grave se non hai voluto intendere … infatti il resto del tuo intervento è davvero una continua intollerabile forzatura, come quando affermi che io abbia dato del “guardone” al Barbetta.
    A questo livello di manipolazione proprio non accetto di scendere e mi fermo qui.
    Può ben darsi, anche se io non ci credo, che il testo che tu hai messo ai raggi X sia un testo “cannato” ma in ogni caso era una “sfida” che non è stata accettata da Barbetta e C.. Non hanno trovato altra strategia che strapparsi le vesti, coprirmi di contumelie e forse a te questo sembra ragionevole. Ma non rammento che qualche cosa di simile sia mai capitato in altri casi, almeno negli ultimi anni su Poliscritture, ed è un brutto segnale su cui tu nulla hai detto.
    Per me questo è inaccettabile e vorrei aggiungere intollerabile.
    Una cosa è avere diverse opinioni ed esprimerle anche in modo aspro altra è offendere esplicitamente.
    La tua posizione si è nei fatti identificata con la loro e i tuoi “appunti” sono davvero una brutta e misera pagina.
    Per il resto ciascuno di noi può ben continuare a difendere le sue opinioni.

  20. PROMEMORIA IN VISTA DELL’INCONTRO DI REDAZIONE A FIRENZE

    Scrivevo troppo ottimisticamente nel 2004 alla vigilia dell’esperienza di Poliscritture:

    «L’obiettivo coraggioso sarà quello di essere una rivista che navighi nel grande oceano della realtà in subbuglio, senza paura di riscoprirlo anche nei suoi aspetti ben poco estetici ma veri e tragici. E questo anche se non si hanno più rotte di navigazione certe, bussole in ordine e equipaggi addestrati ai lunghi viaggi. Ce li costruiremo, senza chiuderci in una cerchia solo amicale, sperimentando legami con altri e altre presi dal vortice dell’esistenza e dall’alienazione del lavoro o della disoccupazione, recuperando Autori ed eventi del passato degni di essere riproposti».

    Nel 2016 alla vigilia dell’incontro di redazione dell’8 ottobre a Firenze che capita sotto il brutto segno lasciato dalla discussione sul “caso Barbetta”, che dire?
    Ho fatto quel che mi era possibile per difendere il diritto di Toffoli a esprimere il suo pensiero in modi che possono essere considerati discutibili ma per me sicuramente non offensivi.
    Spero ancora che redattori, collaboratori e commentatori si assumano la responsabilità di aiutare come possono a sciogliere certi nodi . Ce ne sono almeno tre molto concreti da affrontare: – il n. 12 sulla guerra del cartaceo, la cui gestazione si è prolungata oltremisura e ha forse qualche toppa in più rispetto ai numeri precedenti; – se continuare a fare il cartaceo, che poi per assenza di un vero editore e per nostra debolezza organizzativa riusciamo a distribuire in modo limitato, o fare solo il sito; – le tensioni “psicologico-politiche” interne ed esterne, che realisticamente si ripresenteranno di tanto in tanto su temi delicati e riproporranno la questione del senso del nostro progetto.
    Prendiamoci una pausa di riflessione almeno fino a sabato quando c’incontreremo a Firenze.

  21. Vengo al punto. Ieri sera,-combinazione!-, attorno alle 23, avevo scritto un lunghissimo post sulla questione controversa e, disdetta!, il post è saltato, quand’era bell’e finito … non si è “pubblicato”.
    Io, in generale, concordavo abbastanza con Aguzzi ma vi dico il succo: il commento ad un articolo (anche, implicitamente) sul potere di internet e sulle sue insidie è diventato una parabola esemplare del come sia difficile usare la Rete per quello che è: uno strumento di comunicazione “con” gli altri; e come sia quasi inevitabile usarlo, invece, come uno strumento di amplificazione di se stessi, delle proprie nevrosi (di tutti, me inclusa) e del proprio narcisismo. Alcuni commentatori, – che paradosso visto il caso Cantone di cui si discuteva ! -, hanno preso a male parole Giulio Toffoli (oltretutto, francamente, qualcuno ha sfiorato il reato di diffamazione!). Se da una parte sono dispiaciutissima, dall’altra trovo paradossalmente curioso questo fatto e anche fonte di riflessione e di interesse.
    Si pentiranno i “bulli” in questione? Secondo me, sì: tra qualche settimana sembrerà loro assurdo aver usato certe parole e quella violenza per contrastare un articolo … del Tonto.
    La mia (modesta) opinione è che, -effettivamente-, Giulio Toffoli non me ne voglia, il Tonto avesse un po’ travisato l’articolo di Barbetta, e avesse detto “altro”, un altro anche interessante (come riconosciuto da Aguzzi e anche da Donato) ma “altro”.
    Un motivo per linciarlo? Mi sembra proprio di no.
    Io, fossi in lui e in voi, distinguerei le controcritiche vere e proprie al suo testo (ci metto anche quella di Donato Salzarulo, anche se, a tratti, un po’ sardonica) o umanamente comprensibili (quella di Barbetta: si sa, ognuno è geloso delle proprie parole come dei propri bambini, scoccia che non siano “capiti” da un estraneo) da quelle invece ingiustificabili di “terzi” che, appunto, si sono esposti in espressioni sconcertanti : demenza, stupidità, violenza infinita.
    Forse Giulio potrebbe parlarsi con Barbetta, leggersi le critiche costruttive e magari rispondere nel merito se crede, mentre gli altri potrebbero scusarsi con Giulio e, magari, – non so se si può -, cancellare dei post noiosi e inutili per il lettore, in quanto relativi ad una polemica privata, che nulla aggiungono al “tema” di una discussione che era anche interessante.
    E Poliscritture potrebbe restare com’è, che non vedo cosa c’entri questo disgraziato incidente con la sua struttura.
    Anch’io magari sono stata arrogante ad entrare così, senza conoscere molti degli intervenuti, ma sono ormai diventata una semplice “lettrice” e forse vi può interessare come l’ho vissuta.
    Un abbraccio sincero a tutti e, in particolare, a Giulio … vittima di bullismo 😉
    Alessandra

    P.s. Che invidia, sapervi a Firenze!

  22. Anche se a giochi apparentemente conclusi, vorrei fare un commento cercando di mettere tra parentesi le idiosincrasie più o meno manifeste dei singoli partecipanti alla querelle.
    Da ‘esterna’ (e quindi senza la cognizione di ciò che si agita dietro le quinte), ho avuto l’impressione che il casus belli si sia originato più che dai ‘contenuti’ [sì, lo capisco, anche di quelli!] del post di Toffoli, dalla ‘forma’ con la quale ha esordito: *Difficile dire perché ho fermato la mia attenzione su questo testo piuttosto che su molti altri che trattavano lo stesso argomento: forse l’approccio quasi accademico, ricco di citazioni classiche e non, forse il tentativo dell’autore di “restare lontano da prescrizioni moralistiche” per poi nel complesso finirci dentro come e più di altri*, e di includere il lavoro di Barbetta [meritevole, a parer mio, di ben altra attenzione] tra quella *pubblicistica nostrana* che utilizza il vezzo di usare il condizionale, allorchè parla di fatti, creando così confusione nel lettore.
    Quindi, da un lato, ‘contenuti’ che sono legati al particolare taglio prospettico dato da Giulio alla lettura dell’articolo di Barbetta, cosa del tutto legittima, e non come ‘filtra’ D. Salzarulo, nel suo pur encomiabile excursus quasi filologico, quando scrive: *“E’ semplicemente fraintendere, travisare, non comprendere il ruolo e il significato delle singole proposizioni all’interno dell’economia complessiva di un testo. O, se si preferisce, della sua “logica di senso”. Per carità, di fronte a un articolo o, più in generale, a un testo, un lettore può comportarsi come meglio crede. Può anche vedere il nero dove c’è il bianco* (Salzarulo 3.10 h. 22.14)
    Una ‘forma’, quella di G. Toffoli, indubbiamente ‘puntuta’ che, in un contraddittorio già in stato d’armi (e che un lettore che non conosce i vari retroscena personal-politici si vede piombare addosso) è andata ad inficiare la lettura del suo (di Toffoli) testo che tendeva a dare maggiore centralità ad una sociologia descrittiva riguardante la manipolazione dell’informazione (nonché dell’opinione pubblica), un sottolineare l’ambiguità del predicare bene e razzolare male, prendendo di mira quei profanatori che fanno, al contempo, i cavalieri dell’ideale. Il suo intento era quello di portare una *critica serrata alla società in cui viviamo* (Toffoli 6.10 h. 7.52).
    Attacchi, quelli di Giulio, più che giusti e doverosi perché “Questa tragedia [quella di Tiziana Cantone] come infinite altre mette in discussione noi. Siamo noi che siamo coinvolti nel senso più forte della parola. Forse proprio in prima misura noi della generazione che in nome della libertà senza vincoli ha perduto di vista completamente il fatto che esiste un banale principio secondo cui in una società minimamente funzionante non si dà libertà senza norme* (Toffoli, Ibid.)
    Nulla da eccepire a tutto ciò.
    Ma, poiché “ne ferisce/uccide più la lingua che la spada”, la singolar tenzone, partita a proteggere l’onta (?!) subita (!) da Barbetta, si è combattuta più a fil di parole che a fil di fioretto, coinvolgendo e allargandosi anche ai ‘testimoni’ come in un bel film di cappa e spada.

    Da quanto ho percepito (ma si sa che i sensi sono ingannatori!), posso ipotizzare che, una volta partito l’incipit ‘dissacrante’ nei confronti dei ‘luoghi comuni’, è come se a Toffoli gli ‘avesse preso la mano’ la vis polemica , producendo affermazioni ‘a spaglio’ come questa :
    *Non cerchiamo alibi in Edipo o Ulisse. Fra l’altro le ancelle che Ulisse uccide avevano, fino a prova contraria, liberamente scelto di unirsi ai Proci. Ed ancora di più non mi convince il tentativo di trovare una specie di giustificazione dotta per cui: “La tragedia fa emergere un soggetto che si può sottrarre alla necessità”. In questo modo si cerca di nascondere il fatto che nella tragedia classica il soggetto è e resta dilaniato fra l’imperio del fato e il tentativo di affermare la propria libertà. Troppo facile cercare una specie di giustificazione alle scelte del soggetto che si è da sempre trovato a fare i conti con i possibili esiti tragici delle sue azioni. Non vi sono mai state vere protezioni di fronte alle scelte che la vita ti impone di fare.*
    In questo modo, non curandosi di andare a fondo – né sarebbe stato possibile in quel contesto argomentando meglio le sue affermazioni e riconoscendone la contraddizione interna -, ha lasciato lì le sementi delle sue provocazioni a boccheggiare in attesa di un qualche refrigerio.
    Perché non si può liquidare etichettandola tout court come ‘citazione dotta’ l’espressione *“La tragedia fa emergere un soggetto che si può sottrarre alla necessità”* e poi sostenere più avanti *Chi non acquisisce coscienza di questa realtà diventa o carnefice o vittima del totalitarismo del capitale […] L’unica uscita possibile è politica, si tratta di costruire una salda coscienza che consenta a ciascuno di noi di comprendere fino in fondo ciò che è in gioco senza alibi e infingimenti”*.
    Infatti mi chiedo e chiedo, come si fa ad acquisire coscienza se non attraverso un atto di riflessione anziché di ‘agiti’ (e la rappresentazione ‘tragica’ permetteva questa possibilità di identificazione/metabolizzazione)? E’ la riflessione che implica lo snodarsi dei tempi passato-presente unitamente alle conseguenze che potranno derivare al seguito della traduzione del sogno in realtà, mentre l’agito contempla solo la soddisfazione immediata e, quanto al resto, sono cavoli degli altri!
    Per tutto ciò è importante sviluppare meglio quale sia il rapporto tra immaginario e reale e le sue implicazioni. E quindi, la rappresentazione tragica, il ‘fare come se’, l’esercizio psicoanalitico, hanno il loro importante peso che oggi, purtroppo, è glissato dalle esigenze del ‘tutto e subito’. Non c’è più mistero. Questa è la pornografia.
    Ma andiamo con ordine.
    Perché, tra una stoccata e l’altra del contendere nel post in questione, passa in secondo piano (se non addirittura cancellato del tutto) quell’elemento importante (anzi, due, a dire il vero) che Barbetta aveva evidenziato, e quelli sì che si meritano 16.000 e più battute.

    Il primo attiene ad un sentire oggi scomparso, quello della vergogna, ma non per statuire se la povera Cantone l’abbia sperimentato o meno e se quello sia stato il motore della sua tragica scelta. Provare vergogna è doloroso perché ci mette di fronte, fra le altre cose, alla impotenza della irreversibilità temporale: non possiamo riavvolgere la pellicola e dare il via ad una nuova e diversa proiezione del passato. E’ un vissuto tremendo e non sempre ci si affaccia l’idea che possiamo fare un nuovo film futuro prendendo atto dell’esperienza. Soprattutto se sentiamo il vuoto attorno.
    La ‘vergogna’ è un sentimento che – sfrondato della superfetazione moralistica che vi si è incollata (quindi niente la Genesi dell’ “essere nudi e vergognarsi”), unita ad un immaginario di debolezza – può essere utile e formativo per istituire la essenza del limite, la protezione dell’intimità e del sacro, nonché per fare i conti con la nostra onnipotenza.
    Perché il principio di “Yes, y can” (e quello che succederà dopo non mi riguarda) appartiene in buona parte alla cultura di sopraffazione: nell’espressione “io posso”, il più delle volte, non viene contemplato il limite imposto dalla presenza dell’altro e dalle sue esigenze. Non c’è dunque ‘vergogna’ per aver violato altre esistenze (e, per T. Cantone, di lei stessa verso di sé), ma al suo posto si istituisce la ‘legittimazione’: perché c’è sempre un ‘motivo superiore’ a giustificare, a spiegare sia a livello individuale che sociale: le condizioni di deprivazione, la guerra umanitaria, fare certi interventi ‘a fin di bene’ (la distruzione di Hiroshima e Nagasaki per proteggere i soldati americani in guerra, a guerra quasi già finita). Ma anche allargare le braccia e dire ‘così va il mondo’!

    E l’altro aspetto, è quello che riguarda la capacità di distinguere tra reale e immaginario, impedendo che il collassare dell’immaginario dentro un reale deprivato del suo accesso al simbolico produca una tragedia ‘vera’, che non beneficia più dell’impatto riflessivo veicolato dalla sua ‘rappresentazione’.
    Questa è la vera Pornolandia. Ed essere cittadini di questa terra (come afferma il Tonto quando si esprime in termini di “cittadini di Pornolandia”) non riguarda solo la sessualità – che ne è l’aspetto fenomenico più éclatante -, ma riguarda tutte quelle manifestazioni in cui seguiamo la legge della ‘concretezza’.
    Perché significa non operare più attraverso la rappresentazione di parola (che permette l’accesso al simbolico, il quale, a sua volta, implica il riconoscimento della separazione), ma rimanere invischiati dalla rappresentazione di cosa, che ci porta ad una anatomia del reale sempre più vivisezionato (“Io ho detto”; “Tu hai detto”). L’esito ci porterebbe ad una grande confusione, paragonabile al ritenere ‘pornografia’ (anziché inquietantesuggestione in merito al mistero della vita) il celeberrimo ‘realismo’ di Courbet nel suo quadro “L’origine del mondo”.

    C’è anche un altro punto che vorrei sottolineare.
    Barbetta scrive in merito alla utilità di *saper dividere il privato dal pubblico, capacità di distinguere ciò che può essere raccontato da ciò che è vissuto, differenza tra il letterario e il reale*, mentre Toffoli, attraverso la voce del Tonto (non sono andata a controllare se è il Tonto che parla oppure no), sostiene: * Perciò chi invoca la civiltà e parla di: “saper dividere il privato dal pubblico, … distinguere ciò che può essere raccontato da ciò che è vissuto …” non fa che raccontare una favola*.

    Se osserviamo l’esperienza di questa querelle all’interno di Poliscritture, vediamo come essa ci illustri proprio questa dinamica ‘folle’, ragion per cui capiamo che è più facile teorizzare che applicare.
    Infatti vediamo:
    a) la difficoltà a contenere i propri impulsi privati, ma trovare ‘legittimo’ mostrarli senza alcuna mediazione, senza veli. (Modalità porno?)
    b) l’idea che la Verità (Assoluta) sia una cosa concreta e che quindi si può mostrare o vivisezionare come fa l’anatomopatologo (o come è successo con i vari passaggi di questo post). E che pertanto essa non debba essere sottoposta alle leggi del qui ed ora della situazione.

    R.S.

  23. DOPO LA SINGOLAR TENZONE.
    Sull’ultimo commento di Rita Simonitto (7 ottobre 2016 alle 23:40)

    Non è facile tornare «a giochi apparentemente conclusi» sulla « singolar tenzone [che], partita a proteggere l’onta (?!) subita (!) da Barbetta, si è combattuta più a fil di parole che a fil di fioretto, coinvolgendo e allargandosi anche ai ‘testimoni’ come in un bel film di cappa e spada» (Simonitto).
    Ci vorrebbe una rilettura attenta dei due articoli di Toffoli e Barbetta e dei numerosi commenti, che al momento mi è impossibile. E forse deve passare altro tempo per smaltire lo psicodramma che Poliscritture ha ospitato.
    Mi pare però necessario non perdere di vista la questione e perciò riassumo l’ultimo interessante e pacato commento di Rita Simonitto per tentare, se possibile, di ritrovare ancora il filo del confronto.

    Rita – se ho ben capito – sottolinea soprattutto la parzialità della lettura del caso Catone fatta da Toffoli. Essa – dice – « tendeva a dare maggiore centralità ad una sociologia descrittiva riguardante la manipolazione dell’informazione». Ma, se è anche giusto « sottolineare l’ambiguità del predicare bene e razzolare male» e difendere il « principio secondo cui in una società minimamente funzionante non si dà libertà senza norme», sbaglia Toffoli a dire che sia un «alibi» ricorrere, come ha fatto Barbetta nella sua analisi, alle figure della tragedia greca. Perché proprio nella tragedia troviamo spunti di riflessione per « costruire una salda coscienza che consenta a ciascuno di noi di comprendere fino in fondo ciò che è in gioco senza alibi e infingimenti» (come Toffoli stesso ha scritto). La riflessione sulle figure classiche della tragedia, dunque, può aiutare proprio ad uscire da una condizione di alienazione (il cedere alle « esigenze del ‘tutto e subito’»), in cui gli individui (come la Catone) finiscono soltanto per essere *agiti* da forze che restano oscure (fossero il «totalitarismo del capitale» o Internet).
    Rita individua poi il punto di maggior attrito (teorico) tra Toffoli e Barbetta proprio nella diversa valutazione del rapporto tra privato e pubblico:

    «Barbetta scrive in merito alla utilità di *saper dividere il privato dal pubblico, capacità di distinguere ciò che può essere raccontato da ciò che è vissuto, differenza tra il letterario e il reale*, mentre Toffoli, attraverso la voce del Tonto (non sono andata a controllare se è il Tonto che parla oppure no), sostiene: * Perciò chi invoca la civiltà e parla di: “saper dividere il privato dal pubblico, … distinguere ciò che può essere raccontato da ciò che è vissuto …” non fa che raccontare una favola*».

    La mancata discussione potrebbe forse ripartire da due punti che per Rita sono ben presenti nello scritto di Barbetta?
    Non lo so, ma provo a riassumere anche questi:

    – il venir meno di « un sentire oggi scomparso, quello della vergogna», che, depurata da inaccettabili discorsi moralistici, è un sentimento che « può essere utile e formativo per istituire la essenza del limite, la protezione dell’intimità e del sacro, nonché per fare i conti con la nostra onnipotenza»;

    – il venir meno della «capacità di distinguere tra reale e immaginario», per cui – e qui il discorso di Rita si appoggia alla psicanalisi lacaniana – non c’è più argine al « collassare dell’immaginario dentro un reale deprivato del suo accesso al simbolico» e si arriva alla « tragedia ‘vera’, che non beneficia più dell’impatto riflessivo veicolato dalla sua ‘rappresentazione’» e quindi – saltando « la rappresentazione di parola» – a Pornolandia sia in campo sessuale che nell’agire pratico individuale e collettivo ormai guidato solo dalla «legge della ‘concretezza’».

  24. Credo che col suo difficile commento Rita Simonitto ci comunichi che si possono ritrovare anche nella discussione seguita al post di Toffoli le stesse dinamiche emerse nella discussione tra Toffoli e Barbetta.
    Rita scrive: “Se osserviamo l’esperienza di questa querelle all’interno di Poliscritture, vediamo come essa ci illustri proprio questa dinamica ‘folle’, ragion per cui capiamo che è più facile teorizzare che applicare.”
    La “dinamica folle”, se ho capito bene, riguarda: 1 vergogna-intimità di contro a onnipotenza, 2 distinguere o far collassare reale e immaginario.
    1) La vergogna, scrive Rita, “unita ad un immaginario di debolezza – può essere utile e formativo per istituire la essenza del limite, la protezione dell’intimità e del sacro, nonché per fare i conti con la nostra onnipotenza.” E infatti, secondo lei, nella discussione dopo il post di Toffoli si è vista “La difficoltà a contenere i propri impulsi privati, ma trovare ‘legittimo’ mostrarli senza alcuna mediazione, senza veli”.
    2) Distinguere tra reale e immaginario, facendo intervenire la riflessione “che implica lo snodarsi dei tempi passato-presente unitamente alle conseguenze che potranno derivare al seguito della traduzione del sogno in realtà” è necessario anche per la discussione.
    Non credere che “la Verità (Assoluta) sia una cosa concreta e che quindi si può mostrare o vivisezionare come fa l’anatomopatologo (o come è successo con i vari passaggi di questo post). E che pertanto essa non debba essere sottoposta alle leggi del qui ed ora della situazione.”

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