I quaderni di Italo VI

camalli
di Italo Lo Vecchio

Oggi ho fatto un sondaggio ai pesci del mio acquario. Ho domandato loro dove pensassero di trovarsi. I pesci più giovani, quelli nati in cattività, mi hanno risposto che stanno nuotando nel rio delle Amazzoni. I pesci più vecchi, invece, quelli che hanno avuto esperienza del prima, mi hanno detto che lì si sentono un po’ stretti, e che c’è qualcosa che non va.

Cinguettii

E T

Toh, guarda un po’ chi schifa la democrazia e il popolo! @roberto saviano

“Brexit: ha vinto il Popolo.
Me lo ricordo il Popolo, nel 1938, acclamare Hitler e Mussolini a Roma affiancati insieme al balcone di Piazza Venezia. Me lo ricordo il Popolo inebriato, esaltato, per la dichiarazione di guerra. Me lo ricordo il Popolo asservito, quasi isterico, al cospetto di ogni malfattore che abbia condotto l’Europa sull’orlo del baratro. Me lo ricordo il Popolo che plaudiva quando al confino nel 1941 veniva mandato Altiero Spinelli perché antifascista. A Ventotene Spinelli, detenuto insieme a Ernesto Rossi e a Eugenio Colorni (antifascisti come lui) scrisse “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”. Quindi, a ben vedere, siamo sicuri che oggi il Popolo abbia vinto davvero?”.

Grim

Se lo ricorda lui il popolo acclamare Mussolini nel 1938, quando aveva la bellezza di -41 anni. (#LOL)

Carcarlo Pravettoni

Era un espediente retorico: si sa che vive di espedienti…

CRISTIANO0711

A lorsignoridemocratici quando il popolo si esprime contro di loro è ignorante

‏ladydd69

Lui se ricorda de qua e de là bla bla bla ma quanti ha @robertosaviano ? e l’ha mai letto il manifesto fascista di ventotene?

Mastro Armando

Ma Egli (quanti anni ha?) ha letto il “manifesto”? Se sì, l’ha capito? Ha capito ciò a cui sottende?

sil viar

Parlano per frasi fatte. In tutta EUropa girano più o meno le stesse parole… sono “dipendenti”

MBP

Bisogna togliergli il diritto di voto, al Popolo. Se no poi quello mi vota Hitler.

PoetaContadino

Non ricorda che Hitler prese potere dopo forte austerità? A me questo ricorda qualcosa.

Marianna

Il popolo britannico non era tra i sostenitori di Mussolini e Hitler, né ha mandato al confino Spinelli.

Lo For

Non è il popolo… è la democrazia, nel bene e nel male…

Burchiello

Giusto un filino retorico e paternalista. Apprezzabile anche l’inedita e originale reductio ad Hitlerum.

Nevio (com’è cominciata)

– Non si può dire che la vita sia stata tenera con Liz Taylor -, recriminava con tono contrito e occhio smelenso lo speaker tivù nel corso del tiggì della mattina, dando notizia dell’operazione chirurgica a cui si sarebbe dovuta sottoporre l’attrice a ragione d’un carcinoma-per-fortuna-benigno.

Ma tenera la vita non era stata nemmeno con Nevio Pastrengo, cassintegrato Ansaldo, che se ne stava come imbambolato davanti al televisore acceso con la lettera dello sfratto stretta in una mano, meditando d’inseguire con un tuffo carpiato, pari a quelli d’una gioventù lontana come la sua allegria riflessa nello specchio ondivago della piscina comunale, il buffo[1] d’un vento primaverile che si infilava vivace e imperioso attraverso il riquadro della finestra di cucina spalancata sui sei piani di vuoto del caseggiato popolare al trentasette di via Daniele Insorti (patriota e poeta, 1789-1848). In quei due vani con cucina Nevio viveva solitario peggio d’un eremita dal giorno in cui la moglie s’era involata con il postino del quartiere, che l’aveva sedotta colmandola di promesse raccomandate e lusinghe con ricevuta di ritorno.

Il postino era piccoletto e grassottello e pareva la brutta copia di Danny De Vito, pelata compresa, ma ad Antonia era subito apparso splendido come un dio greco e dotato d’un pedigree di tutto rispetto, anche perché di belle copie con lei quella vita, cominciata con un niente-di-speciale e trasformatasi poco a poco in un’orrenda prigione, era stata taccagna peggio d’un xeneixe[2] verace.

Sulle prime Nevio aveva tentato la carta della disfida maschile. Così, un giorno che il rivale rubacuori stava passando da quelle parti con la sua faccia da nasello bollito a recapitare bollette, solleciti di pagamento, avvisi di scoperto bancario e quant’altro rende più disgraziata la vita già disgraziata dei loro destinatari, lo affrontò spavaldamente, liberando dalla bocca macerata dall’ira tutti gli improperi e le ingiurie che gli ribollivano dentro, e con l’intento di strozzarlo l’abrinchiò[3] per la cravatta. Ma per quanto piccolo il Danny postino si rivelò d’una forza incredibile nel liberarsi dalla stretta del rivale, e quella reazione imprevista consigliò a Nevio, che in verità non era così prode come il suo gesto prometteva, di recedere dal proposito di dargli un liscia-e-bussa coi fiocchi.

Sia pure con la morte nel cuore, Nevio fu costretto ad accettare il volere (o ciò che era) della moglie, di “quéla brüta maiala” come la apostrofava ogni volta che il pensiero dell’ignobile tradimento di lei gli insidiava la mente e gli attossicava l’animo, e su tutta la faccenda si decise a mettere una pietra tombale così grande che pareva il macigno di Sisifo. E che, come quello, non mancava di ruzzolare giù dalla vetta nella solitudine delle sue notti sconsolate lunghe più d’un treno merci, con l’angoscia che gli rinserrava la gola in una morsa feroce fino a fargli graffiare l’aria con le dita adunche.

Una telefonata lo distolse dalle sue sconsiderate meditazioni. Era, ad averlo chiamato, l’amico d’una vita Onesto Parodi, anch’egli cassintegrato della tornata precedente la sua, quando l’azienda, intascati i miliardi delle sovvenzioni statali, decise d’avviare un processo di ristrutturazione, il che significava semplicemente chiudere qui e delocalizzare là (di solito in un paese a capitalismo rampante dove la manodopera è pagata una miseria) alcuni settori di punta del comparto produttivo. Mentre, per riequilibrare la fruttuosa dialettica pubblico-privato, in osservanza al sacrosanto principio della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite, la direzione pensò bene di affidare alla benevolenza dell’erario pubblico trecento esuberi, altrimenti detti lavoratori con in media vent’anni di sgobbo sulla groppa.

A Nevio la cassintegrazione era piombata addosso con la stessa furia omicida d’un tir impazzito l’anno seguente, allorché l’azienda si disfece di altri duecento esuberi, questa volta appellandosi alle cogenti necessità, invero altrettanto sacrosante, del mercato globale. Ma se il suo nome era divenuto di colpo esuberante, la sua faccia, nel leggere la lapidaria comunicazione aziendale della cassa integrazione, si smorzò invece in un’espressione funerea, anzi a dire il vero si fulminò sull’istante come una lampadina fallata.

Con tono confidenziale l’amico Parodi lo avvisava che giù al porto una cooperativa di servizi stava assumendo camalli[4] per caricare balle di aiuti umanitari su una nave in partenza il giorno successivo per la-frica (proprio così disse, la-frica, come un emigrante del secolo scorso avrebbe detto la-merica). Onesto aveva ricevuto la dritta dall’Igino nel corso del quotidiano tam-tam cassintegrati, con il quale la tribù dei prescindibili si comunicava notizie sui lavori precari-ma-utili a raggranellare un valsente purchessia che ruscellasse nella saccoccia perennemente in secca. E siccome l’amico non poteva andarci perché alle dieci e trenta aveva un appuntamento importante col dottore dell’ospedale dov’era in dialisi la moglie, che ci andasse almeno il Nevio, s’era detto in un empito di generosità a buon rendere.

– Tu cerca un tizio che si chiama Tarcisio, e digli che t’ho mandato io! – si raccomandò Onesto. Nevio non se lo fece ripetere due volte e, afferrato al volo il giubbotto jeans, si fiondò giù per le scale umide e buie, appestate fin dalla prima mattina dall’odore di verze bollite.

“Ci siamo illusi che la gente si rassegnasse a un welfare smontato a piccole dosi, un ticket in più, un asilo in meno, una coda più lunga…” (Romano Prodi, intervista a “Repubblica” del 22 giugno 2016, a cura di Michele Smargiassi). Nessun dubbio, quindi: costoro erano pienamente consapevoli di quello che facevano. Del processo che ha portato l’Italia al punto drammatico in cui si trova, niente è sfuggito loro di mano. Solo la gente, adesso, comincia a sfuggirgli di mano.

La carriera del comico Roberto Benigni è stata coerente coi presupposti politici dell’uomo Benigni. Da Berlinguer ti voglio bene a “Napolitano ti voglio bene”, non esiste alcuna discontinuità “affettiva”, nessuna contraddizione di pensiero. Benigni sintetizza il percorso PCI-PD attraverso la sua messa in scena personale. L’ontogenesi ricapitola la filogenesi, diceva il biologo tedesco Ernst Haeckel. Anche i carri armati muniti di bandiera statunitense che liberano Auschwitz del film La vita è bella sono un falso storico effettuato in coerenza col politico Benigni.

Quante code di pavone aperte a raggiera ho visto nei miei anni passeracei! Giullari col cuore in mano a trasformare i buoni sentimenti in trampolini di lancio. Ditini puntati su gracili petti a rivendicare la primogenitura dell’acqua calda. Ombelichi brizzolati a mostrare l’empatia sociale della propria inconsistenza. Velleità di nani a occultare stature di statue greche. Debitori incalliti a vantare crediti sesquipedali. Strateghi del nulla a inventarsi vittoriose Dien Bien Phu. Comparse di scena a figurarsi in ruoli amletici. Filosofi improvvisati a interrogarsi sul sesso degli angeli. Misogini a spacciarsi per filantropi. Petomani agghindati in giacca e cravatta, grinzose smandruppate imbellettate da smorfiosette, giovanotti bulimici che si fingono anoressici, sofferenti di vertigini che millantano scalate all’Everest, bigotti che smadonnano a più non posso davanti a una platea di mangiapreti, atei che s’aggirano per sacrestie in penombra indossando abiti curiali, autisti della domenica che favoleggiano di competizioni da grand prix.

I grandi latifondisti chiamano invasione l’appropriazione di terre incolte e inutilizzate da parte di famiglie contadine. I Sem Terra preferiscono parlare invece di occupazione, termine che possiede una precisa valenza politica. La stessa Costituzione brasiliana, fa notare un dirigente del Movimento, considera la terra un bene prezioso e condanna la sua inutilizzazione. Per noi, dicono gli accampamentisti, l’occupazione è lotta di resistenza contro gli sgombri brutali e violenti operati dalla polizia.

L’occupazione vera e propria dura un tempo abbastanza breve. All’insediamento originario fa seguito l’accampamento permanente, costituito da un agglomerato di baracche di plastica nera, sorta di “città” organizzata internamente, la cui popolazione oscilla tra le 500 e le 800 persone. Le tecniche usate per avviare un dialogo con il governo locale comprendono colloqui pubblici con le autorità effettuati negli accampamenti stessi, marce organizzate di centinaia di chilometri con la partecipazione di migliaia di persone e il coinvolgimento delle popolazioni dei luoghi attraversati, occupazione di edifici pubblici e innalzamento d’accampamenti provvisori nelle piazze cittadine.

L’accampamento è caratterizzato da un nucleo comprendente da una decina a una trentina di famiglie ed è dotato d’un sistema di coordinamento generale che organizza lotte, tiene contatti con la società civile, negozia con il governo e le autorità, mette in relazione tra loro i lavori dei singoli settori.

I principi fondamentali che ne regolano la vita sono la democrazia interna, la partecipazione di tutti alle decisioni, la divisione dei compiti e la direzione collettiva. Le statistiche ufficiali dicono che uno dei risultati più interessanti dell’accampamento è lo “straordinario aumento della produzione agricola” negli insediamenti.

Il posseiro

Spinto dalla siccità del Nordeste che gli fa colonizzare nuove terre su cui dopo un anno e un giorno matura il diritto a rimanere, questo contadino brasiliano è la figura madre di tutti i movimenti sociali marchiati dalla disperazione di raccolti rovinati dalla siccità a cui assiste anno dopo anno con l’impotenza del diseredato. E’ il glifo su cui scorre da sempre la storia di miseria e costernazione del Brasile. E l’angoscia riflessa nei suoi occhi è un vuoto che risucchia nelle sue viscere desolate montagne di rassegnazione, ma sono anche ondate di rabbia e sconforto che montano in modo impressionante fino ad abbattersi violente e impreviste dove capita.

Al self-service del posto di ristoro dove il bus si ferma mangiamo carne do sol, che è carne di bue parzialmente seccata e cucinata, con fagioli e riso su cui versiamo della farina gialla di manioca la cui funzione è da sempre quella di riempire un po’ di più lo stomaco. Il prezzo è stabilito dal peso del piatto contenente il cibo, che l’avventore depone su una piccola bilancia per consentire al cassiere di fare il conto.

I gallinazos, sorta d’avvoltoi appollaiati su alberi scheletrici in prossimità delle discariche, aprono pigramente le ali neri e immobili, in paziente attesa. Pozze d’acqua stagnante chiazzano di marrone il verde pallido dei campi. Qualche carcassa d’albero ancora in piedi, con i pochi rami che si dipartono dal tronco con antichi slanci di serpenti bloccati nella fissità della morte per fuoco o siccità accompagna il vagare dello sguardo sul paesaggio. L’autobus attraversa agglomerati sparsi di casupole rurali coi muri di taipa, come ha nome l’impasto di fango e acqua cui vengono mescolati piccoli sassi e colato in una intelaiatura grezza di canne di bambù. La tecnica delle case povere s’assomiglia a tutte le latitudini. Solo i nomi per definirla sono diversi: banko in Mali, adobe in Ecuador e Messico L’unica variazione è data dalla situazione climatica. Assi di legno o pareti di taipa, canne e paglia o lamiere di zinco per tetto. Le sagome tristi e vuote delle sedie di plastica fuori degli usci aperti parlano di un’attesa secolare. Alle fermate prestabilite il torpore dell’inedia viene scosso da figure di venditori minorenni di bibite, dolciumi o pannocchie di mais arrostite che emettono una loro cantilena indolente. Poi il viaggio riprende e a occuparmi è adesso la visione d’un piccolo cimitero silenzioso disseminato di vecchie croci d’un bianco accecante e ravvolto in un manto di macchie arcobaleno di fiori tropicali.

Nel Nordeste i pochi boschi esistenti hanno alberi dai rami contorti che perdono le foglie nel periodo siccitoso, il che conferisce alla vegetazione nordestina un aspetto di spettrale desolazione. Qui si trova il famoso pau brasil, albero dal legno pregiato che ha dato il nome al paese e che durante l’epoca coloniale i portoghesi hanno ridotto a rischio estinzione. Improvvisamente l’impianto dell’aria condizionata del bus smette di funzionare, e un caldo appiccicoso aggredisce corpo e mente sottoponendoli al gommoso stillicidio di minuti lunghi come secoli.

Scendiamo al terminal rodoviario di São Luis, la città-isola capitale del Maranhao, edificata dai conquistadores francesi nel 1530 – 1616 (la statua del fondatore Daniel La Touche troneggia altera nei pressi del Municipio) e dedicata al loro cristianissimo re Luigi XIII. Le oltre trenta ore di viaggio ci hanno lasciato in eredità uno sgradevolissimo scombussolamento di movenze, e senza soluzione di continuità passiamo da posture torpide e ondeggianti a improvvise speditezze nell’andare, dall’ansiosa frenesia della formica alla circospetta lentezza del ratto, come se il coordinamento dei riflessi e l’equilibrio motorio si fossero dissociati. Una fitta nuvolaglia color indaco e piombo grava sui tetti di tegole delle case quasi a volerle schiacciare, mentre da lontano Luca ci rivolge ampi gesti di saluto con le braccia a segnalare la sua presenza.

Emergiamo con cenni d’intesa dal flusso della folla e un fare colloso da dormienti dissonnati dall’impietosa luce solare. Emergiamo in questo luogo di luoghi dove il 70% delle terre appartengono al 4% di proprietari con la colpevolezza del complice e il pragmatismo della vittima, come innocenti che sanno di dannarsi l’anima e colpevoli che sperano di salvarsela. Emergiamo alla ricerca di conferme con le nostre verità in tasca da quattrosoldi destinate a venire disperse dal vento turbinoso della realtà che ci schiaffeggia il viso e penetra nelle nari con i suoi profumi dolciastri di frutti maturi.

Dopo tre anni di dominio francese, subentrò nell’isola il conquistatore olandese che ha lasciato occhi celesti e capelli crespi e biondi in corpi scuri di mulatti. Ma il degrado di molti quartieri della città vecchia, segnata dalla decadenza commerciale, testimonia che questa “Atene brasiliana” ha senz’altro avuto giorni più fulgidi. Oggi qualche segno di restauro memore degli antichi fasti fa pensare a un futuro architettonico migliore, sempreché, e la cosa non è scontata, i lavori di ripristino continuino.

Nevio (com’è finita)

Visto che la tenuta del doppio circuito M-D-M e D-M-D, l’uno facendo gioco sull’altro a seconda di tendenze e circostanze, continuava a essere a chiusura stagna anche nel tempo in cui la novità di fase si mescolava alla vecchia ratio di struttura, e considerato che in ogni caso non avrebbe cavato il ragno salariale da quel buco nero di dignità e ideali, Nevio si rassettò con calma i vestiti e se ne andò esibendo a bella posta un passo bighellone e canticchiando Bandiera rossa sulle note di ‘A lanterna. Ma lasciato il molo e sbollita la rabbia, il cassintegrato fu aggredito da una tristezza senza fondo, che prese a montare con una velocità impressionante al pensiero di ritornare nel due stanze e cucina tetro e deserto in cui era ad attenderlo il senso di frustrazione e d’angoscia che s’era messo a governare la sua vita.

Allora, nel frattempo s’era fatto mezzogiorno, decise di tentare con la mensa dei poveri di via Bonomi organizzata dalla Ong d’orientamento cattolico Da Nord A Sud dove lavorava Salvatore, il vecchio amico Salvatore, l’emigrato Salvatore che aveva saputo trasformare la sua malandata valigia di cartone tenuta stretta dallo spago in un ufficio superlusso accessoriato con stampante fax computer scanner poltrona girevole di cuoio nero e scrivania di mogano, ricavato nei locali della curia.

Appena scorse il viso dell’amico affacciarsi alla porta a vetri della sala-mensa, Salvatore gli andò incontro e, tirandolo per la manica in direzione contraria al paiolo di minestrone fumante che un addetto stava distribuendo nell’affannoso trottare dietro le acquoline di quelle facce lunghe come la quaresima, esclamò: – Caaaro Neeevio, è la Provvidenza che ti manda! Che ne diresti di darci una mano? Vedi, proprio quest’oggi un nostro socio s’è ammalato, per cui avremmo bisogno d’uno in gamba come te che prenda momentaneamente il suo posto…

– Spara prima la cifra -, ribatté Nevio con prammatica freddezza, cominciando a intravedere un modo per rifarsi dopo la brutta disavventura giù al porto.

– Sai che don Italo, proprio per l’attività non lucrativa e d’utilità sociale svolta dalla nostra Ong, è contrario a retribuire il lavoro volontario. Ma per te sono pronto a fare un’eccezione: oltre ai santini che il nostro don suole dare come ricompensa spirituale, t’aggiungerò di mia iniziativa quindicimila lire. Si tratta d’un lavoretto che t’impegnerà due, tre ore al massimo…

– Come paga non è granché nemmeno per pascere lo spirito, figurati poi per riempire la pancia… ma tant’è… Andata. Occhei, ci sto -, fece Nevio dopo breve riflessione, dandosi una manata sulla coscia per suggellare l’accordo.

Pareva che i piatti da lavare non finissero mai e che quelle bocche fameliche si moltiplicassero alla velocità della recessione che stava strangolando il paese. Le pile crescevano a vista d’occhio, ed erano talmente alte da gareggiare con successo con la torre di Pisa. E come la torre di Pisa nei sogni dei malevoli cugini lucchesi, una pila già sbilenca di piatti appena lavati, a una mossa malaccorta di Nevio rovinò a terra con fragore di bomba, facendo volare tutto intorno schegge di terraglia grossolana. Senza che il reo di quel disastro se ne potesse accorgere, per una manciata di secondi la faccia arcigna di Salvatore, richiamata da tutto quel fracasso, si ritagliò inquisitrice nello spiraglio d’una porta posta di rimpetto alla cucina e, nel constatare il danno, crollò ostensibilmente il capo in segno di biasimo prima d’esclissarsi dietro la porta richiusa.

Dopo aver rigovernato e spazzato per terra, Nevio ritenne fosse arrivato il momento di riscuotere il compenso pattuito, ma siccome Salvatore non si decideva a farsi vivo, ostaggio dei limacciosi misteri del labirinto di stanze e corridoi della curia da cui di tanto in tanto sgattaiolavano fino alla cucina flebili risatine femminili, s’incamminò lungo il corridoio avvolto nella penombra fino ad arrestarsi davanti alla porta recante la targa: Direzione. Al suo bussare, dall’interno la voce di don Italo propruppe in uno squillante “Avanti!”. Sbrigato il formale “compermesso”, Nevio si ritrovò a sostenere l’esame di due occhi sottili come feritoie d’un bunker che lo squadravano dalla testa ai piedi appollaiati sotto le sopracciglia cespugliose.

Incoraggiato dalla smorfia d’un sorriso che lui interpretò come benevolo disegnatasi sul viso florido e rasato del prete, che tuttavia non mancava d’esibire una certa espressione circospetta, Nevio saltò convenevoli e salamelecchi e andò direttamente al sodo, magnificò il lavoro eseguito e la cura proffertavi (naturalmente sorvolando sullo spiacevole incidente dei piatti), e, superata l’esitazione sotto il pungolo dell’impellente bisogno, menzionò da ultimo, tutto d’un fiato, la promessa rimunerativa fattagli dell’amico Salvatore.

– Caro figliolo -, gli rispose affabilmente don Italo -, noi ti siamo grati dal profondo del cuore per il lavoro che hai svolto. Ma i soldi che tu ci chiedi a compenso ci servono per aiutare i nostri fratelli bisognosi, i quali, come oggi hai avuto modo di constatare, sono tanti e crescono ogni giorno di più.

Al che Nevio si provò a ribattere che anche lui un Rockfeller proprio non era e che mai in vita sua aveva camminato sui marenghi, che il lavoro fatto per la comunità andava riconosciuto in giusti termini economici, che moralmente solidarizzava con la povera gente, ma che lui però su quei soldi ci contava proprio…

Un lampo d’irritazione sfavillò negli occhi del prete, mentre orecchie e gote si chiazzavano di rosso. Poi una voce baritonale e piccata calò su Nevio con la forza d’una mannaia:

– Figliolo, io ti parlo del nobile precetto evangelico d’aiutare il povero e tu mi rispondi con volgari parole mercantili come denaro, retribuzione, valore economico! Non sei dunque lieto di aver dato il tuo piccolo contributo a favore della nostra comunità? Inoltre – soggiunse don Italo, protendendo verso di lui il corpo massiccio morbidamente sprofondato in un’enorme poltrona di nappa nera -, ho saputo che giù in cucina hai fatto cadere a terra una grossa pila di piatti, rompendoli tutti… sì, so che non l’hai fatto apposta, ma a ogni buon conto con la tua sbadataggine ci hai procurato un danno di svariate migliaia di lire che, te lo dico a titolo puramente informativo, se dovessi rifondere non ti basterebbe una… ma che dico una… ti ci vorrebbero perlomeno tre giornate di lavoro.

Restio a dimettere ogni pensiero di remunerazione, quantunque dimidiata e ridotta al moccolo, Nevio si provò ad accentuare la sua aria da abelinà[5] che lo seguiva fedele come un cagnolino ovunque andasse e cercò nel contempo di aggrapparsi al salvagente della sua vita grama degna d’un personaggio verghiano, levando alta una babele di ragioni in cui la sua infelice condizione di cassintegrato faceva da sponda all’abbandono della moglie fedifraga e si rinterzava nella lettera di sfratto di quel cerbero del padrone di casa, e il viluppo di disgrazie e soprusi da lui patito era talmente intricato che solo gli occhi affilati come un rasoio di don Italo poterono recidere di netto, mentre la plateale smorfia di fastidio che si stampò sulla faccia del prete provvide a silenziare definitivamente le lamentele di Nevio.

– Figliolo, il lavoro è un bene -, rispose don Italo, e la voce gli si gonfiò altera, dilatandosi su più livelli di commiserazione illuminati dalle pupille fiammeggianti -, è il bene più prezioso tra quelli che l’uomo può donare al suo prossimo, e guai, guai io dico, a colui che svilisce questa nobile attività umana riducendola a un meschino valore commerciale! Ma io temo, figliolo – proseguì il don con un tono scolpito nel marmo dell’amarezza che non ammetteva repliche di sorta -, temo proprio che il materialismo ti stia ottenebrando la mente, e t’induca a dimenticare la carità cristiana. Dio non voglia che tu possa cadere in questo peccato – soggiunse il sacerdote con voce ritornata benigna, facendo guizzare dinanzi agli occhi del tapino un baluginio di speranza, perciò ravvediti finché sei ancora in tempo, figliolo, e sii in pace con te stesso. Sappi che noi ti saremo sempre grati per esserti messo al servizio delle anime bisognose della nostra comunità.

Levatosi in piedi, don Italo agguantò Nevio per un braccio, mormorò “Vai dunque in pace, figliolo”, e lo spinse bruscamente fuori della porta, che richiuse con un colpo secco e definitivo, senza che il tribolato in tutta questa vicissitudine ci avesse ricavato, che so, nemmeno un santino, e non dico uno di pregio come può essere un san Giuseppe o un san Francesco, ma uno qualunque, magari anche l’ultimo della combriccola, uno stralunato san Carneade da infilare come segnalibro tra le pagine di giorni grigi e repellenti come topi.

La carezzevole brezza serale che s’insinuava nella cucina dalla finestra spalancata sull’oscurità dei sei piani sottostanti trovò Nevio accasciato su una sedia con gli occhi invetrati sullo schermo televisivo, a fissare senza vederle le acrobazie vagamente cellulitiche della show-girl di successo, mentre la nera ala d’una domanda bizzarra gli frullava insistente nella testa: – Chissà dove mi porterà questo gentile vento di levante, se a lui m’affido?

Celso, su twitter (6/8/2016)

“Bianca Berlinguer faceva un tg corsaro. Addirittura. Mi era sfuggito”.

barbara t. lameduck, su twitter (6/8/2016)

“Celebrano le Olimpiadi dopo aver distrutto la Grecia”.

Note

[1]    Soffio

[2]    Genovese

[3]    Agguantò

[4]          Scaricatori di porto.

[5]             Da stupido.

8 pensieri su “I quaderni di Italo VI

  1. È il lavoro, tra rapide occhiate all’oggi, che fa sulla memoria ad interessarmi in questi Quaderni di Lo Veccho. Partecipo con simpatia ai resoconti meditati dei suoi viaggi in America Latina. E un po’ l’invidio perché parla da viaggiatore di terre – ad esempio il Nordeste del Brasile (« i pochi boschi esistenti hanno alberi dai rami contorti che perdono le foglie nel periodo siccitoso, il che conferisce alla vegetazione nordestina un aspetto di spettrale desolazione») – che lui ha visto, mentre io ne ho sentito parlare solo nei libri. Ricordo – preparato per l’esame di *geografia umana* con Lucio Gambi alla Statale di Milano «Una zona esplosiva: il Nordeste del Brasile» uscito dalla Einaudi proprio nel 1968, quando « le nostre verità in tasca da quattro soldi destinate a venire disperse dal vento turbinoso della realtà» ancora non ci aveva schiaffeggiato il viso.
    Ammiro poi questa capacità di fare un montaggio di realtà distanti per sottolineare possibili analogie e differenze. Ad esempio tra povertà metropolitana e povertà ancora legata al mondo agricolo. E così seguo le vicende del povero «Nevio Pastrengo, cassitengrato Ansaldo» alle prese con figure squallide come «l’emigrato Salvatore che aveva saputo trasformare la sua malandata valigia di cartone tenuta stretta dallo spago in un ufficio superlusso accessoriato con stampante fax computer scanner poltrona girevole di cuoio nero e scrivania di mogano, ricavato nei locali della curia» e il prete buonista che gestisce e contrappone bisognosi in ascolto del «quotidiano tam-tam cassintegrati» e bisognosi «nostri fratelli». E l’accosto alla povertà dei Sem Terra, ancora non sfilacciata, capace di regolarsi secondo i “superati” (da noi) principi della democrazia interna, della partecipazione di tutti alle decisioni, dela divisione dei compiti e della direzione collettiva».
    Le occhiate sull’oggi degli arrivati (Saviano, Prodi, Benigni, la Berlinguer) non fanno che richiamarmi un ’68 ormai imbalsamato e da irridere:
    « Quante code di pavone aperte a raggiera ho visto nei miei anni passeracei! Giullari col cuore in mano a trasformare i buoni sentimenti in trampolini di lancio. Ditini puntati su gracili petti a rivendicare la primogenitura dell’acqua calda. Ombelichi brizzolati a mostrare l’empatia sociale della propria inconsistenza. Velleità di nani a occultare stature di statue greche. Debitori incalliti a vantare crediti sesquipedali. Strateghi del nulla a inventarsi vittoriose Dien Bien Phu. Comparse di scena a figurarsi in ruoli amletici. Filosofi improvvisati a interrogarsi sul sesso degli angeli. Misogini a spacciarsi per filantropi. Petomani agghindati in giacca e cravatta, grinzose smandruppate imbellettate da smorfiosette, giovanotti bulimici che si fingono anoressici, sofferenti di vertigini che millantano scalate all’Everest, bigotti che smadonnano a più non posso davanti a una platea di mangiapreti, atei che s’aggirano per sacrestie in penombra indossando abiti curiali, autisti della domenica che favoleggiano di competizioni da grand prix».

  2. …anche a me piace molto questo modo di scrivere di Italo Lo Vecchio, che in un primo momento può disorientare per il puzzle movimentato di stili e di contenuti, che vanno dalla satira teatrale al diario di viaggio nel paesaggio ambientale e umano nel Nordeste brasiliano, al racconto tragicomico delle vicende di quasi sopravvivenza di un povero cristo nostrano, alle riflessioni amare, ma sempre espresse con umorismo, sulla realtà politica e sociale contemporanea…Un viaggio nel tempo e nello spazio, non proprio da turisti vacanzieri…In queste pagine mi colpisce l’accostamento di due situazioni di povertà e precarietà: quella dei contadini brasiliani che in massa abbandonano le campagne aride per insediarsi in nuove terre abbandonate da coltivare e la loro assoluta solidarietà e compattezza organizzativa e quella di assoluto isolamento nel mondo dei camalli cassintegrati di Genova, dove l’individualismo anche di chi fu povero o lo è ancora, ma soprattutto dei sepolcri imbiancati delle organizzazioni cosi dette benefiche, non sa allungare una mano a chi, come Nevio, vive in bilico sull’orlo del suo sesto piano…La ricchezza, ma anche solo il suo miraggio, divide…

  3. Gli accostamenti di cui parlate mi sono venuti abbastanza spontanei. Leggendo però i commenti mi è ora chiaro il filo rosso che li unisce. Cosa sarebbe, mi chiedo, un testo senza il suo commentario?

  4. Letto alle ore 5:20.
    Nato nel segno dei pesci.
    Sì, di quelli che credono di stare nel rio delle Amazzoni.
    Un buon lavoro. Ci tenevo a dirglielo.
    Grazie

  5. *Oggi ho fatto un sondaggio ai pesci del mio acquario. Ho domandato loro dove pensassero di trovarsi. I pesci più giovani, quelli nati in cattività, mi hanno risposto che stanno nuotando nel rio delle Amazzoni. I pesci più vecchi, invece, quelli che hanno avuto esperienza del prima, mi hanno detto che lì si sentono un po’ stretti, e che c’è qualcosa che non va*. (Italo Lo Vecchio)

    Questo drammatico (e denso) incipit di Italo Lo Vecchio si dilata e si sviluppa attraverso flash ‘minimalisti’ unitamente a due narrazioni, storie di vita del Nordest brasiliano e del Nord italiano. Speranza, fatica e speranza; speranza, delusione e ‘tuffi carpiati’.
    I ‘cinguettii’ di inframmezzo dovrebbero gettare lampi di luce con effetto fotovoltaico, capaci di imprimere quella energia necessaria, non dico a produrre cambiamenti, ma ripensamenti. E rivisitazioni anche su quelle ‘verità’ che si sono bevute perché era l’unica acqua possibile a diluire le sofferenze.
    *A Ventotene Spinelli, detenuto insieme a Ernesto Rossi e a Eugenio Colorni (antifascisti come lui) scrisse “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”* (I. Lo Vecchio).
    Ma come stavano veramente le cose? Quali altri ‘patti’ costituirono quei ‘padri’?

    Ecco dunque l’esigenza di un altro sondaggio:
    a) Come faranno i pesci che hanno avuto esperienza del ‘prima’ a trasmettere quella esperienza a chi è venuto dopo, separando il grano dal loglio, ovvero lasciando da parte la pur comprensibile delusione per i tradimenti patiti e far sì che i cosiddetti fatti parlino ‘da soli’?
    *“Ci siamo illusi che la gente si rassegnasse a un welfare smontato a piccole dosi, un ticket in più, un asilo in meno, una coda più lunga…” (Romano Prodi, intervista a “Repubblica” del 22 giugno 2016, a cura di Michele Smargiassi). Nessun dubbio, quindi: costoro erano pienamente consapevoli di quello che facevano. Del processo che ha portato l’Italia al punto drammatico in cui si trova, niente è sfuggito loro di mano. Solo la gente, adesso, comincia a sfuggirgli di mano* (I. Lo Vecchio).

    b) L’arte – per sua natura ambigua, che svela e nasconde – che posto ha per veicolare quei messaggi che dovrebbero avere l’effetto di una luce che illumina? E che forza ha quando c’è la strega cattiva dell’arte che avvelena i pozzi?
    * La carriera del comico Roberto Benigni è stata coerente coi presupposti politici dell’uomo Benigni. Da Berlinguer ti voglio bene a “Napolitano ti voglio bene”, non esiste alcuna discontinuità “affettiva”, nessuna contraddizione di pensiero. Benigni sintetizza il percorso PCI-PD attraverso la sua messa in scena personale. L’ontogenesi ricapitola la filogenesi, diceva il biologo tedesco Ernst Haeckel. Anche i carri armati muniti di bandiera statunitense che liberano Auschwitz del film La vita è bella sono un falso storico effettuato in coerenza col politico Benigni.* (Italo Lo Vecchio).
    Quando, sotto l’egida (?) dell’arte vengono falsati i fatti storici, che fare? E’ sufficiente appoggiarci alla ‘bruttezza’ del film, come è altrettanto brutto e falso il film “La meglio gioventù”?

    c) Vale la pena intraprendere tutto questo lavoro oppure si farà chiarezza quando la beatitudine dell’acquario verrà sconvolta da tsunami più o meno devastanti e il cui esito non può essere prevedibile? “Ai posteri l’ardua sentenza”?

    A chiusa, trovo interessante (e degno di ulteriori riflessioni) il parallelo che viene spontaneo fare fra un punto particolare delle due narrazioni, un punto che attiene al disagio e alla necessità.
    Riguardo ai Sem Terra è basilare la distinzione tra ‘invasione’ e ‘occupazione’: quest’ultima è finalizzata a rendere fertile una terra.
    Di contro, abbiamo il personaggio di Salvatore (e quanti altri con lui!), che *aveva saputo trasformare la sua malandata valigia di cartone tenuta stretta dallo spago in un ufficio superlusso accessoriato con stampante fax computer scanner poltrona girevole di cuoio nero e scrivania di mogano, ricavato nei locali della curia*.

    R.S.

  6. Italo lo Vecchio intavola conversazioni con un lettore selezionatissimo, che ha le stesse conoscenze storiche, la stessa biografia sociologica, la stessa raffinatezza di gusto: sa apprezzare rimandi sottili -realistici, storici- sotto una forma narrativa anodina, paratattica: i singoli sintagmi della narrazione sono accostati senza introdurre i meccanismi costruttivi e connettivi del riconoscimento e autoriconoscimento, i conflitti, i ravvedimenti. La successione dei moduli “pensiero-ricordi” da Italo Lo Vecchio è accostata, non c’è montaggio in un intreccio. E’ questo sforzo narrativo di uscire dai percorsi riconosciuti ciò che apprezzo di più nei suoi racconti letti su Poliscritture, come in Amore per le diagnosi e poesia di Donato Salzarulo, e in un paio di racconti, di Roberto Renna e di Testori, che si potranno leggere nel prossimo numero 12 di Poliscritture.
    Apprezzo anche il commento di Rita Simonitto che, narratrice lei stessa, sollecita Lo Vecchio sul rapporto tra letteratura e i “pesci nell’acquario”, sull’arte e la falsità storica, sulla considerazione spassionata che lo scrittore si fa degli esseri umani. Per interrogare poi sul valore da dare alla letteratura (“Vale la pena intraprendere tutto questo lavoro oppure si farà chiarezza quando la beatitudine dell’acquario verrà sconvolta da tsunami più o meno devastanti e il cui esito non può essere prevedibile? ‘Ai posteri l’ardua sentenza’?”) tutti noi, perché siamo probabilmente nella parte dei pesci.

  7. @ Rita Simonitto (se ancora legge)
    grazie per la riflessione. Due cose mi sento di dire. Relativamente al punto a):
    “Come faranno i pesci che hanno avuto esperienza del ‘prima’ a trasmettere quella esperienza a chi è venuto dopo, separando il grano dal loglio, ovvero lasciando da parte la pur comprensibile delusione per i tradimenti patiti e far sì che i cosiddetti fatti parlino ‘da soli’?”.
    Non riescono più a trasmettere, i pesci che hanno avuto esperienza del ‘prima’, alcuna esperienza a quelli del ‘dopo’. Due mondi, a compartimenti stagni, incomunicabili. Ci vorrebbe, forse, lo tsunami di cui parli, a mescolare acqua e terra, con la forza propria del cataclisma.
    Punto b): sull’arte:
    Che fare? Per ora rimane la denuncia dell'”arte” che mistifica i fatti storici. Ma non so se quella sia davvero arte. Semmai, ideologia. Però dire cos’è l’arte è impresa ardua, e malgrado millenni di espressioni artistiche, l’uomo non s’è ancora chiarito le idee. Meglio così, forse. Che gusto ci sarebbe fare arte sapendo cosa l’arte sia veramente?
    @ Cristiana Fischer (se ancora legge, come sopra),
    è vero. Penso al lettore come a un mio doppio. Ce n’è sempre di meno, di doppi, in giro, e talvolta mi sembra d’essere in un deserto. Però poi mi dico: be’, in un deserto proprio no, dài, ci sono i lettori di “Poliscritture”.

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