La più bella Costituzione del mondo è tragicamente obsoleta?

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DIALOGANDO CON IL TONTO  (6)13

di Giulio Toffoli

Il cielo è grigio e non promette nulla di buono ma è sabato e nelle cittadine di provincia il sabato è spesso giorno di mercato. Un’occasione che non ci si può far scappare. E’ quasi un imperativo morale andare in centro e vedere cosa viene messo in vendita sulle bancarelle, sempre che il mio spirito di consumatore non venga messo in discussione da un qualche incontro, di quelli di prammatica che si verificano regolarmente in una delle tre piazze principali della città.
Ho appena comprato un poco di frutta e sono alle prese con le cianfrusaglie a 1 euro, una vera e propria delizia per il consumista compulsivo, che vedo accanto a me profilarsi l’ombra del Tonto.
Non gli chiedo neanche quali siano i motivi che lo spingono a girellare fra le bancarelle perché mi precede con un: “Cercavo proprio te …”
“Suvvia – gli rispondo – qual buon vento. Non mi dirai che sei uscito di casa senza il portafoglio …”
“Ma …, ora che me lo fai notare – afferma sornione – in effetti sono a corto di carta moneta, ma il motivo non è così venale. – infatti tira fuori di tasca un foglietto rosa-salmonato che identifico come la tessera elettorale, e aggiunge – L’ho trovata fra le vecchie carte e mi ha fatto pensare alle passate e alle prossime elezioni …”
Ci allontaniamo dalla ressa, un mare di donne vestite con abiti di tutti i colori che son lì che assaltano letteralmente le scatole con la merce messe su tavolini più o meno traballanti come un vero suk, e ci avviamo verso il bar Impero, un nome che è tutta una garanzia.

Chiediamo il solito succo di frutta e poi il Tonto inizia a dirmi:
“Sai, ho guardato questa tessera e ho provato una brutta sensazione. Il primo timbro è del maggio 2001 e l’ultimo quello del referendum sulle trivelle di qualche mese fa. Insomma quindici anni di vita. Quale il risultato? Non ricordo quasi nulla, tutto mi sembra passato come l’acqua nel fiume, uno scorrere infinito e senza senso. La cosa più sgradevole è che quelle date non hanno segnato nulla di veramente significativo nella vita di questo paese. Avrei ben potuto andare al mare. Niente è mutato nella morta gora della politica se non la sensazione di essere vittima di un impercettibile ma continuo processo che può essere a suo modo paragonato alla deriva dei continenti. Ci siamo allontanati sempre di più dal continente cittadinanza per finire nel continente consumatore attraverso un processo di crescente reificazione e perdita dell’identità sociale. Questo referendum costituzionale sembra costituire una specie di sanzione ultima. Lo vivo, con il suo voto ultimativo, nella forma di un sì o un no su quasi un terzo degli articoli della Costituzione del 1948, come un tornante, una svolta nella vita di questo paese. Certo ci sarà chi mi risponderà, forse non a torto, che non cambierà nulla. Come per la Costituzione ancora in vigore gran parte della sua lettera è rimasta inapplicata per decenni, così, se passerà, la nuova versione diventerà terreno per una infinita diatriba che segnerà i prossimi anni. Tu che ne pensi?”

“Certo quello che fai non è una bel consuntivo per un periodo piuttosto importante della nostra vita. D’altronde non sei l’unico ad avere la sensazione che qualche cosa ci sia stato, come dire, rubato.
Mi dici, quindici anni perduti? Forse no, bisogna essere più radicali e fare ancora un passo indietro verso gli anni ottanta. E’ lì, fra la metà degli anni ottanta e i primi anni del decennio successivo, che si consolidano le strategie politiche di lungo corso che hanno come esito quello che tu hai descritto …”.
“In che senso? – mi chiede il Tonto sgranando gli occhi – So che hai una passione per la storia ma non è che andiamo troppo indietro? Infondo gli anni ottanta erano un’altra cosa … C’era ancora Berlinguer, il dibattito politico era intenso, i partiti sembravano realtà vive”.

“Un periodo vivo, mi dici, ma segnato, vedo che non lo rammenti, dalla presenza ingombrante di Bettino Craxi, l’uomo che per primo ha fatto proprio il tema della governabilità, attraverso l’uso di un modello politico che fu allora chiamato del “decisionismo”, nei fatti caratterizzato dall’emarginazione di tutti coloro che dissentivano. Si trattava di dar vita a un sistema di gestione della cosa pubblica basato sul primato del leader come interprete della voce profonda del paese, liberando così la politica dagli orpelli delle discussioni e dalla protesta sociale viste come un perdita di tempo. Craxi si è proposto come interprete autentico della voce del popolo, un poco alla Luigi Napoleone o, se vuoi, più italianamente alla Crispi, finendo come lo statista siciliano invischiato in un tragico gioco di corruzione e malversazione”
“Come non ricordarlo? Il Craxi in camicia nera e stivaloni, disegnato da Forattini, quasi una reincarnazione del maestro di Predappio”.

“In questo modo mi rendo conto di correre il rischio di portarti fuori strada. Forse è più semplice se mi fai delle domande a cui cercherò di risponderti, così non perdiamo il filo … visto che il tema è tanto intricato che a confronto muoversi all’interno del Labirinto doveva essere stato per Teseo un gioco da ragazzi”.
“Il primo argomento potrebbe essere – mi dice il Tonto – il problema del bicameralismo perfetto e della opinione ampiamente condivisa che sia un orpello che fa perdere tempo e non favorisce, cavolo eccomi che riprendo la parola che hai già condannato, la governabilità”.

“Siamo qui a un tavolino di un bar e dialoghiamo liberamente perciò senza pretesa di verità e di sapienza costituzionale, di cui fra l’altro è piena una carrettata di libercoli scritti per l’occasione e che lasciano il tempo che trovano. Fra due mesi saranno da macerare …
Ciò nonostante qualche cosa dobbiamo pur dirlo. Quella del 1948 era una Costituzione rigida, congegnata in modo che non potesse essere modificata, se non per quel tanto che riguardava gli inevitabili aggiustamenti che il tempo impone ad ogni documento umano che abbia come tema la definizione dei modelli di comportamento sociale. Già qui ci si potrebbe chiedere come sia possibile che gli stessi che spesso sbavano esaltando la costituzione degli USA, vecchia di 200 e passa anni, poi attacchino a testa bassa quella italiana, che di anni ne ha molti ma molti di meno. Ma lasciamo andare; e aggiungiamo che la Costituzione del 1948 è nata come esito di un ampio compromesso politico e si basava su due principi che mi paiono fondamentali e senza i quali parlare di democrazia è un puro esercizio autoreferenziale. Il primo è: una testa un voto, ovvero la proporzionalità degli eletti come fondamento del gioco democratico. Il secondo: la creazione di una serie di contrappesi fra i poteri, in modo da limitare il potere della maggioranza e creare uno spazio per una dialettica politica che potesse esprimersi nel gioco delle alternanze. Col senno di poi, sappiamo che si trattava di un principio ampiamente aleatorio, visto che l’Italia aveva – e ho paura abbia anche ora – una sovranità ampiamente limitata, ma dal punto di vista della forma le cose stavano così. Dagli anni ottanta questi due principi sono stati costantemente attaccati. La finalità era di affermare l’onnipotenza dell’esecutivo e più chiaramente di un governo svincolato il più possibile da una verifica del suo potere dal basso. Se si vuole, il governo Renzi ne è l’incarnazione ultima. Renzi è stato “nominato”, ma non ha alcuna delega popolare, il suo governo è costituito da persone scelte fra la sua “clientela”; e per ciò che concerne la personalizzazione dell’agire politico meglio non parlare … Insomma la riforma che entrerà in vigore, se vinceranno i sì, ha alle spalle una lunga storia. E’ figlia di una strisciante svolta autoritaria che ha contraddistinto la storia di questo paese negli ultimi trentacinque anni”.

“Per cui tu saresti favorevole a lasciare tutto come sta oggi? Non ti pare che si siano evidenziate nei decenni manchevolezze che andrebbero sanate?”
“Non faccio parte – gli rispondo – di coloro che credono che un documento pur importante come la Costituzione debba essere considerato inalterabile. L’umanità occidentale ha lottato per secoli, e abbiamo i nostri martiri laici, per dimostrare che la Bibbia altro non era se non un prodotto della mano umana e perciò del tutto paragonabile a ogni altro scritto con i suoi errori e le sue imperfezioni; vuoi che mi metta fra quelli che si beano della “Costituzione più bella del mondo”? Si può fare ogni cosa, il problema è capire quale è lo spirito politico che presiede una riforma.
Si sarebbero potuti ridurre proporzionalmente gli eletti delle due camere.
Si sarebbe potuta eliminare una delle due camere.
Si poteva far tutto.
Ciò che stupisce, ma forse non più di tanto, è il pastrocchio che è stato realizzato. Un senato che è una cosa posticcia, una specie di pupazzo che d’un lato è privo di legittimità popolare e dall’altro conserva una serie di funzioni complesse che possono a loro modo intralciare i lavori del parlamento rinnovato.
Tutto il discorso che stiamo facendo sulla modificazione delle strutture delle camere ha senso solo se lo si unisce a quello che viene chiamato il “combinato disposto”, ovvero il nuovo sistema di votazione basato su un maggioritario con ampio premio di maggioranza”.

“Chiarisci questo punto – mi dice il Tonto che sembra un poco frastornato – perché sta diventando un discorso sempre più contorto …”.
“Insomma in Italia da quasi trent’anni, tramite modificazioni della legge elettorale, si è venuto consolidando un sistema per cui nei fatti noi non eleggiamo se non dei nominati, ovvero individui già scelti preventivamente dalle segreterie dei partiti. Con il superamento del proporzionale si è passati all’uninominale, al “mattarellum” e poi al “porcellum”. Sostanzialmente giochi di ingegneria elettorale che hanno avuto un’unica finalità: togliere al cittadino quella sovranità che dovrebbe essere la pietra angolare della nostra repubblica. Infatti una repubblica, almeno a mio vedere, può davvero dirsi democratica solo se vige un principio di rappresentanza tale da garantire un’effettiva sovranità dell’elettore. Ora qualcuno potrebbe dirmi che anche nei decenni in cui è stato in vigore il sistema proporzionale i partiti la facevano da padroni. Può darsi, ma certamente dopo il 1990 la situazione è mutata in modo drastico e il cittadino è stato sostanzialmente privato della sua funzione di arbitro della politica di questo paese”.

“Perciò chi vince le elezioni cosa può fare? Questo è un punto importante da chiarire”.
“Chi vince le elezioni – gli faccio notare – anche con una sparuta percentuale nei fatti si trova padrone del banco, con una solida maggioranza di eletti. Poiché gli eletti sono stati scelti dal leader e dai suoi sodali nei fatti può governare senza avere rivali. Ovviamente escluse faide interne, ma questo è altro paio di maniche”.

“Fin qui sembrerebbe un usuale gioco politico come quello che si verifica negli altri stati europei, che si autodefiniscono democratici. Non dirmi che c’è un frutto avvelenato nascosto …”.
“Sì, in effetti c’è qualche cosa di più …Tramite questa solida maggioranza il leader di turno può di fatto controllare ancora di più di quanto faccia oggi gran parte del sistema: i cosiddetti altri poteri sono nelle sue mani. Può far eleggere il Presidente della Repubblica a suo piacimento e le altre cariche dello stato secondo il suo volere, Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura ecc. Insomma, si viene abbozzando un regime dominato da una leadership forte di tipo autoritario-carismatico.

Cose già viste in questo paese e che nel complesso non hanno dato buoni frutti”.
“Certo – aggiunge il Tonto che sta finendo la sua bibita – il quadro che disegni non è fra i più rassicuranti … Quali sono le altre modifiche che si realizzeranno con l’approvazione del referendum? Non dirmi che tutto è negativo …”.
“No! – mi permetto di aggiungere – Non si tratta di essere pregiudizialmente contrari alla riforma, ma di valutarla nel concreto. L’abolizione delle provincie è cosa utile, ma anche qui si trattata di capire come viene realizzata. L’abolizione del CNEL è cosa utile. Il ridisegno delle competenze regionali può essere utile, se non diventa una pura ripresa del centralismo contrapposto a un precedente eccessivo localismo. A mio vedere il problema delle regioni è talmente grande e complesso che non è la Costituzione, pur rinnovata, che può risolverlo. Altre norme possono essere positive e se sarà il caso ne parleremo ancora ma ciò che non mi convince, penso di avertelo fatto capire, è lo spirito complessivo di questa riforma. Sotto le mentite spoglie di un rinnovamento ormai improrogabile viene smerciata una ben precisa scelta politica che trasforma la democrazia in una tecnocrazia che parte dal presupposto che gli “istituti della democrazia non sono compatibili con la competizione globale e la guerra permanente” e i conflitti sociali sono visti come insopportabili intralci per il progresso, la produttività, la concorrenza e alla fin fine ciò che davvero conta: il profitto”.

“Insomma – aggiunge il Tonto che sta guardando intensamente il fondo del suo bicchiere – se devo tener conto delle tue parole ci troveremmo di fronte a una vera e propria involuzione istituzionale. Quella che reggerà lo stato italiano dopo il 4 dicembre 2016 sarà un’altra Costituzione sostanzialmente diversa rispetto a quella del 1948.
Un certo sentore di questa cosa l’ho avuta anch’io, infatti mi sono chiesto se sia sensato far votare il popolo su un pacchetto di modifiche così variegato e complesso. Da tempo ho la sensazione che l’istituto del referendum non funzioni più. La gente non capisce i quesiti, non è interessata ed è sempre più demotivata. Se vince chi è contrario alle misure volute dal governo non ottiene mai soddisfazione, perché in un modo o nell’altro chi detiene il potere fa alla fine quello che vuole. Insomma, ci troviamo di fronte a una casta di politici, fra l’altro dilatata oltre misura, che punta soprattutto a perpetuare se stessa e il suo potere. Quando si tratta dei referendum si citano sempre i tempi del divorzio e dell’aborto, ma si tratta di una pagina storica chiusa. Tutto è mutato e fra l’altro erano temi chiari, semplici e che la gente comprendeva vivendone il senso sulla propria pelle.
Mi chiedo quanti fra quelli che voteranno avranno ben capito quello che è in gioco …”.

“Non so cosa dirti caro amico. Mala tempora currunt. Si stanno preparando tempi poco felici. Guardati intorno, alla concorrenza economica si unisce una crescente concorrenza politica e come inevitabile esito anche una concorrenza militare a livello globale. Se guardiamo gli orizzonti mondiali, gli scenari che ci si presentano sono davvero tragici, spirano venti di guerra che fanno prevedere tempi ben tristi.
Le classi dirigenti sono sempre più dequalificate, costituite da arrivisti e arrampicatori sociali senza un disegno di progresso e un programma che non sia l’affermazione del proprio interesse egoistico. Viviamo circondati da retori e millantatori. Sai che spesso faccio dei paralleli con un secolo fa, ma non lo faccio a caso, molti degli elementi presenti all’alba della Grande Guerra sono di nuovo in campo oggi. Cecità dei politici, debolezza fin più tragica di quella di un secolo fa dei ceti subalterni, egoismi di un mondo economico impegnato in una concorrenza feroce per il primato. Quale sarà l’esito di questa situazione non posso certo dirlo, ma è facile capire come le regole della democrazia, pur una democrazia più di facciata che di sostanza, non siano rispondenti alle esigenze del potere. Ciò che stiamo vivendo, ma sia chiaro non solo qui da noi, è un processo di smantellamento di quelle norme. Il resto è scritto nel futuro e noi sfortunatamente non abbiamo la sfera di cristallo che ci consenta di prevedere cosa succederà”.

“Forse – aggiunge il Tonto ridacchiando – possiamo dirci fortunati. Avere una sfera di cristallo ci farebbe probabilmente finire nelle sgrinfie di una qualche inquisizione e saremmo condannati come profeti di sventura. Non ci resta che attendere e votare con poca speranza un no che, se non risolve nulla, serve a chiarire agli oligarchi che ci governano che non abbiamo del tutto perduto la coscienza dei nostri diritti”.
“Un no – aggiungo – che è un sì alla libertà e alla difesa di quel principio di uguaglianza che pezzo dopo pezzo è stato calpestato dalla logica liberista e liberticida che governa questo mondo, senza rendersi conto che si tratta di una logica cieca e può solo condurci verso qualche catastrofe oggi difficilmente immaginabile”.

Vedo il Tonto alzarsi deciso che mi dice: “Conviene andare a pagare e lasciare questa piazza, il cielo si è fatto scuro e questo posso senza difficoltà prevederlo. Fra poco pioverà e prenderla sulla testa non è proprio desiderabile. Salviamoci se non altro da un poco augurabile raffreddore. Ti saluto, chiederò in giro se hanno una sfera di cristallo di quelle giuste. Ma non aspettarti granché, ricordo che mi è capitato di chiedere in un altro momenti qualche cosa del genere e mi avevano risposto che le avevano esaurite …
A presto”.

14 pensieri su “La più bella Costituzione del mondo è tragicamente obsoleta?

  1. Da tempo la democrazia, almeno quella in cui speravano i padri della Costituzione, ha cambiato casa: dalla periferia ai quartieri alti, dove tutto si decide mercanteggiando, senza più l’intralcio di un principio. Quelli del Sì sono realisti, prendono atto che è così che si fa politica. Poi, che ne può sapere la gente? Fanno la spesa, mica trattano il prezzo del petrolio.
    Per far passare una leggina ne barattano altre; i politici si alleano e si dividono come fosse niente, ormai è questa la regola. Almeno ci fosse l’obbligo di mandato. E’ politica alla Calderoli, quella di Berlusconi e quella di Renzi. Sì, la stessa che fu avviata da Bettino Craxi, solo che ai tempi suoi si poteva finire in galera. La Costituzione è inadeguata per questo tipo di politica, è d’intralcio. Per questa ragione ci vedo dell’ovvio in questo referendum.
    Pare che il fronte del Sì si stia allargando; nel caso vincessero si capirebbe in quale direzione vuole andare la gente e verso quale cambiamento. In piccolo è come cambiare l’auto, dalla Lancia che è soltanto signorile alla Mercedes, si spera. Dietro il Sì c’è il mercato delle carote.

    Peccato che il No non abbia contenuti. Sarebbe stato meglio poter scegliere tra diverse opzioni di cambiamento. Di solito vince chi prende l’iniziativa, non chi si mette di traverso. Renzi è nella posizione di chi può precedere le iniziative del M5s ( vedi Equitalia). L’iniziativa batte l’inazione, l’immobilismo a cui vengono attribuite tutte le responsabilità della crisi.
    Nel paesino dove vivo si legge ancora una scritta del periodo fascista : l’azione nobilita, la stasi… ma non si legge bene.

    Intanto la guerra si sta facendo, non è che verrà. Anche questa osservazione è realistica. Proprio ieri scrivevo:

    Fumo respirando un grumo d’ansia.
    Sul corpo di oggi atterrano ragni come pensieri.
    Dosi massicce di beauty circolano clandestinamente
    anche tra i poveri. Chanel Y.S. Laurent, Dior.

    Vi annuseranno i capelli
    e vi taglieranno la testa. Altri non faranno in tempo
    a vedere dove cadrà la bomba. Benzina e gas.
    La guerra si sta facendo.

  2. Il no alla riforma costituzionale oggetto del referendum è, da parte mia, netto. Ma le mie ragioni per il no solo in piccola parte coincidono con quelle del no della sinistra di Renzi (cioè a sinistra di Renzi e contro Renzi da sinistra) e con quelle del centrodestra e della destra. Io trovo semplicemente vergognoso, ad esempio, che il sì o il no siano diventati merce di scambio per ottenere una modifica della legge elettorale che garantisca più poltrone ad alcuni gruppi politici. L’importanza e il rilievo anche costituzionale di una legge elettorale è innegabile, tuttavia essa è e rimane una legge ordinaria e si colloca a valle, non a monte, della Costituzione. Pertanto, usarla come grimaldello e subordinare a un accordo sulla legge elettorale il no o il sì al referendum, come se il testo della riforma, pessimo, potesse diventare buono, appena si aprono spiragli di conservazione del proprio potere, è semplicemente vergognoso. E strumentale. Il no o il sì di questi figuri non ha nessuna dignità politica e etica.
    La ragione principale del mio no è che la riforma renziana non migliora, ma peggiora, la Costituzione attuale. Al punto che anche molti esponenti politici di diverse parti, che hanno combattuto per il no alla riforma Costituzionale del 2006 del governo Berlusconi hanno ora dichiarato che quella riforma era migliore dell’attuale di Renzi.
    Ma cosa vuol dire migliore o peggiore?
    1) La Costituzione del 1948 è nata sbagliata. Non è e non è mai stata la più bella costituzione del mondo. I costituenti non hanno avuto la cultura e il coraggio politico necessari per dare all’Italia una Costituzione veramente nuova, adatta ad un futuro che non fosse continuità del passato. Soprattutto non hanno voluto che il popolo fosse davvero sovrano. Dal punto di vista della storia comparata delle costituzioni, quella italiana è una figlia di seconda generazione delle costituzioni giacobine francesi, che delineavano uno Stato a democrazia etica (e non liberale), fortemente centralista e incline a trasformarsi in uno Stato autoritario. Non per nulla questo tipo di costituzione ha prodotto Napoleone e il fenomeno del bonapartismo in decine di Stati, sia in Europa sia in America Latina, sia, di seguito, in Africa. Anche lo Statuto albertino del 1848 risente del modello giacobino, sebbene in una versione moderata propria del periodo che risente ancora della Restaurazione postnapoleonica e di un atto unilaterale concesso dalla monarchia.
    Il modello giacobino degli anni 1791-1799 è stato “razionalizzato” con le Costituzioni di Weimar in Germania e quella austriaca precedente il nazismo, così che, questa nuova generazione di costituzioni, si presenta con un contenuto democratico maggiore e con difese maggiori della democrazia. Storicamente importanti come elaborazioni giuridiche, non hanno però retto agli avvenimenti storici e sono state facilmente travolte dal nazismo (come in Italia lo Statuto albertino è stato travolto dal fascismo, senza nemmeno bisogno di una formale abrogazione o modifica).
    I costituenti italiani del 1946-1947 si rifanno a questo modello razionalizzato, ma conservando tutta una serie di continuità rispetto alla precedente storia italiana (che la Costituzione del 1948 nasca dalla Resistenza è solo un mito e una coincidenza storica e cronologica, ma i contenuti giuridici della Costituzione hanno poco a che fare con la Resistenza, almeno con le aspettative popolari di essa).
    In effetti la Costituzione italiano del 1948 presenta una serie di caratteristiche a mio parere negative, che sono:
    1) Afferma che la sovranità appartiene al popolo, ma l’affermazione resta di principio, generica e poco operativa giuridicamente, perché poi in diversi articoli questa sovranità è tolta al popolo, con il limitarne la portata e con l’affidarla sostanzialmente ai partiti e in parte ai sindacati. Il primo difetto è dunque la tradizionale diffidenza nei confronti della libertà e della sovranità del popolo, che viene imbrigliata e di fatto sostituita dalla “sovranità” di altri organismi, che, come i partiti, pur essendo giuridicamente delle associazioni private, assumono nella costituzione materiale (quella che veramente è in vigore, non quella scritta e obliterata) un rilievo costituzionale di importanza centrale. In questo modo si perpetua la tradizionale partitocrazia italiana, prefascista, fascista (con la variante, in questo caso, del partito unico) e postfascista.
    2) Tralasciando tutti gli aspetti della più che bisecolare critica ai guasti della partitocrazia (la letteratura, a partire dalla fine del Settecento, è immensa), mi limito a dire che dal punto di vista costituzionale “partitocrazia” significa che il potere del popolo vien gestito dai partiti, perché l’ordinamento giuridico non si fida del popolo e non lo ritiene maturo per occuparsi direttamente dei suoi interesse e quindi fa in modo che la partecipazione dei cittadini alla vita democratica (incoraggiata a parole) si possa realizzare solo se incanalata nell’ambito della vita dei partiti. Ciò produce molti fenomeni negativi, dalla corruzione alla cura delle clientele al necessario populismo elettorale ecc., ma anche e soprattutto quel fenomeno anticostituzionale (secondo il testo scritto della Costituzione) per cui la vita delle istituzioni costituzionali (Parlamento, Governo, Presidenza della Repubblica, Magistratura) non ha una propria autonomia ma dipende dalla dinamica dei rapporti fra i partiti.
    3) Altro aspetto negativo della Costituzione è la negazione delle istanze federalistiche. Il “Risorgimento” italiano è stato, nelle sue linee maggioritarie, favorevole alla formazione di uno Stato unitario a ordinamento federale. Salvo Mazzini, centralista fanatico da sempre (ma federalista per la futura unità europea), i patrioti del decennio 1848-1859 pensano a una unione federale. Ma poi il governo del nuovo Stato ha smentito ogni precedente promessa e, con piglio giacobino fatto proprio dalla monarchia sabauda, ha costruito uno Stato centralizzato riducendo a carta straccia ogni esigenza e ogni richiesta di autonomia che rispettasse le differenze storiche e di fatto dei popoli italici che si univano. L’Unità d’Italia non è stato un matrimonio d’amore, ma uno stupro perpetrato con la conquista militare, senza nessun rispetto del diritto internazionale e con l’appoggio degli imperialismi francese, inglese e tedesco, in vario modo utilizzati. La Costituzione del 1948 non pone un rimedio alle vecchie ferite nazionali, ma le esaspera, tanto che il senso degli italiani di appartenenza allo Stato nazionale non fu mai tanto basso come nei decenni repubblicani.
    4) Anche nei rapporti con la Chiesa ci si mantiene, con lo strumento del concordato, nella scia del passato. L’Italia della Resistenza non ha fatto una scelta laica che fosse insieme garanzia della libertà della Chiesa e della libertà dei cittadini, proseguendo in un cammino di compromesso e di ambiguità che ancora oggi perdura rispetto a molti problemi.
    5) A ciò si aggiunga il difetto, forse maggiore, del progressivo ampliamento delle competenze dello Stato, per cui oggi, sia pure nell’ambito di un ordinamento giuridico formalmente democratico, sempre più spesso gli studiosi qualificano le politiche dei governi come autoritarie, tendenzialmente totalitarie, quasi totalitarie ecc., con una serie di espressioni che non si addicono certo a una democrazia fondata sulla sovranità popolare. L’aspetto tendenzialmente totalitario non sta, come nel fascismo, nel nazismo e nel comunismo sovietico, nella mancanza di libertà di parola e di azione politica, ma in due altri aspetti: il primo è la quasi inutilità, perché poco incisiva, di questa libertà politica; il secondo è nella invasività fiscale, economica e d’altro tipo dello Stato, che invade largamente la sfera delle libertà degli individui e della loro vita privata, sia come singoli, sia come membri di associazioni e organizzazioni private. Oggi, poi, con l’incredibile attività burocratica dell’Unione Europea, tale invasività si è allargata e si allarga giorno per giorno. Oggi, nessuno è più padrone né nella propria comunità politica né a casa propria, nemmeno di acquistare la lampadina che preferisce per la propria illuminazione.
    6) Negativo, e in continuità con la tradizione prefascista e fascista, è anche l’enunciato e spinto carattere etico che la Costituzione propone. Anziché una carta dei diritti dei cittadini e di limitazione dei poteri dello Stato, la Costituzione, in linea con tutta la tradizione giacobina, ha assunto l’aspetto di una carta programmatica che, per poter realizzare il compito etico che si autoaffida, limita le libertà dei cittadini e aumenta i poteri dello Stato. Che poi lo faccia a favore del Parlamento e delineando un Esecutivo più debole, ciò poco importa, perché comunque è lo Stato, lo Stato come apparato e non come comunità di cittadini, che accumula in sé un potere troppo vasto e incompatibile con una vera democrazia.
    7) Ciò avviene nonostante i compromessi fra le diverse correnti dei costituenti, cioè comunisti, socialisti, democristiani e liberali. Formalmente la Costituzione oscilla fra affermazioni liberali e altre decisamente socialiste. È stato notato più volte, nei commenti agli articoli della Costituzione, che, secondo il prevalere delle forze politiche e delle maggioranze elettorali, la Costituzione italiana permetterebbe sia la costruzione di uno Stato liberale, sia quella di uno Stato socialista. Il compromesso politico, con le sue contraddizioni, ha prodotto molti articoli che sono più di carattere programmatico, da manifesto politico, che di carattere strettamente giuridico. Di fatto poi molti articoli sono rimasti lettera morta o realizzati con anni e decenni di ritardo e nel modo in cui si è ritenuto di farlo nel momento della realizzazione, a prescindere dallo spirito costituzionale originario.
    8) In questo modo si sono realizzati anche alcuni aspetti dei contenuti “socialisti” della Costituzione, ma nell’unico modo in cui il socialismo si è realizzato in tutti i Paesi in cui si è provato a realizzarlo, compresi gli aspetti socialistici del fascismo e del nazismo. Si è realizzato nella forma del capitalismo di Stato e di un welfare clientelare, assistenziale e di spreco. Il che non ha nulla a che fare con un autentico socialismo. Oggi, in Italia, oltre il 50% delle attività economiche è direttamente o indirettamente in mano allo Stato, il quale, con una legislazione ipertrofica, controlla e indirizza e condiziona, o ha modo di farlo quando vuole, ogni altra attività, cioè anche la restante economia ancora in mano ai privati. Tutto questo produce un’economia dove i settori parassitari sono ampi e nel complesso statica e manipolata dalle esigenze politiche. Quindi meno efficiente, meno capace di sviluppo e meno capace di risolvere i problemi e superare i fattori di crisi. Nello stesso tempo anche meno capace di risolvere i problemi dei ceti più bisognosi e quelli dei veri compiti che lo Stato dovrebbe affrontare, come ad esempio garantire una scuola e una sanità migliori.

    Dunque, una Costituzione, quella del 1948, nata con profondi difetti, in continuità con il passato fascista e prefascista (ancora oggi la maggior parte dei codici e leggi in vigore risale al periodo precedente il 1945, perché nemmeno nel rinnovo complessivo dell’ordinamento giuridico la Costituzione è stata capace di rappresentare un elemento propulsivo).
    L’unico titolo di merito che le va riconosciuto è che è scritta bene, con molte formulazioni lapidarie e in buon italiano. Spesso più piena di retorica che di contenuti immediatamente giuridici, ma scritta bene e comprensibile.

    La riforma di Renzi peggiora tutti i caratteri negativi già presenti nella Costituzione. Aumenta i poteri dello Stato e l’accentramento statalistico, diminuisce quelli delle autonomie locali e dei cittadini e, inoltre, ne complica inutilmente il testo, scrivendo in modo confuso e in pessimo italiano (con il linguaggio delle circolari, non con quello delle costituzioni) i nuovi articoli, resi poi di difficile comprensione e attuazione anche per i molteplici rimandi ad altre leggi da fare, sia di carattere costituzionale sia ordinarie, che non si sa se, quando e come verranno fatte. Per cui diversi aspetti della riforma saranno destinati, forse per molti anni o per sempre, a non essere attuati completamente.
    E questo lo fa con scelte tecniche cervellotiche di cui non si capisce l’utilità per nessuno, nemmeno per Renzi, salvo che l’obiettivo non sia proprio quello – tipico di certe circolari ministeriali – di creare caos e confusione per meglio mantenere il proprio potere (personale, burocratico). Una scelta tecnica tipica e sbagliatissima è la riforma del Senato. Va bene diminuire il numero dei senatori e abolire il bicameralismo paritario (che qui si intende paritario come doppione, non come parità di dignità delle due Camere), ma non si comprende però con quale logica viene disegnato il nuovo Senato. Tramontate le vecchie logiche che volevano il Senato come “Camera alta” a compensazione del Parlamento come “Camera bassa” (il Senato, cioè, formato da membri dell’aristocrazia, della borghesia industriale, dei rappresentanti delle arti e delle scienze, insomma del sapere e del saper fare, come organo di moderazione della Camera dei partiti, del popolo, della demagogia ecc.), l’esistenza di un parlamento bicamerale è giustificata solo se le due camere rispondono a principi di rappresentatività popolare diversi. Ad esempio negli Stati federali la Camera rappresenta tutti i cittadini in quanto cittadini della federazione mentre il Senato rappresenta gli Stati o Enti federati (vedi Usa, Canada, Australia ecc.). Questa logica avrebbe dovuto portare, in Italia, ad aumentare – e non diminuire – i poteri delle regioni e ad eleggere, in numero pari (ad esempio tre o quattro senatori per regione, indipendentemente dal numero degli abitanti), i senatori come rappresentanti degli interessi regionali, secondo il principio che, rappresentando lo Stato federato e non i cittadini della nazione, ogni Stato federato, avendo uguale dignità costituzionale, ha diritto a un numero uguale di rappresentanti. In questo caso il Senato non dovrebbe avere poteri legislativi sulla legislazione nazionale, ma solo su quella relativa all’ordinamento regionale. Inoltre, come residuo della tradizione della “Camera alta” e come bilanciamento dei poteri della Camera dei deputati e dell’Esecutivo, il Senato può avere (e di solito ha in questo tipo di costituzione federale) poteri giurisdizionali e di controllo nei confronti del Governo e del Capo dello Stato, sulla nomina degli alti funzionari ecc.
    E, in base al principio di sovranità popolare, sono i cittadini che eleggono i senatori, sulla base di una legge elettorale necessariamente diversa da quella su cui si basa l’elezione dei deputati.
    Ma nella riforma costituzionale renziana non vi è coerenza logica e costituzionale, vi è confusione di principi, di organizzazione degli organi costituzionali e di poteri fra essi distribuiti. In pratica la riforma non serve a risparmiare soldi (se non, forse, qualche spicciolo), non serve a semplificare le procedure legislative, non serve a riequilibrare meglio i poteri fra Parlamento ed Esecutivo e fra Stato e autonomie locali. Serve piuttosto a creare, o meglio a rafforzare e rendere permanente, una situazione politico-costituzionale che di fatto è in continua emergenza e quindi serve a giustificare le prassi meno ortodosse, proprie dell’emergenza (che, con l’ex stalinista Giorgio Napolitano come interprete e promotore, ci ha dato tre governi non elettivi, di cui il terzo è quello di Renzi, il baciato in fronte dagli dei nazionali e internazionali).

  3. Proporrei di leggere l’intervento di Luciano Cafora pubblicato sul Manifesto qualche mese fa che può essere in rapporto dialettico con quanto scritto da L. Aguzzi nel post precedente.

    L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952).
    Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).
    Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo.
    Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta, contro l’ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti «apparentati».
    L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza – nonostante il suo passato antifascista – con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto domandavano.
    La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando, all’inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l’ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della Costituzione.
    Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che la destra non l’ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e in particolare per l’articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell’«utilità sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi parlava – al tempo suo – della nostra Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il Corriere della sera pubblicò un inedito dell’appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la riforma dell’articolo 1 a causa dell’intollerabile – a suo avviso – definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l’incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.
    Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia. Dà fastidio – e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio col passato – che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all’occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
    La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni – italiana, francese della IV Repubblica, tedesca – sorte dopo la fine del predominio fascista sull’Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò all’azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando l’istituto monarchico.
    La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato, d’intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di polizia, e sterilizzato con l’addomesticamento dei sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare nell’insurrezione dell’aprile ’45 e trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque – andando oltre il fascismo – nel coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica.
    Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l’estinguersi dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne all’Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s’è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.

    Il manifesto, 24 Aprile 2016

  4. Alcune affermazioni di Toffoli sono decisamente apodittiche (nell’accezione di dogmatico) e tutte da dimostrare. Es: “Quella del 1948 era una Costituzione rigida, congegnata in modo che non potesse essere modificata, …”. Non mi risulta che in alcuno luogo nella discussione in Assemblea Costituente alcuno abbia avanzato questo tema, peraltro la modalità di modifica è regolamentata dalla Costituzione stessa.
    “… la creazione di una serie di contrappesi fra i poteri, in modo da limitare il potere della maggioranza e creare uno spazio per una dialettica politica che potesse esprimersi nel gioco delle alternanze”. E’ esattamente il contrario: fatta per limitare il potere della minoranza e impedire l’alternanza. Ricordarsi che è stata scritta e approvata mentre sorgeva la Guerra Fredda e tener lontano il PCI dal potere era fondamentale, pena la perdita della libertà del Paese (peraltro ancora occupato).
    “…E’ figlia di una strisciante svolta autoritaria che ha contraddistinto la storia di questo paese negli ultimi trentacinque anni”. A me sembra che di svolte autoritarie ne siano state tentate numerose dal dopoguerra ad oggi e guarda un po’ sono state sconfitte dalle mobilitazioni popolari. In tutto il discorso di Toffoli questo è proprio quel che manca: dove sono le classi? dove sono i movimenti? Sembra che 70 anni di storia si siano svolti esclusivamente nella dialettica parlamento-governo-partiti, niente del III Celere di Scelba, niente del ’68, niente dei movimenti femministi. Mi fermo qui perché è tardi. Forse continuo.

    1. @ Daniele Marini
      Allora … devo dire che trovo sgradevole sentir parlare di affermazioni apodittiche o robe del genere quasi che non si volesse prendere atto del contesto in cui avviene il mio incontro con il Tonto che non è dogmatico proprio perché, come è scritto non siamo costituzionalisti o roba del genere e non siamo portatori di verità ma si cerca invece di scoprirle con grande fatica. La cosa irrita ancora di più quando poi le critiche appaiono in alcuni casi pretestuose.
      1- Per la rigidità delle costituzioni propongo una fra le infinite definizioni che si possono leggere ovunque: “Si parla di rigidità della costituzione, in diritto, quando le disposizioni della stessa non possono essere integrate, modificate o abrogate se non con procedure diverse e più complesse (o, come si suol dire, aggravate) rispetto a quelle previste per le leggi ordinarie (intese in senso formale, come atti del parlamento). La costituzione che possiede tale caratteristica è detta rigida, in contrapposizione alla costituzione flessibile le cui disposizioni possono essere, invece, integrate, modificate o abrogate con le stesse procedure previste per le leggi”. In questa dimensione la Costituzione del 1948 è/era rigida. Stop.
      2- Se si parla di guerra fredda allora non è necessario attendere il 1948 ma come è dimostrato in modo inoppugnabile era già nelle cose nel 1945. Il discorso sui contrappesi è tema di ampia discussione. C’è per esempio chi ha fatto notare che i comunisti non volevano il senato e pensavano a un’unica camera. C’è chi ha fatto notare che tra i “padri costituenti” c’erano signori come Enrico De Nicola che era presente alla sfilata delle camicie nere a Napoli pochi giorni prima della marcia su Roma con il suo bel braccio levato in saluto romano e Benedetto Croce che dopo il delitto Matteotti ha votato la fiducia al governo Mussolini. Insomma la Costituzione del 1948 è il risultato di un compromesso poi ciascuno può valutare se l’esistenza di contrappesi serviva per limitare ancora di più il potere della minoranza o se almeno idealmente coloro che scrissero quel documento ragionavano in una prospettiva più alta. Certo almeno per i primi vent’anni di questa stracca repubblica l’opposizione anche dura era considerata strumento non inutile nel gioco della democrazia borghese. Forse si potrebbe dire invece che le istituzioni erano piene di conservatori se non di fascisti (Esercito, Ministeri, Magistratura ecc.) ma questo è il risultato dell’amnistia di Togliatti e ci mettiamo, in questa sede, una pietra sopra. Chi voleva altro evidentemente si muoveva nel mondo dei sogni …
      3- La discussione con il Tonto era, se non erro, incentrata sulla riforma costituzionale, perciò si rivolgeva a un livello di diritto e toccava solo di sfuggita la lunga storia di questo paese. Abbiamo parlato di 35 anni non a caso (dagli anni ’80 in poi per essere chiari). Ad avviso nostro la pagina craxiana è momento decisivo del mutamento strutturale di questo paese. Citando Canfora si potrebbe retrodatare il tutto partendo dal 1952 e dalla “legge truffa”. Non capisco proprio perché si debbano chiamare in causa il ’68, il ’69, il ’77 e gli infiniti movimento sociali più o meno reali che hanno segnato gli ultimi decenni. Si tratta di altra cosa. Che vi siano stati vari tentativi di svolta reazionaria e siano stati sconfitti dalle “mobilitazioni popolari” è un dato abbastanza indiscutibile ma è altra cosa ancora. Oggi abbiamo a che fare con una riforma della Costituzione inedita per dimensioni e portata e una struttura del paese molto mutata e questo è il nostro tema.
      Evidentemente vi sono innumerevoli altri aspetti che meritano di essere approfonditi senza per questo doverci accusare di dogmatismo anche tenendo conto del format che si usa e che come si può ben intendere è altro da un saggio. Ciò detto poi che cento scuole si scontrino e cento fiori fioriscano.

      1. Accetto la critica sul concetto di “rigidità” in senso giuridico. Mi spiace invece che tu non voglia considerare il ruolo delle lotte sociali, in quanto è la chiave per comprendere come i parlamenti non siano la sede unica della tutela dei diritti. Visto che la maggiore critica che si fa alla riforma è relativa al rischio di autoritarismo, che Toffoli ritiene in atto da 35 anni. Che quasi tutti i governi italiani abbiano sofferto di tentazioni autoritarie è un fatto ma pensare che sia la Costituzione che ci ha difeso è una illusione. Ecco perché ho parlato di lotte sociali.

        E allora se la discussione sulla riforma non deve riguardare aspetti storici ma considerare come si colloca nella mutata società invito a considerare l’orizzonte in modo assai più ampio e quindi necessariamente globale. Vogliamo riconoscere che è un fatto che gli stati, soprattutto in europa, hanno delegato le funzioni primarie della difesa e del battere moneta? Non ne consegue forse che senza il diritto di battere moneta il governo dell’economia è monco? Se si vuole riconquistare il governo dell’economia occorre riprendere il pieno controllo del battere moneta. E a questo punto la discussione si sposta sul senso dell’Europa. Ma su questo già ci pensano grillini e leghisti che gridano all’uscita dall’euro.
        Domanderai e allora la Costituzione cosa c’entra, perché il governo ci tiene tanto? Serve forse a parlare d’altro e a distrarre i cittadini? Secondo me no. Sono state messe in luce in questi anni grandi inefficienze del funzionamento dello stato, dalle deleghe eccessive alle Regioni al ping-pong legislativo tra le due camere. Affidare a un Senato nuovo il ruolo di camera delle regioni serve proprio a rendere più efficiente il funzionamento, ridurre le dispersioni anche di denaro (si pensi alle ambasciate delle regioni per incentivare il commercio estero). In verità se vogliamo ben vedere è ormai su questo piano di maggiore efficienza e maggiore efficacia che può giocarsi l’autonomia di uno stato nel quadro europeo, da un lato. Dall’altro una tutela del prestigio dello stato per poter giocare con più influenza sui tavoli internazionali e purtroppo oggi il prestigio di uno stato si misura anche sulla sua efficienza (non solo nel processo legislativo, ma anche sull’efficienza della giustizia, del fisco ecc. su cui ancora troppo poco o quasi nulla si è ancora fatto).

        1. Molte delle cose che hai scritto, soprattutto per ciò che riguarda la nuova funzione dello stato nella realtà europea, mi sembrano del tutto condivisibili. Sono il segnale di una nuova dimensione delle istituzioni che si liberano dagli impicci dei formalismi democratico borghesi. Sullo sfondo io vedo lo strutturarsi di un potere autoritario mediatico spettacolare che proprio non mi piace. Di qui il no. Che poi non risolva nulla e un altro paio di maniche. Qui mi chiederei se il popolo che tu dici ha difeso lo stato dalle tendenze autoritarie della classe dirigente ne fosse davvero cosciente e soprattutto oggi se quel popolo esiste ancora o se la società dello spettacolo ne ha cambiato in modo radicale la identità e qui ci stanno Craxi Berlusconi e la miriade di pupazzi ex PCI fino a questo ultimo figuro uscito dal cappello di quel maestro del trasformismo che è stato Napolitano. Ma qui il discorso si allargherebbe oltre misura. Se hai voglia ti rilancio la palla …

          1. Ma sì, scambiamoci la palla.
            Voglio considerare due punti: la questione della politica spettacolo e la questione del “figuro” inventato da Napolitano che in effetti sono molto collegati.
            Scrivi che “sullo sfondo vedi lo strutturarsi di un potere autoritario mediatico spettacolare” che non piace neanche a me ma in realtà non è un processo in atto ora. Si tratta di una configurazione del potere avviatasi già alla fine degli anni ’80 e ormai ben consolidata. Ovvio il riferimento a Berlusconi e a vicende come le primarie del PD e gli streaming dei 5 stelle, tutti momenti di grande spettacolo.
            C’è qualcuno che ha combattuto questa deriva? A mio giudizio nessuno, salvo qualche denuncia di intellettuali che non è stata raccolta da alcun partito. Anzi tutti si sono adagiati nella illusione di una visibilità Hollywoodiana (tutti in TV, tutti su Twitter!).
            Anche il popolo non poteva fare altro che godersi lo spettacolo, data la natura amorfa di questa categoria sociale. Perché la spettacolarizzazione è andata di pari passo con la globalizzazione e in ultimo con la crisi economica mondiale, che ha sfasciato definitivamente le classi sociali salvo l’aristocrazia economico-finanziaria.
            Ormai si parla di “narrazione” (il primo se non ricordo male è stato Vendola) termine adatto allo spettacolo della politica.
            Ma qual è questa narrazione? I 5 stelle si sono impossessati della sceneggiatura della politica italiana mettendo in scena la purezza dei nuovi contrapposta alla vergogna della corruzione della casta. Sul palcoscenico del mondo è poi in scena la catastrofe che il Papa interpreta come terza guerra mondiale. Che può fare il popolo di fronte a questa sceneggiatura? Seguire le sirene di chi propugna il chiudersi in casa?
            Il cambiamento della natura del popolo, non è, come dici tu, frutto dell’autoritarismo mediatico spettacolare ma è frutto della crisi e della globalizzazione. Per meglio dire l’autoritarismo si è espresso nella forma più concreta e diretta nelle politiche economiche (in particolare governo Monti) in cui il ruolo non solo delle opposizioni sociali ma persino del Parlamento è stato svuotato. Esperienza non solo italiana, soprattutto Greca. E’ qui che si parla di rischio antidemocratico, di svuotamento del potere della democrazia.

            E qui vengo al punto relativo al maggiore dissenso con te. Da un lato condivido la fortissima critica a Napolitano, che per me è principalmente legata al rifiuto del voto di fiducia al governo Berlusconi quando fu abbandonato da Fini. Tutto quello che ne è conseguito in grande misura era inevitabile e dovuto, ancor più quando alle ultime elezioni il veleno del “porcellum” ha intriso le nove camere. Invece dissento quando scrivi “… questo ultimo figuro uscito dal cappello del maestro di trasformismo che è stato Napolitano”. Il dissenso non riguarda il trasformismo di Napolitano (in fondo la sua vita politica si è conclusa e ormai il giudizio è affidato alla storia). Riguarda colui che definisci il “figuro”. Quel di cui io sono convinto è che il “figuro” (e chiamiamolo Renzi) sia l’unico che stia agendo per spostare l’asse della narrazione.

            Non mi scandalizzo se Renzi fa uso delle tecniche sceniche della politica-spettacolo. O fa così o non esiste. Quindi il giudizio implicito nel termine figuro non può riguardare per me l’uso della politica spettacolo. La idea di “figuro” potrebbe essere legata politica di Renzi, che, presumo, tu consideri che non sia di sinistra.

            E qui il discorso si fa assai complicato. Posta la premessa della sostanziale scomparsa delle classi cosa significa sinistra? (Qui ci troviamo di fronte da un lato a una scomparsa per sé delle classi, alla scomparsa di un senso di appartenenza. Dall’altro persistono categorie sociali che possono caratterizzarsi come classe ma sono frammentate al loro interno in interessi spesso contrapposti: giovani-vecchi, lavoratori garantiti-precari, uomini-donne. Mi sembra curioso che sia più forte il contrasto non risolto uomini-donne o garantiti-precari che quello operai-impiegati che un tempo poteva venire risolto nel quadro di vertenze sindacali che tutelavano entrambi riconoscendo legittime differenze.)
            E’ la crisi economica sociale e la globalizzazione che ridefiniscono le possibili forme di aggregazione, che ruotano attorno a categorie di opposizione come ricchezza – povertà e conoscenza – ignoranza. Non più nell’opposizione padroni – lavoratori o, più astrattamente, capitale – lavoro.

            Non c’è più opposizione capitale-lavoro. Oibò!

            I miei giovanili studi delle teorie di Marx e dei principi dell’economia non mi danno sufficienti basi e mi porteranno ora forse ad affermare cose errate, lavoro più sulla intuizione che sulla preparazione specialistica e osservo:
            I più grandi successi degli ultimi anni sono il frutto della tecnologia informatica e si sono affermati attraverso un meccanismo di accumulazione di capitale assolutamente originale, basato sul capitale di rischio. (In seguito dopo essersi consolidate sono ritornate nell’alveo delle tecniche usuali della gestione del capitale – borsa, stock-option, obbligazioni …).
            Il meccanismo del capitale di rischio è oggi del tutto nuovo nelle dimensioni, forse comparabile solo con quello che si mobilitava ai tempi delle grandi esplorazioni e commerci via mare. Ma molto diverso nella sua natura: non dimentichiamo che i capitalisti che finanziavano i grandi viaggi della Compagnia delle Indie mettevano garanzie reali, oro, terreni, palazzi!
            Il nuovo capitale di rischio comincia a manifestarsi alla prima metà anni ’80 per permettere ad aziende come Digital e Data General di entrare nel mondo dei mini computer, in seguito per potenziare Intel e permettere la nascita dei personal presto dominato da IBM, fino all’arrivo di Apple (fine anni ’80). Con l’emergere di Internet il capitale di rischio si lancia in avventure ancora più aggressive e consente l’esplosione di Google, Amazon e così via.
            Voglio essere più chiaro nel mettere in luce le differenze: fino alla fine degli anni ’70 l’innovazione e lo sviluppo industriale sono stati in mano al capitalismo storico, che finanziava lo sviluppo principalmente con i meccanismi di aumento di capitali sottoscritti in borsa o in mercato parallelo, quindi fondato su denaro reale.
            Dopo, gradualmente, è la finanza che crea l’accumulazione necessaria alla nuova industria informatizzata, creando capitali “virtuali”. Negli anni ’90 su 10 start-up in USA 8 circa fallivano nel giro di 1-2 anni le due restanti creavano talmente tanto valore da coprire le perdite delle altre 8. Ma il denaro vero non c’era finche le 2 non avevano raggiunto il successo, circolava virtualmente. Attenzione che gli imprenditori delle 8 start-up fallite non rischiavano la perdita dei loro beni, e tantomeno i manager o proprietari delle società finanziarie o di venture capital.
            Potrei aggiungere che le tecniche di espansione delle grandi aziende attraverso acquisizioni si sono fortemente rafforzate con l’invenzione di tecniche come la creazione di “leve” finanziarie che scaricavano i costi sulle aziende acquisite (emblematiche le vicende di Telecom Italia negli anni ’90), e dico questo per sostenere con maggiore chiarezza quanti scritto sulla virtualità del denaro messo in campo in questa fase storica.
            La crisi del 2011 è stato poi l’apice dello scollamento del capitale dal valore reale dei beni. E’ indubbio che i grandi venture capitalisti abbiano creato le leve finanziarie che permettono loro di agire con start-up e innovazione siano il frutto di intricati impacchettanti di titoli, spesso come abbiamo visto, tossici.
            Credo che capire la natura secondo me originale di questo processo permetta anche di comprendere il cambiamento della nozione di capitale, la cui accumulazione non dipende più (solo) dal lavoro, è stato messo in moto un processo di moltiplicazione del capitale mediante sé stesso e non mediante la produzione di valore e di merci o servizi (che in fondo sono lavoro).
            Ma se il capitale è cambiato anche il lavoro è cambiato e ne siamo testimoni ogni giorno. Tutto ciò fa sì che i fondamenti della nozione di sinistra frutto delle analisi di Marx oggi non si applicano più.
            Purtroppo la mia conoscenza dell’economica politica, della storia dell’economia e delle altre discipline (che non so neppure quali possano essere) non mi permettono di andare più a fondo in questa analisi.
            Mi limito quindi ad affermare che se la sinistra non si definisce più secondo i parametri classici, definire Renzi e il governo attuale non di sinistra è lecito, ma dire che è di destra non è fondato. E’ altro e non so come definirlo. Ma so che voglio seguire e incoraggiare quel che sta facendo. Soprattutto nella politica internazionale, in cui ormai sembra che rappresenti l’unico paese che agisce in Europa per scrollare l’immobilismo che la caratterizza da più di 15 anni (la Gran Bretagna che pure avrebbe potuto agire in quel senso ha preferito uscirne).

  5. UN NO PREOCCUPATO

    Scrive Mayoor: « Peccato che il No non abbia contenuti. Sarebbe stato meglio poter scegliere tra diverse opzioni di cambiamento. Di solito vince chi prende l’iniziativa, non chi si mette di traverso». Ed esprime, credo, come tutti quelli che voteranno No un’insoddisfazione profonda per questa condanna che dura da tempo a non potersi più battere (e non solo votando) per qualcosa che abbia un senso costruttivo. Perché, in effetti, vincesse anche il No, ci troveremmo nella stessa situazione in cui siamo e da cui – diciamocelo – non riusciamo ad uscire.

    La stessa insoddisfazione profonda ritrovo nel No di Aguzzi : « La ragione principale del mio no è che la riforma renziana non migliora, ma peggiora, la Costituzione attuale». Credo che il suo No (come il mio) sia *di malavoglia*. In fondo ci si trova costretti a “difendere” (ammesso che il voto la difenda) una Costituzione, di cui si vedono tutti i limiti, esistenti – è vero – fin dall’origine e ben messi in luce dalla storiografia. (Ho in mente quella di Claudio Pavone: “Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato” (Boringhieri 1995) di cui parlammo a Cologno in uno degli incontri dell’Associazione Ipsilon nel 1996). E fa un po’ sorridere che « l’unico titolo di merito che le [alla Costituzione] va riconosciuto è che è scritta bene, con molte formulazioni lapidarie e in buon italiano», come se dovesse soddisfare solo i professori di lettere.
    Della lunga e articolatissima analisi critica di Aguzzi però non riesco a condividere il punto di vista da cui muove e che definirei “libertario-populista”. I costituenti, per la loro « tradizionale diffidenza nei confronti della libertà e della sovranità del popolo» non avrebbero «voluto che il popolo fosse davvero sovrano». La sovranità decisero di «affidarla sostanzialmente ai partiti e in parte ai sindacati», gettando le basi della «partitocrazia». Ma come e perché si arrivò a quei « compromessi fra le diverse correnti dei costituenti, cioè comunisti, socialisti, democristiani e liberali»? A me pare opportuno ricordare, come fa Daniele Marini nel suo commento, « che è stata scritta e approvata mentre sorgeva la Guerra Fredda e tener lontano il PCI dal potere era fondamentale, pena la perdita della libertà del Paese (peraltro ancora occupato)».
    E se non mi sento di dire che « la Costituzione del 1948 nasca dalla Resistenza» (semmai dalla sconfitta dell’ala “classista” della Resistenza) , non riesco a pensare a delle «aspettative popolari» che non fossero collegate a quella stessa ala “classista”. Se queste aspettative popolari fossero state o fossero oggi così mature, non si capirebbe perché siano state o siano così facilmente imbrigliate. Ieri e oggi.

    L’articolo di Canfora suggerito da Toffoli mi pare debole e tutto volto a un passato (quello del PCI e di Togliatti) che appare – ma lo fu? – migliore di fronte al degrado d’oggi. Sì, «c’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria», ma anche una continuità. Tutta la difesa che Canfora fa della Costituzione del 1948 e della Resistenza (« Nel caso del nostro paese, è ben noto che l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando l’istituto monarchico») si basa sulla convinzione che la Costituzione sia stata un argine alle pretese insopportabili della Destra («L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi». Ma – viene da chiedersi – lo è stato davvero argine? Forse non è servita neppure a frenare il cambio di pelle della Sinistra, se questa – come scrive lo stesso Canfora –« ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato». A me perciò pare che Canfora non tenga conto dei mutamenti di quella che viene detta la «costituzione materiale». Essi sono andati – a livello nazionale e mondiale- proprio a vantaggio delle forze politico-sociali che bloccarono la Resistenza e accettarono poi i vari compromessi più o meno storici che da allora ci sono stati. Più che contrastare il fastidio della Destra per « il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia» o dei cosiddetti «liberali puri» per il fatto che « la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali», ci sarebbe da chiedersi preoccupati che fine questi diritti abbiano fatto dagli anni ’80 ad oggi.

    Detta perciò brutalmente, la mia preoccupazione è che ci vorrebbe una lotta per una nuova costituzione più avanzata e adeguata ai bisogni sociali politici e culturali affiorati negli ultimi decenni ( e intravisti nel bagliore effimero del ’68-’69) e che non c’è più (e non si veda da dove possa venire) l’intelligenza politica e la forza socile per costruirla; e che, dunque, difendiamo una carta ( la Costituzione del 1948) sapendo che è inadeguata a rappresentare un mondo sociale mutato. Non è che essa diventi efficace perché le forze coagulatesi attorno a Renzi l’attaccano.

    Per finire. Se ad Aguzzi mi sento di chiedere dov’è il popolo che vorrebbe la sua sovranità strappatagli dalla «partitocrazia» e chi oggi sia in grado di organizzarne la lotta, a La Grassa che ha preso una posizione ancora più drastica: « Chi vota SI vota in realtà per chi è stato ormai investito da Obama della primogenitura in quanto servo – che più servo non si può – dei padroni americani. Non c’entra nulla la riforma costituzionale. Certamente, non andrò a votare NO per difendere la Costituzione; non sono diventato un vuoto formalista. Qui ci si schiera pro o contro Renzi. [perché] si tratta di scegliere se si vuol essere o non essere i servitori più bassi e abietti degli Stati Uniti». (http://www.conflittiestrategie.it/adesso-e-molto-piu-chiaro-di-glg) verrebbe da chiedere dov’è l’elite capace di opporsi alla colonizzazione Usa. Ecco perché sono preoccupato.

  6. @ Marini

    “Mi limito quindi ad affermare che se la sinistra non si definisce più secondo i parametri classici, definire Renzi e il governo attuale non di sinistra è lecito, ma dire che è di destra non è fondato. E’ altro e non so come definirlo. Ma so che voglio seguire e incoraggiare quel che sta facendo. Soprattutto nella politica internazionale, in cui ormai sembra che rappresenti l’unico paese che agisce in Europa per scrollare l’immobilismo che la caratterizza da più di 15 anni (la Gran Bretagna che pure avrebbe potuto agire in quel senso ha preferito uscirne)”(Daniele Marini)

    M’intrometto solo un attimo nel dialogo tra te e Toffoli per osservare che il governo Renzi non è così indefinibile. Sfugge alla classificazione secondo le categorie di destra e sinistra perché è un ibrido, che riassume in sé però il peggio di entrambe le tradizioni. E, ammesso che le tue conclusioni (“Non c’è più opposizione capitale-lavoro. Oibò!”; “le possibili forme di aggregazione, […]ruotano attorno a categorie di opposizione come ricchezza – povertà e conoscenza – ignoranza”) siano valide, non vedo come tu possa dare sostegno a un governo che uscirebbe dall’immobilismo consolidando le posizioni dei ricchi e abbassando i livelli di conoscenza (nella scuola).
    Questo brevemente dico. Che la discussione poi prosegua.

    1. Dato che discutere sul governo Renzi è sterile (ciascuno resta delle proprie idee e ha i propri giudizi sulle iniziative che ha assunto) perché non spostare la discussione su quegli aspetti che ho identificato?
      Mi piacerebbe un vostro contributo su quale configurazione ha assunto il capitalismo oggi e il conflitto capitale – lavoro. Se ritenete che in sostanza nulla sia cambiato o se al contrario ci sia qualcosa di nuovo. Secondo me è solo da qui che può ripartire una sinistra critica, che sappia capire e delineare le tendenze mondiali.

  7. Vedo una relazione (stretta a volte, lasca altre) tra il discorso sulla persistenza o il venir meno del marxiano conflitto capitale-lavoro e il giudizio sul governo Renzi ( e i precedenti). Comunque è senz’altro un tema da approfondire e cercheremo di farlo.

  8. @ Daniele Marini

    Non è la mia una posizione pregiudiziale di contrarietà a Renzi in sé. Anzi potrei fin dire che all’inizio alcune mosse un poco irrituali mi sembravano un bel segnale. Il problema è quello che è venuto dopo. Solo per citare un caso che conosco meglio la cosiddetta buona scuola che è un palese fallimento. Renzo non è di sinistra e credo non abbia mai preteso di esserlo e un erede del mondo DC, o, meglio della sua sinistra. Con tutte le ambiguità del fatto. Ciò detto i problemi che poni sono reali, e sono uno dei grandi snodi teorici e pratici con cui ci scontriamo. Evoluzione del capitale, condizioni di classe ecc. Problemi che solo cercando di ragionare insieme si possono forse capire fino in fondo senza farci irritare dal volto della medusa costituito dalla capacità del capitale di modificare in ogni momento tutto per non mutare nulla. Proviamo insieme a lavorarci su il Tonto può cercare di fare la sua parte essendo ben cosciente delle sue forze limitate…

    1. Facciamo che dopo la discussione sui fondamenti di economia politica riprendiamo sul giudizio del soggetto in questione, accantonandolo per il momento. Peraltro non crediate che io sia “appiattito” sul governo e su Renzi, ho un bel po’ di critiche e perplessità.

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