Mario Luzi «uomo di pace». Per la lettura di “Le donne di Bagdad”

Terra – di Francesca Bagnoli

Seconda anticipazione dal n. 12 cartaceo di “Poliscritture” in uscita prossimamente 

di Marco Gaetani

C’è qualcosa di più occulto e profondo della storia, che pesa su di noi.
Mario Luzi

Alcune considerazioni, certo da sviluppare e approfondire, in margine a una poesia di Mario Luzi, Le donne di Bagdad. Intanto la si legga1:

Diruti gli acquedotti, saltati i cavi elettrici,
inattivi gli impianti di depurazione,
eccole, le abbiamo viste per pochi attimi,
——————————————————    ma viste
indelebilmente sullo schermo,                                                                                  5
seppur semicelate dai loro panni e cenci
e chadors e pezzuole variopinte,
le donne di Bagdad con secchi, bacinelle e taniche
entrare nei ristagni della torpida corrente,
chiedere a un Tigri torbo e malvoglioso                                                             10
acqua per la loro incertissima giornata…
L’estrema deiezione della creatura umana
non ha tempo. Poteva
essere mille anni fa o tremila.
La causa, neppure quella, muta.                                                                            15
Il fiume sotto i suoi crollati ponti
potrebbe, esso, attestarlo.
Nulla cambia nella fortuna umana –
barbugliano, si sente,
le acque grevi e impastate di rovine.                                                                    20
Nulla cambia – davvero nulla cambia?
Allora perché questa rivolta? Del sangue, dell’intelligenza
come per una empietà? è nell’ordine
antico, è nel previsto
ritmo dei suoi effimeri sussulti                                                                                 25
essa pure? Arcaica al pari della guerra
che sfoggia il paradosso dei suoi avveniristici strumenti?
Davvero nulla cambia? nulla si redime?
Vanno e vengono nelle loro tuniche
gonfie di vento, intrise d’acqua, loro                                                                      30
donne di Bagdad al fiume benefico e insidioso.
La morte è la sola maestà
che non vien meno. E sola
ci assicura della sacrosanta vita…

Il componimento partecipa, fin troppo evidentemente, di quella corda civile che a onta delle più superficiali valutazioni appartenne effettivamente a Luzi, e che a dire di uno dei suoi migliori studiosi, Stefano Verdino, venne a tendersi particolarmente a partire dagli anni Settanta2. Non è qui possibile soffermarsi sulle successive «tappe e stazioni»3 toccate dall’esperienza artistica e intellettuale di un «poeta capitale del nostro Novecento» (Fortini) come Luzi, la cui operosità attraversa come noto buona parte del secolo, sporgendosi poi significativamente nel successivo. Interessa più che altro comprendere meglio quanto un testo come quello ora in lettura manifesti paradigmaticamente non tanto la presa di posizione pubblica di Luzi contro la Guerra nel golfo (1990-1991) ma, contestualmente a ciò, come tale intervento rimandi, più in generale, a un’interpretazione ben precisa e ideologicamente marcata della poesia, e dunque del ruolo e della funzione del poeta nella società, nella storia. Alla luce di ciò sarà possibile, e necessario, quanto meno porsi delle domande sul valore effettivo del ‘pacifismo’ luziano e delle forme di opposizione alle guerre a esso affini.

Preliminarmente s’impone una pur sommaria contestualizzazione del testo in esame; sullo sfondo della quale potrà emergere, ancorché in sintesi estrema, una sorta di corrispondenza epocale tra la poesia di Luzi quale si sviluppa (con la poetica e l’ideologia che la sostengono) a partire dagli anni Ottanta e la temperie che all’incirca nello stesso momento storico si manifesta in tutto l’Occidente – temperie etichettabile genericamente come ‘crepuscolo della Modernità’.

Le donne di Bagdad venne pubblicata alcuni mesi dopo l’uscita di Frasi e incisi di un canto salutare (1990). Questa raccolta costituisce, nella sistemazione tripartita voluta dall’Autore stesso per la propria opera poetica, il secondo libro della terza stagione della poesia luziana (Frasi nella luce nascente), stagione inaugurata a metà degli anni Ottanta con Per il battesimo dei nostri frammenti (1985). Quest’ultimo volume ha veramente un carattere inaugurale, a ogni livello, rispetto all’operatività poetica dispiegata da Luzi nei due decenni precedenti; quella, per intendersi, con a baricentro l’altra opera cruciale nel percorso del poeta, Nel magma (1963, 1966), che si può dire occupi tutto il decennio dei Sessanta e che riverbera il suo influsso fino almeno ad Al fuoco della controversia, del 1978 – libro quest’ultimo che conclude, riferendosi ancora alla scansione autoriale, la sezione mediana (Nell’opera del mondo) dell’opus poetico luziano.

Il nostro testo risente, come ovvio, della stagione della poesia di Luzi pienamente in corso, collocandosi cronologicamente tra gli ultimi testi (1989) di Frasi e incisi… e i primi della raccolta in incubazione (1990-’91; il Viaggio terrestre…, come già segnalato, uscirà nel ’94). Ma di tale stagione esso non si potrebbe ritenere certo testimonianza esemplare, per molte ragioni. Se infatti è probabilmente condivisibile ciò che scrisse Verdino a proposito di Onore del vero, e che altrettanto probabilmente risulta appropriato per la più gran parte della poesia luziana – e cioè che nei componimenti dell’autore di La barca è possibile enucleare un tratto ‘fiorentino’ che ne garantirebbe pressoché costantemente (si dice alla spicciola) la tenuta formale e, dunque, l’intellegibilità, l’istanza comunicativa4 –, nel testo sulla Guerra nel golfo che ora c’interessa siamo in presenza di una prosaicità peculiare, a dire il vero un po’ corriva, benché increspata da una tonalità retorica (nel senso deteriore, e non escludendo una certa fastidiosa sensazione di self-styled) che – senza diffondersi in una compiuta analisi linguistico-stilistica – traspare per esempio nell’uso di un lessico eletto, di matrice vistosamente letteraria, e nel ricorso a scelte sintattiche egualmente auliche. Opzione di per sé interessante – al di là del giudizio sulla riuscita o meno di un componimento che, comunque, appare abbastanza evidentemente concepito invita Minerva – se si considera la cifra per consueto altissima del magistero tecnico-formale di Luzi, anche quando a essere privilegiato (pensiamo soprattutto alla fase estrema, su cui ritorneremo) è il ‘discorso’ (sempre nel senso di Verdino); e se si pensa che qui la parola del poeta assume quella valenza civile che la dispone a rivolgersi a un pubblico più ampio di quello, ristrettissimo, più solitamente proprio della poesia.

Come il «discorso», anche l’«istante» (per restare ai due momenti che, sempre secondo Verdino, s’intrecciano nella poetica e nella poesia luziane, almeno all’altezza di Onore del vero) appare in un certo senso, nel nostro testo, depotenziato: la (mallarmeana) visione dentro il «tempo verticale» di ascendenza bachelardiana (o, se si vuole, l’«immagine profonda» di Durand) viene qui ricondotta a un’esperienza dimessa, comune, addirittura triviale o degradata. La visione, si sarebbe tentati di dire cedendo a un troppo facile gioco, è ormai tele-visione. L’occasione che innesca la piana riflessione in cui consiste, essenzialmente, Le donne di Bagdad è data infatti da un’esperienza che accomuna il poeta a «tutti»: è attraverso il mezzo televisivo che egli, come milioni di propri simili, vede «per pochi attimi» eppure in modo «indelebile» le «donne di Bagdad»5; figure percepite entro lo scenario di devastazione bellica su cui si apre il componimento (vv. 1-2) e che ritornerà anche oltre nel testo (vv. 16 e 20).

La posizione dell’io poetante è dunque quella dell’uomo comune tra gli uomini comuni. Il poeta è come «tutti». Anche se questa prospettiva è stata talora rivendicata dall’Autore come una precisa scelta, una specie di risarcimento per il solipsismo della prima fase della proprio cursus letterario6, si tratta in realtà di una postura storicamente obbligata. Il poeta è forzosamente separato dal commercio con la storia e recluso nel privato, murato in una torre che, semplicemente, da eburnea è diventata elettronica. La storia ‘grande’ la si sperimenta ormai solo nelle forme mediate stabilite da chi la scrive realmente, col sangue e con i pixel7. Nel testo compaiono alcuni indizi di questa esperienza inficiata all’origine dal filtro catodico: specificamente nei quasi automatici cliché che la rappresentazione televisiva veicola «sullo schermo», e che il poeta sembra riportare grezzi nel proprio resoconto: un certo esotico-etnico-pittoresco (i poveri ma variopinti indumenti tradizionali delle donne) che contrasta con i segni di una Modernità fatiscente (nello specifico, a causa della distruzione bellica), in un generico ‘Terzo Mondo’ televisivo fatto di impianti civili semidistrutti ma anche di «secchi, bacinelle e taniche» (v. 8) che facilmente s’immaginano di plastica.

I punti sospensivi (v. 11) interrompono il resoconto di ciò che lo schermo televisivo ha restituito solo per pochi attimi, e che tuttavia è stato raccolto dall’io insieme a milioni di altri occhi e coscienze. S’innesta qui la riflessione propriamente detta: «naturale, originaria vocazione contemplativa» di Luzi8, posizione introvertita mai deposta interamente dal poeta – neanche quando (nell’ultima produzione) l’introspezione di canonica ascendenza agostiniana pare cedere il passo a forme sostanzialmente differenti, più connotate in senso onto-teologico, di meditazione.

I vv. 12-28 espongono il referto di un rimuginare il cui timbro si fa universale, e che nella sua seconda parte (vv. 21-28) si scandisce in una figura tipica di quel «“pensiero poetante” che è davvero la prima e costitutiva ragione poetica luziana, mai dismessa in tutto il suo lungo tragitto»9, vale a dire l’interrogazione multipla10. Serrato questionare introdotto da una serie di asserti gnomici che sottraggono il testo alla sua valenza meramente cronachistica e testimoniale, per conferirgli una tonalità di composta amarezza, di mestizia solenne. La sequenza assertiva, sapienziale (vv. 12-18), una volta messa in tensione con le questioni che la mutano in dilemma arduo e lacerante, fa tutt’uno con esse nel nucleo morale del componimento, significativamente collocato in posizione centrale, tra la descrizione delle donne irachene impegnate nella loro «incertissima giornata» e l’explicit del testo – in quello che, come si vedrà, è l’inopinato scioglimento del ‘caso’ morale (ma anche, come sempre in Luzi, metafisico) che tramite le immagini televisive interpella la coscienza, o meglio il soggetto in tutto il suo essere.

Paradossalmente (ma per un paradosso di per sé significativo) è attraverso la meditazione sul destino in apparenza senza tempo della creatura umana che il discorso poetico aggancia il motivo, centrale nell’intera produzione poetica luziana, del tempo; e che dunque si rende esplicito il tema della storia, in Luzi sempre intesa come dimensione intrinseca a una più inglobante struttura temporale dell’Essere diveniente. Al fluire immemoriale del tempo rinvia naturalmente pure l’immagine del fiume: costante in Luzi da La barca (1935) a Dottrina dell’estremo principiante (2004); topos (e archetipo) di un «fluire del mondo» (Raboni) veramente eracliteo, e di quelle trasformazione perpetua e incessante metamorfosi che sono i capisaldi dell’ontologia luziana – sempre di più a partire dalla lunghissima stagione apertasi con Nel magma. A ciò si aggiunga che a essere evocato e chiamato a nome nel nostro testo – a conferma che, come ebbe a rilevare Vittorio Sereni a proposito della suite Muore ignominiosamente la repubblica, il dato di cronaca in Luzi è sempre «ben più di un pedaggio pagato all’attualità»11 – è quel Tigri che ogni memoria scolastica diffusa sa ricondurre all’alba della civiltà, alle origini della storia (con la scrittura).

Questo fiume «torbo e malvoglioso» pare essere l’immagine icastica di una temporalità deietta che si sostanzia in un eterno presente negativo (cfr. pure i «ristagni della torpida corrente», al v. 9). I vv. 12-14 sigillano questa amara sapienza, da Ecclesiaste, inchiodano la «creatura umana» a un suo immutabile destino di pena e di dolore. Il fiume, con le sue «acque grevi e impastate di rovine» (v. 20), è il millenario testimone – e l’epitome – di una storia irredimibile. Ed è questo fiume che infatti ‘barbuglia’ l’infausta eterna sentenza «Nulla cambia nella fortuna umana» (v. 18).

Il v. 21, tuttavia, sembra segnare una svolta, introdurre una sorta d’inversione argomentativa, sotto forma di un dubbio che insorge prepotente. L’incipit del verso riprende – in una specie di anafora mimetica – la sconsolata sentenza del v. 18, per metterla in questione. Si susseguono interrogativi, in un’incalzante batteria dilemmatica di foga quasi leopardiana; il pathos tocca l’acme nel v. 28, dal valore riassuntivo. Oggetto dell’interrogazione sono il senso della storia e il destino di tutti, dell’intero genere umano. L’io, il soggetto poetante, non può non registrare una rivolta «del sangue, dell’intelligenza» (significativo l’accostamento dei due termini, che sembrano assumere un valore sinonimico più che antinomico). Tutto l’essere si ribella alla guerra, cioè a un tempo storico segnato dal male e dal dolore. La si percepisce, la guerra, come un’«empietà» (lemma decisivo). Ma ci si chiede anche se quell’intima rivolta non sia parte «essa pure» di un intangibile «ordine | antico», che si manifesta negli (epifenomenici?) «effimeri sussulti» di un «ritmo» scontato in partenza, ab origine «previsto». Sorta d’incantesimo, di ripetizione inscritta a una dimensione «arcaica» dell’Essere che prevede la guerra (paradossalmente ipertecnologica: l’aggettivo «avveniristica» rinvia a un futuro in realtà ipotecato una volta per tutte, a un progredire soltanto illusorio12) non meno che il suo disperato rifiuto.

Di fronte a questo supplemento di dubbio, al complicarsi dell’istanza dilemmatica, il poeta, tipicamente, non offre una risposta risolutiva. La commossa eloquenza e l’afflato umanitario che promanano complessivamente dal componimento indurrebbero forse il lettore a considerare la sequela di domande ai vv. 12-18 come formata da interrogativi retorici, in senso stretto (per quanto pure in quello di rischiosamente enfatici). Ma l’ultimo segmento del testo (vv. 29-34) frustra l’attesa di un esplicito ribaltamento assiologico: le domande angosciose restano in bilico sul vuoto. La chiusa ripresenta infatti l’immagine delle «donne di Bagdad» – ennesima incarnazione, in Luzi, dell’importante «principio di muliebrità» (Verdino) – e una serie di figure della duplicità (o allusioni all’ambivalenza) che sembrano suggerire una risposta interlocutoria, se non proprio implicitamente affermativa, alle angosciate interrogazioni che precedono. «Vanno e vengono», le donne irachene, creature immerse in una loro dimensione elementare (e Luzi è come pochi altri, nella nostra poesia novecentesca, poeta elementare13): partecipi fibre di quella Natura che in Luzi fa sempre, quanto meno in ultima istanza, aggio sulla Storia: «gonfie di vento, intrise d’acqua», le donne di Bagdad sono parte di quel ritmo duale – tesi e arsi – che è proprio dell’Essere-divenire luziano e in cui si scandisce la «grande liturgia cosmica»14.

Ritmo del tempo bifido dunque, che insieme crea e distrugge15: il fiume (della storia) resta «insidioso» ma finalmente conosce pure una sua valenza positiva: si rivela anche «benefico», infatti, manifestando così conclusivamente la sua ossimorica ambivalenza assiologica16. Siamo al cuore della prospettiva ontologica luziana, quale giunge a maturazione nell’ultima fase della sua attività intellettuale e artistica. Fase in cui la storia si congeda definitivamente e cede il passo all’ontologia, bivalente ma non dialettica17.

«Si congeda»: non nel senso che venga espunta dalla riflessione di un poeta che, anzi, per tempo trovò il coraggio di esporre i propri versi «alle ruvide esigenze, al brutale ricatto del momento storico» (Raboni); ma in quello che induce a registrare come risulti integrata e assorbita senza residui – la storia umana, in Luzi – entro una prospettiva dinamico-teleologica che coniuga la linearità agostiniana, col suo caratteristico ibridismo di storia sacra e storia profana e – essenzialmente quale versione aggiornata, e acclimatata all’epoca tecnico-scientifica, di quello schema tanto smaccatamente premoderno – la sovrapposizione teilhardiana tra biologico ed escatologico, con la caratteristica incurvatura che rimette l’esito del tracciato storico nel suo principio18.

A conclusione di Le donne di Bagdad si può finalmente manifestare, così, la coppia polare per eccellenza, l’archetipica figura della duplicità che permette di riconsiderare in una nuova luce, in realtà antichissima, il dilemma sul destino umano, sul senso della storia. La guerra non è che un epifenomeno, una variante storica della morte, «la sola maestà | che non vien meno». Perenne maestà consistente nel fatto che la morte rappresenta ciò che più di ogni altra cosa permette di prendere coscienza che la vita è «sacrosanta».

I puntini di sospensione su cui il testo si chiude sembrano voler affidare al lettore il compito di trarre le conseguenze di questa superiore saggezza storico-creaturale – la «serena saggezza» dell’ultimo Luzi19 –, e volergli passare il testimone di una riflessione che nel suo esito di magniloquente sordina è tuttavia sostanzialmente già compiuta.

*

In un testo come Le donne di Bagdad la guerra viene surrettiziamente naturalizzata sub specie ontologica; quindi in ultima istanza destorificata, nella misura in cui la storia non sarebbe che un epifenomeno – pure, certo, significativo: non meramente additivo – dell’Essere diveniente, del quale ricalcherebbe, come orme già deposte, le medesime immutabili leggi. La guerra s’ingloba alla parte oscura del reale, quella irredenta che partecipa del male e del dolore, «parte difettiva» del creato che tuttavia «è difettiva rispetto a una plenitudine che pure esiste, almeno idealmente»20. Verrà certo un giorno il Cristo a redimerla d’un colpo e per sempre21, quella parte negativa coessenziale alla creazione22. Ma che solo il dio degli umani possa riuscire a tanta impresa dice tutto sull’intrinsecità del male all’Essere. Intanto, però, il negativo è necessario perché quell’Essere si dia, e perché emerga sempre più pienamente a coscienza – nella storia – la parte che al negativo si oppone come sua componente complementare – sistole e diastole in cui consiste appunto la struttura ultima del reale, il ritmo del divenire.

Il male allora, propriamente, non esiste (ancora sant’Agostino). La stessa guerra è bensì cosa empia, da stigmatizzare e scongiurare, misfatto di cui si possono certamente riconoscere le ragioni fin troppo umane23; ma questo suo carattere di scelus non fa altro che segnalare e confermare, in Luzi, il definirsi della guerra – come di ogni male storico – quale altra faccia del sacer, dell’insondabile sacralità dell’Essere (dunque della «sacrosanta» vita che lo corona, permettendo quella coscienza di cui il poeta permane – cfr. infra – il pur umile e detronizzato campione).

Come si vede, si tratta di una vera e propria teodicea24, di una visione in tutto e per tutto provvidenzialistica25 – per quanto certo aggiornata, ‘dinamizzata’ e coinvolta in trattamenti retorici, rielaborazioni immaginali, soluzioni formali estremamente suggestive e dall’esito – nei casi migliori – letterariamente memorabile. Le cose che accadono stanno bene così e hanno un senso, per quanto riposto e talora difficilmente accettabile, scandaloso. In definitiva senza la morte non c’è la vita, senza dolore non c’è redenzione, senza la guerra non c’è la pace – o meglio: la coscienza piena del Valore. In attesa di una plenitudine che certamente verrà, e cui di sicuro approssima ogni evento – «oltre l’episodicità negativa dell’accadimento storico particolare»26.

In questo senso la domanda che leggiamo al v. 21 di Le donne di Bagdad può essere considerata la stessa che nel finale di Rosales – l’opera teatrale del 1983, dunque pressoché coeva alla raccolta che inaugura la terza stagione luziana – si pone il protagonista, e su cui l’Autore si sofferma (dieci anni dopo, negli stessi mesi del nostro componimento) nel suo dialogo con Mario Specchio: «no, non è vero, che non cambia nulla» osserva Luzi parafrasando il suo personaggio «Queste cose [le persecuzioni e il male della storia] ritornano, ma quando ritornano non sono mai uguali e c’è un gradino in più di coscienza. E questo è il cristianesimo, in sostanza». Di sicuro il cristianesimo bio-ontologico e utopico-escatologico di stampo teilhardiano27.

Per Luzi «il mondo è quello che è»28. Vale a dire inintaccabile nella sua «continuità replicante»; e dice bene ancora Fortini, che nel poeta di La Barca la presenza di Jung compensa sempre e neutralizza ogni possibile evocazione di Ernst Bloch. I ‘progressi’ – in un tempo immobile, presente assoluto agostiniano in cui arcaico e supertecnologico si affrontano e confondono – sono solo avanzamenti della coscienza. Principale latore della quale, in una storia sempre più infame, è come detto il poeta. Sua precipua funzione infatti, malgrado la sempre più grave marginalità e la forzosa discesa dal piedistallo, è di testimoniare la resistenza dell’umano contro le imposture, le alienazioni e le crudeltà della storia – per «ritrovare il contatto con una natura non disumanizzata», con la quale l’uomo torni a interagire «nella compromissione con il trascorrere temporale»29.

Si tratta, a guardare bene, di una regressione: l’immersione «nell’opera del mondo» è risultata esperienza fallimentare, il rischio di dispersione e di perdita del valore è stato corso tutto intero accettando la sfida della Modernità dispiegata. Ma – è il senso di una storia, quella della poesia di Luzi, veramente «univoca e molteplice» (Raboni) – quando questa rifluisce, il poeta, che peraltro non ha mai smesso di essere «coerente alle sue origini» (Fortini), ritorna sui propri passi, in verità senza dover percorrere molto (pur magmatico) terreno: ripiega sul «giusto della vita». Che – val la pena di rimarcare – con la giustizia di questo mondo ha ben poco a che spartire30.

*

Franco Fortini notò, con il consueto acume, che nell’ora degli «eroi bastonati» e del corrompersi degli ideali comuni l’importanza di Luzi, o se non altro quella dei suoi «discorsi teorici e critici», cresceva31. Fortini, estimatore e amico di Luzi, riteneva pure che nel mutare dei tempi l’autore di Nel magma si fosse ritrovato a essergli inopinatamente compagno, tra gli sconfitti e nella schiera degli orfani di un mondo (quello ‘umanistico’? quello del ‘valore’?) sconquassato dalle bordate della storia. Qui però, in quest’ultimo rilievo, l’acume fortiniano in verità fallisce. Non poteva probabilmente ancora vedere, Fortini, come in realtà il proprio «avversario ideale e continuo» non andasse affatto annoverato tra i perdenti; ma come al contrario l’idea e la pratica luziane della poesia, la sua concezione della funzione storica del poeta, all’alba della nuova temperie – quella che va liquidando i capisaldi della Modernità, dalla filosofia della storia alla funzione civile dell’intellettuale –, stessero guadagnando inesorabilmente terreno.

In questo contesto di rinnovato interesse e di promozione valorizzante vanno letti da una parte l’attenzione – del resto ricambiata32 – di pensatori come Cacciari o Givone, particolarmente sensibili a quel terzo tempo della poesia luziana che viene sovente interpretato, coerentemente, nei termini di un impeccabile neoheideggerismo33 – ed ecco allora il vecchio poeta ermetico diventare il beniamino dei «nuovi filosofi», e quasi un secondo Jabès34; dall’altra lo stesso protagonismo civile dell’ultimo Luzi, sempre più poeta ufficiale della nazione (e val la pena di richiamare allora il riferimento di Zagarrio alla tradizione vichiano-foscoliana, che Luzi avrebbe a suo modo continuata35), sempre più impegnato in cause, quali appunto quella del pacifismo, che lo espongono pubblicamente, anche attraverso i media di massa. Tale inedito protagonismo – all’insegna di un’idea ben precisa di poesia e di poeta, improvvisamente congeniale all’epoca che andava dischiudendosi – si dispiega lungo il decennio dei Novanta e culmina, pochi mesi prima della morte, con la nomina del poeta a senatore di una repubblica in tutta evidenza ignominiosamente rediviva36.

Nell’ultimo periodo della sua vita Luzi assurge quasi spontaneamente al ruolo di Magister Italiae, mentre elabora una poesia – quella delle ultime raccolte, che pure presenta esiti di valore talora non trascurabile – che in definitiva può essere descritta come una variante tarda del Modernismo simbolista aggiornata al regime di fine della storia che andava instaurandosi in quegli anni. Dalla profluvie dei suoi ultimi versi promana in ipnotica fissità la lode sommessa, più o meno esplicita, di valori grandi ed essenziali, inevitabilmente condivisi: l’Essere, la natura, la vita, l’essere umano e appunto la pace. Per chi sappia leggere in profondità, la versione highbrow dell’umanesimo tardomoderno sbrigativamente adottato da un «progressismo medio» (Adorno) che tuttavia si pasce più volentieri di cantautori ispirati, cabarettisti democratici e giornalisti promossi al rango di grandi intellettuali. Ma che nondimeno sente pure il bisogno di un autore d’alta gamma, da mettere nelle antologie scolastiche e da candidare al premio Nobel.

Questo autore, tuttavia, è un poeta che si pone nella vicissitudine dei tempi solo fantasmaticamente, mentre nella realtà ripete l’antico gesto di rifugiarsi nella forma per celebrare alcune eterne verità; dislocandosi così fuori dalla storia, avulso da una contesa reale che può appena permettersi di contemplare in televisione, prima o dopo cena, insieme ad alcuni altri milioni di umani, come lui esclusi e impotenti.

Chi scrive una poesia come Le donne di Bagdad è un poeta e un uomo che si è definitivamente ritratto dall’opera del mondo, fedele soltanto al riconoscimento di un giusto della vita costitutivamente equivoco. Nondimeno, attraversando l’estrema stagione della poesia luziana e percorrendo in particolare il corposo volume delle Poesie ultime e ritrovate, si resta colpiti dal senso davvero aurorale, di «luce nascente», circolante nell’ultima produzione di un autore che nell’estrema vecchiezza seppe ancora conseguire risultati di prestigiosissima perizia letteraria. E ciò – questo senso d’incipiente apertura, di promessa sul punto di venire finalmente esaudita, di prossimo salvifico avvento, d’incombente parusia, di ripetuto Ereignis – proprio mentre la morte, invece, s’avvicina e incupiscono i destini generali. Ma per un poeta come Luzi è ben ovvio che sia così, che crepuscolo e aurora s’ingorghino (Zagarrio), che bene e male si sostengano vicendevolmente, in una tensione agonica ma neutralizzante che sfocia in una sorta di inquieto ecumenismo irenistico, la forma più conseguente di un mai rinnegato umanesimo di conio religioso. In forza di questo umanesimo aggiornato ai tempi nuovi, post-ideologico ma essenzialmente regressivo, Mario Luzi non è «un “partigiano della pace”, ma è uomo di pace»37.

Il dilemma, dilemma vero e non metafisica irrisolvibile unanswered question, per chi pensi al contrario che della pace non si possa che essere partigiani – dal momento che c’è una parte, cui occorre contrapporsi, che la pace invece avversa e che le guerre in ogni modo sostiene e promuove – è il seguente: accogliere nella propria parte, in nome della comune opposizione al fronte bellicista, tutti coloro che, dalle posizioni più differenti e per le giustificazioni più diverse, contrastino pubblicamente la guerra, e farne quanto meno dei compagni di strada e di lotta; oppure, correndo l’eterno rischio della frammentazione e del settarismo, segnare severamente dei distinguo, e far vedere di che lega sia, caso per caso, il ‘pacifismo’, mostrando come non basti essere nel giusto per trovarsi dalla parte giusta e, all’estremo, giungendo a rifiutare quel pacifismo che riposi su fondamenti – più o meno invisibili: di ordine psicologico, ideologico, morale, metafisico, religioso, ecc. – non estranei, in ultima istanza, al perpetuarsi di uno stato di cose, di una storia, che permette le guerre, che le reputa inevitabili, che le vuole, che ne fa forse, addirittura, una dolorosa ma costitutiva componente del «giusto della vita»?

Note:

  1. In Mario Luzi, L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di S. Verdino, Milano, Mondadori 20107, pp. 1218-19. Il componimento è incluso nella sezione Sia detto(per cui cfr. la nota del curatore a p. 1815).Cfr. A viva voce, prefazione a Mario Luzi,  Interviste 1953-1998, a cura di Annamaria Murdocca, Firenze, Cadmo 1999, p. X.
  2. pure, a cura dello stesso Verdino, A Bellariva. Colloqui con Mario, ora in M. Luzi, L’opera poetica, cit., pp. 1239-92 (p. 1274). Dai «colloqui» di Luzi con Verdino (p. 1282) è tratta l’affermazione in esergo a questo scritto.
  3. Così il poeta in un’intervista del 1989 a P. Di Stefano (in Conversazione, cit., p. 28).
  4. S. Verdino, Le immagini di Onore del vero, in A. Serrao (cur.), Mario Luzi. Atti del Convegno di Studi [-]Siena, 9-10 maggio 1981, Roma, Edizioni dell’Ateneo 1983, pp. 125 ss. e 132-3, nota 22.
  5. CFr,, nell’apparato critico a Sia detto, l’annotazione di Verdino (in M. Luzi, L’opera poetica, cit., pp. 1816-17).
  6. Mario Luzi e Mario Specchio, Luzi. Leggere e scrivere, Firenze, Nardi 1993, p. 93.
  7. È significativo, peraltro, che il testo di Luzi tragga occasione proprio dalla prima guerra massicciamente mass-mediatizzata e spettacolarizzata: cfr. A. Scurati,  Narrazioni e culture nella tradizione occidentale, Roma, Donzelli 20072. Dello stesso Scurati, in relazione alla Guerra del golfo, cfr. pure Dal tragico all’osceno. Narrazioni contemporanee del morente, Milano, Bompiani 2012, cap. II. Sulla scandalosa spettacolarizzazione massmediatica della violenza e della strage cfr. Mario Luzi, Le nuove paure. Conversazione con Renzo Cassigoli, Firenze, Passigli 20052, p. 104.
  8. Cfr. Giovanni Raboni, Il respiro del pensiero, in S. Mecatti [cur.], Pensiero e poesia nell’opera di Mario Luzi, Firenze, Vallecchi 1989, pp. 7-18 (p. 8). Da questo saggio sono presi tutti i riferimenti a Raboni presenti nel testo.
  9. Cfr. Stefano Verdino, Introduzione a M. Luzi, L’opera poetica, cit., pp. IX-LIV (p. XII).
  10. Luzi scoprirebbe «che la forma poetica è essenzialmente interrogativa, e questa è la sua essenza più propria» (Sergio Givone, Voce e silenzio nel linguaggio poetico di Luzi, in R. Cardini e M. Regoliosi (curr.), Gli intellettuali italiani e la poesia di Mario Luzi, Roma, Bulzoni 2001, pp. 27-34; cit. a p. 27). Cfr. pure A Bellariva, cit., p. 1277.
  11. Cfr. Vittorio Sereni, Testimonianza sulla poesia di Mario Luzi, in A. Serrao (cur.), op. cit., pp. 75-7 (p. 76).
  12. Luzi torna pure altrove sulla valenza di strumento vecchio, arcaico, propria della guerra. Per esempio in un testo poetico anche per altri versi significativo, egualmente «d’occasione» e riferito anch’esso a una guerra nel Golfo persico (ma quella di aggressione cominciata dagli Stati Uniti nel 2003): Scelus, pubblicato dapprima sul «Corriere della Sera» del 27 Marzo 2003 e ora in Poesie ultime e ritrovate, a cura di S. Verdino, Milano, Garzanti 2014, pp. 515-16.
  13. Cfr. Verdino, Introduzione, cit., p. XLIII.
  14. L’espressione, di Massimo il Confessore, è usata da Giorgio Mazzanti a proposito della concezione dell’universo propria dell’ultimo Luzi (cit. in Girolamo Maino, Mario Luzi. La visione sapienziale del mondo, Padova, Edizioni Messaggero 2006, p. 218).
  15. Cfr. L. Rizzoli e G. C. Morelli, Mario Luzi. La poesia, il teatro, la prosa, la saggistica, le traduzioni, Milano, Mursia 1992, p. 130.
  16. La realtà come «perpetua trasformazione», lo «svolgimento temporale» come «creazione incessante», implicano la possibilità per il poeta di «fare anche del negativo un elemento positivo»: nel «divenire eternamente», infatti, «gli opposti hanno legami oscuri ma molto forti tra di loro» (L. Rizzoli e G. C. Morelli, op. cit., pp. 139-40). In questa prospettiva può essere interessante leggere un componimento che costituisce quasi il pendant di quello ora in lettura, Soldatesca (cfr. L’opera poetica, cit., pp. 1229-30 e, nell’Apparato critico, la nota di Verdino a p. 1820).
  17. Su questa prospettiva a-dialettica, su questa «immobilità nel mutamento», Fortini è nettissimo: cfr. Id., Introduzione a Discorso Naturale, in Serrao (cur.), op. cit., pp. 49-54 (p. 50). Da questo saggio sono presi tutti i riferimenti a Fortini presenti nel testo.
  18. Teilhard, in particolare, consente a Luzi di pensare la storia come incessante processo di perfezionamento dell’umano e compimento del mondo: come destino.
  19. Cfr. L. Rizzoli e G. C. Morelli, op. cit., p. 204.
  20. Cfr. Mario Luzi, La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, a cura di S. Verdino, Casale Monferrato, Piemme 1997, p. 50.
  21. Il motivo «cristico» è particolarmente presente nell’ultima stagione della poesia luziana. In una prospettiva più o meno scopertamente escatologica, certamente. Ma anche come chiave di volta per la valorizzazione della sofferenza universale, del negativo del tempo.
  22. «La sofferenza è reintegrata a pieno titolo nel circolo vitale», in una «“economia di dolore e di piacere […] evidentemente iscritta in un universo che ha bisogno di questo e di quello”» (L. Rizzoli e G. C. Morelli, op. cit., p. 131).
  23. Su questa consapevolezza delle «intollerabili ingiustizie» che stanno dietro alle guerre e sulla forma di umanesimo etico-civile (e religioso) propria dell’ultimo Luzi cfr. in particolare Le nuove paure, cit., passim.
  24. Cfr. Rizzoli e Morelli, op. cit., p. 115: «Man mano che il divenire e la metamorfosi del naturale acquistano delle connotazioni positive, l’universo si mostra in crescita e in evoluzione malgrado la frammentarietà dell’esistente. La storia, come qualsiasi vicenda umana, si carica di significati esistenziali anticipati nel presente da segni premonitori che, sebbene sembrino indecifrabili, ci indicano la presenza di una volontà che sta al fondo degli avvenimenti e li giustifica pienamente».
  25. Entro la quale, per esempio, il poeta può far valere (in un’intervista del 1979) l’idea teilhardiana dello stesso marxismo quale «strumento inconscio del cristianesimo» (cfr. Conversazione, cit., p. 125).
  26. Cfr. Rizzoli e Morelli, op. cit., p. 154.
  27. Cfr. Leggere e scrivere, cit., p. 96.
  28. La porta del cielo, cit., p. 50.
  29. Cfr. Rizzoli e Morelli, op. cit., pp. 124-5. La poesia aiuta l’uomo «a trovare se stesso, la sua essenza» smarrita o pericolante, esprime la resistenza della «specie umana» alla moderna crisi dell’umano (Le nuove paure, cit., pp. 28 e 52).
  30. Cfr. infatti La porta del cielo, cit., pp. 49-50. Sulla particolare funzione testimoniale che Luzi riconosce a se stesso e in generale ai poeti cfr. l’illuminante saggio di Giuseppe Zagarrio, Luzi la metamorfosi e la storia – (Ovvero dalla Parte giusta), in Serrao (cur.), op. cit., pp. 141-53.
  31. Cfr. F. Fortini, op. cit., p. 50.
  32. Cfr. M. Luzi e M. Specchio, op. cit., p. 83.
  33. L’Autore ebbe ad affermare (cfr. Le nuove paure, cit., p. 51) di non aver avuto mai «nulla a che fare» con Heidegger e con l’Esistenzialismo (evidentemente, in modo improprio, assimilati). Ma secondo il certo non inaffidabile Verdino (cfr. Le immagini di Onore del vero, cit., p. 129) Heidegger fu in realtà, con Teilhard, un «altro filosofo significativamente presente a Luzi».
  34. Cfr. significativamente Fondamenti invisibili, «omaggio» di M. Cacciari a Luzi nel volume curato da Mecatti (op. cit., pp. 19-30; il saggio viene presentato dal suo autore come pendant di uno scritto su Jabès: cfr. p. 21, nota). Cfr. pure, dello stesso Cacciari, Insostenibile incarnazione (in Gli intellettuali italiani e la poesia di Mario Luzi, cit., pp. 37-40) e Simplicitas e Caritas nella poesia di Mario Luzi (in M. Luzi, Autoritratto, a cura di P. A. Mettel e S. Verdino, Milano, Garzanti 2007, pp. 379-86). Al medesimo gergo critico appartiene il già citato intervento di Givone.
  35. Cfr. Luzi la metamorfosi e la storia, cit., p. 144.
  36. Per la ricostruzione dell’ultima fase dell’esistenza, anche pubblica, del poeta si veda la dettagliata Cronologia approntata da Verdino per il già ripetutamente menzionato volume con L’opera poetica (in particolare pp. CVI ss.). Cfr. pure, nel medesimo volume e dello stesso Verdino, l’egualmente già ricordata Introduzione, p. LI. Per una testimonianza diretta sul Luzi ‘militante’ si vedano le interviste raccolte nella sezione «Polis» di Conversazione, cit..
  37. Come si legge a conclusione della nota biografica in cui Giorgio C. Morelli rievoca proprio i mesi della Guerra del golfo: cfr. Rizzoli e Morelli, op. cit., p. 16.

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