Appunti politici (2): Improvviso poco musicale

ennio-appunti-politici-2

di Ennio Abate

« Allora cerchiamo di capire, nei limiti del possibile, quali sono le dinamiche in gioco e il posto che noi, come nazione nello scacchiere, occupiamo». (Simonitto)

1.
«Cerchiamo di capire» mi sta bene. Chi sono quelli che devono cercare di capire è, mi pare, alquanto incerto, perché – per me – è incerto chi sia questo “noi” che deve capire e cosa deve capire. È un «noi, come nazione»? Mi pare che rispondano sì Bugliani, Fischer, Paraboschi e Simonitto (e ovviamente, in altre sedi e per ora non in questo post, Buffagni e La Grassa).
Ora io, sollevando il dubbio (*una «lotta nazionale», «una coscienza nazionale» che prevede il « recupero della sovranità economica, monetaria, legislativa, costituzionale» è davvero « l’unico punto di partenza possibile»? (Ennio, 7.12 h. 13.21), forse  finirò, come un ultimo mohicano, a difendere non la sinistra (ho detto io pure che non c’è più), non il comunismo (ho detto io pure che è ridotto a rovine, ormai poco frequentate anche dagli studiosi), ma a chiedere di pensare fino in fondo e criticamente cosa comporti o comporterebbe tale scelta o riorientamento. Soprattutto per chi viene da una certa storia (di sinistra e in qualche modo “comunista”). Ma anche per chi – e qui rubo la definizione a Rita [Simonitto] molto  vicina all’evocazione che spesso ho fatto della figura brechtiana di Madre Courage – «povero tra poveri, non serve a nessuno se non come massa di manovra, e la sua idealità è moneta che non vale più nulla».

2.
Segnalo quanto appena segnalato stamattina su “Poliscritture FB”:

Minima Cardiniana 151
di Franco Cardini
Pubblicato il 5 dicembre 2016
Domenica 4 dicembre – II Domenica d’Avvento
E ORA?
http://www.francocardini.it/minima-cardiniana-151/

Stralcio:

I “populisti” (un termine che francamente non mi ha mai convinto) hanno forse ormai trovato un’etichetta nobilitante e altisonante, che potrebbe far colpo e aver fortuna: qualcuno di loro ha già cominciato a definirsi “sovranista”. Una parola forte, che fa colpo. Ma allora, cari sovranisti, siete tali soltanto per quel che riguarda la sovranità monetaria, quindi contro l’UE? Non volete essere sovranisti davvero, sul serio, a trecentosessanta gradi? Quello sì che sarebbe un “sovranismo per la sovranità”, e ci starei anch’io, a costo di abbandonare almeno per il momento (e con la riserva di recuperarle con maggior energia) le mie vecchie illusioni europeiste, che al momento non hanno alcuna base popolare in alcun paese. Ma “sovranità” significa quattro cose: la “bandiera”, cioè l’autorità politica”; la “toga”, cioè l’autorità giurisdizionale; la “moneta”, cioè l’autorità finanziaria e monetaria; la “spada”, cioè l’autorità militare che sottintende la politica estera. Cominciamo da quest’ultima: qui c’è uno scoglio, l’occupazione militare USA-NATO del paese. Qui come la mettiamo, amici sovranisti? Un’altra bella prova di politica dello struzzo? FC

3.

E, in attesa di sistemare le mie osservazioni allo scritto “Destra e Sinistra”, un quasi “manifesto” di Roberto Buffagni (qui) , anch’esso “trainante” in direzione “nazionale”  ripropongo su “Poliscritture sito” il post che avevo lasciato l’1 dicembre su “Poliscritture FB”:

Ennio Abate
1 dicembre alle ore 11:57

POLITICA, COMUNISMO, SCOMMESSE
*Ancora una mia replica- preciso: non  pubblicata su “Le parole e le cose” e non so, pur avendo scritto alla redazione,  perché –  a Roberto Buffagni sotto il post “Trump e l’America dimenticata”
(http://www.leparoleelecose.it/?p=25030)

La riflessione sul dopo Trump s’è trasferita in altro post ma replico ancora a Roberto Buffagni, pur trovando paradossale e anche un po’ divertente che a parlare ancora di comunismo qui su LPLC siamo rimasti io (epigono di un “comunismo critico”) e lui «anticomunista» .

@ Buffagni

1.
Non so quante cose restino da fare nella vita se la politica (o, meglio, la biopolitica) s’infiltra in essa in modi tanto capillari e quasi sempre violenti e distruttivi. Sinceramente mi importa poco se l’azione politica sia obbligatoria o si possa evitare. Mi chiedo invece: esiste davvero una scienza politica che a un “noi” (qualunque esso sia oggi) impone passi obbligati e indiscutibili? Scrivi: «Se invece uno decide di farla, l’azione politica, o se è obbligato a farla, la designazione del nemico principale è il primo, primissimo passo da compiere». Si fa così e non si può fare altrimenti? Altre vie sono davvero impraticabili? Non so. A me ronza in mente ancora l’idea che la politica sia l’*arte del possibile* (anche perché viene fatta in una storia che muta di continuo e ci sorprende).

2.
Sospetto un grande, “realistico”, esorcisma nella tua affermazione:« il comunismo è un’impresa e un’idea radicalmente sbagliata, che non solo non si realizzerà mai, ma che quando ci si prova, realizza soprattutto disastri epocali». L’analisi storica a me pare dimostri proprio che un’idea radicalmente sbagliata non esista. E «disastri epocali» sono stati compiuti tanto in nome del comunismo (per te «un’idea radicalmente sbagliata») tanto in nome di idee (religiose o laiche o neopagane) considerate (dai loro fautori) del tutto giuste. E perciò mi sento vicino alla posizione di Badiou (Vedi P.s.): fosse pure il comunismo ridotto ad una kantiana idea regolativa – questa è l’accusa che gli viene mossa – e dunque fuori dalla scena politica attuale dominata, come a te pare, dallo scontro tra globalismo e nazionalismo, esso resta come problema. Come minimo da ristudiare, da capire di più. (Cfr. http://operaviva.info/perche-una-conferenza-sul-comunismo/).

3.
Stalin, certo, avrebbe fatto fare una brutta fine sia a te che a me. Ma proprio per questo l’URSS stalinista non può essere definita, come tu fai, base del comunismo o sua roccaforte. ( Meglio la diagnosi spietata di La Grassa: il movimento comunista è finito già col 1917). Sparita l’URSS, è sparito dalla scena politica quel «movimento comunista mondiale» ad essa legato o da essa ispirato. Ma le questioni poste non erano riducibili a quelle accolte o ritenute legittime dallo stalinismo. E perciò non chiamerei «eresie» le posizioni minoritarie e represse che, a differenza dello stalinismo, sulla scena non ci sono mai state, ma mai sono del tutto scomparse. Ammetto che siano rimaste catacombali e/o carsiche. (Inesistenti o inconsistenti ad un occhio geopolitico o realpolitick). Ma quante cose sfuggono, appunto, alla politica pur esistendo o non essendo “nominabili” o “rappresentabili”? Lo stretto legame (quasi di filiazione o di complementarità) che stabilisci tra istituzione politica ortodossa e eresie a me pare falsante. Certo chi costruisce l’ortodossia decide pure quali debbano essere le eresie. Ma i cosiddetti eretici non solo non si sentono tali ma, a rigore, non lo sono. Possono essere pionieri di una nuova visione (se e quando riescono a delinearla) o epigoni che si dibattono nella vecchia visione, non riuscendo ad uscirne. (Lenin, ad es., fu un eretico per la socialdemocrazia europea ma un rivoluzionario per quelli che lo seguirono nell’impresa dell’Ottobre).

4.
Non scegliere tra globalismo e nazionalismo vuol dire restare a “vivacchiare” fuori dalla politica? Sì, se la politica fosse quella tavola delle leggi data una volta per sempre e da applicare secondo le norme stabilite dai suoi specialisti. No, se un margine di innovazione o addirittura di rivoluzione “extraspecialistica” non può mai essere escluso. E no, ancora, se – dal mio punto di vista – *scelgo* di scommettere contro il globalismo e il nazionalismo, cioè contro due opzioni che in fondo si alimentano a vicenda e ci paralizzano.

5.
Proteggere la verità della mia/nostra storia non comporta automaticamente (anche se il rischio c’è) il ripeterla «tale e quale, con lo stesso risultato: equivoco e sconfitta». La storia – ripeto – non ha un andamento lineare e certo. E non scarta mai definitivamente certe strade. Il che permette di scommettere sempre e comunque su quello che consideriamo il “meglio”. (A seconda dei bisogni e dei desideri che maturiamo e dei ragionamenti che riusciamo a fare sulla “realtà”). “Qualcosina”, dunque, si muoveva anche in quegli anni ’60 del secolo scorso tanto da permettere a Fortini (e non solo a lui) la sua scommessa e sostenere con qualche ragione che allora erano « nostri nemici tanto l’URSS quanto gli USA». Non parlava da Marte. Le «terrificanti cantonate sulla Cina» solo oggi si vedono facilmente. (Sempre se ci si mette dal punto di vista dei vincitori).

P.s.
Riflessioni sulle recenti elezioni americane
di Alain Badiou

Stralcio:

«Il primo punto è che non è una necessità che la chiave dell’organizzazione sociale sia nella proprietà privata e nelle mostruoso disuguaglianze. Non è una necessità. Dobbiamo affermare che non è una necessità. E possiamo organizzare esperienze limitate che dimostrano che non è una necessità, che non è vero che la proprietà privata e le mostruose disuguaglianze devono essere per sempre leggi dell’essere umano. È il primo punto.
Il secondo punto è che non è una necessità che i lavori siano divisi tra lavori nobili, come la creazione intellettuale, o la direzione, o il governo, e dall’altra parte il lavoro manuale e l’esperienza materiale comune. La specializzazione dell’etichetta non è una legge eterna, in particolar modo l’opposizione tra il lavoro intellettuale e quello manuale deve essere eliminata a lungo termine. È il secondo principio.
Il terzo è che non è necessario che gli essere umani siano divisi da confini nazionali, razziali, religiosi o di genere. L’uguaglianza deve esistere attraverso le differenze, quindi la differenza è di ostacolo all’equità. L’equità dev’essere dialettica delle differenze, e dobbiamo rifiutare che l’equità sia impossibile nel nome delle differenze. Quindi i confini, il rifiuto dell’altro, in qualsiasi forma, deve scomparire. Non è una legge naturale.
L’ultimo principio è che non è necessario che esista uno stato, nella forma del potere separato e corazzato.
Quindi questi quattro punti possono essere riassunti così: collettivismo contro proprietà privata, lavoratore polimorfico contro la specializzazione, universalismo concreto contro le identità chiuse, associazione libera contro lo Stato. Sono solo dei principi, non è un programma. Ma con questi principi, possiamo giudicare tutti i programmi politici, le decisioni, i partiti, le idee da questo punto di vista.
(http://sinistrainrete.info/…/8513-alain-badiou-riflessioni-… )

17 pensieri su “Appunti politici (2): Improvviso poco musicale

  1. …da un po’ ci penso, ma per ora resto ferma nell’idea che globalismo e nazionalismo siano due facce della stessa medaglia, entrambe sembrano giocare ad un unico gioco: “rubiamoci la coperta”. Se ormai il pianeta Terra può essere considerato un unico corpo- pianeta, si osserva che alcune superfici si sono accaparrate strati e strati di coperta, sotto i quali il calore è in abbondanza, vi soffocano persino, scoppiano, ma non di rado al loro interno si presentano bucherellate…in altre le coperte sono lembi leggeri, come in alcuni Paesi mediterranei e lì si comincia a “barbellare” per il freddo…in altre aree ancora le superfici sono completamente scoperte, spogliate e forate, lì la vita si spegne. Visto che si ragiona di nazionalismo, mi sembra solo il risveglio dell’infreddolito, ma non risolverà nulla. il pianeta è malato. la cura è diversa…

  2. SEGNALAZIONE

    Sperimentare il comune
    La democrazia e l’offensiva dell’oligarchia neoliberista
    Pierre Dardot, Christian Laval
    (http://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/8637-pierre-dardot-christian-laval-sperimentare-il-comune.html)

    * Qui, con osservazioni interessanti, mi pare vengano corrette le spinte elitarie che concepiscono la politica come mera professionalità da lasciare in mano a specialisti. Il discorso però si sposta troppo verso il mito della Comune e un assemblearismo, sui cui limiti storici si sorvola.[E. A]

    Stralci:

    1.
    La cosiddetta sinistra di governo ha una responsabilità intera nella radicalizzazione del neoliberismo. Non è, come vorrebbe far credere, la vittima innocente di mercati finanziari cattivi o dell’abominevole dottrina ultraliberista degli anglosassoni. Anziché resistere alla potenza della destra neoliberista, la sinistra ha organizzato il suo stesso naufragio intellettuale e politico.
    Quando in Europa è stata maggioritaria, dalla fine degli anni Novanta agli inizi degli anni Duemila, c’è chi ha creduto che l’Europa sociale e politica potesse finalmente avere la meglio su quella delle banche. Grazie al comportamento della maggior parte dei dirigenti socialdemocratici, l’occasione di un riorientamento della politica europea andò completamente sprecata. Con Schröder, la solidarietà europea è finita in trappola e fu data priorità alla competitività della Germania attraverso la compressione dei salari e la flessibilizzazione del mercato del lavoro.
    Per capire questo allineamento, occorre risalire un po’ più lontano nel tempo. Se le politiche di austerità sono riuscite a imporsi così facilmente in Europa, la socialdemocrazia europea ne è la prima responsabile, preferendo allearsi con la destra su questo terreno, anziché fare da contrappeso. È giunta persino a voler dimostrare a quale punto fosse zelante quando si è trattato di scaricare il peso della crisi sulla popolazione aumentando le imposte, riducendo le pensioni, congelando le retribuzioni dei dipendenti pubblici, demolendo lo statuto dei lavoratori.
    La sinistra di governo ha così smesso di incarnare una forza di giustizia sociale, il cui obiettivo fosse l’uguaglianza civile, politica ed economica e la cui molla lo scontro di classe. L’estrema destra non ci ha impiegato molto ad andare a caccia sulle terre operaie abbandonate, strumentalizzando la rabbia di una frazione di elettorato popolare e rivolgendola contro gli immigrati e il sistema che si presume li favorisca.

    2.
    in questione c’è l’esistenza stessa della sinistra, dell’intera sinistra, al punto che la sua imminente scomparsa non è affatto improbabile. L’indigenza teorica, la pigrizia intellettuale, i discorsi stereotipati, i proclami magniloquenti a ritrovare i grandi valori, i posizionamenti meschini dettati dal calendario elettorale ne sono certamente la causa. Ma più di tutto, ciò di cui soffre la sinistra è il totale default di immaginario. Il fallimento storico del comunismo di Stato non ha dato nessun aiuto a togliere le castagne dal fuoco.

    3.
    Non è affatto innocente che il neoliberismo celebri la «reattività»: sapersi adattare a una situazione che ci viene imposta è la principale virtù di chi è esposto alla concorrenza, è la misura dell’interiorizzazione della concorrenza stessa.
    Ma per chi intenda contestare in blocco tale sistema, questo atteggiamento è intellettualmente e politicamente suicida. La crisi della sinistra proviene allora anzitutto dalla sua impotenza ad andare oltre la logica di una autodefinizione puramente reattiva. Se il neoliberismo si rafforza dentro e attraverso la crisi, così non può essere per quelli che provano a combatterlo: la crisi può solo indebolire e paralizzare, non come talvolta si crede generare un vigore meccanico in virtù del suo perdurare.
    Perché si diano le minime condizioni di un’opposizione a questo sistema, la sinistra deve piantarla di fare la «sinistra di reazione». Deve darsi le capacità di una vera attività. Deve riprendere l’iniziativa, contestando il neoliberismo in quanto forma di vita. Deve dunque aprire l’orizzonte di una «buona vita» senza cedere a uno pseudo-radicalismo libertario che rifiuterebbe norme e istituzioni e che, con il presunto rifiuto di ogni limite posto al presunto «desiderio», di fatto consacra l’assenza di limite del mercato.

    4.
    La ricostruzione della sinistra ha come premessa l’esatta comprensione del ruolo attivo dello Stato nell’offensiva destinata a demolire la democrazia nelle sue forme, incluse quelle liberali. La diffidenza nei confronti dello Stato è dunque d’obbligo.
    Narrazione fondamentale dello statalismo, lo «Stato strumento», o leva subito disponibile per l’azione pubblica, viene opportunamente a gettare un velo sulla spiacevole realtà di uno Stato che non è più il correttore dei mercati e nemmeno il garante esterno del loro funzionamento, ma che è diventato un attore neoliberale a tutto tondo. L’immaginario neoliberale non è l’utopia libertaria, non condanna lo Stato all’inesistenza: lo assolda dentro la logica della concorrenza, che è tutt’altra cosa. Non si farà a pezzi questo immaginario preconizzando il «grande ritorno» dello Stato o la restaurazione della Legge. Per questa strada si rafforzerà solo la sorpresa. E il ritorno di schemi nazionali e statali non sono altro che l’indice della persistente subordinazione intellettuale della sinistra.

    5.
    Se non può esserci altra contestazione al liberismo se non nell’opporgli nuove forme di vita, occorre allora guardare a coloro che inventano e sperimentano tali forme. Non c’è niente da aspettarsi dai partiti e dagli apparati che si contendono il riconoscimento dello Stato e da essi attendono posti e sovvenzioni. Perché abbia qualche possibilità, l’elaborazione di un’alternativa può venire solo dal basso, cioè dai cittadini. Il che non significa che occorra riannodare in modo puro e semplice i fili interrotti del cahiers de doléances.
    Occorre, invece, smetterla di rivolgere rimostranze a rappresentanti indegni di essere rappresentanti. Il presente impone di mettere radicalmente in discussione la logica stessa della rappresentazione politica, anzitutto nel modo di elaborare il progetto alternativo.

    6.
    il neoliberismo rappresenta il sequestro dell’esperienza comune attraverso l’expertise: solo l’esperienza della quale si fa garante l’esperto ha valore di esperienza, mentre l’esperienza comune viene squalificata come incompetenza. Invocare, contro l’expertisefinanziaria-manageriale, una qualunque «expertise politica» significa, che lo si voglia o meno, accettare la logica di questa confisca.

    7.
    Eppure non è più sufficiente fare appello all’esperienza comune. Ciò che importa non è tanto riabilitare l’esperienza comune quanto ridare tutto il suo peso all’esperienza del comune, ovvero all’esperienza di una copartecipazione alle questioni pubbliche

    8.
    Quello che fa la qualità della delibera in un’assemblea non è tanto l’expertise di ciascuno dei partecipanti, quanto la messa in comune dell’esperienza da parte della massa dei non esperti, ovvero da parte di coloro che presi singolarmente risulterebbero degli «incompetenti».

  3. 1) La prima domanda alla quale bisognerebbe rispondere è: chi è il sovrano?…Lo Stato nazionale?…Come la mettiamo allora con tutte quelle imprese che sono multinazionali?…Come la mettiamo con Google, Facebook, Apple?…Come la mettiamo con Marchionne?…E con la Finanza? E con i petrolieri?…E con la scienza come forza produttiva ? E con la tecnica?…O ci stiamo raccontando balle da parecchi decenni oppure occorre riconoscere che la sovranità degli attuali stati nazionali è limitata. Ma non è soltanto limitata dalla loro potenza economica, tecnico-scientifica, demografica…È limitata dalle condizioni generali della produzione economico-sociale attuale.
    Cos’è la “nazione” per un operaio, per un disoccupato, per un giovane laureato o meno?…Qualcosa che si mangia? Qualcosa che gli dà un lavoro fisso perché lo difende dall’esercito industriale di riserva che si forma e si è formato a livello mondiale?…ma quel giovane non è lo stesso giovane che scarica musica di madonna o lady gaga?…non è quello che si mette in viaggio?…E tra i nostri anziani non ci sono quelli che se ne vanno a svernare a Tenerife perché costa meno? E non ci sono quelli che se ne vanno in Croazia a curarsi i denti per la stessa ragione?…Davvero si pensa che la “globalizzazione” sia soltanto un fatto di merci e che la merce forza-lavoro, solo perché è fatta di persone che parlano una lingua, non sia altrettanto globalizzata?…”Nazione” è un concetto che ha una sua storia. Il mio amico Abate, che ama la storia e che da quasi un quarto di secolo vorrebbe praticare (almeno concettualmente l’esodo), potrebbe raccontarcela a menadito questa storia. È una storia finita o è ancora attiva? E se lo è, in che senso lo è?…Io mi sento italiano e cerco anche di scrivere qualche verso (più o meno bello) per la “gloria della nostra lingua”, ma i panni che indosso non sono italiani e la macchina che guido l’hanno costruita in Turchia e l’olio con cui condisco l’insalata forse viene dalla Tunisia e potrei continuare. Davvero si crede che si possono erigere confini per le merci come per gli immigrati?…
    2) Bravo Cardini!…Sovranisti “sotto l’ombrello” della Nato!…E ve l’immaginate l’Italia nel cosiddetto “concerto delle Nazioni”?!…i sovranisti dovrebbero come primo provvedimento reintrodurre la leva obbligatoria…Senza popolo in armi, disciplinato come un sol uomo, pronto a rispondere alla chiamata della Patria, dove volete che si vada?… La grande proletaria si è mossa!…
    3) D’accordo con Badiou. I resti viventi di una sinistra che voleva cambiare e rivoluzionare il mondo torni ad imparare qual è la vera contraddizione principale, quella dormiente, quella silenziosa…Non il clivage di Buffagni “tra forze favorevoli e contrarie alla UE e all’euro, quali che ne siano provenienza e cultura politica”. Questa è una totale mistificazione. Le forze contrarie alla UE sono forse anticapitaliste? Si propongono di modificare i rapporti di produzione sociale? Desiderano assicurare una più compiuta democrazia per gli sfruttati e gli oppressi?A me non risulta. E inoltre: qual è il loro programma politico? E il loro sistema di valori?…Per quanto mi riguarda, credo che siano soggettivamente e oggettivamente forze reazionarie che fanno e faranno il gioco del grande capitale internazionale. A questo proposito è sufficiente dare un’occhiata ai personaggi imbarcati da Trump nel suo governo per non avere dubbi. Di quale altre analisi c’è bisogno?…Che la nostra parte oggi sia politicamente debole e confusa. Che rischiamo di essere spazzati via da “analisi” politiche che sembrano più solide delle nostre semplicemente perché stanno sulla cresta dell’onda, non mi fa arretrare di un passo su ciò che io credo sia il vero clivage, la vera contraddizione: è tra capitalisti (di destra o di sinistra poco importa) e lavoratori. Occorre non stare dietro Buffagni che, tra l’altro, ci indica onestamente come nemici. Mettiamola così: questo continente, pur con tutti i difetti e le ingiustizie sociali esistenti, ha vissuto un mezzo secolo di sostanziale pace. Il nazionalismo e il sovranismo ci riporteranno all’Ottocento e al Novecento. In forme nuove, si capisce: la storia non si ripete. Contribuire al fallimento della UE significa esattamente questo. Vi risulta che dopo Tito nella ex Jugoslavia siano stati meglio? A cosa è servita la “balcanizzazione” di quella regione? E quella della ex URSS?…Non è stato proprio Putin a sostenere che il crollo dell’URSS è stata la maggiore catastrofe geopolitica della fine del Novecento?…Contribuire a far saltare l’UE significa volere la catastrofe geopolitica di un mezzo Continente che, restando unito potrebbe avere qualche voce in capitolo sulle questioni del globo, dividendosi e tornando agli stati nazionali, si indebolirà enormemente. A favore di chi?…I nostri rossobruni pensano forse alla Russia?…
    Pur non essendo una di lingue, d’armi e d’altar, credo che sia più vantaggioso per il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti scommettere sulla costruzione del “popolo europeo”. Lo so, ora non c’è. Oppure è un volgo disperso e diviso. Serve un èlite di convinti europeisti. Si formerà attraverso processi tortuosi e imprevedibili. Ma si formerà. Perché questo è il futuro. Mi dispiace, se per questo mio convinto europeismo, sarò tra i nemici di Buffagni. Che fa?…Certi valori e certe idealità vanno difesi e sostenuti non quando si è maggioranza, quando si è minoranza. Anzi minoranza della minoranza.

  4. Non so come è successo, ma ho preso l’abitudine di leggere il “Sussidiario”, quotidiano online di CL. Stamattina mi hanno colpito due articoli, in uno si parla del Meccanismo Europeo di stabilità (MES), o Fondo salvastati, cui l’Italia partecipa per il 17,9 per cento, e ha finanziato finora per 125 miliardi.
    “L’operato del Mes e tutti i membri del personale sono completamente immuni da qualsiasi inchiesta riguardante la propria attività. L’operato del Mes, i suoi beni e
    patrimoni ovunque si trovino e chiunque li detenga, godono dell’immunità da ogni
    forma di processo giudiziario. Soltanto un collegio di cinque revisori esterni,
    indipendente e nominato dai governatori del fondo, ha accesso ai libri contabili
    e alle singole transazioni del Mes […] se chiederemo aiuto al Mes, lui ci presterà i soldi, i nostri soldi, ma a prezzo di condizioni che attueranno quelle riforme che con il referendum avevamo respinto. Ci presteranno i soldi che noi abbiamo dato al Mes: ci presteranno i nostri soldi. Ma con l’aggiunta delle condizioni che ci toglieranno definitivamente la sovranità. […] Mps ha chiesto un breve prolungamento rispetto alla scadenza (appena 20 giorni). Eppure tale richiesta, quattro giorni dopo il risultato del referendum, è stato negato dalla Bce. Da notare che mentre il titolo Mps crollava in borsa del 10%, le borse dopo il referendum festeggiavano con rialzi record, in particolare la borsa di Milano. Gli squali della borsa e della finanza stanno festeggiando, l’Italia è senza governo e Mps sta per cadere. Stiamo per chiedere aiuto al Mes?” http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2016/12/13/ATTACCO-ALL-ITALIA-Il-colpo-di-Stato-dell-Ue-e-pronto-per-l-Italia/737217/

    L’altro articolo elenca una serie di perdite di sovranità del nostro paese sul piano economico.
    “Unicredit ha chiuso ieri la cessione di Pioneer, oltre 200 miliardi di masse in gestione, alla francese Amundi per circa 3,85 miliardi di euro. Oltre 200 miliardi di euro di risparmio italiano verranno ora gestiti da una società francese che dopo l’acquisto diventa ufficialmente uno dei colossi globali del risparmio gestito con oltre mille miliardi di euro di masse in gestione. Le prime quattro società italiane del settore non arrivano insieme alla dimensione di Amundi. […] La prima cosa che si può notare è che ieri il titolo del compratore, Amundi, ha festeggiato mettendo a segno un rialzo del 5,3%, mentre il titolo del venditore, Unicredit, ha chiuso a -3% […] Ambire a un’indipendenza politica quando il proprio sistema economico, o diversi suoi pezzi strategici, rispondono ad altri sistemi Paese è una chimera. Far schizzare lo spread italiano a livelli da allarme rosso ha ovvie conseguenze politiche e il “gioco” si presta ovviamente a obiettivi che possono essere particolarmente antipatici. La Francia è lo stesso Paese da cui è partito il bombardamento alla Libia con il palese e chiarissimo obiettivo, lo sappiamo grazie ai vari “leaks”,
    di far fuori l’Italia e i suoi interessi energetici […] Telecom Italia oggi è controllata da un azionista francese, Vivendi, la cui quota sembra destinata a finire a Orange, già nota come France Telecom; Unicredit sembra si stia preparando a un “matrimonio” con Société Génerale. Generali sembra si stia preparando a una fusione con Axa. Tutte operazione le cui basi sono state poste negli ultimi tre anni. Non dimentichiamo quanto successo con Parmalat, Bnl, Cariparma, Edison, Bulgari, ecc.[…] Di fronte a questa colonizzazione bisognerebbe porsi per coerenza la domanda sull’utilità di avere un parlamento italiano stipendiato quando basta un solo vicerè.”
    http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2016/12/13/UNICREDIT-Pioneer-e-la-nuova-svendita-dell-Italia-agli-stranieri/737529/

    Donato crede “che sia più vantaggioso per il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti scommettere sulla costruzione del ‘popolo europeo’.” E’ convinto che serva una élite di convinti europeisti, e che essa si formerà, perchè “questo è il futuro”, e chissà come fa a conoscerlo. L’europeismo è per lui valore e idealità, e porta come prove la balcanizzazione della Jugoslavia -accaduta per pulsioni nazionaliste e sovraniste e non per l’appoggio interessato della Germania alla Croazia!- e dell’URSS, in cui gli interessi USA e tedeschi non hanno avuto evidentemente nessun ruolo!
    “Questo continente, pur con tutti i difetti e le ingiustizie sociali esistenti, ha vissuto un mezzo secolo di sostanziale pace”, scrive Donato, in realtà perchè faceva da cuscinetto e camera di compensazione tra USA e URSS, e alla fine della guerra fredda ha iniziato una politica di espansione nei confronti dell’europa orientale, con poca pochissima pace. Ora comincia l’autofagia della UE nei confronti dei paesi più deboli, quelli del sud.
    Un altro argomento che sembra forte di Donato è quello del anticapitalismo delle forze contrarie alla UE: “Si propongono di modificare i rapporti di produzione sociale? Desiderano assicurare una più compiuta democrazia per gli sfruttati e gli oppressi?A me non risulta.” Io sono convinta che, per rinforzare il controllo sul capitalismo globale, oltre ai lavoratori, globali però dispersi, ai movimenti locali, collegati sì idealmente ma contro un nemico generale e imprendibile, occorre rinforzare la politica.
    E per questa occorre mettere in campo anche altri rapporti, quelli identitari di lingua, di storia e tradizioni, infatti la storia non è solo quella della classi dominanti, ma anche quella delle lotte.

  5. Ho avuto ragione a intitolare «improvviso poco musicale» il mio secondo Appunto politico, dati gli stridori “dodecafonici” che già si sentono nei commenti. E, prima di replicare o entrare nel merito delle questioni, sento di dover chiarire da che posizione parlo. Anch’io tendo ancora a pensare che, come dice Donato [Salzarulo], «il vero clivage, la vera contraddizione: è tra capitalisti (di destra o di sinistra poco importa) e lavoratori», ma non siamo più in grado di riattivarla o di costruirvi sopra un progetto politico. Ma temo che le spinte “populistiche” o “nazionaliste” non siano una moda; e che, per uscirne, non basti tornare ad « imparare qual è la vera contraddizione principale, quella dormiente, quella silenziosa». Se no, non cercherei di insinuare continuamente in Poliscritture dubbi e segnalazioni che fanno la spola tra posizioni diverse e spesso anche contrapposte tra loro. Né a portare ogni tanto qualche “diavolo” nella “sacrestia” di Poliscritture (come La Grassa o Buffagni, ma a volte anche Negri, Preve, etc.). Pur sapendo che ci potranno essere scintille, malumori, dubbi. Anche su di me. Mi pare indispensabile che un “laboratorio di cultura critica” critichi, appunto. E lo faccia al meglio e su una gamma vasta di posizioni. Quando poi queste scintille schizzano davvero, che fare? L’arbitro tra posizioni inconciliabili? Lo spettatore che guarda e se ne sta silente? Parteggiare ora con l’uno su una questione ora con l’altro su un’altra? Assecondare caso per caso il richiamo delle varie foreste: quella marxisteggiante, quella cattolicheggiante, quella sessantottina? No. Per quel che posso dico la mia, cercando di “lavorare ai fianchi” tutte le posizioni che mi passano sotto il naso dal mio punto di vista di “esodante”. E’ poco, ma mi pare essenziale.

    P.s.

    E mi consola che allo stesso modo mio, anche altri, più informati e più dentro di me in certe questioni, cerchino di tenere gli occhi aperti in questo buio guardando ovunque possono. Perciò suggerisco la lettura non solo di questo stralcio, ma dell’intero articolo di Pierluigi Fagan

    SEGNALAZIONE

    ANDANDO INCONTRO ALLA TEMPESTA, SENZA MAPPE E BUSSOLE, LITIGANDO, IN UN VASCELLO DI CUI NON ABBIAMO IL TIMONE.
    di Pierluigi Fagan

    Il mondo è cambiato molto ma è a ridosso di un salto di stato da cui uscirà completamente trasformato. L’Occidente va a perdere la sua unicità e condizione privilegiata di dominante, L’Europa è –rispetto a gli Stati Uniti d’America- la parte che già ne soffre e sempre più ne soffrirà in termini di contrazione delle condizioni di possibilità. L’intero sistema economico moderno, prima europeo, poi occidentale, oggi mondiale, ha vari gradi di ulteriore espansione per i paesi orientali (ed in teoria anche per quelli africani e sud americani se non interverranno -come certo interverranno- disturbi di vario tipo) ma non più per quelli occidentali. Cosa ne facciamo di questo sistema che da una parte non ci è mai piaciuto ma di cui siamo stati e siamo parte? Oltre che senso teorico ha possibilità concrete di realizzarsi una unione democratica e non elitista, politica prima di economica degli europei o non ha alcuna possibilità strutturale[8]? Se no, ha senso tornare a vagheggiare lo Stato nazionale in questo scenario[9]? Come si può sognare l’uguaglianza sociale interna quando all’interno del sistema occidentale si è strutturalmente dominati dalla potenza degli Stati Uniti? Cosa ci facciamo del concetto di democrazia e la sua forma attuale e siamo sicuri sia quella attraverso la quale si può esercitare lo sforzo l’uguaglianza? Ma se accettassimo poi di perderla, cosa rischiamo nella bilancia tra rischi ed opportunità dell’erratico cambiamento? Cosa ne facciamo del sistema economico conosciuto e della sua funzione ordinatrice, ora che dopo due secoli sono scomparse -per noi- le condizioni che lo fecero nascere e prosperare? Siamo ancora sicuri che il senso politico dell’anti-capitalismo esaurisca i compiti di chi non accetta il dominio dell’uomo sull’uomo? Cosa abbiamo da dire ai molti che sono smarriti ed incerti, prede dei piazzisti di analgesici, degli spacciatori di semplificazioni, dei pifferai che sanno portare il branco di topolini lontano da dove gli sembra brutto, per finire dove poi è orrendo? Sappiamo ancora parlare la lingua dei nostri simili o tra “potenza del negativo”, “sussunzione”, “general intellect” ormai siamo diventati una triste casta di scolastici che si pubblica e neanche più si legge vicendevolmente tanto è minata la fiducia reciproca dell’effetto concreto che ha il nostro dire? Ci accontentiamo di una blanda lotta di classe (ma di quale classe? che pesa quanto nel cento percento nelle nostre società? ha ancora senso il concetto sociologico e sopratutto politico di “classe”? ) rivendicativa di una minor distanza di reddito e qualche diritto sempre più formale dentro un sistema che continuerà a contrarsi ed in cui la lotta per la distribuzione dei problemi e delle opportunità vedrà fiorire i mille ed uno negazionismi, le mille ed una rimozioni, le mille ed una soluzione immediata di problemi che hanno fitte radici storiche complesse? Tra fare politica, pensare e discutere di politica, rivolgersi al potere o tornare a lavorare politicamente presso il popolo, quali priorità? Abbiamo chiara la differenza tra uguaglianza delle differenze ed uguaglianza che annienta le differenze e quindi la termodinamica sociale e quindi la stessa vita della comunità? In quale sistema ci piacerebbe vivere, come è fatto, quali le sue linee di progetto tra Stato e mercato, tra individuo e gruppo, tra generi e generazioni, tra provenienze etniche, tra benessere e compatibilità geopolitica ed ambientale, tra “uomo che tende al lavoro” ed “uomo che tende al sapere”? Come potrebbe esprimersi l’intenzione politica in questo sistema ideale, cioè: chi decide? E se pensiamo che sia il popolo a dover decidere, il popolo è in grado di decidere su cose complesse? Nel frattempo, quale il nuovo e necessario “contratto sociale” visto che il precedente è stato rotto dalle élite sempre più egoiste ma che non sembra comunque ripristinabile, anche volendo? Che ci facciamo con l’impianto di pensiero del tedesco che “apprendeva il suo tempo col pensiero” oggi che da quel tempo siamo distanti circa un secolo e mezzo o poco più? O pensiamo invece che il tedesco avesse trovato degli a-temporali universali immuni alla relatività storica?

    Siamo in grado di disegnare nuove mappe, di scendere in sala macchine e rimettere mano ai concetti di democrazia, socialismo, comunismo, rivoluzione e progressione, produzione della sussistenza, soddisfazione esistenziale, pace-guerra ed ecocompatibilità, sistemi di decisione politica, preparazione della maggioranza dei cittadini a prender decisioni complesse, cooperazione e competizione inter-nazionale? Crediamo ancora nel sogno del tendere all’uguaglianza e liberarci dalla primitiva coazione del dominio dell’uomo sull’uomo[10]? E’ questo il punto interrogativo che lascia sospesi tutti gli altri. Un mondo con le sue teorie e pratiche dettate dal contesto ci sta lasciando. Forse prima di pensar di voler e poter cambiare il mondo dovremmo tornare a pensarlo, altrimenti prepariamoci ad un naufragar in questo mar, sempre meno dolce e sempre più tempestoso.

    (https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/12/05/andando-incontro-alla-tempesta-senza-mappe-e-bussole-litigando-in-un-vascello-di-cui-non-abbiamo-il-timone/)

  6. Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) è stato approvato dal Senato della Repubblica italiana il 12 luglio 2012 con 191 voti favorevoli, 15 astenuti e 21 contrari; e dalla Camera dei deputati il 19 luglio 2012 con 380 voti favorevoli, 36 astenuti e 21 contrari…È abbastanza ridicolo che si presenti il nostro Stato (almeno i suoi organi legislativi e rappresentativi) come colonizzati o vittime di chissà chi. Il MES è stato voluto anche dal nostro Stato. Forse perché avendo un debito pubblico alle stelle potrebbe venirsi a trovare in condizioni di insolvenza e se BOT, CCT o altri strumenti di finanziamento del bilancio statale non vengono venduti o vengono venduti a tassi d’interessi esorbitanti, io e te la pensione ce la possiamo scordare.
    Comunque, io sono maggiormente d’accordo con Dardot e Laval, gli Stati sono stati agenti della globalizzazione e del neoliberismo, si sono mossi come attori consapevoli, adattando le proprie strutture e funzioni alle nuove realtà. Del neoliberismo hanno fatto proprio il dogma del non intervento dello Stato in economia. Quelli di CL – che significa la sigla?…Comunione e Liberazione? – hanno quasi certamente contribuito a predicare sussidiarietà, Stato minimo, ecc. ecc. Ora scoprono il “sistema paese”…Bada bene, “Sistema paese” non vuo dire Stato!…

    1. * “Il MEF è stato approvato…” giustappunto perché, come scrivi, “gli Stati sono stati agenti della globalizzazione e del neoliberismo”.
      Lo Stato peraltro, non è una statua di pietra, ma un rapporto mutevole tra forze di classe. Cito ad esempio il bell’articolo di Giannini sul numero di Poliscritture rivista, che sta per uscire: i soldati italiani fucilati per diserzione o renitenza durante la I Guerra mondiale, vengono oggi, dallo Stato, riabilitati. E lo stesso accade in Francia e, mi pare, in Inghilterra. Lo Stato è lo stesso, la guerra, che era di classe, è stata; oggi è diversa la convivenza di classi.
      ** CL è Comunione e Liberazione, che è stata berlusconianamente per le guerre in Irak ma oggi è per il non-depauperamento dell’Italia da parte di Francia e Germania. Tutto scorre, gli avatar sono maschere vuote, gli interessi si ridislocano.
      *** L’interesse mio e tuo di ricevere ancora la pensione non è tutelato dallo stare collocati nel turbine dei mercati finanziari: paghiamo come paese un moloch di interessi sul debito perché gli interessi li determina il mercato e non più la Banca d’Italia con la lira.
      Nell’81 (vado a memoria e non vorrei dare i numeri, ma è il “fatto” che conta), e in vista della UE, la Banca d’Italia non ha più potuto comprare il debito pubblico, che si è affidato al mercato, scelta politicissima. Conseguenza: i tassi hanno cominciato a ricattarci.
      Il debito pubblico è in realtà risparmio dei cittadini, presti denaro allo stato che ti dà dei titoli di possesso. Certo che, se il tuo prestito viene giostrato sul mercato (e poi viene venduto da Unicredit, risparmio vero e sonante, non titoli bancari su titoli bancari, che sono moneta bancaria globale rispetto al denaro reale) l’affare cambia.
      Non credo di essere ideologica, ma materialmente ancorata ai fatti quotidiani. Da qui “salgo” alla politica, peraltro raggiungibilissima proprio dalle mie basse postazioni.

  7. Sul “manifesto” di oggi Marco Bascetta recensice un libro sulla crisi dell’Europa politica: “Rottamare Maastricht” (Derive/Approdi).
    Firmato nel 1992, il Trattato di Maastricht contiene tutti i principi e i parametri “inviolabili” delle politiche neoliberiste. Ad esempio: rapporto tra deficit pubblico e PIL non superiore al 3%; rapporto tra debito pubblico e PIL non superiore al 60% (Belgio e Italia furono esentati); tasso d’inflazione non superiore dell’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi; tasso d’interesse a lungo termine non superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi, ecc.
    Scrive Bascetta: «I critici del neoliberismo e delle enormi diseguaglianze che esso determina sono soliti denunciare le contraddizioni interne del sistema e le insuperabili tendenze perverse dell’accumulazione. Ma non volendosi compromettere troppo con il marxismo si tengono alla larga dalla teoria e dalla esperienza storica della lotta di classe. Questo impedisce di vedere come il “sistema impersonale di regole” [assicurato, ad esempio, dal Trattato di Maastricht] si sia affermato sul campo in un duro e lungo scontro tra l’egemonia montante delle oligarchie finanziarie e i movimenti operai e democratici [vi ricordate, sempre per fare un esempio, la sconfitta che Thatcher inflisse ai minatori inglesi?]. L’Europa è stata edificata per intero all’interno di questa storia, secondo il paradigma imposto da chi ne era uscito vincitore.» [Da quale parte stava allora CL? E la destra nostrana e non nostrana? E i fascisti?… La conversione al neoliberismo non è avvenuta come un fulmine a ciel sereno, non è stata imposta dall’esterno, da un’astratta “globalizzazione”. E’ stata imposta con la lotta che le elite conservatrici e di destra hanno condotto contro la sinistra sia democratica che radicale.]
    Scrive ancora Bascetta: «L’idea che possano darsi singole sovranità nazionali che isolatamente sappiano contrapporre valori democratici e progresso sociale a questi principi di competitività [neoliberisti] è oggi fuori dalla storia reale e dai rapporti di forza che attualmente ne determinano il corso. [Davvero si crede che Trump, Le Pen o Salvini-Meloni si siano dati l’obiettivo di modificare questi rapporti di forza a favore dei lavoratori occupati e disoccupati o, come si diceva una volta, delle masse popolari?..Quali sono i loro valori?…Quali i loro programmi?…].
    Incombe invece, sempre più minacciosa quell’esaltazione dell’interesse o “priorità nazionale” con forti richiami identitari. O come rifiuto dell’Unione europea, ritenuta un mero strumento nelle mani dei poteri e delle economie più forti, se non in quelle di una malvagia cospirazione cosmopolita.» Intendiamoci: contrapporre “valori democratici e progresso sociale” alle politiche dell’austerità, non suprematismo bianco, xenofobia, razzismo…
    «Ora, se è pur vero che l’Unione – continua Bascetta – presenta un centro e una periferia, paesi egemonici e paesi subalterni, squilibri che le “regole” del mercato unico si incaricano di perpetuare, è anche vero che questi squilibri, che attraversano più o meno intensamente tutte le realtà nazionali, possono essere interpretati e affrontati politicamente in termini diversi da un funesto scontro tra nazioni. Non giocando cioè la sovranità nazionale contro l’integrazione europea, ma cercando di indirizzare quest’ultima contro le classi dirigenti nazionali che la tengono in ostaggio.
    E’ una doppia, ardua partita, quella che un movimento democratico europeo si trova a dover giocare: contro l’ordine sovranazionale della rendita finanziaria e contro il ritorno di un nazionalismo aggressivo che pretende di costituirne l’unica possibile alternativa.»
    In sintesi:
    a) Non ho nessuna intenzione di allearmi con chi ha contribuito a sconfiggermi negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso. Gioca sulle mie frustrazioni e sui miei disagi sociali per tenermi ancora subordinato.
    b) L’alleanza che mi propone non è disinteressata. Il nazionalismo aggressivo, oltre che annullare la mia storia e i miei valori, mi “costa” molto di più. La guerra tra le nazioni europee ritorna prepotentemente all’orizzonte.
    c) Il mio interesse economico, sociale, culturale e politico è chiedere più Europa con una nuova cittadinanza europea, con nuove regole democratiche di rappresentanza, con organismi che rispondono ai cittadini. Chiedere questo contro una classe dirigente inetta che ha usato Maastricht come vincolo e bau-bau per limitare o annullare stato sociale e diritti conquistati in decenni di lotta.
    d) Non è facile mettere in piedi un movimento democratico di questo tipo. Ma per persone come me è l’unica alternativa.

  8. Vorrei contribuire al dibattito riportando il testo d’una lettera (cartacea, come quelle d’una volta, quando non c’era l’euro… ops, volevo dire il web) che ho avuto (non chiedetemi come) riguardante la controversia euro/non euro tra due amici.
    “Caro Marco Antonio XXX,
    ho saputo che in queste rigide giornate invernali vai in giro professandoti europeista convinto e sostenendo che l’euro è ‘solo’ una moneta. Su questo devo dirti che sei in buona compagnia: la Confindustra coi suoi giornali, la stampa “di sinistra”, Marchionne il transfuga, i partiti della (ir)responsabilità nazionale, perfino i vertici sindacali – quelli che a fine mandato riceveranno, come sempre è successo, un incarico ben retribuito in qualche istituzione pubblica -, sono dalla tua parte. Il non-detto di questa Santa Alleanza riguarda verità economiche elementari, che si insegnano ai primi anni dei corsi d’economia universitari, ma che tutti (o quasi) gli economisti omettono di ricordare nei loro interventi pubblici. E cioè:
    la moneta unica è lo strumento che il capitale s’è dato (oggi, ieri ne aveva altri) per comprimere i salari in situazione di competitività globale. Ossia, se non si può più svalutare la moneta perché il cambio fisso lo impedisce, l’altra possibilità è svalutare i salari, specie in situazioni di perdita di competitività per l’industria italiana come sono le attuali, o di shock esterno, come è dal 2007. Tertium non datur, nella realtà in cui viviamo, almeno, e non in quella in cui vorremmo vivere, o nelle “osterie del pensiero”, come diceva la buonanima.
    La moneta unica è per noi e i paesi del sud Europa sopravvalutata (è stato calcolato del 15%), mentre per la Germania, che non a caso ha un surplus netto di trecento e passa miliardi, è sottovalutata (del 15%). Del resto, la Germania sta facendo né più e né meno che i suoi interessi nazionali (leggi l’aggettivo a lettere cubitali come meriterebbe) difendendo l’euro a spada tratta (almeno finora, anche se perfino da quelle parti s’avvertono i primi scricchiolii che la stampa nostrana definisce “populisti”), e imponendo(ci) questa Europa, o meglio: l’Unione Europea in sé, come la “vicenda” (il tradimento?) Tsipras in Grecia ha dimostrato, e come dimostrano ogni giorno i reiterati rifiuti dei paesi del Nord d’unificare l’Europa anche sul piano fiscale, che implicherebbe, come fanno tutti gli Stati veramente federali, un trasferimento di risorse economiche dagli stati più ricchi a quelli in difficoltà. Sono invece i governi italiani che, dal 2002, gli interessi del nostro paese non li hanno mai perseguiti, perseguendo invece un vassallaggio che è sotto gli occhi di tutti.
    Voglio qui segnalarti l’imprescindibile intervento di Giorgio Napolitano alla Camera dei Deputati il 13 dicembre 1978, disponibile in rete, basta avere voglia di leggerlo, in occasione del dibattito sulla moneta unica europea, alla vigilia dell’adesione dell’Italia allo Sme. Napolitano vedeva nell’instaurazione d’una moneta unica il meccansimo che avrebbe portato l’Italia alla deflazione. Parole profetiche, le sue, resta il mistero di sapere come mai il PCI abbia poi cambiato idea così radicalmente – forse che il di poco precedente viaggetto “culturale” del nostro migliorista negli Usa abbia fatto cambiare le carte in tavola al più grande partito dei lavoratori europei? e che Mani Pulite abbia poi spianato la strada alla metamorfosi, rottamando gli altri partiti, inadeguati per l’epoca nuova che s’apriva? Ma mi rendo conto che sto divagando, quindi ritorno al pezzo ricordandoti che anche la nostra Costituzione, nata dalla Resistenza come la retorica della “sinistra” faceva notare all’epoca di Berlusconi, prima di decidersi in prima persona a stravolgerla, sta piano piano venendo archiviata e sostituita col vincolo esterno dei vari trattati europei. Perché, oltre a essere troppo “socialista”, secondo l’espressione di JP Morgan, essa è troppo filolavorativa e antidisoccupazione, e al perseguimento della piena occupazione voluto dalla Costituzione, s’è sostituita oggi l'”occupabilità”, cioè la compatibilità occupazionale voluta dall’Europa.
    Come vedi, caro Marco Antonio XXX, i ceti (non dico classi, è fuori moda) sociali lavorativi, i disoccupati e i precari hanno tutto da perdere (e molto hanno già perso) dall’euro e dall’€pa, ne sono danneggiati seriamente, nella pratica intendo, e non nella teoria che fanno tanti intellettuali. Per questo credo che lottare per l’abolizione dell’euro e il dissolvimento dell’Europa tout court non porterà in Italia il socialismo il giorno dopo, non ci farà uscire dalla Nato (il vincolo esterno precedente all’euro, molto più importante, mi dirai, certo, ti dico io, ma perché, avendocene già uno, bisogna accettarne un altro? e come uscirne poi, oggi, che tutti i partiti si sono “dimenticati” della questione? chiudendo le basi Nato con le divisioni corazzate che non abbiamo?), ma ristabilirà quella dialettica conflittuale tra capitale e lavoro che con la moneta unica è scomparsa, perché il lavoro è stato sconfitto pesantemente proprio dalle politiche euriste, che vogliono dire austerità, deflazione, disoccupazione, crisi, perdita di sovranità a tutti i livelli. Ecco perché l’euro non è ‘solo’ una moneta, ma un metodo di governo ben preciso, come ama dire un economista che faresti bene a leggere, e del tipo 2.0, aggiungo io.
    Stammi bene, tuo
    Gianluca XXX”.

  9. Contribuire a far saltare l’UE significa volere la catastrofe geopolitica di un mezzo Continente che, restando unito potrebbe avere qualche voce in capitolo sulle questioni del globo, dividendosi e tornando agli stati nazionali, si indebolirà enormemente. A favore di chi?…I nostri rossobruni pensano forse alla Russia?…( Salzarulo)

    Se non sbaglio, è la prima volta che in un commento di Poliscrtture viene usato il termine ‘rossobruni’. E in fortuita coincidenza leggo stasera su Sinistra in rete « Lo spauracchio del “rossobrunismo”» un articolo di Moreno Pasquinelli, che un po’ d’informazioni (sicuramente di parte e in un certo senso *lesa*) le fornisce in risposta ad un articolo de La Stampa contro Grillo e M5S accusati appunto di “rossobrunismo”. Lo segnalo come spunto di riflessione e per sviluppare anche a livello del nostro lessico politico un uso controllato e consapevole delle parole. [E. A.]

    SEGNALAZIONE

    Lo spauracchio del “rossobrunismo”
    di Moreno Pasquinelli

    http://sinistrainrete.info/politica-italiana/8662-moreno-pasquinelli-lo-spauracchio-del-rossobrunismo.html

    Stralcio:

    la campagna contro il presunto rossobrunismo toccò il suo apice, negli anni 2003-2005, dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq e la eroica resistenza irachena. La campagna di hitlerizzazione non colpì solo i partigiani iracheni, fossero nazionalisti saddamiti o islamisti takfiri—descritti come “tagliagole”, “mostri”, “belve feroci”, quindi equiparati ai nazisti—; prese di mira chiunque in Italia sostenesse come sacrosante le ragioni della RESISTENZA IRACHENA. Il bersaglio fu quindi il Campo Antimperialista, che senza dubbio fu il movimento che con più efficacia, proprio nel cuore dell’Occidente, difese quella Resistenza.
    Si potrebbe scrivere un intero libro sulla campagna di calunnie contro il Campo Antimperialista —voluminosa quante altre mai solo la rassegna stampa di quella valanga di calunnie che che preparò gli arresti di mezzo gruppo dirigente nell’aprile 2004.
    Basti dire che dal settembre 2003 (contestualmente al campo estivo di Assisi che oltre a lanciare la campagna “Dieci euro per la Resistenza irachena” promosse la manifestazione nazionale del 13 dicembre successivo), e per due anni consecutivi, il Campo Antimperialista fu la principale vittima di una martellante campagna di hitlerizzazione, ed il topos fu appunto quello del rossobrunismo. L’insinuazione, la scandalosa imputazione, fu che il Campo era il crocevia, il luogo del connubio politico di comunisti rivoluzionari e fascisti. Anzi, per la precisione, il rossobrunismo venne declinato come “alleanza nazi-islamo-comunista”.
    Era vero? No, era completamente falso!
    Fu il sicofante Magdi Allam, con un editoriale del settembre 2003, a coniare questo brand, questo marchio d’infamia. Venne poi raccolto da tutti i media, carta stampata, Tv, radio e ovviamente web —proprio tutti, compresi quelli di sinistra. La campagna di intossicazione, tesa a liquidare il movimento di appoggio alla resistenza irachena, fu sistematica, scientifica, devastante. Che ci fosse dietro la centrale di disinformazione strategica dell’intelligence italiana (ufficio ubicato in via Nazionale in Roma) di Pollari e Pio Pompa lo dimostreranno i fatti, tra cui clamorosi processi e inchieste. Il giornalista al loro servizio e che allora guidava la crociata mediatica contro gli antimperialisti qualificandoli come rossobruni era Renato Farina, poi smascherato come agente dei servizi segreti “Betulla”.
    In conclusione provo a ricapitolare:

    (1) Il nazional-bolscevismo o nazional-comunismo(volgarmente rossobrunismo) è sempre stata una corrente politica marginale e irrilevante, anche in Germania, dove nacque. Oggi sopravvive solo in Russia, con addentellati in Donbass e nelle aree russofone di paesi come Ucraina, Lituania, Estonia, Lettonia, Bielorussia, ecc.

    (2) Ma proprio il peculiare caso russo, mostra che la costellazione nazional-comunista è divisa, anzi spaccata: tra chi sta con Putin e chi contro. La comune rivendicazione della tradizione nazionalista cristiano-ortodossa (il mito della “terza Roma”) e grande-russa, sia zarista che staliniana, non è sufficiente a tenere uniti i nazional-comunisti.

    (3) Se riemergerà in Occidente il nazional-comunismo potrebbe essere nella forma del mito eurasista o eurasiatico, che postula un impero dall’Atlantico a Vladivostok sotto egemonia russa.

    (4) Non ha mai visto luce, in nessun paese occidentale, quanto auspicato dalle sette nazional-comuniste, cioè una alleanza tra forze della sinistra comunista e gruppi fascisti. Non accadde nemmeno nella Germania di Weimar, a dispetto di certi pennivendoli e storici liberali da strapazzo: è vero che il KPD considerava (grave errore) la socialdemocrazia socialfascista, quindi nemico principale, ma non ci fu mai alcun fronte coi nazisti. Centinaia furono anzi i militanti comunisti morti per avere contrastato l’ascesa del nazismo.

    (5) Per quanto sia evidente che coloro che utilizzano la pecetta del rossobrunismo siano dei somari che non sanno di cosa parlano, va sempre ricordato che essa è stata usata come un marchio d’infamia per isolare e poi punire la sinistra antimperialista che ha difeso con coerenza le resistenze nazionali contro le aggressioni NATO e americane. Marchio del tutto simile a quello di “antisemitismo” usato dal potere contro chiunque condanni il sionismo.

    (6) L’articolo del signor Panarari conferma che i poteri globalisti dispongono di una simbolica quanto tossica tassonomia per bollare con marchio d’infamia i loro nemici.
    Ecco la loro classificazione demonologica:
    – sostieni le resistenze antimperialiste? Sei un potenziale terrorista!
    – denunci il carattere sionista e razzista dello stato israeliano? Sei antisemita!
    – sei contro le élite dominanti: sei populista!
    – sei contro l’Unione europea per la sovranità popolare e nazionale: sei un rossobruno!

    (7) Più si avvicina il momento della fine dell’Unione europea più le élite dominanti intensificheranno la loro campagna di avvelenamento ideologico. Per rendere più efficace la mostrizzazione dei nemici Lorsignori metteranno l’elmetto a tutta la mandria di trombettieri (già attivi o in sonno) preferibilmente con immacolato pedigree di sinistra. E sempre a sinistra Lorsignori attingeranno per arruolare come fanteria ascara i tanti cretini che vi albergano.

  10. @ Ennio,
    mi ricordo di quell’episodio. in seguito a un’assemblea romana e a una successiva manifestaziione contro la seconda “guerra del Golfo” cui partecipai, un giornale della mia città mi mise, bontà sua, neli’elenco dei “rossobruni” (assieme a Pisano). Evidentemente, l’abitudine di fare liste di proscrizione non s’è persa con il fascismo. Quindi quel giornale aveva ragione, visto che, vergogna delle vergogne, sono anche, per dir così, anti-€pa

  11. 1) «La moneta unica è lo strumento che il capitale s’è dato (oggi, ieri ne aveva altri) per comprimere i salari in situazione di competitività globale. Ossia, se non si può più svalutare la moneta perché il cambio fisso lo impedisce, l’altra possibilità è svalutare i salari, specie in situazioni di perdita di competitività per l’industria italiana come sono le attuali, o di shock esterno, come è dal 2007. »
    Io non sono un economista. Ho fatto nella mia vita tutt’altro mestiere. Ma a naso direi che la “svalutazione dei salari” sia stato possibile e sia possibile grazie al ricorso al cosiddetto “esercito industriale di riserva”, che non è più un esercito nazionale, ma globale. “Il capitale” poi chi è?…Quale patria ha?…Se un capitalista manifatturiero decide di spostare la sua fabbrica in Romania perché i salari medi sono di molto inferiori a quelli italiani e perché lo Stato gli dà terreni gratis ed agevolazioni fiscali, come farà lo Stato italiano a trattenerlo?…Recentemente la Commissione Europea ha chiesto all’Irlanda di recuperare dalla Apple 13 miliardi di mancate tasse per il trattamento di favore ricevuto, e l’Irlanda recalcitra…Ma quale altra strada c’è per controllare un capitale sovranazionale se non quella di dotarsi di organismi politici sovranazionali?…Questo vale anche per i salari. Finché i lavoratori non si organizzano a livello sovranazionale non riusciranno a imporre un bel fico secco a nessuno.
    2) «La moneta unica è per noi e i paesi del sud Europa sopravvalutata (è stato calcolato del 15%), mentre per la Germania, che non a caso ha un surplus netto di trecento e passa miliardi, è sottovalutata (del 15%). Del resto, la Germania sta facendo né più e né meno che i suoi interessi nazionali (leggi l’aggettivo a lettere cubitali come meriterebbe) difendendo l’euro a spada tratta (almeno finora, anche se perfino da quelle parti s’avvertono i primi scricchiolii che la stampa nostrana definisce “populisti”), e imponendo(ci) questa Europa, o meglio: l’Unione Europea in sé, come la “vicenda” (il tradimento?) Tsipras in Grecia ha dimostrato, e come dimostrano ogni giorno i reiterati rifiuti dei paesi del Nord d’unificare l’Europa anche sul piano fiscale, che implicherebbe, come fanno tutti gli Stati veramente federali, un trasferimento di risorse economiche dagli stati più ricchi a quelli in difficoltà.»
    Tutto vero. Questo impone di “rottamare Maastricht”, di rivedere quel Trattato, di ricontrattarne le condizioni. Inutile, però, farsi illusioni. La Germania è, comunque, una potenza superiore all’Italia. Ha già provato a “unificare” l’Europa col Terzo Reich. Occorre valutare quale unificazione ci convenga di più, quale sia più corrispondente ai nostri “interessi nazionali”…Occorre precisare anche, però, quali siano i nostri “interessi nazionali”. Questo sintagma è notoriamente interclassista. Può darsi che l’interesse nazionale dei disoccupati meridionali non coincida con quello di Salvini, della Meloni, di Berlusconi, di Renzi, di Grillo, ecc. ecc.
    3) «Sono invece i governi italiani che, dal 2002, gli interessi del nostro paese non li hanno mai perseguiti, perseguendo invece un vassallaggio che è sotto gli occhi di tutti.»
    Quindi centro-destra e centro-sinistra ci hanno resi vassalli, uscendo, invece, dall’Unione europea diventeremo padroni di noi stessi e del nostro destino. Finalmente!…Che futuro radioso si sta aprendo all’orizzonte!…Francamente non me la sento neanche di contraddire. Semplificare così una ventina d’anni di storia, mi sembra incredibile.
    4) « Lottare per l’abolizione dell’euro e il dissolvimento dell’Europa tout court non porterà in Italia il socialismo il giorno dopo, […] ma ristabilirà quella dialettica conflittuale tra capitale e lavoro che con la moneta unica è scomparsa.» Che dire?…Se son rose, fioriranno. Non credo che nel 2016 la “dialettica conflittuale capitale e lavoro” possa svolgersi sul terreno nazionale. Credo che i “rapporti di forza” non si determinino principalmente a livello delle sovranità nazionali.
    5) “Rossobruni”. Ho usato in maniera spontanea, irriflessa questo termine. Non sapevo che ci fosse dietro tutta la storia che Abate ci ha segnalato. Lo ringrazio e chiedo scusa per la mia ignoranza. Non volevo etichettare nessuno. Né stilare liste di proscrizione. Ciò non toglie che esiste il problema di capire se alcuni amici o meno pensano di poter fare in autonomia dei tratti di strada insieme a Salvini, Meloni, Grillo, Le Pen, Farage, Trump, Putin, perché condividono l’obiettivo dell’”abolizione dell’Euro e del dissolvimento dell’Europa”.
    Spero, ovviamente, che questi miei interventi vengano letti come opinioni di un cittadino e non quelle di un “cretino” “arruolato nella fanteria ascara” dei “poteri globalisti”. Dio mio, ora ci sono anche i “poteri globalisti”! E io che pensavo che l’unico “potere globalista” fosse quello della Marina Usa capace di interdire con le sue flotti la navigazione a qualsiasi nazione e, se necessario, bloccarne il traffico commerciale via mare aumentato, negli ultimi vent’anni, del 400%…C’è, infatti, chi sostiene che la “globalizzazione” è il risultato diretto del controllo americano sugli oceani …Sui “poteri globalisti” urge un mio aggiornamento.

    1. 1.
      “Se un capitalista manifatturiero decide di spostare la sua fabbrica in Romania perché i salari medi sono di molto inferiori a quelli italiani e perché lo Stato gli dà terreni gratis ed agevolazioni fiscali, come farà lo Stato italiano a trattenerlo? […] quale altra strada c’è per controllare un capitale sovranazionale se non quella di dotarsi di organismi politici sovranazionali? […] Finché i lavoratori non si organizzano a livello sovranazionale non riusciranno a imporre un bel fico secco a nessuno.”
      Lo Stato italiano potrebbe trattenere il capitalista manifatturiero con una politica di tasse e sanzioni (come ha promesso Trump di fare) e come NON si è fatto verso Marchionne, anzi.
      I lavoratori si organizzano contro il loro padrone, difficile organizzarsi contro il capitale internazionale.

      2.
      “Occorre precisare anche, però, quali siano i nostri ‘interessi nazionali’. Questo sintagma è notoriamente interclassista. Può darsi che l’interesse nazionale dei disoccupati meridionali non coincida con quello di Salvini, della Meloni, di Berlusconi, di Renzi, di Grillo, ecc. ecc.”
      Ovvio, tutto si definisce nel contesto di una lotta reale. La Resistenza insegna.

      3.
      “centro-destra e centro-sinistra ci hanno resi vassalli, uscendo, invece, dall’Unione europea diventeremo padroni di noi stessi e del nostro destino […] Semplificare così una ventina d’anni di storia, mi sembra incredibile.”
      Riportando la lotta di classe dentro il paese e combattendo i politici vassalli (e traditori) , invece di combattere contro un nemico poco visibile lontano e avvolto in nebbie internazionalistiche, si possono riattraversare venti e anche più anni di storia di vassallaggio.

      4.
      “Non credo che nel 2016 la ‘dialettica conflittuale capitale e lavoro’ possa svolgersi sul terreno nazionale. Credo che i ‘rapporti di forza’ non si determinino principalmente a livello delle sovranità nazionali.”
      Qui siamo alle opinioni, “credo” e “non credo”. E’ sicuro, invece che, a livello europeo, quella “dialettica conflittuale” non è mai diventata concreta. Solo le guerre lo sono diventate, in Ucraina e, prima, in Jugoslavia.

      5.
      “esiste il problema di capire se alcuni amici o meno pensano di poter fare in autonomia dei tratti di strada insieme a Salvini, Meloni, Grillo, Le Pen, Farage, Trump, Putin, perché condividono l’obiettivo dell’’abolizione dell’Euro e del dissolvimento dell’Europa’.”
      Sì, praticando una politica delle alleanze, identificare come obiettivo l’euro e la UE mobilita la situazione, dopodiche sarà la lotta a guidare i comportamenti.

  12. SEGNALAZIONE

    Krisis. Il rifiuto da destra che interroga la sinistra
    di Giovanna Cracco
    (Dalla rivista “pagina uno” numero 50 dicembre 2016 – gennaio 2017 http://www.rivistapaginauno.it/)

    * Anche “Pagina uno” offre un altro esempio – lo documento onestamente – di critica dell’”internazionalismo di sinistra” e di rivalutazione di « Stati dotati di sovranità sulle proprie politiche economiche». [E. A.]

    Stralcio:

    Vedere nell’Unione europea un passo avanti nella direzione dell’internazionalismo di sinistra significa voler restare a tal punto fedeli a un principio da forzare la lettura della realtà. Così come non vedere che oggi l’ambito statuale è l’unico in grado di porre un freno alla globalizzazione attraverso politiche monetarie, fiscali e di investimenti – in una parola attraverso quella politica economica che l’Unione europea ha sottratto ai Paesi – significa essere ciechi. Oltretutto lo Stato resta tuttora l’unico spazio nel quale possa essere esercitata la democrazia contro le decisioni sovranazionali prese nei ristretti consessi politici ed economici non elettivi. E tra l’altro per chi (compreso chi scrive) ha cessato da tempo di credere alla democrazia per come si è strutturata nei Paesi occidentali, evidenziandone la falsa natura, la Brexit e l’elezione presidenziale Usa hanno mostrato quanto possa invece avere ancora una sua forza. È indubbio che le implicazioni economiche e finanziarie di un’uscita dall’Europa sono enormi, e a sinistra non mancano economisti che le stanno studiando. C’è chi, come Cesaratto (7), considera più fattibile un’uscita a caldo, dovuta a una crisi sociale o politica a cui l’Europa si dimostri incapace o non intenzionata a rispondere, piuttosto che un’uscita unilaterale a freddo, programmata. Di certo, vista l’aria che tira, se la sinistra non accetta di confrontarsi seriamente sulla questione, consegnerà l’Europa alla destra. Perché non le sottrarrà mai la ribellione in atto contro la globalizzazione se si infila nel coro che urla semplicisticamente al ‘fascismo’, invece di evidenziare quanto le politiche della destra siano tutt’altro che anti-sistema. Se Trump riuscirà a riportare la manifattura dentro i confini Usa, è facilmente immaginabile che lo farà a colpi di incentivi e sgravi fiscali, mentre i nuovi posti di lavoro creati continueranno a essere soggetti allo sfruttamento più violento (8). Non sottrarrà mai alla destra la ribellione se si limita a opporre i diritti umani al problema dell’immigrazione. Solo chi non vive in periferia può ostinarsi a negare quanto, in situazioni economicamente disagiate – e gli immigrati approdano in questo tipo di quartieri – tra disoccupazione e uno stato sociale sempre più ridotto al minimo, la convivenza tra culture diverse diventi difficoltosa e provochi rabbia, attriti, conflitti, che alla lunga sfociano nel razzismo e nella xenofobia. I buoni sentimenti (perché così sono percepiti quando si taglia sul cibo per arrivare a fine mese) dei diritti umani qui non trovano casa. Ed è dura ammetterlo, ma le campagne di raccolta fondi e assistenza agli immigrati messe in piedi dai centri sociali, che poi non muovono un dito per sostenere la lotta dei lavoratori dell’impresa accanto contro i licenziamenti – e in questi anni ce ne sono state parecchie – spostano a destra le persone prive di una chiave di lettura economica rispetto a ciò che sta accadendo. Non si tratta di fare una classifica della disperazione ma, appunto, di tornare a un pensiero politico che ha nell’economia la sua forza, nella capacità di leggere i meccanismi del capitalismo, le dinamiche di sfruttamento del lavoro, gli immigrati utilizzati come ‘esercito di riserva’ per innescare un generale abbassamento dei salari e la strumentalizzazione della ‘guerra fra poveri’ su cui fa leva la destra, funzionale al Capitale. Se la sinistra antagonista non torna a concentrarsi sul lavoro, e non fa un bel tuffo nell’acqua gelida del presente, liberandosi di sogni internazionalistici irrealizzabili – oggi è molto più concreta una collaborazione in senso solidaristico tra Stati dotati di sovranità sulle proprie politiche economiche – non avrà che da puntare il dito su se stessa per l’ondata di destra che sta sommergendo l’Europa e il mondo occidentale.

    [7]
    Cfr. Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia

    [8]
    Cfr. Renato Curcio, Capitalismo digitale. Controllo, mappe culturali e sapere procedurale: progresso?

  13. …non riesco a convincermi che in Italia restaurata la sovranità nazionale, con tanto di misure protezionistiche e tasse doganali, cesserebbe la competizione capitalistica che favorisce l’impresa grande su quello media e piccola e penalizza il lavoro dipendente e artigianale. La logica del profitto si riprodurrebbe su scala nazionale, anziché europea e nessuno ci assicura su un cambiamento a favore di un maggiore equilibrio nella distribuzione delle ricchezze…Soprattutto temo un peggioramento dei rapporti sociali fra i cittadini : può essere incoraggiata dall’alto la guerra tra poveri per distogliere l’attenzione di quest’ultimi dalla individuazione degli ostacoli comuni. Già da ora nelle periferie cittadine non è più solo latente questa contrapposizione, la si vede crescere nelle abitazioni condominiali e nei luoghi pubblici. Bisognerebbe cercare di armonizzare da subito ( e non penso che sia facile!) i problemi legati all’immigrazione e alle nuove e pesanti povertà della popolazione indigena: da questa realtà complessa non si torna indietro e penalizzare gli uni o gli altri non premia nessuno, la povertà è una sola… servirebbe investire molto ma molto di più nel sociale…Le “regole” del mercato unico europeo non lo permettono, ma chi ci assicura che uno stato nazione lo farebbe? Prevedo piuttosto caos, guerra civile, barriere…

  14. Su Europa e governi nazionali, internazionalismo, globalizzazione e Stato, riporto alcuni brani dalla recensione di Vladimiro Giacchè al libro di Cesaratto, “Sei lezioni di economia”. Sergio Cesaratto è professore ordinario all’università di Siena nel settore Economia politica.

    “Cesaratto mostra molto bene, in pagine di esemplare chiarezza (è uno dei pregi di questo libro), che tutte le politiche europee dallo scoppio della crisi greca in poi sono state condotte all’insegna della protezione dei creditori esteri. Le stesse politiche di austerity, ci dice l’autore, non sono “volte a ridurre il debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo, bensì il debito estero”. Infatti “I tagli al settore pubblico e gli aumenti delle imposte determinano il crollo della domanda aggregata e della crescita. Il Paese comincia così a importare di meno e, a parità di esportazioni, passa a un avanzo commerciale… Con un adeguato avanzo delle partite correnti il paese può cominciare a restituire il debito estero (oltre che pagare gli interessi)”. Si può aggiungere che purtroppo questa cura “lacrime e sangue” ha la non piccola controindicazione di colpire severamente chi produce solo per il mercato domestico, di aggravare la disoccupazione e impoverire il paese interessato. Ma, finché quest’ultimo potrà onorare il suo debito, la cosa non interessa troppo ai paesi creditori, ai quali anzi fa senz’altro comodo qualche concorrente locale in meno.

    Qui si apre una questione di grande momento per la sinistra, una buona parte della quale in questi anni è caduta in un doppio errore: quello di identificare internazionalismo ed europeismo da un lato, europeismo e Unione Europea dall’altro. È ovvio che, sulla base di tale doppia falsa equivalenza, e della conseguente speranza – non per caso sempre declinata in termini vaghi e generici – in un’“altra Europa”, la sinistra si trovi inerme e inane di fronte al processo di generalizzato rollback [azzeramento] di ogni diritto sociale conquistato negli scorsi decenni che oggi ha luogo in Europa (nell’unica che abbiamo: quella realmente esistente e non sognata).

    A questo riguardo non si può che dare ragione all’autore [Cesaratto], quando afferma che “per la sinistra è purtroppo difficile da riapprendere l’idea che il proprio spazio nazionale coincide con lo spazio entro cui si gioca il conflitto distributivo, ovvero l’humus della democrazia. Non era così quando lotta per il socialismo e lotta per l’indipendenza nazionale coincidevano”. Come uscire da questa impasse? In realtà basterebbe riappropriarsi di due verità in fondo semplici: che la “globalizzazione” non è mai stata un processo di liberazione, se non dei capitali; e che quell’Unione Europea che dovrebbe rispondere alle “sfide della globalizzazione”, ma lo fa con trattati che erigono a principio la “forte competizione” (basata su dumping sociale e dumping fiscale) all’interno dell’Unione stessa e con una banca centrale il cui unico obiettivo è la “stabilità dei prezzi”, è parte del problema e non della soluzione. Anzi, con l’euro, come osserva giustamente Cesaratto, “si completa la globalizzazione: non solo il capitale si sottrae al conflitto delocalizzando, ma anche lo Stato si fa evanescente – di esso rimane solo il sorriso beffardo del gatto di Alice lassù da Bruxelles o Berlino”.

    http://temi.repubblica.it/micromega-online/%e2%80%9csei-lezioni-di-economia%e2%80%9d-un-libro-per-capire-la-crisi-dell%e2%80%99europa-e-uscirne/?refresh_ce

  15. APPUNTI POLITICI.

    1.
    Si sta sviluppando uno scambio di idee di grande interesse su queste parole di Rita Simonitto.
    “Allora cerchiamo di capire, nei limiti del possibile, quali siano le dinamiche in gioco e il posto che noi, come nazione nello scacchiere, accogliamo “
    Queste brevi, ma “ pesanti “ parole richiamano problemi davvero cruciali . Ha ragione Ennio quando dice che gli sta bene l’invito a cercare di capire ed ha ragione anche – ponendo il dito sulla piaga – di chiedersi cosa mai significhi questo “ noi “. Siccome è chiaro che R.S fa riferimento – attraverso il
    “ noi “ – ad un fenomeno reale quale l’aggregazione dei singoli in una organizzazione stabile ( credo non interessi distinguere, per il momento, Stato da Nazione ) il rilievo di E.A introduce subito una questione dove si incrociano l’etica individuale e la responsabilità politica.
    Un detto di La Bruyère ( curiosamente ricordato da E.A Poe in un suo racconto ) suona così: “ Che grande disgrazia non poter essere soli “.
    Sì, se fossimo soli – ipotesi che si risolve nel concepire una serie di soggetti isolati e non appartenenti ad alcun tipo di organizzazione collettiva – basterebbero forse i Dieci Comandamenti o prescrizioni simili ( quale che sia la loro fonte ) e alla fine della giornata ( che per Benjamin è una sorta di Giudizio universale quotidiano ) l’uomo, non animale politico ma animale etico, potrebbe rispondere alla domanda ( “ la mia è una buona vita “ ? ) ponendo a confronto il suo vivere con le prescrizioni che ha inteso seguire.
    2.
    L’uomo animale politico tiene comportamenti che sono condizionati – in varia misura – dalla caratteristica collettiva dei rapporti di “ società “. Ciò che è eticamente corretto nei confronti di un consociato può essere eticamente scorretto nei confronti di altro o di altri.
    Il rilievo che questa situazione è una delle tante manifestazioni dell’ “ ambiguità esistenziale dell’uomo “ appaga soltanto la nostra esigenza mentale di razionalizzare.
    Il quadro – già complesso – si complica ulteriormente ( non sono ipotesi ma situazioni reali, in cui ci imbattiamo ogni giorno ) se confrontiamo il nostro “ codice etico “ con gli atteggiamenti socio-politici intrattenuti dagli Stati, atteggiamenti che si articolano secondo criteri differenti. Il protagonista di Viaggio al termine della notte di Celine si chiede perché mai deve uccidere un tedesco che non gli ha fatto alcun male. Tale posizione può essere anche totalmente giusta ma certo è una semplificazione rispetto alle ragioni o ai pretesti propri del conflitto cui tale personaggio sta partecipando E’ una domanda che- spogliata di ogni aspetto sentimentale soggettivo – segnala una divaricazione tra individuo e collettività organizzata. La quale – considerata come
    “ creatura “ – ha una sua volontà che impone ai singoli. Non sempre tale volontà è deprecabile . Una guerra strettamente difensiva è giusta ed allora non sarebbe più giustificato il rifiuto del singolo – appartenente alla comunità colpita – di estraniarsi dalla difesa comune. Se – astraendo al massimo – ipotizziamo che questa difesa comune è stata all’origine la finalità dell’aggregazione politica che si difende, allora il rifiuto di partecipare alla guerra difensiva può essere valutato negativamente. Purtroppo le situazioni reali non si presentano “ in vitro “ ma sempre e sempre più condizionate da fattori che noi chiamiamo esterni solo pensando ad un modello astratto ma che sono invece interni e propri di un certo assetto concreto assunto da determinate aggregazioni politiche. Non c’è mai – mi pare – una corrispondenza tra convenienza etica del singolo e convenienza politica del gruppo organizzato.
    3.
    La guerra costituisce una finestra privilegiata sulle nostre riflessioni. Per un certo periodo la “ pace “ o almeno “ la non guerra “ è stata assicurata dalla presenza di blocchi contrapposti. Parto dalla convinzione che lo stato di pace sia eticamente preferibile a quello di guerra. Dopo la caduta del Muro si sono avute una serie di “ rinascite “ di nazionalità. Alcune di esse corrispondono alla riconquista di identità storicamente rilevantissime. Altre divisioni hanno rappresentato ( penso alla ex Jugoslavia ) l’esplodere di conflitti etnico-religiosi di minor consistenza storica ma non per questo di minore impatto sull’equilibrio di certi settori geopolitici. Ancora una volta la Storia svela aporie. Alla riconquistata identità corrispondono situazioni di maggiore instabilità. Ma anche la ricostituzione di blocchi attraverso Trattati può istaurare situazioni di instabilità se si pensa a quelli di mutua assistenza ( anche militare ).
    Una soluzione ideale è quella di optare per la Neutralità. La Confederazione Elvetica è una dimostrazione della fattibilità concreta di tale stato.
    Possiamo ironizzare su di esso ricordando le seguenti parole pronunciate da Orson Welles nel film Il terzo uomo ( tratto dall’omonimo romanzo di Graham Greene ): “In Italia , sotto i Borgia per trent’anni hanno avuto guerre, terrori, delitti, massacri e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento . In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia e cosa hanno prodotto ? Gli orologi a cucù . “ Ma di fronte ai recenti massacri giornalieri quanti di noi sarebbero disposti all’opzione “ romantica “ soprattutto se chiamati a parteciparvi ?
    Tralascio – a questo proposito – la “ sottile “ questione se le realizzazioni culturali e artistiche implichino una sorta di patto del diavolo con il sangue e la violenza.
    L’uscita da schieramenti tra Stati sembra – alla luce di tale esempio storicamente realizzato – una risposta possibile ed auspicabile.
    Ma bisogna – anche in relazione a questa possibilità – analizzare a quali condizioni lo stato di neutralità è nata e può sussistere. Insomma tutto ruota intorno alla giusta osservazione di E.A secondo cui la politica è l’arte del possibile. Tale affermazione implica non solo la posizione di obbiettivi determinati ma anche – e soprattutto – l’elaborazione di possibili strategie ancorate ad un “ bilancio di previsione “ tra vantaggi e perdite di una certa opzione.
    Se – come credo – la pace è una posta attiva ( in essa si risolve alla fine il comandamento etico: non uccidere ) le condizioni attraverso le quali la pace è possibile debbono entrare nel “ calcolo “.
    Oggi il raggiungimento di livelli di vita e di sicurezza impensabili nel passato introduce anche il discorso – importantissimo – sul possesso di risorse chiamate, con involontaria ironia,
    “ strategiche”
    Ma- se partiamo dal presupposto del valore “ pace “ – anche questa questione non può essere lasciato al mestiere delle armi.
    4.
    Allorquando – per ragioni del tutto accettabili all’origine – gli uomini isolati si associano e si crea una inevitabile distinzione ( che può essere una vera e propria opposizione ) tra convenienza etica e convenienza politica, si ripropone con forza il problema della “ rappresentanza “.
    Come inserire nella convenienza politica la convenienza etica ? Come il singolo /i singoli possono far sentire la loro voce e provocando sul tema una discussione e una scelta condivisa ?
    In realtà le questioni si moltiplicano. La prima, radicale, è quella di contestare l’organizzazione Stato. In questa opzione il singolo/ i singoli rifiutano ogni autorità trasferendo ogni decisione politica nella sfera etica individuale. Non credo che essa sia praticabile e/o auspicabile.
    Restando in piedi la convinzione della “ necessità dello Stato “ si deve ammettere che tale Stato ha
    un interesse fondante e cioè quello alla propria sopravvivenza. Che significa anche il riconoscimento dell’interesse dei singoli alla sua esistenza. Ma l’interesse fondante non basta perché a questo sono connessi altri interessi la cui caratteristica principale è di essere connessi
    con gli interessi dei singoli. La scienza politica ci mostra diversi modelli diretti a individuare la qualità di un interesse comune. Ma si tratta di “ mezzi “rispetto ai quali si deve nutrire uno scetticismo critico, se non altro nella considerazione dei fattori distorsivi di un retto giudizio che nella realtà dei rapporti collettivi sono sempre presenti. Non vi sono mezzi che lo garantiscano sempre e comunque. Anche i mezzi per “ sintetizzare “ le volontà discordanti in una “ volontà del gruppo “ non garantiscono una scelta giusta. Il criterio della maggioranza è semplicemente ragionevole perché individua una misura di consensi che più si avvicina alla totalità. Nulla di più o di meno.
    La partecipazione assembleare è anch’essa un mezzo ragionevole ma efficace in relazione a piccole comunità e per scelte ben definite anche nei loro dettagli. Anch’essa non si muove nel vuoto di un esperimento in vitro, ma subisce condizionamenti di diverso tipo.
    Aggiungo – ma solo a completamento del “ quadro “ che la nostra epoca è segnata dall’interconnessione sempre più stretta delle economie. Da da un punto di vista teorico è un’ulteriore con.dizione di instabilità
    5.
    Se diamo per scontato che esiste un “ noi “ cioè una aggregazione storicamente individuabile in una comunità con tradizioni e interessi comuni ; se diamo per scontato che questo “ noi “ ha una sorta di diritto di sopravvivenza; se diamo per scontato che tale finalità esige l’individuazione di scelte di vario genere si deve concludere che ci moviamo nel campo della Politica e che essa va recuperata in tutti i suoi migliori aspetti.
    Lo riconosco: è la scoperta dell’uovo di Colombo e tutto il mio discorso è una sorta di meditazione personale ridotta in scrittura.
    Tre motivi suonano in essa: 1 ) siamo tutti eguali; 2 ) non uccidere; 3 ) al di fuori dei primi due la Politica è barbarie.
    Buon Natale.

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