Dal sud dell’anima

 

di Eugenio Grandinetti

 

Di questa recente raccolta di altre poesie di Eugenio Grandinetti, uscita nel novembre 2016 presso Youcanprint Self-Publishingt, presento una piccola scelta fatta a caso, come sfogliando il libro prima di entrarci dentro. La breve premessa e i titoli delle sezioni (Similitudini, Antiche e nuove moralità, inquietudini) danno il senso del libretto: una interrogazione tenace che sa di non trovare alcuna meta ma insiste e tiene alta e ferma la voce della poesia di fronte al nulla. [E. A.]

Premessa

Da tutti i sud del mondo, dove regnano guerre, miseria ed ingiustizie, gli oppressi cercano di scappare, spinti dalla speranza di un futuro migliore: dovranno affrontare un viaggio povero di meraviglie e ricco di pericoli in cui dovranno patire fatiche, fame, violenze e spesso anche morte; li attende una meta spesso precaria dove troveranno a volte commiserazione ma più spesso diffidenza ed ostilità.
Da tutti i sud del mondo, siano essi luoghi geografici o luoghi della mente, partono su barche fragili desideri che a volte naufragano ma quando riescono ad approdare,si accorgono che la meta raggiunta è solo provvisoria e che da essa bisogna ripartire per non perdere la speranza di poter trovare alla fine la meta desiderata.

Il punto del presente

Giorno per giorno i giorni ci accompagnano
che si sono fatti ombre sotto i passi
e nel cuore fardello di memorie.
Questo nostro presente com’è incerto
che pare il punto su cui poggia il bilico
di un equilibrio instabile !
E quando l’ombra si farà più scura
e più pesante il carico di eventi
non reggerà più il punto del presente
e cadremo nel vuoto che disperde
per sempre tutte le ombre e le memorie.

 

La frontiera

Non c’era tregua:c’era da lottare
sempre,contro il nemico
che cercava di ucciderti,contro l’alleato
infido che cercava di asservirti.
E pure quando all’apparenza c’era
un armistizio breve,bisognava
guardare sempre che dalla frontiera
non giungesse furiosa un’orda barbara
e abbattesse il muro di certezze
eretto a fatica sul confine.

 

La partita a scacchi

Le regole del gioco erano state
già predisposte. Si trattava,
chi passo passo,chi facendo un salto,
chi seguendo una linea diagonale,
chi attraversando tutta la scacchiera
lungo una linea dritta e verticale,
di vivere una lotta delegata,
stando guardinghi ma tendendo agguati,
fuggendo a volte e a volte provocando,
per scambiar con la vita un’altra vita
solo perché qualcuno,ostile,estraneo,
vincesse una partita.

 

Spire di fumo

Per non avere pensieri che ci turbino cerchiamo
di non pensare.
Nell’aria non ci sono che le immagini
labili che delinea
il fumo che dalla sigaretta
si leva a spire esili,a nuvole,
e si raccoglie in alto e si dirada
e s’agita e si sparge ad ogni alito.
E le immagini sono provvisorie
sempre,e mutevoli:
ora ali che volano,ora alberi
fermi,ora parole. E tornano
lontananze e memorie ancora a farsi
presente,e in esso s’agitano
nella fumea di un mondo senza pace
uomini ora dimessi ora feroci
in una lotta scambievole,
insieme vittime e carnefici,
e la benda dell’ostia si fa infula
del sacerdote che sacrifica,e tutto
è esecrabile. Potersi chiedere
il senso del proprio essere, per non sentirsi
nuvola, per non sentirsi flutto
spinto da un vento occasionale
o dalla legge occulta
che muove le correnti;chiedersi
se sia possibile non essere
Solo cosa sensibile, ma essere
uomo che stabilisce
insieme ad altri uomini la legge
e la modifica; e chiedersi
cosa fare per non sentire
come una colpa l’impotenza e rodersi
di rimorsi. Oh, se si potesse
col cenno della mano allontanare,
come si fa col fumo, la molestia
dei pensieri, che sono torbidi
più del fumo, che irritano
più del fumo, o almeno si potesse
trovare col pensiero il modo
di modificare il cumulo
dell’ingiustizia storica, perché il limite
delle risorse non giustifichi
la distribuzione iniqua, il prepotere
dell’uomo su un altro uomo, la piramide
dei rancori,
per chi è sotto di noi, se s’agita,
per chi ci è a fianco, se pigia
per farsi spazio, per chi poggia
sopra le nostre spalle i piedi e preme.
E tanto più si è in alto tanto meno
si è premuti
e tanto più si pesa, invece. Ma è difficile
superare i rancori che dividono
gli uomini alla base : le invidie,
il privilegio meschino di sentirsi
sopra di un altro e premere
più forte il piede perché l’altro avverta
il nostro essere superiori . E’ difficile
sentirsi uguali e non sentirsi invece
parti di una piramide d’ingiustizie.
Ma ora
la sigaretta è al termine e già brucia
le dita che la reggono. E’ tempo
di schiacciarla nel posacenere, d’interrompere
il filo di fumo. Ma rimangono
pensieri che s’inseguono nell’aria
e s’agitano e tracciano
linee tortili, spirali
senza termine, da percorrere
fino alla fine, per non farsi
acquiescenza o rimorso.

 

Le città

Le città muoiono, muoiono che non hanno
più un cuore,che non sanno
più cosa significhi
essere insieme o essere
in solitudine, che sono
battiti di motori, parole
di luci al neon, sguardi
riflessi nelle vetrine,
cose che si possiedono
solo per tempo breve e si dismettono.
Passano camion ogni mattina, caricano
rifiuti a tonnellate. Non bastano
più le discariche, occorre
costruire inceneritori, bruciarle
tutte le memorie, ma lontano
perché non inquinino
con fumi venefici,
perché le città continuino
a vivere,ma senza cuore,
senza sapere più cosa significhi
essere insieme o essere
in solitudine.

 

L’ordine

Non abbiamo da chiedere perdono
né ringraziare nessun dio La vita
è un’energia increata, uno squilibrio
cosmico che esaspera
masse nascoste, che rigonfia magmi
sotterranei che evadono
per crepe aperte nella crosta e bruciano
alberi, e travolgono ostacoli,e coprono
ogni cosa di cenere.
S’abbattono
orde barbariche ai confini,imperi
crollano, restano
macerie e silenzi.
Ma altre forze ripropongono
nuovi squilibri. Penetrano
piogge tra le fessure,
tra roccia e roccia,
il gelo le lievita, screpolano
la pietra.  S’insinuano
tra le crepe sassifraghe, ritorna
la pietra a farsi terra, tornano
a rinascere erbe ed alberi, a farsi
boschi. Rinascono
dalle macerie nuove case
si ristabiliscono
nuovi rapporti, più civili
forse, si sostituiscono
alle violenze apparenti
nuove violenze più nascoste,
altre forze
s’appropriano del potere, formano
piramidi più alte, perché i vertici
siano più in alto e non appaiano
se non le ingiustizie prossime. Domani
altre violenze ancora scrolleranno
l’ordine attuale,
catastrofiche forse o forse solo
abituali, come l’albero
che soffoca altri alberi, perché ha un limite
lo spazio vitale e ognuno vuole
espandersi più degli altri.
Superare
lo stato di natura non è solo
produrre energia,che esploda e liberi
altre energie nascoste,in una catastrofe
continua della materia.
Non si supera nessun limite
quando il nostro pensiero è sempre attratto
dalla più grave massa del passato
e i vincoli che ci legano ad orbite
ineguali ci paiono
leggi da non infrangere,per non turbare
l’ordine dell’ingiustizia.

 

Senza rimorso

Abbiamo ucciso qualcuno
in qualche luogo ed altri uccideremo
di continuo. Assassiniamo
uomini predeterminati, con rancore,
abbattiamo nemici senza volto
convinti di compiere un dovere.
Oggi ci sono
modi di uccidere che le mani
rimangono pulite,ce ne sono
che l’anima rimane
libera da rimorsi,
purché si seguano leggi
esterne e inderogabili,
quelle della guerra, dell’ordine,
del mercato, per cui non esistono
dall’altra parte uomini, ma solo
schiere di nemici da eliminare,
masse di rivoltosi da reprimere,
fattori di produzione e costi
da ridurre per non restare
tagliati fuori dal mercato.

 

I vincoli del vento

Senti il vento che passa tra i castagni
ed ulula come nottola e ridesta
timori antichi. Occulti si riversano
timidi desideri negli alveoli
cavi dell’anima, e s’agitano
come rami i pensieri, ma non possono
liberarsi dai vincoli del vento.
Ma tu non puoi sentire:ci divide
una distanza dove le memorie
restano separate e non s’incontrano.
Non ci sono più attese che la vita
abbia reso possibili. Ora passano
giorni senza sorriso, a volo obliquo,
come gli uccelli improvvidi che coglie
fuori dai loro nidi la burrasca,
che restano a mezz’aria e non s’accostano
per timore che il vento non li sbatta
violento contro gli alberi.
Sapremo, ognuno per sé, quando s’acquieti
il vento, cosa sia valso attendere,
o se era meglio forse non tentare
di resistere e lasciare
che il vento ci dissipasse.

 

Notte

Nel cuore della notte, nel cuore
che la notte fa oscuro, ed i pensieri
sono fantasmi pallidi che passano
da un luogo all’altro della mente e paiono
volerci togliere il riposo e farci
inquieti come larve di cadaveri
rimasti insepolti; nel cuore
dove lugubri i timori
come nottole attendono se timida
si sporga una speranza per ghermirla
col becco adunco;
nella notte del cuore; nella notte
che non ha passi d’attimo che portino
attese d’alba;
nel cuore e nella notte anche il riflesso
della memoria è giunto al novilunio.
E’ già trascorso
il tempo azzurro della primavera
quando per l’aria limpida spargeva
la sera luci tremule di lucciole,
ed è passato con l’estate il tempo
delle stelle cadenti,e son caduti
nel vuoto tutti quanti i desideri
e le speranze.
Nel cuore oscuro ora non c’è più nulla
che illumini,e la notte
è senza limiti.

 

Il viaggio di Enea

Non ci furono ninfe né sirene
che chiamassero. Fu un viaggio
senza allettamenti,
monotono di stenti e di pericoli
per seguire un dovere, per non vivere
la propria vita come un’avventura
ma come una necessità,
e chiedersi alla fine cosa fosse
valso vivere solo per deludere
se stesso e gli altri,
per ingannare ed ingannarsi, per abbandonare
persone vive per seguir dappresso
nomi vuoti e silenzio;cosa fosse valso
avere attraversato mari pallidi
ed ombre,
per giungere alfine a una promessa
di terre d’occidente,
ostili,e non avere
altre speranze che una solitudine
inquieta in un tramonto di rimorsi.

14 pensieri su “Dal sud dell’anima

  1. La brutalità della condizione umana non è un dato storico o sociologico, perché sarebbe cambiabile o correggibile. Non è un dato biologico perché non di malattie o di  fragilità fisiche ho letto nelle poesie, ma solo della condizione di scontri e sopraffazioni in cui si vive, appresa per esperienza vitale e riscontrata come generale.
    Potrebbero indicare, queste riflessioni, un male spirituale, un avvelenamento della speranza che infiacchisce le forze e ingenera opacità e accidia. Ma non c’è spazio per lo spirito, nell’aria, solo per volute di fumi, e di pensieri, tristi o secchi, che hanno quella stessa densità: consistenza materiale aerea, mentalismo cerebrale, secrezione pensata di organi interni coordinati (“solo cosa sensibile”). La tristezza della visione poetica è appunto brutale, perché è coerentemente materialista, un materialismo di oscurità e opacità, il poeta non rileva la forza e la bellezza della natura che susciterebbe almeno la vitale meraviglia. (C’è solo il ricordo: “il tempo azzurro della primavera/quando per l’aria limpida spargeva/la sera luci tremule di lucciole”, per decretare che questo è trascorso, passato, finito “Nel cuore oscuro ora non c’è più nulla/che illumini, e la notte/è senza limiti.”)
    Una coerenza intransigente costruisce queste poesie, senza aperture che facciano tirare il fiato o lascino divagare la mente. Non una sola immagine di piacere nei testi, non un sorriso, una complicità, un accenno a qualcosa di prossimo, di venturo. Nella poesia in cui compare un tu (“I vincoli del vento”) il rapporto si ricostituisce a partire da una interruzione causata dall’irruzione dei *vincoli del vento* (“Non ci sono più attese che la vita/abbia reso possibili”) che ha distrutto ogni fede nella continuità e quindi nella realtà del rapporto stesso, “Sapremo, ognuno per sé, quando s’acquieti/il vento, cosa sia valso attendere”.
    La lingua del poeta appartiene al quotidiano, i temi di moralità e di rapporti sociali sono argomentati sul piano di un discorrere senza gratificazioni, la struttura sintattica è lineare e conseguente, il lessico è concentrato su alcuni termini chiave – ombre, pensieri, notte, mente, rimorsi- pochi aggettivi.
    Sono tornata ad altri testi di Grandinetti su Poliscritture, a quelli sulla natura vegetale e vitale, per farmi convinta che la scelta tematica e stilistica di questo libro è intenzionalmente ristretta e focalizzata su un materialismo colore di pietra e di fumo – non c’è altro colore, non una una foglia o acqua che scorre, nelle poesie presentate – per sottolineare con questa opacità la durezza e la crudeltà dei sud del mondo e dell’anima.

  2. …in queste poesie di Eugenio Grandinetti, lo stato d’animo dominante, di una coerenza assoluta, tende immancabilmente a trascinarsi verso visioni di distruzione, di morte…Il pessimismo sulla vita si presenta in qualche modo universale in quanto considera la natura tutta, che sia vegetale, animale o umana, rapace e predatoria, senza concedere una possibilità a una forma di solidarietà trasversale almeno tra gli umani…Comunque credo che la sua poesia non sia una roccaforte del tutto inespugnabile alla speranza…Nelle presenti poesie osservo due squarci al pessimismo assoluto: come ipotesi futura ” Sapremo ognuno se, quando s’acquieti/ il vento, cosa sia valso attendere,/o..”(“I vincoli del vento”) e nel ricordo non ancora sbiadito di una natura amatissima ” Il tempo azzurro della primavera/ quando per l’aria limpida spargeva/ la sera luci tremule di lucciole…”(“Notte”)…Questi ultimi versi mi hanno in qualche modo ricordato la poesia di G. leopardi “il passero solitario”, dove l’uccellino sta in disparte e, come lui ( o forse no) il poeta si dispera per la sua condizione, ma tuttavia sa cogliere e accogliere tutta la magnificenza della natura intorno a sé…

  3. le considerazioni giungono “dal sud dell’anima” cioè dalla constatazione di una situazione negativa senza speranza se non nell’evasione. è pessimismo? non so:io però non trovo errori logici nel ragionamento.quello che mi interesserebbe sapere è se le composizioni sembrino poeticamente valide

  4. …la speranza potrebbe essere un sentimento che sfugge al ragionamento, anche se di una coerenza assoluta…Così mi è sembrato in alcuni passaggi, ma forse più che la speranza è la forza della vita( o del pensiero) nonostante…posso benissimo sbagliarmi. Trovo queste composizioni di Eugenio Grandinetti poeticamente molto valide, con un andamento mesto e nello stesso tempo travolte da un fuoco di inquietudine che, come l’Ulisse viaggiatore solitario in terre e mari desolati , coinvolge molto il lettore…”la verità” nuda e cruda che vogliono svelare si accompagna alla forza indomita di chi si nega anche l’ultima illusione

  5. “io però non trovo errori logici nel ragionamento.quello che mi interesserebbe sapere è se le composizioni sembrino poeticamente valide”
    Per quanto mi riguarda il “valide” delle poesie consiste nella coerenza del lessico, dell’andamento piano ma cogente del discorso, delle immagini di oscurità e opacità dell’aria (con qualche riferimento vegetale), coerenza di questi elementi con l’assunto di fondo “situazione negativa senza speranza se non nell’evasione”.
    Mi spiace se non lo avevo espresso chiaramente.

    1. espresso molto chiaramente e per me va benissimo perchè considero la poesia come un linguaggio che serve a comunicare situazioni e stati d’animo.mi riferivo all’uso di elementi artigianali – che pure per me devono esser presenti perchè il linguaggio sia poetico e non prosastico.è ben vero che oggi si fa di tutto per trascurare tali elementi,ma io sono vecchio non solo d’età

      1. @ Grandinetti, intende l’uso di strumenti (troppo) artigianali da parte mia? È corretto, non sono una letterata, ho una lettura critica che mi viene dal fatto di scrivere a mia volta, molto altro non so.

  6. Ho sempre apprezzato le poesie di E. Grandinetti per la sua capacità di rappresentare quelle pieghe (e piaghe) della esistenza umana non sempre facili da accostare per il turbine emotivo che portano con sé e che espongono al rischio di far scivolare nel patetismo o in un calcolato e cinico distacco.
    Anche queste ultime – che sono state qui pubblicate (e va dato merito a Ennio per la selezione) – danno esempio dell’equilibrio che il poeta riesce a trovare fra la parola (la sua ricerca, e il gioco calibrato degli ‘a capo’), l’immagine e il senso.
    E’ la capacità di dare voce non soltanto ad un problema di ordine soggettivo, ma collettivo (*di vivere una lotta delegata,/stando guardinghi ma tendendo agguati,/fuggendo a volte e a volte provocando,/per scambiar con la vita un’altra vita* – in “La partita a scacchi”) con tutte le difficoltà che vi sono implicate (*ma essere/uomo che stabilisce/insieme ad altri uomini la legge/e la modifica; e chiedersi/cosa fare per non sentire/come una colpa l’impotenza e rodersi/di rimorsi…* – in “Spire di fumo”).
    Come non cogliere la intuizione poetica capace di rappresentare non soltanto un esistente, ma anche il possibile articolarsi di un futuro che viene mostrato sì con sofferenza, ma senza l’acredine ideologica che accompagna molti mutamenti (*Domani/altre violenze ancora scrolleranno/l’ordine attuale,/catastrofiche forse o forse solo/abituali, come l’albero/che soffoca altri alberi, perché ha un limite/lo spazio vitale e ognuno vuole/espandersi più degli altri/* – in “L’ordine”).
    Perché, scrive il poeta e ci dà da pensare oggi più che mai, * Non si supera nessun limite/quando il nostro pensiero è sempre attratto/dalla più grave massa del passato/e i vincoli che ci legano ad orbite/ineguali ci paiono/leggi da non infrangere,per non turbare/l’ordine dell’ingiustizia.* – in “L’ordine”).
    Per tutto ciò, nonostante l’apparenza presenti il contrario (*cosa fosse valso/avere attraversato mari pallidi/ed ombre,/per giungere alfine a una promessa/di terre d’occidente,/ostili,e non avere/altre speranze che una solitudine/inquieta in un tramonto di rimorsi* – in “Il viaggio di Enea”), e quindi faccia palesare un pessimismo di fondo che alberga nel poeta, la mia percezione non è questa, quanto quella di una irriducibilità alla lotta, alla battaglia, solo che evitandone gli scogli delle sirene ideologiche (*per seguire un dovere, per non vivere/la propria vita come un’avventura/ma come una necessità,/e chiedersi alla fine cosa fosse/valso vivere solo per deludere/se stesso e gli altri,/per ingannare ed ingannarsi, per abbandonare/persone vive per seguir dappresso/nomi vuoti e silenzio*.- “Il viaggio di Enea”). Grandioso!
    Per concludere, direi che sono poesie da ‘meditare’.
    R.S.

    1. ringrazio fisher,locatelli e simonitto per le analisi molto benevole del mio lavoro.alla fisher vorrei precisare che nella mia risposta io volevo esser provocatorio,cioè volevo provocare un discorso sulla poesia.oggi infatti per ogni cosa fatta bene,fosse anche un bel calcio dato a un pallone,si dice che è poesia:ma poi nessuno si interessa di quella che comunemente chiamiamo poesia e forse non è bel delimitato il campo in cui la poesia opera e gli strumenti che adopera:perciò parlavo di elementi artigianali della poesia.

  7. MATERIALISMO, SPIRITUALISMO, A-IDEOLOGISMO?
    Due note su questi commenti e la questione del pessimismo

    Il problema su cui far più chiarezza a proposito della poesia di Eugenio Gradinetti è il suo materialismo (aggiungerei “ antico”). Che un po’ fa storcere il naso a Cristiana Fischer se scrive: « Potrebbero indicare, queste riflessioni, un male spirituale, un avvelenamento della speranza che infiacchisce le forze e ingenera opacità e accidia. Ma non c’è spazio per lo spirito…La tristezza della visione poetica è appunto brutale, perché è coerentemente materialista, un materialismo di oscurità e opacità, il poeta non rileva la forza e la bellezza della natura che susciterebbe almeno la vitale meraviglia… Una coerenza intransigente costruisce queste poesie, senza aperture che facciano tirare il fiato o lascino divagare la mente. Non una sola immagine di piacere nei testi, non un sorriso, una complicità, un accenno a qualcosa di prossimo, di venturo». Annamaria Locatelli, invece, vede le poesie di Grandinetti come prodotto di uno «stato d’animo» che tenderebbe « immancabilmente a trascinarsi verso visioni di distruzione, di morte» e a parla di «pessimismo». ( Come si è fatto per Leopardi a suo tempo e fino ai nostri giorni). Al di là del riconoscimento che stiamo parlando di poesia, resta una certa insoddisfazione: esplicita – mi pare – in Fischer. Malcelata in Locatelli, che si spinge a correggerlo (dialetticamente?) questo «pessimismo» di Grandinetti, dicendo che non le pare « una roccaforte del tutto inespugnabile alla speranza». ( Quindi non saremmo, come sostiene Fischer, di fronte a «un avvelenamento della speranza»). E porta due esempi che incoraggerebbero questa interpretazione: il pessimismo non sarebbe *assoluto*; e, invece, saprebbe – a differenza dell’opinione di Fischer («il poeta non rileva la forza e la bellezza della natura che susciterebbe almeno la vitale meraviglia » – « cogliere e accogliere tutta la magnificenza della natura intorno a sé». (Come accade – ancora! – in Leopardi). Dire «…”la verità” nuda e cruda», dimostrerebbe la « forza indomita di chi si nega anche l’ultima illusione». Che sarebbe, dunque, un aspetto non da pessimista ( e – aggiungerei – nemmeno da materialista “puro”). In netto contrasto con Locatelli e Fischer mi pare l’interpretazione di Rita Simonitto. Lei evita il rischio (che affiora,secondo me, nelle parole di Annamaria) di ridurre queste poesie ad espressione di uno «stato d’animo» (pessimista nel caso), precisando che il problema posto da Grandinetti non è « di ordine soggettivo», ma collettivo; universale insomma (qui in filigrana ancora osservazioni che riecheggiano alcune simili su Leopardi). E nega pure l’assenza di «un accenno a qualcosa di prossimo, di venturo» (Fischer), perché «la intuizione poetica [di Grandinetti]» sarebbe « capace di rappresentare non soltanto un esistente, ma anche il possibile articolarsi di un futuro che viene mostrato sì con sofferenza, ma senza l’acredine ideologica che accompagna molti mutamenti». Quindi, malgrado il non contestabile (per Simonitto) « pessimismo di fondo che alberga nel poeta [Grandinetti]», anche lei insiste a vedere non tanto o non solo una «forza indomita di chi si nega anche l’ultima illusione», ma proprio «una irriducibilità alla lotta, alla battaglia» e, per di più, a una lotta capace di evitare « gli scogli delle sirene ideologiche».

    2.
    Proprio in questi giorni e per caso trovo su Doppiozero questo articolo su Leopardi («Contro gli stereotipi. Leopardi e il pessimismo» di Antonio Prete:
    http://www.doppiozero.com/materiali/contro-gli-stereotipi-leopardi-e-il-pessimismo)
    e mi chiedo se esso potrebbe aiutare a far luce anche sulla poesia di Grandinetti ( e, magari, se il suo titolo potrebbe valere anche per lui. L’articolo ripercorre le varie tappe storiche della riflessione letteraria e filosofica su Leopardi. Sarebbe la filosofia di Schopenauer ad aver dato l’avvio a quanti hanno parlato di « un pessimismo leopardiano», assimilando con una certa forzatura l’opera del poeta a quella del filosofo tedesco, malgrado De Sanctis avesse sottolineato – dice Prete, appoggiandosi proprio a questa interpretazione di De Sanctis che sottrae Leopardi al «recinto del cosiddetto pessimismo» – che « il pensiero di Leopardi [era] sostanzialmente lontano da quello di Schopenhauer, soprattutto per una relazione particolare che il poeta italiano [aveva] con la vita, con il desiderio di rapportarsi a un’idea complessa, forte, di vita». Leopardi avrebbe vissuto e poetato «in stato di desiderio (senza voler caricare questa parola della cultura desiderante degli anni Settanta) e [avrebbe avuto] del desiderio una visione per così dire biologica, insomma [avrebbe fatto] coincidere il desiderio con l’esistenza stessa»; avrebbe cioè tenuto sempre «aperto il desiderio», presentando, dunque «sulla natura un pensiero in continuo movimento. Un pensiero che non sancisce mai una persuasione una volta per tutte, ma quella persuasione la riprende, la sfuma, la reintegra, la ribalta, la approfondisce. Il suo è un pensiero in costruzione, aperto verso integrazioni, riprese, ripensamenti, aggiustamenti». Tanto che « in Leopardi l’idea di natura si dispiega in un ventaglio amplissimo di situazioni, in una costellazione di forme visibili innanzitutto, ma anche di forme invisibili: la natura come fato (su questo Timpanaro ha scritto pagine molto interessanti), e qui c’è il rapporto con l’idea di natura degli antichi, la natura come necessità, come principio di conservazione, come bios, come circuito di produzione e distruzione (ovvio, qui, il riferimento alle Operette Morali). Ancora, la natura come vivente. L’orizzonte del vivente, la singolarità del vivente: una costante presenza teorica, questa. Corporeità e singolarità del vivente in rapporto con gli altri viventi. E questo in opposizione, in scarto, con un’idea di civiltà che è quella che Leopardi definisce come “spiritualizzazione delle cose umane, e dell’uomo”. La civiltà, progredendo, spiritualizza, scorpora, astrae, e invece la natura vivente è lì con la sua singolarità pulsante e desiderante. Il singolo uomo è vivente tra i viventi e per questo la sua presenza è in rapporto con la vita dell’universo. Non c’è pensatore, poeta, più cosmologico di Leopardi nella nostra tradizione. Fin dalla adolescenziale Storia dell’Astronomia, che ha pagine bellissime, la cosmologia leopardiana ha un forte senso del vivente. E del singolo in rapporto al cosmo. Un’idea alla quale via via si opporrà l’astrazione di una civiltà spiritualizzata, e per questo violenta, fondata sulle ideologie, sul conformismo, fatta di anonimia. Pensiamo all’ironia di Tristano sul tema delle masse, “questa leggiadrissima parola moderna”.».
    In questa riflessione di Antonio Prete come nell’intervento di Rita ( e magari anche in Leopardi e in Grandinetti) a non convincermi del tutto è la pretesa di un’uscita dalle “ideologie”. Detta in modo per ora frettoloso, non mi va una poesia che pretenda di sortire in astratto dalle “ideologie”. A me pare *politicamente* debole e una rinuncia a stare coi piedi nella storia.

  8. “Materialismo, spiritualismo e a-ideologismo” intitola Ennio Abate il suo commento/discussione dei commenti precedenti. Nonostante la dichiarazione iniziale: “Il problema su cui far più chiarezza a proposito della poesia di Eugenio Grandinetti è il suo materialismo”, di materialismo (di Leopardi) parla solo Antonio Prete nella lunga citazione.
    Invece Ennio discute del “pessimismo” attribuito alla poesia di Grandinetti, qualificando il pessimismo di tratto personale, stato d’animo, di ordine soggettivo, e chiede per la critica anche una dimensione ideologica in senso forte, collettiva, politica.
    Invece io vorrei tornare al tema del materialismo (non in generale, per carità!) confrontando il materialismo naturalistico di Leopardi con quello che ho attribuito a Grandinetti, perchè credo che un chiarimento sulla posizione materialistica sciolga anche gli altri vincoli sul pessimismo e l’ideologia.

    Intanto una premessa: per quanto riguarda lo spiritualismo del titolo del commento di Ennio, siccome la parola spirito la ho usata solo io, per spirito intendo l’eccedenza naturale che la vita costituisce rispetto alla materia non biologica (forse è a proposito di quest’ultima che Ennio scrive di materialismo “antico”).

    La metrica della canzone leopardiana, e i temi stessi di Leopardi, sono presenti in “Spirali di fumo” e in “L’ordine” di Grandinetti. Il materialismo di Leopardi è quello della Natura, e in essa delle creature viventi, costituite di affettività e razionalità, la prima più importante, per consentire la vita stessa, della seconda: “… sogno/in molta parte onde s’abbella il vero/sei tu, dolce pensiero;/sogno e palese error. Ma di natura,/infra i leggiadri errori,/divina sei…” (Il pensiero dominante).
    Il materialismo di Grandinetti è piuttosto geologico e minerale, sospetta del vivente: “se sia possibile non essere/Solo cosa sensibile”, e lo schiaccia sui sommovimenti terrestri: “… La vita/è un’energia increata, uno squilibrio/cosmico che esaspera/masse nascoste, che rigonfia magmi/sotterranei che evadono/per crepe aperte nella crosta e bruciano/alberi, e travolgono ostacoli, e coprono/ogni cosa di cenere”.
    (Si ricordi La Ginestra: “profondo/di ceneri e di pomici e di sassi/notte e ruina, infusa/di bollenti ruscelli/o pel montano fianco/furiosa tra l’erba/di liquefatti massi/e di metalli e d’infocata arena/scendendo immensa piena”.)
    Mentre nei rapporti umani Leopardi vede la possibilità di un abbraccio razionale e solidale (“Uom di povero stato e membra inferme/Che sia dell’alma generoso ed alto/… /Congiunta esser pensando,/Siccome è il vero, ed ordinata in pria/L’umana compagnia,/Tutti fra se confederati estima/Gli uomini, e tutti abbraccia/Con vero amor… “), il pessimismo di Grandinetti non riconosce, nella vita umana, la sporgenza di un’anima generosa e alta rispetto alle “forze” cieche, che “ripropongono/nuovi squilibri” sulla terra come nella società. La conflittualità è espressa in termini geologici:

    … altre forze
    s’appropriano del potere, formano
    piramidi più alte, perché i vertici
    siano più in alto e non appaiano
    se non le ingiustizie prossime. Domani
    altre violenze ancora scrolleranno
    l’ordine attuale,
    catastrofiche forse o forse solo
    abituali, come l’albero (L’Ordine)

    e gli affetti, scarniti in forme vegetali, vengono prosciugati (da una bufera infernal che mai non resta?)

    timidi desideri negli alveoli
    cavi dell’anima, e s’agitano
    come rami i pensieri

    come gli uccelli improvvidi che coglie
    fuori dai loro nidi la burrasca,
    che restano a mezz’aria e non s’accostano
    per timore che il vento non li sbatta
    violento contro gli alberi (I vincoli del vento).
    Naturalmente le sole poesie dell’ultimo libro di Grandinetti che conosco sono quelle qui proposte da Ennio. In esse la visione ideologica (in senso forte, politico) è quella che Rita Simonitto ha esplicitato, ed è, effettivamente, una posizione di astensione e resistenza. Soggettiva.
    Quello che vorrei mostrare è che il materialismo di Grandinetti, cosale e geologico – la terra e i movimenti atmosferici, la incosciente vita vegetale – difficilmente si può impegnare in un “abbraccio” razionale ma con vero amor.

  9. quanto al materialismo,non credo alla possibilità di materialismi diversi:è un modo di interpretare la realtà e si differenzia solo dalle visioni creazionistiche.quanto al pessimismo,consideriamoil solito esempio del bicchiere in cui c’è solo il 50% della capienza:chi dice che il bicchiere è mezzo pieno evidentemente pensa che non ci sia altro da fare che accontentarsi ,mentre chi dice che è mezzo vuoto vorrebbe che la situazione cambiasse:chi dei due è pessimista?

  10. Scrive Ennio Abate:
    *In questa riflessione di Antonio Prete come nell’intervento di Rita ( e magari anche in Leopardi e in Grandinetti) a non convincermi del tutto è la pretesa di un’uscita dalle “ideologie”. Detta in modo per ora frettoloso, non mi va una poesia che pretenda di sortire in astratto dalle “ideologie”. A me pare *politicamente* debole e una rinuncia a stare coi piedi nella storia.*

    La nostra mente è strutturata anche in funzione di un pensiero che ricorre all’ideologia per sistematizzare una certa visione/idea del mondo. Una volta detto questo, il nostro lavoro è duplice: da un lato cogliere gli attraversamenti ideologici che sono frutto delle nostre ‘costruzioni mentali’; dall’altro, e qui sta il punto più difficile, sgretolare le ideologie quando esse si trasformano in apparati, formule rigide di pensiero, stereotipie che lo costringono (il pensiero) ad una visione unica. Pertanto il nodo non sta nell’uscire dalle ideologie, quanto riconoscerle e, storicizzandole, privarle di quell’apparato che tenderebbe ad eternizzarle, scotomizzando quella parte di realtà che non è loro consona (o consona a certi gruppi di potere!).
    Esempio: si critica la ‘società liquida’, ma nello stesso tempo si mostra ostilità nei confronti dei tentativi di mettere dei paletti, di costituire ‘grumi’ di realtà identificatorie (‘famiglie’?, ‘nazioni’?, Stati?), solo perché quelle, a loro volta, erano state oggetto di costruzioni ideologiche (T. Negri, nella sua intervista: “La nazione è sinonimo di barbarie”).
    La poesia non può pretendere di *sortire in astratto dalle “ideologie”* (Ennio): sono d’accordo. Ma perché, a mio avviso, essa sta sul crinale, che permette di contemplare (e di affondarci anche i denti nel) la carne dell’esistente, del convenzionale e di quello che fu il sogno desiderante.
    Mi fa pensare a quello che ha scritto A. Prete a proposito della poesia di Leopardi: “Perché Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto”.
    Tornando a E. Grandinetti, i suoi versi hanno un impatto su di me – in quanto lettrice e non come esperta, o ‘critica’, di letteratura – che non mi sollecita pessimismo, nonostante mostri gli scogli, le difficoltà e una certa irreversibilità del tutto.
    *E quando l’ombra si farà più scura/e più pesante il carico di eventi/non reggerà più il punto del presente/e cadremo nel vuoto che disperde/per sempre tutte le ombre e le memorie.* (“Il punto del presente”).
    Ma è proprio questa consapevolezza di un ‘io’ e di un ‘noi’ che condividono lo stesso destino unita alla presenza di una mente che, nonostante tutto, esercita ancora il suo pensiero, a fare da freno all’annullamento del *per sempre*: (*spirali/senza termine, da percorrere/fino alla fine, per non farsi/acquiescenza o rimorso*).

    La natura – anche quella umana – non è trattata come un luogo ideologico dove si depositano speranze e si sperimentano le delusioni (*Senti il vento che passa tra i castagni/ed ulula come nottola e ridesta/timori antichi* – “I vincoli del vento”), ma è un pretesto descrittivo che si presta ad accompagnare le riflessioni e le eventuali trasformazioni :
    *Ma è difficile/superare i rancori che dividono/
    gli uomini alla base : le invidie,/il privilegio meschino di sentirsi/
    sopra di un altro e premere/più forte il piede perché l’altro avverta/
    il nostro essere superiori . E’ difficile/sentirsi uguali e non sentirsi invece/parti di una piramide d’ingiustizie*. (“Spire di fumo”).
    Non si può parlare di pessimismo quando ci si apre alla domanda!

    R.S.

  11. Sempre di corsa. Poi magari ci torno. Questo scambio su FB con X mi pare chiarisca bene il mio atteggiamento verso le ideologie:

    X – Come sempre la differenza la fa la qualità degli uomini, non delle ideologie. Se un popolo è servo per vocazione (come quello italiano), o si fa travolgere dagli estremismi (come accadde in Germania), etica, solidarietà, ecc. fanno quello che possono; ma non cambiano le cose.

    Ennio Abate
    No, la differenza la fa la storia degli uomini che, pur impastati di ideologie (tutte, ma tra loro c’è una differenza mai trascurabile: una cosa è stato il nazismo, altra il comunismo), ne restano schiacciati o se ne servono come – nell’esempio di Kant – fa la colomba con l’aria (http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaK/Kant_06.htm).
    Le vivono cioè – senza illudersi di aggirarle come fanno gli “oltrepassatori” ( in astratto e a parole) delle ideologie (come – per un esempio concreto … il M5S) – in modi diversi: dal fanatismo, all’obbedienza cieca, alla scelta fondata sull’analisi concreta della realtà. Abbiamo allora il fascista Perlasca che salva gli ebrei e il comunista Gramsci che intravvede e denuncia la tragedia dello stalinismo. Il tutto accade *nella storia* e non per un DNA. Non c’è un popolo “servo per vocazione”.

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