Senza terra

 di Rita Simonitto

Questo romanzo è opera in cui l’autrice – donna, psicanalista, poetessa e narratrice –  va fino in fondo e spesso in modi spietati  nei nuclei più dolorosi della sua esperienza.  Molti dei suoi temi – la condizione di povertà  contadina,  la ribellione istintiva all’educazione cattolica,  la sconfitta politica  quasi in parallelo con quella affettiva, il ricorso alla scrittura come  avvio individuale ad un riscatto – sono comuni ad alcune generazioni maturate nel secondo Novecento. E c’è, fin troppo feroce  e squassante e quasi in ogni pagina, un dolore che devo per forza definire *al femminile*: è quello di chi – donna ma  spesso anche uomo –  si ritrova  a *riparare* qualcosa che si è rotto sul piano del sentire amoroso più intimo e impenetrabile dal pensiero. L’”Epilogo” – e perciò ho voluto pubblicarlo su Poliscritture –  è davvero struggente per la scelta di fare i conti con Padre e Madre (reali e immaginari) attraverso un dialogo postumo ma svolto in forma diretta come con persone vive.  Sul piano letterario la forma-romanzo mi pare  volentieri “strapazzata” o  usata liberamente per  seguire fino  in fondo certe esigenze espressionistiche. Ne risulta un tipo di narrazione frammentata e ibrida, dove le digressioni sul mito si intersecano con l’autoanalisi; ma anche con le interrogazioni sul senso o non senso del narrare stesso (a chi narrare? scavare nel passato ma perché?). Il «Senza terra» del titolo, come scritto nella quarta di copertina, allude alla «ricerca di quell’humus, di quella terra fertile che permetta di superare le macerie del passato e di evitare le fughe ingannevoli delle idealizzazioni», ma io tenderei di più a porre l’accento soprattutto sul «senza». Che rimanda una condizione umana più generale ed estrema di “povertà resistente”. Proprio come quel mandarino, che s’affaccia furtivo e inatteso in auest’epilogo e che patisce «con sfida esibendo le piccole foglie accartocciate dal gelo» mentre «le altre piante, più avvezze ai climi rigidi, se l’erano cavata». Quante allegorie sarebbero possibili a partire da questa immagine! Che a me  rimanda – a riprova della distanza epocale tra noi e i nostri antenati – all’albero fiorente di ciliegie di Brecht saccheggiato da un giovane ladro dai calzoni sdruciti. Il cui arrivo anche il mandarino di questo romanzo potrebbe attendere? [E. A.]

Epilogo

Sulla collina.
No, non è la ‘collina’ di Edgar Lee Masters che, per quanto tragica, rappresentò comunque un canto, una canzone che si snoda lungo le vicissitudini e gli investimenti emotivi della stagione storica di cui parla il poeta. Lì, speranze di uomini e donne si incrociavano; le loro illusioni di un mondo migliore o diverso, e i tradimenti che ne seguivano, davano comunque senso anche alla morte, in una malinconica elegia. Vite che, nel loro esistere precario, ‘furono’, ebbero una esistenza, nonostante tutto, anche se adesso non ci sono più.
La mia collina, invece, non solo ha pochi personaggi, ma essi sono anche monocordi, attraversati soltanto dal dolore di un sentimento arcaico, quello dell’abbandono, della perdita. Della continua, incessante mancanza.
E’ dunque più semplice, non alta nelle sue declinazioni, e tutt’ora tremula, indefinita nelle sue linee, persa com’è tra le brume di ricordi e ricostruzioni, dove realtà e immaginario cercano di compensarsi tradendosi reciprocamente.

Qui vi ero sbarcata dal mio cassero di nave, dal quale, come Cassandra, avevo guardato apparire all’orizzonte il destino, già noto, ancorché non attuato. Così riconoscevo le grida delle battaglie che giungevano fino a me, e negli strazi di coloro che vi si perdevano mi identificavo perdendomi a mia volta.
Credevo che in quel modo se ne potesse continuare la memoria. Dare loro un riconoscimento.
Vedevo anche le bandiere per cui si era combattuto e che sembravano levare preghiere onde evitare l’oblio.
Eppure vidi – e non era possibile non vedere – anche altro, quello che la mia sensibilità mi faceva toccare con mano, quell’arroganza che fa da ancella alla libertà. Ma non volli tenerne conto. Io stessa ero ingannata dalla maledizione di Apollo e, pur temendolo, presi sottogamba la sua vendetta.
A che serve infatti conoscere se non puoi comunicare? O se le tue comunicazioni vengono stravolte o, peggio, non credute?
A che serve essere liberi se non conosci i limiti della tua libertà?
A che serve Apollo se prima non hai fatto i conti con Dioniso il quale rischia sempre di presentarsi là con tutti gli invischia menti del godimento ‘senza limite’?
Questo era il paravento dietro cui nascondevo la mia pusillanimità! E per quanto tempo mi trincerai dietro i muri della modestia per meglio nascondere il mio conflitto! Mi avviluppavo dentro il mantello della conoscenza pensando che così mi sarei resa inattaccabile. “Io so come stanno le cose, tanto peggio per gli altri. Se non mi credono!”
Ma non era forse la superbia a tenermi stretta alle mie convinzioni lasciando che gli altri si infangassero nelle loro?
Cassandra, dalla prora, aveva visto eppure era scesa a terra, incontro al suo destino, alla sua morte.
Il vizio ad essere Cassandra: vedere, sapere e subire!
Dove subire sembra non essere più affare tuo, ma dell’altro, del carnefice.
Quanta sventura sta nella sapienza: “O donna molto sventurata invero e pur sapiente assai”, così canta il Coro nell’”Agamennone” di Eschilo!
O nella sfida: “Ma se veramente conosci il tuo destino, perché a guisa di giovenca […] muovi verso l’altare”? Ibid. vv.1295-99.
Mentre io non avevo voluto vedervi nulla lì, di profondo, in quel pernicioso che si nasconde nella stupidità della superbia. Pensavo che lì non valesse altro che la mia preveggenza, mi sentivo al sicuro, coperta: “so come andranno le cose, e questo mi basta!”

Ora io sono a valle. La collina è là.

Quali divinità chiamerò ad assistermi, ora? Dove si colloca il tradimento? Forse nel pensare che questo non sia possibile o che la sola conoscenza basti a gestirlo! Questo è Cassandra, la sfidante, non la fanciulla inerme, violata!
E questo ho permesso che accadesse, non solo con te ma anche con altre persone che hanno poi scambiato la mia generosità per dabbenaggine, la mia fatica nell’assecondare i loro desideri come un atteggiamento ostile verso un loro diritto.
La conoscenza, se fine a se stessa, è un inutile fardello.

Adesso, in quel piccolo cimitero sulla collina, sia pure distanziati da alcune tombe il nome dei cui occupanti mi risulta sconosciuto, voi due, madre e padre, state lì, ancora una volta insieme, ma non insieme. Non c’è un loculo di famiglia ad accogliervi, a coprirvi di uno stesso tetto ma soltanto la terra, sotto i cui tumuli vengono livellate tutte le differenze.
Se ci fosse stato un sacello per voi, avrei messo – prima che mani malandrine me la rubassero assieme al portafoglio dove la tenevo gelosamente protetta – una foto del vostro matrimonio. Una barca presa a nolo per l’occasione, si intuiva la riva poco discosto, e lontano un orizzonte di monti, forse azzurri. Lago di Lecco, mi raccontaste, scarni nei dettagli quasi foste vergognosi della vostra intimità, mano nella mano, lui, garofano all’occhiello del vestito grigio perla e lei, che, nell’altra mano guantata di pizzo, teneva un ombrellino a difendersi dal sole di un settembre ammiccante tra cielo e acqua. Eravate belli come due attori, liberi di sorridere al fotografo, in quel pomeriggio dove pareva scomparsa la Guerra, ogni guerra, perché eravate solo voi, senza tempo in quel clima pervaso dal color seppia di cartolina.

Il vostro colloquio, se c’è, ora avviene attraverso due piccoli roseti che si espandono rigogliosi dalle vostre tombe. Ogni pianta di rosa – la gartuse blancje che mi piace pensarla come il pegno d’amore fra Articone e Soladamor, sua sposa -, ora lancia d’intorno i suoi rami di fiori antichi, candidi e profumati, a dondolarsi nel vento come un messaggio criptato che solo voi due conoscete.

Quando te ne andasti tu, madre, scendendo per prima in quegli abissi senza ritorno, il coro di Stelutis alpinis, scivolava via – insinuandosi per l’aria stretta, ancora fredda a causa di un maggio traditore, come sempre -, al pari di un lamento impavido che usciva dal petto di alcuni uomini in divisa.
Erano Alpini – il cui Corpo d’Armata aveva difeso strenuamente la nostra terra – i quali, in memoria di tuo fratello – Alpino lui pure e che ormai aveva preso posto per primo tra gli asfodeli – avevano voluto rendere onore anche a te.
Ma, nella mia mente che vagava senza confini, vedevo frammischiate in mezzo a loro altre figure, quelle di coloro che invece avevano occupato le nostre terre. Mi arrivava un coro muto, come se dalle acque gelide della Drau fossero emersi anche dei giovani cosacchi a rendere onore a quella fanciulla, ormai non più giovane ma ancora con lo splendore di “pela mama”. Di “pela pampina” non mi stava importando più niente.
Così, madre, eri passata attraverso glorificazioni che venivano da varie fonti, quella di tuo marito, e soprattutto la mia, e poi anche altre e tutto inconsapevolmente, amata e non amante, presa com’eri da chissà che cosa. Senza ombra di dubbio, dal tuo Dio.

E io, a malapena distoltami dal legame impossibile con te, madre, caddi in analogo errore con te, padre, illudendomi che il tuo essere ‘senza Dio’ avrebbe aperto uno spiraglio per i miei sogni. Non sapevo che l’assenza del Dio trascina inesorabilmente alla sua ricerca, così che come cieco tu ti affidavi a viandanti dalle facili promesse, pur di raggiungere quella terra dalla quale ti eri sentito estromesso.

Ho sperimentato che le adorazioni non possono essere eque, come non fu equo il mio dolore per te, padre, quando anche tu, pochi anni dopo la perdita di lei, ti avviasti per quei cammini in cui ognuno è solo con se stesso. Non novità per te, che praticavi le tue solitudini come la sola ribellione che ti era possibile e che io troppo tardi giunsi a capire.
Venni a conoscerti meglio quando ormai le linee dei tracciati della vita stringono inesorabili verso quel finale dove attendono i colorati e botulinici crisantemi di Novembre, e per quanto ci fosse sofferenza, e tanta, per la tua dipartita, questa era annoverabile ad un dato di fatto.
Per te, come sarà per me, per noi dannati della terra e condannati dall’essere senza terra, nessun canto.
La mia condivisione del sentimento di non appartenenza era fuori discussione, anche se diverse le nostre risposte reattive: la tua rabbia incontrollata e incontrollabile di fronte al rifiuto, ed il mio lento e silenzioso affondare nelle più svariate acque, nell’impossibilità del riscatto.

La foglia che cade sulla spalla di Sigfrido e che gli fa perdere l’invincibilità non può essere che la foglia dell’amore nelle sue diverse sfaccettature: è lì il punto dove siamo vulnerabili. Non lo sapevo, non lo volevo sapere, tant’è che da bambina, quando sul Corriere dei Piccoli era rappresentata la ‘striscia’ di questa scena, tanto fu il dolore per il triste destino del ‘mio Sigurd’ e la mia non accettazione dell’ingiustizia che lo avrebbe reso umano tra gli umani, e quindi mortale, che strappai la pagina del giornalino. Non servì a nulla il mio atto di rivolta, anche perché quella immagine mi ritorna davanti agli occhi con tutta la virulenza emotiva che ebbe allora.
Offrivi la tua forza e potenza al mondo davanti a te, e alle spalle venivi ferito mortalmente, Sigfrido, invincibile eroe che popolava, assieme ai cosacchi, le mie fantasie per conquistare una propria terra, un amore, del quale prendersi cura ed esserne preso in cura. Il mio sogno. La mia follia.
E come tutto questo ‘sogno’ sembrava essere scaturito da quella “terra di nessuno”.
Eppure, anche la nostra mente, all’inizio è come se fosse una ‘terra di nessuno’, sommersa da stimoli di ogni genere, bisognosa di darsi un senso e una appartenenza. E se questi bisogni non vengono soddisfatti, allora si parte alla ricerca e c’è necessità di un Passato, di Storie e di Bandiere.

Ora, con l’andare degli anni, quella “terra di nessuno” – quel grumo di realtà investito da potenti fantasmi -, ha cambiato morfologia anche a seguito del terremoto i cui detriti si sono ammassati alla confluenza dei due fiumi, trasformandola in una specie di penisola. Qualcuno aveva pensato di sottoporla ad una specie di bonifica, ma la posizione così esposta alle piene di riflusso aveva fatto desistere anche i più volonterosi. Tutt’al più, poteva essere utilizzata come posto di ristoro per dei pic-nic estemporanei.
Ridotta così, però, aveva perso la sua magia: anche il ‘trono’ era stato trasformato, riempito di pietre in modo da ricavarci una base d’appoggio per eventuali grigliate.
Due alberi di noce, corrosi nelle radici, erano stati portati via da qualche burrasca lasciando un vuoto in mezzo alla corona degli altri, con un effetto sgradevole a vedersi, come di una bocca sdentata.
Trasformazioni intrise di un qualcosa di lugubre, di decadente come se stessero al passo con tempi che tradiscono ogni senso di bellezza, di armonia, di mistero.
Che pena! Ma a chi porterò questo duolo? Allora mi accorgo che scrivo per piangere e piango per poter scrivere, poi, le ragioni di quel pianto.
Perché solo scrivendo, in un lavoro di testimonianza, mi riesce anche di separare gli anelli di una catena che ha avviluppato i miei passi e le mie scelte.

Nello stesso tempo, devo anche guardare avanti. Là, me ne accorgo bene, c’è un confine al quale mi devo avvicinare.
Sparito l’Angelo infingardo che ratificava il dar credito alle illusioni, mi trovo ancora una volta a dovermi confrontare con l’unicità della scelta, le verifiche di quanto fatto e lo sforzo a superare quella paralisi che mi attanaglia pensieri e movimenti.

E’ la stessa paralisi che mi impedisce di uscire in terrazzo, oggi.
Non ci voglio andare.
Non me la sento di vedere gli effetti della mia incuria a fronte di un inverno in via di finire, inverno durissimo per me, ma anche per le piante che ho lasciato abbandonate a loro stesse, senza metterle al riparo.
C’è sempre una ragione superiore che giustifica le nostre azioni: la poca disponibilità di tempo, ad esempio, ma io so che si tratta di ben altro.
Sono quelle ‘ragioni superiori’ dietro le quali tutti ci trinceriamo per non entrare in contatto con quello che di più profondo e torbido si nasconde là: le parti vampiresche che succhiano la vita. Così ci lasciamo trascinare verso ciò che preferiamo vedere a discapito di ciò che è.
Così come quando gli amici dicono: “non ci aveva spiegato nulla, non sapevamo niente!”. Gli amici abituati a muoversi entro i binari del percepito e non più in grado di fare inferenze.
Ma sono le piante a non fare inferenze: se c’è gelo è quello che sentono e patiscono, non si interrogano se ci sono delle cause o delle motivazioni.
E così mi sono fatta pianta anch’io e anch’io, passiva come loro, mi sono costretta alla inclemenza dell’inverno.
Ma che diritto avevo a sottoporle al mio stesso trattamento?

Dopo giorni di tentennamenti mi sono fatta forza, anche se dovermi mettere in contatto con l’irreparabile mi legava il respiro e le ginocchia. La paura del confronto con uno scempio mi faceva dire: “non voglio, non voglio vederlo!”.
So che ciò che non voglio vedere è la mia anima assente, non voglio vedere i suoi tragici effetti.
Eppure adesso sono qui.
Invece l’aloe ha resistito e anche il jasminum officinale ha tenuto duro.
Il mandarino, l’ho guardato per ultimo, temevo di incontrarmi con il suo patimento. Sembrava mostrare la sua sofferenza con sfida esibendo le piccole foglie accartocciate dal gelo. “Quanto mi assomigli”, gli ho detto. Però qua e là, piccole protuberanze mostravano che c’era ancora vita e che premevano per emergere.
Le altre piante, più avvezze ai climi rigidi, se l’erano cavata.

Nel mentre tasto il senso vitale che nonostante tutto cerca di farsi strada, lontano qualcuno sta ascoltando Rachmaninov, l’Isola dei morti, e quelle note forano un’aria quieta che fa sembrare evanescente il mondo attorno: anche i passeri hanno ridotto il ‘pigolio’, abbassate le aspettative di cibo in quel primo meriggio marzolino. Solo le mie note emotive strappano ancora tessuti che dovrebbero essere tastati più armoniosamente.
Persa la fissità dell’Angelo, le sue illusioni, il suo tradimento non posso ora sottrarmi al precipizio, il sentirmi dentro il flusso di Caronte, le grida e lo stridor di denti.
Il filo rosso del dies irae, che trapela con battute di incipit, mi richiama, volente o nolente, alle perdite della vita. La mia, affettiva in primo luogo, e quelle di altri: quanto è stato perso per strada?
E, di contro alle perdite, quoi?
Metafore?
Realtà?

Se penso a vent’anni orsono, qui non c’era giardino ma un terreno incolto. Adesso guardo quello che è stato il lavoro delle mie mani, dei miei tentativi di creare isole diversificate per colori e profumi. Poi alcune piante si sono fatte strada da sé, altre hanno rinunciato. Oggi, c’è un che di selvaggio in questa crescita, anche qui alcune ‘stirpi’, ciclamini, mughetti, angeliche sono migrate da un luogo all’altro del territorio creandosi nuovi habitat.
Si sono spinte tra loro, hanno battagliato, ma hanno trovato un posto. Così come ho fatto io, senza rendermene conto pienamente.
Ma ogni tanto il gorgo dei ‘senza terra’ mi afferra alla gola e mi rende impotente rispetto a quanto vedo attorno a me, per quanto positivo esso sia.
Perché, se vado con la memoria ancora più indietro nel tempo, in una data come quella di oggi e in una città fattasi scaltra dai tradimenti del tempo atmosferico, inclemente e ottuso di fronte alle fioriere di gerani rossi alle finestre, e dunque costretta a tenere al riparo ogni esplosione, ogni tripudio floreale, tu ed io ci eravamo scambiati le promesse. E assieme a quelle anche gli anelli, che poi lentamente scivolarono nelle tasche, a nascondere questo segno di legame borghese.
Che altro ci fu, poi? Quando, e perché, si mise in moto la divaricazione che ci fece procedere come due fiumi che corrono di per loro? Non lo so.
Ora non ti chiedo più niente, non ho fatto pace con te perché non c’era alcuna guerra. Erano solo stesi dei fili ai quali non stava appeso nulla, niente di quello che volevo, niente di cui avevo bisogno e che tu avresti potuto darmi. Niente. Fors’anche nulla di ciò che avresti voluto tu. Ma io ero convinta, in una assurda e superba ripetizione del passato, che il mio sacrificio, le rinunce ai miei desideri ‘a fin di bene’, mi avrebbero finalmente dato quella terra sulla quale appoggiare la mia identità.
In quel modo, la lenta dissoluzione di quei tracciati non venne sostituita da altro che potesse avere la parvenza di tenere insieme qualche cosa.
E’ andata così, dovevo mostrarmi sempre ‘superiore’, anche se era duro rimanere nel “I need nothing” (non ho bisogno di niente).

C’è ora una quotidianità che fa scivolare via i giorni al punto che l’anno solare sembra essersi ristretto a quelle ricorrenze ‘pubbliche’ che non è possibile far passare sotto silenzio: Natale, Capodanno, Pasqua, Ferragosto.
Così, anni composti da quattro giorni soltanto passano in fretta, e rapidamente ci si avvicina al fine corsa anche se il guidatore compie dei giri strani per dare la parvenza che il tragitto sia più lungo.
Non so se mi salverò, o che cosa potrò salvare da questa corsa contro la Morte, se riuscirò, per tempo a rendere ragione di me, della mia esistenza prima che Lei mi raggiunga e, d’un soffio, azzeri tutto.
Non faccio parte della schiera delle persone coraggiose di cui si dice che hanno lottato fino all’ultimo. Non sono una lottatrice, non so ‘fronteggiare’, potrei giocare d’astuzia, di finzione, come ho sempre cercato di mostrare. Ma oggi questo tipo di recita che fine avrebbe? Perché darsi tanto da fare?
Certo, non mi affiderò più all’Angelo infingardo che, pur stando sul limite, inganna con le sue false promesse, prima fra queste il potere della conoscenza, della scienza. Appunto intese come baluardo contro l’impotenza.

Allora questa sera aspetterò Ecate l’oscura, la guardiana delle porte, la controparte al femminile di Apollo, anche lei ‘dal dardo veloce’.
Collocherò lei sul limite tra l’intellegibile e il sensibile, tra terra e cielo, attenderò da lei il soffio del passaggio che permette o vieta la realizzazione dei desideri.
Ascolterò lei, esploratrice e levatrice.

E, poi, una volta stesa sul letto, guarderò nel cielo stellato Giove, Zeus l’Olimpio, il padre dei desideri.
Fino ad oggi credevo di non potermeli permettere e avevo trovato valide barriere di difficoltà per vietarmeli: nella vita reale, si sa, di barriere ne trovi a iosa.
La guerra con i suoi maledetti strascichi, l’onnipotenza di mia madre e la debolezza di mio padre. E, a coronamento, il tuo egocentrismo: tutto era confluito nel farmi sentire una ‘senza terra’.
Ma anche la mia testardaggine a volere risarcimenti per le offese patite.

Eppure, oggi, quel piccolo mandarino – che tempo addietro avevo portato a casa da chissà dove, estirpato anche lui da chissà quale terra – mi ha fatto vedere che forse una qualche possibilità c’è; che spunti di vita, nonostante l’inclemenza patita, possono esserci ancora.

In terrazzo sembra essere cambiato il vento: ora scendono folate di aria fresca da nord-ovest.
Penso “meglio così”, anche se fa addensare qualche nuvola che può essere portatrice di pioggia.
“Meglio così” perché sta contrastando, anche se per poco, l’effetto invadente del Dies Irae di Rachmaninov, che arriva dai fiumi dell’est.

8 pensieri su “Senza terra

  1. …riguardo al mandarino dalle foglie accartocciate dopo il freddo inverno: ” Però qua e là, piccole protuberanze mostravano che c’era ancora vita e che premevano per emergere…” (Rita Simonitto)…sicuramente nella lettura del romanzo ho attinto abbondantemente a quel mandarino…come il ladro di Brecht, immagino. Un romanzo che racconta una storia e ne incrocia molte altre di vivi e di morti ed esprime così la voce corale dei “senza terra”… Proprio la fedeltà eccessiva all’amore porta a giuramenti vincolanti e devianti, generando a sua volta il senso del tradimento, una trappola da cui non si esce o si esce mutilati…I “senza terra” sentono oscillare continuamente la terra-certezza sotto i loro piedi: il richiamo al devastante terremoto del Friuli non è casuale…La ripresa può esserci, ma lascia tracce indelebili negli animi e un procedere provati e fragili…Solo i bambini sanno giocare con destrezza alla corda e fare salto in lungo tra i crepacci…Ringrazio molto Rita per la sua generosità

  2. E’ un libro complesso e molto interessante, compone la storia e l’evoluzione di una bambina possibile e le riflessioni dell’autrice diventata adulta sulle possibilità di raggiungere, nei rapporti e nella scrittura, la conoscenza di sé e degli altri.
    La scrittura è sapiente, è precisa e sintetica, persino lirica in alcune brevi descrizioni naturali. I collegamenti nella narrazione sono laschi, seguono vagamente un percorso temporale. Nell’epilogo il soggetto femminile narrante tende a coincidere con l’autrice, nella descrizione del giardino (terrazzo) e delle diverse reazioni delle piante, e della giardiniera, nel passare l’inverno. Il “senza terra” del titolo diventa una resa alla terra del giardino e delle piante che in esso crescono.
    16 poesie sono raggruppate alla fine del libro, riferite a ogni capitolo e all’epilogo, e propongono una riflessione di altro tipo, intuitiva e suggestiva.
    Voglio dare rilievo solo al tema del rapporto della bambina con la madre. L’incomprensione della bambina nei confronti della madre e dei suoi processi di vita – la figlia individua che la madre compie aggiustamenti tra necessità/possibilità, e teme la ritualità scaramantica con cui prega, canta e recita il rosario, dominando il reale con l’immaginazione – questo tema si collega al parlare/scrivere “Sapere che cosa, gran dio, e soprattutto, per farne poi cosa”.
    “I recessi della mente. Io dovrei in parte conoscerli. Intuire alcune loro scorciatoie. Ma sono loro che, molte volte, non vogliono farsi conoscere… ” è un breve inciso dell’autrice che è psicoterapeuta. Lo scacco di attingere chi agisce dentro di noi è lo scacco di parola, è l’impossibilità di rivolgersi all’altro se non diventando eco del narciso originario. Del resto anche sua madre (di Narciso) “si preoccupava di se stessa, della lunghezza di vita della prole, quella potenza trasferita che dà potenza al genitore”.
    Ma è alla fine, nei confronti delle piante del giardino che resistono, che l’impossibilità di conoscere tocca la sostanza selvaggia, primaria, crudele e vitale, come in guerra e nelle foglioline del mandarino, del vivere.

  3. Innanzitutto, scusate il ritardo della mia risposta.

    @ Ennio, Annamaria e Cristiana

    Vi ringrazio sia per il tempo dedicato alla lettura e sia per i commenti che ne sono scaturiti. Commenti come al solito preziosi perché allargano il campo del pensiero permettendo di guardare un po’ meglio la complessità del reale.
    Della sottolineatura del termine “senza” (Ennio: *io tenderei di più a porre l’accento soprattutto sul «senza». Che rimanda una condizione umana più generale ed estrema di “povertà resistente”*), accolgo sì il rinvio ad una *condizione umana più generale*, ma faccio fatica a cogliere il senso del concetto di *povertà resistente*.
    Forse è sviante l’accezione che accompagna il termine ‘povertà’, essendo essa impregnata di un valore senza dubbio negativo rispetto alla ricchezza.
    Per me, invece, quel ‘senza’ ha il senso di mancanza, quella che stimola il desiderio e quindi porta all’attivarsi dell’Eros, secondo il mito di Poros e Penia che succintamente riporto in nota.
    Sono solo gli immortali a non essere toccati dalla mancanza (e quindi da Eros) mentre gli esseri umani sì.
    Così, nell’Epilogo, mi esprimo rispetto a Sigfrido: *La foglia che cade sulla spalla di Sigfrido e che gli fa perdere l’invincibilità non può essere che la foglia dell’amore nelle sue diverse sfaccettature: è lì il punto dove siamo vulnerabili*. Perché l’amore ci mette a contatto con la mancanza. E ci prende alla sprovvista. Alle spalle.
    Questo tratto di ‘perdita’ (la bellezza che vediamo, desideriamo ma che non possiamo possedere costituendo con essa un ‘unum’, un Assoluto) è anche segnalato in Platone: «E se – si domanda Diotima – sostituiamo il bello con il bene? Chi desidera il bene non lo fa per essere felice? E chi è felice non vuole restarlo per sempre?»
    Di conseguenza chi desidera il bene/bello desidera che questo divenga suo per sempre, desidera quindi l’immortalità.
    Immagino, però, che la sottolineatura di Ennio abbia un risvolto di contrapposizione sociale, che non nego anche se nel mio testo viene privilegiata un’altra prospettiva, quella di ordine interno. Ma attendo delucidazioni.

    *”… Proprio la fedeltà eccessiva all’amore porta a giuramenti vincolanti e devianti, generando a sua volta il senso del tradimento, una trappola da cui non si esce o si esce mutilati*, scrive Annamaria.
    Certo. E’ così. Ne consegue un sacrificio di sé, un taglio che è paradossale perché viene guidato proprio da un sé che non accetta la separazione. Solo che in questo modo l’individualità agognata non si può raggiungere.
    Cristiana sottolinea: *la figlia individua che la madre compie aggiustamenti tra necessità/possibilità*.
    E’ vero, solo che non riesce a tenerne conto se non alla fine. Quando si accorge che il suo atteggiamento sacrificale era di gran lungi diverso da quello della madre la quale, nonostante tutto, pur adorando il suo Dio, sapeva compiere, nella realtà, quegli *aggiustamenti tra necessita/possibilità*.
    Non coglie la madre ‘reale’ che, comunque, sa gestire le situazioni, anche quelle più tragiche. Mentre per la figlia tutto ciò viene precluso dal giuramento e dalla idolatria verso l’unica divinità, quella materna. Amata e non amante.
    La ricerca del dio (o il mantenimento delle idealizzazioni) impedisce di adattare il desiderio alla realtà, anzi; comporta un trasferimento continuo del desiderio – senza alcuna sua modificazione – ai successivi oggetti d’amore.

    Quanto allo stile, non viene rispettata la forma-romanzo, come scrive Ennio (e in un certo senso ripreso anche da Cristiana: * I collegamenti nella narrazione sono laschi, seguono vagamente un percorso temporale*). Ma nemmeno una forma diaristica.
    No, infatti. Perché diventa prevalente la modalità onirica: il tempo narrativo è quello del sogno dove la materia è frammentata, oltre che essere ubiqua. Il tempo arcaico del mito ed il presente si interfacciano: Cassandra, ad esempio, può essere oggetto di un’altra lettura che ci permette di vedere come l’esaltazione della conoscenza (Apollo) senza il supporto della emotività (Dioniso, il godimento senza fine ma anche la crudeltà) può portare a conseguenze poco felici (*A che serve infatti conoscere se non puoi comunicare? O se le tue comunicazioni vengono stravolte o, peggio, non credute? A che serve essere liberi se non conosci i limiti della tua libertà?*, da “Senza Terra”, Epilogo).
    Questi interrogativi non possono essere elusi oggi quando siamo di fronte ad una parvenza di comunicazione, quando non ci vengono forniti strumenti per pensare ma formule fast-food.
    Di nuovo grazie per l’attenzione.

    Nota
    Nel Simposio di Platone, Poros figlio di Metis, impersonifica l’ingegno, l’abilità nel trovare stratagemmi. Secondo il mito, il giorno in cui nacque Afrodite gli dèi diedero una festa in suo onore. Poros si ubriacò di nettare e stordito dall’ebbrezza andò a stendersi nel giardino di Zeus. Al termine del banchetto, Penia (la povertà) venne a mendicare alla festa e vedendo Poros, di cui era innamorata, ebbro e addormentato, ne approfittò per giacere con lui nella speranza di restare incinta. Penia restò effettivamente incinta e da questa unione nacque Eros.
    Eros (Amore) sta quindi sempre in mezzo tra la sapienza e l’ignoranza. Ciò che c’è di misterioso nell’Eros è il fatto che concerne qualcuno che non si conosce e che tuttavia dà l’avvio ad un legame più importante di tutti gli altri.

    R.S.

  4. Il libro introduce fin da subito ai luoghi del racconto, attraverso una descrizione minuziosa siamo introdotti sulla scena. In essa si affaccia il personaggio del libro o, comunque, colei che narra. E lo fa a partire dalla “terra di nessuno” (o “terra del diavolo”). Una sorta di antropogenesi, nella quale la voce narrante riconosce i luoghi che l’hanno vista bambina come parte di sé e della sua vita, anch’essa “impervia”.

    In un percorso a ritroso, ad un certo punto, la narratrice introduce la presenza di un “tu”, il proprio compagno. Un inserimento che sembrerebbe una forzatura, ma è un sasso lanciato nello stagno. Il racconto si svolge così tra una «madre amante di Dio» e un lui amante di se stesso.

    È una voce intima quella che si fa avanti, nella quale si palesa fin da subito un pensiero profondo, capace di presentare un consuntivo, purtroppo negativo, ancor prima dei fatti e degli eventi di tutta una vita. Una vita nella quale si raccolgono una infinità di altre vite: «Parlare di un tempo ormai remoto e parlare di te, che appartieni alla mia contemporaneità ferita, non mi riesce facile. È un complicato lavoro di spola quello di dipanare e poi rimettere in un posto più congruo i fili aggrovigliati di legami di cui conoscevo sì l’esistenza, ma non le trame profonde.» (pag. 11)
    Fin qui il prologo.

    “Senza terra” è una storia in cui il prima e il dopo si confondono, una storia che sembra arenarsi. Il lettore preferisce storie singolari, ci dice l’autrice, e mette in guardia dalle facili «teatralizzazioni» e dunque preferisce proporre «storie sconnesse» come questa, anche a costo di risultare impopolare.
    Si possono però individuare due direttrici: da una parte, l’assenza della figura paterna con il conseguente rapporto falsato (non mi viene un altro termine) con la madre; dall’altra c’è la mancanza di dialogo con il compagno, una mancanza che la narratrice avverte come fortemente limitante per le sue capacità espressive. Sono due linee parallele che stranamente si incrociano, per condurre dritto al senso di inadeguatezza e ad una sostanziale profonda solitudine. Una inadeguatezza acuita maggiormente da una società, quella attuale, nella quale non c’è posto per chi crede che i valori veri sono altro da quelli commerciali.

    La difficoltà di stabilire un contatto profondo attraverso le parole e la libertà violata (la mancanza di libertà della bambina) rappresentano il vero nocciolo del libro: «non capisco mai se ti interessa davvero ciò che dico». Problema nel problema, sebbene poi, ciò che la “disarma” è dover presumere nell’altro un ‘racconto’ già noto prima ancora di sapere, e cioè credere alla realtà che si avverte attraverso il filtro di quella che ci siamo costruita: «Ma l’errore sta lì, nell’idea di aderire a ciò su cui hai già tessuto la tua, di storia.» (pag. 21)

    Emerge il senso del limite compromesso. Essere in balia dell’altro – una finta libertà – come era stata l’esperienza avuta da bambina con i cosacchi. E tra i cosacchi e lei c’era la figura della madre e il rapporto clandestino, di frontiera, che la donna aveva intessuto con essi, forse per protezione nei confronti del marito.
    La presenza dei cosacchi si fa viva all’improvviso, anche a distanza di molti decenni, attraverso i percorsi tortuosi del linguaggio.
    Anche le parole del compagno di vita, sotto vari aspetti, rappresentano tante «caramelle invitanti» come quelle ricevute dal cosacco che l’addolciva con le sue parole, caramelle che servivano a tenere la bocca ben chiusa, dietro le ammonizioni della madre di tacere e saper tenere un segreto.

    Il limite è nelle parole che si nascondono dietro le parole. Così, anche il racconto del mito può voler dire altro da ciò che ci è stato trasmesso. Interessante che l’autrice proponga il mito di Narciso – il bambino che «Morrà quando si conoscerà» – in un racconto di privazioni come questo. È il senso di un’altra verità che emerge dal racconto di Rita Simonitto. Nel presente, il passato sembra essersi dissolto e di quel po’ che di esso rimane la narratrice sa che nulla le appartiene, solo una dolorosa immagine di sé che le si profila nell’oggi: «Il passato si è collassato in un presente che sta parlando una lingua particolare, quella del ‘modernismo’ (non della modernità), ragion per cui le tradizioni vengono considerate come intralci da superare in questa magnifica corsa verso il futuro progressista. Nello stesso tempo, fatico a tenere conto del fatto che buona parte di quelle che chiamo ‘le mie tradizioni’ erano idealizzate, più vicine al come avrebbero dovuto essere che al come erano nella realtà.
    E che, senza accorgermene, non era del tutto realistico quel bagaglio che mi ero portata dietro, ma si trattava di ciò che avevo costruito idealmente a partire da quel fittizio e misero lascito di una storia.» (pagg. 150-151)
    C’è un termine per dire tutto questo ed è «amaritudine».

    Il furto del proprio sentire produce non soltanto uno stato di abbandono e impotenza bensì spoglia l’individuo della sua identità. Per questo motivo, ci dice l’autrice, la protagonista non ha nome – come nel racconto di Dostoevskij – ma porta solo maschere. E indossare una maschera induce a una identificazione pericolosa in quanto fa credere come vere una serie infinita di menzogne come quelle venute dopo il periodo bellico. L’esperienza del terremoto ha poi riaperto una nuova ferita in tutto simile a quella della guerra: «La funzione stessa della memoria prendeva strade che, a volte, si separavano quanto al fine: la memoria legata alla possibilità di far comunque qualche cosa, di essere attivi e di poter combattere un nemico, e la memoria di essere perennemente in balia degli eventi.» (pagg. 159-160)

    Epilogo – Come Cassandra, così la narratrice ha vissuto, sapendo senza poterlo dire, e se lo diceva restava inascoltata. Ma il tradimento di Cassandra significa anche pensare di poter gestire la propria conoscenza e da questo l’autrice mette in guardia, difatti non basta «assecondare» i desideri degli altri.

    Queste sono le riflessioni scaturite dalla lettura del libro, un libro di non facile lettura (scusate il bisticcio), come è stato giustamente rilevato, che pone al lettore domande circa il rapporto tra realtà e finzione o tra storia e micro-storia ecc. E saper porre domande è cosa che ogni buon libro dovrebbe fare, e di questo ringrazio l’autrice Rita Simonitto.
    GDL

  5. @ Simonitto

    «faccio fatica a cogliere il senso del concetto di *povertà resistente*» ( Simonitto)
    Come non vedere questo concetto ben rappresentato proprio nella Nota finale del tuo commento, dove mi pare che la caparbietà o resistenza venga quasi premiata: «Penia (la povertà) venne a mendicare alla festa e vedendo Poros, di cui era innamorata, ebbro e addormentato, ne approfittò per giacere con lui nella speranza di restare incinta. Penia restò effettivamente incinta e da questa unione nacque Eros».
    Sì, azzardando molto ma senza stravedere, questa *povertà resistente* io la vedo addirittura nei migranti e nei cosiddetti “ nuovi poveri” ( Cfr. per scendere nella cronaca spicciola: http://www.lastampa.it/2017/02/13/edizioni/alessandria/un-treno-per-la-notte-quei-nuovi-poveri-sul-regionale-dormitorio-P2eBXnVCu7F4xT3bnmegsM/pagina.html). E non la sento neppiure troppo distante da «quella di ordine interno». ( Pensa alla figura del don Giovanni pezzente di «Donne seni petrosi»!).

    1. @ Ennio.
      D’accordo. Il ‘resistente’ si trasformerebbe dunque in un “nonostante la povertà, la mancanza, si procede verso un obiettivo”.
      Grazie.
      R.S.

  6. @ Giuseppina Di Leo

    Grazie a Giuseppina per la cura appassionata (e affettuosa) con la quale si è approcciata al libro “Senza Terra”.
    I nodi da lei segnalati sono davvero cruciali: il concetto del limite che concerne anche la parola (*il limite è nella parola che si nasconde dietro la parola* – GDL).
    Il concetto di ‘identità’. Sempre GDL scrive * Il furto del proprio sentire produce non soltanto uno stato di abbandono e impotenza bensì spoglia l’individuo della sua identità*.
    O l’attenzione prestata alla rilettura del mito di Narciso, dove vengono invertite le coordinate classiche: sarebbe stata piuttosto la madre del giovane a patire di ‘narcisismo’ (ante litteram!) mentre il figlio, dalla boccuccia desiderosa, voleva soltanto immergersi nel fiume degli occhi materni.
    Altro punto segnalato riguarda il rapporto realtà/finzione (e, di conseguenza la difficoltà che il lettore può incontrare avvicinandosi a questo romanzo).
    Sì, senza dubbio è un rapporto problematico, ma ci soccorre Shakespeare con la frase che fa dire a Prospero ne La Tempesta: “Siamo della sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è racchiusa da un sonno”.

    R.S.

    1. Ti ringrazio molto Rita per aver individuato dei passaggi di un certo rilievo nella mia esposizione.
      Ho ammesso, in altre occasioni, di essere molto interessata ai temi della parola e ai meccanismi legati alla memoria-linguaggio, come pure a tutto ciò che riguarda la sfera psichica, argomenti sui quali il tuo libro offre spunti molteplici (né, d’altra parte, poteva essere diversamente vista la tua competenza in materia). Inoltre, si è verificata una circostanza per certi aspetti singolare in quanto, contemporaneamente al tuo libro, leggevo anche uno di Recalcati, per cui mi è stato possibile fare una ‘doppia lettura’ della storia della bambina senza nome.
      In particolare, ero rimasta colpita dalla ‘passività’ della bambina di fronte alle ingiustizie (le mancanze degli adulti) subite. Il confronto con Narciso mi era, perciò, sembrato inopportuno in quanto, nonostante tutto, nella bambina si avverte l’affetto verso i propri genitori e quasi un senso di pacata rassegnazione, ma nessuna idealizzazione narcisistica di sé. E tu giustamente metti in risalto che narcisistica è la figura materna.

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