Scrap-book da “Poliscritture FB”

a cura di Ennio Abate

1.
SEGNALAZIONE
Renato Curcio, L’egemonia digitale, Sensibili alle foglie, 2016


* Ieri sera, alla “Casa in Movimento” di Cologno Monzese, Renato Curcio ha presentato questo suo libro. Ha sottolineato con forza le modificazioni antropologiche indotte dalle nuove tecnologie, che stanno costruendo una “società artificiale” che impone un altro tipo di esperienza; ma anche la forbice crescente tra la velocità d’implementazione di tali tecnologie e il ritardo della percezione che ne abbiamo. Ha fatto l’esempio di un lavoratore che esegue le mansioni assegnategli non più da un capo in carne ed ossa ma tramite un bracciale della Motorola, che gli impone un tempo per ciascuna di esse: se le esegue in minor tempo viene premiato, se supera la media stabilita perde punti.
L’effetto è quello testimoniato da un lavoratore dell’ACEA di Roma nell’Introduzione al libro: “il tablet personale mi comanda come un robot; nel senso che mi sento un automa, gli presto le mani è vero, ma per il resto quasi non decido più nulla; nel senso che questi ci pilotano: ‘va qua e vai là’, ‘inserisci il tuo numero di matricola e poi segui i comandi’; nel senso che il tablet attivato mi geo-localizza e mi programma la giornata; nel senso che ogni spostamento è controllato e se mi ferm oa prendere il caffè o a urinare in un luogo non previsto il tablet lo registra; nel senso che è il tablet che mi porta in giro e ho paura!”.
Non abbiamo più dei lavoratori che usano degli strumenti di lavoro ma sono gli strumenti che utilizzano i lavoratori. Un ritorno alla schiavitù?
Ma le nuove tecnologie non controllano e sfruttano solo i lavoratori, ma tutti noi, che usiamo smartphone o ci connettiamo a FB per chattare con gli “amici” o a Google per ottenere una qualsiasi informazione. Così facendo produciamo dei documenti, dei dati che però diventano di proprietà di FB o Google o altri social; e vengono venduti a imprese interessate a fare marketing o pubblicità o lavorano alle campagne elettorali di Tizio o Caio.
Curcio ha fatto anche altri interessanti esempi: l’introduzione obbligatoria di dispositivi digitali nelle scuole (ci sono già scuole che usano esclusivamente questi, impedendo di fatto l’esercizio della scrittura manuale o del calcolo mnemonico); l’utilizzo dei Tom Tom che ci permettono, sì, di arrivare nel tempo previsto a destinazione in un luogo di una città, ma incoraggiano un’atrofia delle nostre capacità di orientamento e di esplorazione (pensavo al *flaneur* di Benjamin!); le varie forme di autismo digitale, specie adolescenziale, con la riduzione o l’eliminazione ( il caso di adolescenti giapponesi) dei rapporti reali con la gente in carne ed ossa.
E cosa ne faranno di questa immenso bottino di dati le oligarchie costituite da FB, Google, Microsoft ecc. ? L’uso più comune è quello selettivo. Curcio ha fatto l’esempio – riprendo da un articolo di “Sinistra in rete” – delle università americane dove “non si può più entrare soltanto sulla base del reddito e del merito, che erano i due criteri essenziali, ma ne è stato istituito un terzo: la reputazione digitale. Vale a dire che se tu, Filippo, chiedi di entrare nella mia università, io vado a vedere chi sei nel mondo, e scopro che non hai Linkedin, non sei su Facebook, non utilizzi Twitter e non metti le tue fotografie su Instagram, e mi chiedo: chi sei, un terrorista? Ti tieni fuori da ciò che a me consente di profilarti? E allora non ti prendo. L’assenza dai media, dalla produzione sistematica e continuativa di informazioni, quindi l’assenza di tracciabilità, è oggi diventata una penalizzazione sociale. C’è quindi una pressione a essere sempre più presenti. Ma questo non vale solo per le grandi università americane, anche per le imprese che assumono. Esistono programmi che fanno la lettura del profilo digitale, e sono in vendita normalmente, quelli più economici non funzionano particolarmente bene ma già con un costo medio si può avere in mano qualcosa di buono, oltre a esserci intere agenzie che fanno questo lavoro per le aziende. E non filtrano le assunzioni nell’esercito o nei servizi segreti, ma per normali lavori.” ( http://sinistrainrete.info/…/8815-renato-curcio-capitalismo… ).
Ma l’uso può essere anche preventivo e repressivo: è il caso di un giovane che mandava messaggi ritenuti pericolosi per la sicurezza a cui la magistratura ha imposto un periodo di astinenza dai social. C’è stato forse poco tempo per discutere tutti questi interessanti spunti, ma il seme è stato gettato. [E. A.]

Stralcio:
Presentazione del libro sul sito di “Sensibili alle foglie”

Questo libro restituisce il percorso di un cantiere socianalitico che, partendo dalle narrazioni d’esperienza dei suoi partecipanti, si è interessato ai modi in cui l’impero virtuale cerca di costruire la sua capacità egemonica sul mondo del lavoro. Ripercorrendo la micro-fisica dei processi innescati dai dispositivi digitali che mediano l’attività lavorativa – smartphone, piattaforme, sistemi gestionali, registri elettronici – in queste pagine si esplorano alcune metamorfosi radicali che, mentre rovesciano il rapporto millenario tra gli umani e i loro strumenti, sconvolgono ciò che fino a ieri abbiamo familiarmente chiamato “lavoro”. Alcuni territori chiave – la digitalizzazione della scuola, della professione medica, dei servizi, dei trasporti condivisi, dei grandi studi legali e delle banche – assunti come analizzatori, ci raccontano l’impatto trasformativo delle nuove tecnologie e il disorientamento dei lavoratori. Ma, nello stesso tempo, fanno emergere le linee liberticide su cui questo processo procede: la cattura degli atti, la dittatura dei dati, il trionfo della quantità e le narrazioni sostitutive con cui esso si racconta. Proprio riflettendo su queste tendenze che velocemente ci attraversano fino al punto di chiamarci in causa singolarmente il libro, infine, indica quattro pericolose tendenze generali – l’autismo digitale, l’obesità tecnologica, l’ethos della quantità, lo smarrimento dei limiti – e si chiede se non sia forse giunto il momento, dopo le ambigue interpretazioni del Novecento, di cominciare a distinguere il progresso sociale dal progresso tecnologico.


2.

SEGNALAZIONE
(dalla bacheca FB di Gianfranco la Grassa)

DIFFICOLTA’ PER IL “TERRORISMO”

Stralcio:

Gli esaltati dalla religione islamica si entusiasmano e vanno in giro a fare i suicidi; ma i loro capi sanno bene di che si tratta, prendono accordi con chi di dovere e si destreggiano in mezzo ai giochi in questione. E gli intellettuali e giornalisti, ecc., difensori della “nostra civiltà”, fanno da cassa di risonanza (alcuni, pochi, in buona fede, altri perché sono dei tirapiedi degli Usa e genia “di contorno”), stonandoci la testa e raccontandoci che, al massimo a metà secolo, saremo tutti in mano all’Islam. Bene, io faccio una previsione diversa e poi i più giovani diranno chi ha avuto ragione. Nel giro di un ventennio (mi prendo largo) passeremo dal multipolarismo in tendenziale crescita (un assetto mondiale in cui ancora una potenza è superiore alle altre; un po’ come tra guerra civile americana e primo decennio del ‘900) al policentrismo conflittuale acuto del tipo di quello caratterizzato dalle due guerre mondiali del ‘900. Come sarà in questa fase storica il conflitto per la supremazia mondiale, quali altre fasi di “assestamento” vi saranno, ecc., non lo so prevedere. Dico solo che non è il “destino islamico” quello che ci aspetta, ma qualcosa di ben diverso e che altre volte si è visto nella storia di questo nostro mondo. Tutto sarà assai diverso nelle forme, ma la sostanza del conflitto per la supremazia sarà invece abbastanza simile.
Una delle solite code. Nessuno ha ancora riflettuto abbastanza sul fatto che, nel periodo più acceso del “terrorismo islamico”, l’Italia è stata risparmiata da eventi drammatici come quelli verificatisi in Francia, Germania, ecc.; malgrado abbia accoppato uno dei loro (a Sesto San Giovanni) e malgrado i nostri “esimi” Servizi abbiano messo in allarme più volte le “istituzioni” (e la popolazione). Chissà perché, questo mi ricorda quando ci furono (anni ’70 e dintorni) contatti di importanti politici italiani (governanti e “oppositori”) con Arafat e il “terrorismo” palestinese; fatto che ci preservò tutto sommato da pericoli estremi (si racconta di contatti tra BR e palestinesi; secondo me, altra balla propagandata dagli americani e governanti italiani per nascondere le loro manovre con alcuni membri di questo spezzone del “rivoluzionarismo” italiano, dimostratosi molto utile, ad es., nel “caso Moro”, e non solo), salvo irritare gli israeliani che ci misero sull’avviso di non esagerare con l’abbattimento dell’Argo nel novembre ’73.
Beh, per il momento terminiamo qui. Però avremo ancora modo di “divertirci” con tutti i casini che gli Stati Uniti continueranno a provocare in giro per il mondo al fine di ritardare la crescita di altre potenze “fastidiose”; fino a quando il multipolarismo non si muterà nel ben temuto policentrismo.


3.

SEGNALAZIONE

La piazza e il tribunale. Femminicidio, ergastolo e abusi delle politiche criminali
di Angela Condello e Valentina Calderone

http://www.leparoleelecose.it/?p=26150#more-26150

Stralci:

1.
In questi giorni si discute di introdurre la pena dell’ergastolo per gli autori di femminicidio. È stato proposto di equiparare l’omicidio del coniuge, dell’ex-coniuge, della persona con cui si è uniti da rito civile, del convivente, all’omicidio di genitori o figli. Il testo sarà in aula alla Camera il 27 febbraio
2.
il diritto è un dispositivo che ricomprende in universali le possibilità del reale. Questa complicatissima e impossibile operazione deve certamente essere fatta nel modo più equo possibile, tendendo a realizzare un ideale di giustizia coerente con lo spirito del tempo. Per fare questo il diritto è chiamato a definire un’ontologia in cui fatti, atti, persone, cose, segni e significati sono organizzati in un sistema normativamente chiuso ma cognitivamente aperto. Si possono accogliere i cambiamenti della società, ciò è fuori discussione, ma l’apertura cognitiva può recepire e tradurre le istanze parziali solo laddove queste siano coerenti con il sistema. Il che non può (e non deve) significare che si possa tradurre ogni senso o desiderio di giustizia in un meccanismo universalmente valido per una realizzazione giuridicamente valida di un qualche principio di giustizia. Aggravare le pene per un reato che sarebbe comunque punito come omicidio significa compiere un’operazione giuridicamente inesatta e politicamente pericolosa. In nome della portata universale del diritto, se si accogliesse la proposta di introdurre la pena dell’ergastolo per femminicidio, si dovrebbe fare altrettanto per ogni gruppo sociale debole che in quel momento si trova al centro del discorso pubblico. Le conseguenze potrebbero essere incontrollabili.Questa proposta ha un fondamento logico-giuridico molto debole ma poggia, in compenso, su una gestione mediatica e politica fragorosa di una materia delicatissima come il diritto penale, nella sua intersezione con temi sempre dibattuti come il corpo, l’affettività, la sessualità, e l’integrità psichica di donne e uomini. Se fosse accolta la proposta di estendere l’ergastolo ai femminicidi, il diritto penale verrebbe usato più per assecondare un’esigenza emotiva che per governare la comunità. Proprio perché il dolore, la vendetta e il perdono appartengono a una dimensione intima, un’operazione di politica del diritto giusta dovrebbe invece distinguere la dimensione più profonda dell’individuo, quella in cui per Kant si forma il sentimento, dall’agire pubblico. Il trattamento riservato a chi commette un delitto deve essere completamente diverso (per natura e intensità) da quello che noi esseri umani, colpiti feriti fragili addolorati disperati, vorremmo infliggere.
3.
Nel 1991 in Italia gli omicidi volontari sono stati 1.901. Ventiquattro anni dopo, nel 2015, per lo stesso tipo di reato si registravano 468 casi, con uno dei tassi più bassi in Europa. Eppure, a fronte di questo, la percezione collettiva della sicurezza è diminuita in maniera consistente negli ultimi anni, con una percentuale rilevante di cittadini convinti di vivere in un paese insicuro. Secondo il IX Rapporto sulla Sicurezza e l’Insicurezza sociale, in Italia e in Europa (marzo 2016) quasi l’81% degli italiani riteneva che i reati fossero aumentati nell’ultimo anno. Tutti i dati disponibili restituiscono una realtà diametralmente opposta. Impossibile non attribuire la responsabilità di questa ansia collettiva anche ai mezzi di informazione se si considera che in media il 49% dello spazio dei telegiornali italiani viene dedicato alla cronaca nera. A fronte di questi dati, la piazza si rivolge al tribunale. La crescita delle aspettative individuali e collettive nei confronti del diritto è ipertrofica.
4.
Un discorso mediatico così distorto intorno al diritto ha molte manifestazioni. Qualche giorno fa, in un’intervista al TG1 le vittime della strage di Viareggio hanno chiesto giustizia: Moretti, ex Amministratore delegato di Fs e Rdi, ha ricevuto una pena di “soli” sette anni. Negli stessi giorni, un disperato “gladiatore” (così si definisce su Facebook l’uomo che pochi giorni fa a Vasto ha ucciso l’omicida della propria moglie in un incidente stradale) ha chiesto giustizia, perché le pene non bastavano a colmare il suo indiscutibile dolore. Non soddisfatto, non risarcito, è passato all’azione: si è fattogiustizia. Le istanze premoderne dell’uomo di Vasto muovono da un dolore che non è neanche il caso di discutere, ma quando vengono amplificate dalla percezione diffusa di insicurezza, disordine e scarsa efficienza del sistema giuridico dovuta a pene troppo lievi, fanno della sua battaglia una crociata verso un ordine generale da ristabilire attraverso pene più severe. Le voci individuali vengono promosse a cori tragici che invocano giustizia e, coerentemente con la natura tragica della richiesta, risolvendosi in una domanda di vendetta.
5.
Una simile domanda di giustizia, da realizzarsi attraverso lo strumento giuridico, è anacronistica e sbagliata. Chiedere al diritto di fare ciò che il diritto non può fare significa misconoscerne il potenziale e sottovalutarne il limite. Il tribunale, al contrario della piazza, è il luogo dell’equilibrio e dell’ordine immanenti. Ciò che il diritto può fare è disporsi di meccanismi rimediali per ricostruire equilibri tra soggetti, valori, interessi. Ciò che il diritto non può fare è restituire l’irrestituibile. Ciò che il diritto non deve fare è tentare di ricostruire gli equilibri sfalsati attraverso pene maggiori o nuove categorie simboliche nella costruzione giuridica del reale.


4.

SEGNALAZIONE
(dalla bacheca di Gianni Turchetta)

Comprare libri per non leggerli
Di Anna Momigliano
(http://www.rivistastudio.com/…/comprare-libri-che-non-si-l…/)

*« Forse l’umanità si divide in due categorie: chi davanti a migliaia di volumi ha il dono di illudersi, per un secondo, di avere davanti a sé una vita infinita, e chi invece non può che pensare che la nostra vita è troppo breve per tutti quei libri, e breve tout court». Resta fuori il problema: letto un libro o, perché no, un articolo sul giornale o sul Web, cosa resta a lavorare nel cervello o nella psiche e cosa arriva (se arriva) alla rete delle persone con cui ci relazioniamo? [E.A.]

Stralci:

1.
Quanti libri è possibile leggere in una vita? E quanti è realistico aspettarsi di leggerne? Verso la fine dei suoi giorni, guardando affranto la sua biblioteca colma di volumi non goduti, Winston Churchill stimò di averne letti cinquemila. Una cifra verosimile, per un lettore straordinariamente vorace quale era Churchill, che però risulta ottimista anche per molti di coloro che rientrano nella categoria di lettori forti. L’aspettativa di vita media nel mondo occidentale si aggira intorno agli ottant’anni, in ogni anno ci sono 52 settimane, dunque chi legge un libro ogni settimana può realisticamente pensare di leggere circa quattromila volumi. Chi ne legge due al mese, può sperare di avvicinarsi ai duemila. In Italia viene definito “lettore forte” anche chi legge un solo testo al mese: significa leggere 920 libri in una vita intera. Non sono poi molti, stanno in otto Billy. È evidente che la nostra aspettativa di lettura supera tragicamente la nostra aspettativa di vita.
2.
Una decina d’anni fa il critico francese Pierre Bayard ha pubblicato un libro proprio sull’arte del «non-leggere», definita «non la semplice assenza della lettura, ma un’attività a sé stante» (il saggio è uscito in Italia nel 2012 col titolo Come parlare di un libro senza averlo mai letto). Come coi nostri cervelli, dove le connessioni tra i neuroni sono più importanti dei neuroni stessi, anche la cultura somiglia più a un network che a una somma: «Non è una questione di avere letto un libro in particolare, ma dell’essere capaci di orientarsi tra i libri come sistema, cosa che implica il riconoscere che formano un sistema e il sapere individuare ogni elemento in relazione agli altri». Non c’è bisogno di avere letto tutto i Fratelli Karamazov per cogliere un riferimento al Grande Inquisitore, né bisogna avere letto l’Ulisse di Joyce né Omero per avere un’idea, fosse anche fugace, del rapporto tra i due. Un libro, dunque, è «un elemento di un insieme, che assume il suo significato come una parola assume il significato in relazione agli altri».
3.
Benjamin concepiva la loro collezione come una questione di possesso e di memoria, e mentre Eco e Bayard vedevano nella costruzione di biblioteche private l’assemblaggio di un sistema culturale, per Giraldi i testi accumulati sono prima di tutto letture in potenza e trovano un valore proprio nella loro potenzialità, che trascende il numero di ore disponibili in una vita umana. «Ho 7 mila libri, so che non li leggerò mai tutti, ma sapere che una storia è entrata in casa mia mi fa sentire come se avessi una vita in più da vivere», mi ha detto una volta Christian Mascheroni, autore di Non avere paura dei libri, seguendo un ragionamento simile: «I libri mi ispirano quelle vite che non vivrò. Non tutte le leggerò ma sono lì da prendere in ogni momento».
A differenza di Mascheroni, però, io un po’ di paura dei libri ce l’ho: quando mi trovo in una libreria particolarmente grande, non riesco a non pensare che il tempo per leggerli è un’unità finita, e non basta. Questa inquietudine non deve essere soltanto mia, se è vero che i giapponesi hanno una parola apposita per indicare lo sgomento di chi acquista libri ma poi non riesce a leggerli: Tsundoku. Citando Sven Birkerts, il critico letterario, Giraldi descrive «il senso di quiete e di anticipazione» che pervade l’accumulatore di libri quando, contemplando la propria biblioteca, coglie in essa «un’idea di futurità». Quello che Giraldi sembra ignorare è che, a volere essere spietatamente razionali, la vista di una biblioteca sterminata dovrebbe evocare piuttosto l’assenza di una futurità. Forse l’umanità si divide in due categorie: chi davanti a migliaia di volumi ha il dono di illudersi, per un secondo, di avere davanti a sé una vita infinita, e chi invece non può che pensare che la nostra vita è troppo breve per tutti quei libri, e breve tout court.


5.

SEGNALAZIONE
(dalla bacheca di Giuseppe Masala)

La lettera di Michele che si è ucciso a trent'anni perchè stanco del precariato e di una vita fatta di rifiuti

Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi.

Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte.

 Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.

Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia.

Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.

A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo.

Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.

Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.

Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.

Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno.

Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie.

Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, io modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri.

Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.

Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene.

Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento.

P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi.

Ho resistito finché ho potuto.

APPENDICE

Con accompagnamento di questo stralcio da “Insistenze” di F. Fortini:

«Lukàcs vuole con la propria opera essere l’ultimo beneficiario dei suicidi rituali e dei dolori inesausti che da millenni si propongono alle figure femminili, alle mogli e amanti e madri e vergini madri perché crescano indistruttibili le mura e le opere da cui si originano i sensi di colpa degli uomini. Anche Goethe lo avrebbe voluto; ed anche per questo la sua opera è popolata da donne che muoiono o vengono sacrificate. Però, a differenza, non solo di Goethe o dello stesso Marx ma anche di Mann (che non potevano non porglisi di fronte come modelli), Lukàcs vuol leggere nel moto storico il cammino che va verso
la fine dei sacrifici rituali; non solo dunque di quelli che sono eredità di costumi premoderni ma anche di quelli di cui era carica la sua età ed è ancora la nostra. Che tutto questo abbia condotto, durante la sua e nostra vita adulta, ad ecatombi sterminate, è quanto gli ha fatto dire, o almeno sembra, dopo il 1968 di Praga, che torse quei che si era iniziato nel 1917 era fallito e che si sarebbe dovuto tutto ricominciare in altro luogo
e tempo. Che è solo un modo di dire quel che anche Ernst Bloch aveva detto. Ed è singolare che la storia abbia costretto i due antichi amici (divisi e anche opposti, poi, per tanti anni) a ri trovarsi nel «Principio Speranza»: e cioè che *quanto non è stato
realizzzato non è stato neppure dimostrato irrealizzabile*. «Buona notte,angelo, si abbia riguardi e resti a casa». Abbiamo «riguardo», non usciamo a lasciarci tentare dal suicidio e dall’omicidio. Dobbiamo esserci tutti».

(da F. Fortini, Contro la retorica del suicidio, in «Insistenze», pag. 161, Garzanti, Milano 1985)

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