Europa 1970 e 2015

di  Antonio Sagredo

 

Europa, Europa!

Lasciate che vi dica: non è americana
esclusiva la violenza, appartiene a tutti
…………………………………………..
…………………………………………..

Spostiamoci più ad oriente verso una terra
tendenziosa, servile, noiosa: l’Europa,
che così unita non mi pare per davvero,

più la si unisce tanto più si divide.
Di certo c’è un caos, equilibrio di opposti poli:
la sua arte è di essere una volpe.

E una vecchia troia, astuta, corrotta,
piena di rughe secolari; unica cosa viva:
il passato, come un chiuso deretano.
……………………………………………

I suoi occhi son già stanchi e affossati,
qualche sussulto o vomito la percorre.
………………………………………….
…………………………………………….

È una fiamma spenta o è tutta fiamma,
ma ha un fuoco senza calore o tutta
tradizione………………………………
………………………………………….

C’è una terra che agisce per riflesso,
come i tempi classici della decadenza.
…………………………………………
………………………………………..

Un’altra terra vive per la rivincita.
È già potente quando ieri era distrutta;
attenti, è una tigre che risorge per sbranare
o morire… che puntuale si ripete…

ed ecco la neutrale, l’indifferente sede
della pace e della benevolenza
della più secolare indolenza
un non-dolore, un non-agire
un non-pensare, per essere più stimata,
più arbitraria, più razziale.

Si fanno avanti, ora, le due avanguardie:
rivoluzionaria e razionale l’una,
l’altra più tradizionale, ma soltanto
in apparenza. Maestra la prima

di grandi idee e azioni. Ma a volte ingenua
e più sicura; la seconda più interessata,
di certo non ha gettato la prima pietra.
Con le sue colpe un’arte fine s’è creata.

C’è la terra dei grandi mulini
tristi che gridano soltanto al vento,
la sua libertà è oppressa dalla morte
per interessi religiosi e antichi.

Il sangue antico è vivo per i suoi grandi figli
a dispetto della forzata pace che li circonda.
Le è accanto una grande del passato
che sbircia, aguzza, ma ancora dorme.

A oriente, in direzione obliqua, una massa
d’uomini ogni tanto fa rivolte:
una libertà strana, vera che sussulta
poi si calma e pare morta.

Libertà, parola più vuota che di senso
brucia ancora sulle piazze – cosa nuova?
No! È vecchio sentimento: morire, non vivere così.
La rossa libertà adesso è nera!

Ed ecco la Santa, una volta, finalmente
Russia – tanto cara non so – ma ai poeti
ha tirato il collo, come dire, il proprio
sangue ha versato la pallottola… da Puškin in poi.

Roma, autunno 1970

 

(da: Ultime prove mostruose)

Quella sera di biacca quand’io svernavo la mia inquietudine sotto la palma di un Oriente devastato… m’accesi… velenosa una lampada per oscurare la vanità di uno specchio doppio… una gloria sinistra e piombata come uno stendardo sull’osceno continente, commercio di colonia il tuo benestare quando forse tutte le stagioni

alzano a vessillo un nome e s’imbrunisce un core quando una qualunque primavera verrà a cancellare il tuo nome, Antonio! Ed io fui geloso mortale nella tua quinta e in quella scena dove mi uncinai ad una corda della tua voce oscillante, come una glottide ammainata per cantar letanie di rosari: i grani accecati dal raccapriccio!

Avevo una gobba di madreperla e un deserto di stiletti m’attraversava gli occhi pacifici… anelli, orbite…. croci nella palude lernea e scimitarre decollavano i mostri occidentali: non è più un teatro qualsiasi!.. che non è più finta questa guerra vera? – io so adesso cos’è una Resurrezione senza fine, un traguardo di tramonto!

Ora non è più un sospetto il piacere di una barbarie recidiva*, e l’attesa è la scrittura bianca su nero sfondo, come una finzione antica la smania nostra è la scosciata Europa: zoccola, chiavica che devasti senza rimorsi e requie! Leuca, luce di rivolta! Secolo di universali macelli, ridicoli uncini del passato… rovina mediterranea!

Canzoni, venite a placarmi questo caos del tempo come allora!… e tu giocavi alla crocefissione… ah, Cristo ’63! Un finto aborto, come la pietà Rondanini… la destra mano incapace d’inchiodarsi… disperazione europea!… femmina da bivio, trivio e quadrivio! Le scorregge notturne non sono gradite! Veronica: rovina mundi!

* razionale (variante ?)

Roma, 21 gennaio 2015

(dall’ora terza alla quarta)

11 pensieri su “Europa 1970 e 2015

  1. Il tono alto di Antonio Sagredo arriva in eredità, da un lato dai poeti dell’est “A oriente, in direzione obliqua” e la Russia tanto cara ma che “ai poeti ha tirato il collo” 
    e dall’altro dalle parole recitate a teatro “mortale nella tua quinta e in quella scena”.
    Egli sceglie per Poliscritture due sue poesie di impegno civile, sa che in questa rivista c’è sensibilità tanto per la poesia quanto per le questioni politiche.
    Questa Europa è proprio malfatta, lo dicono gli stessi europei. Ma non se ne viene a capo: vorremmo amicizia e ci tocca di sopportare alleanze. Io per me avrei già lasciato per unirmi a paesi mediterranei più vicini e simili al nostro, dal Portogallo alla Grecia. Pensare all’Europa unita è come sognare un mondo senza nazioni e confini. Un giorno ci si arriverà, ma quel giorno è ancora troppo lontano.

  2. Non c’è dubbio che i versi del più tardo Sagredo siano efficacissimi, addirittura ogni oltre limite inimmaginabile, e che svettano sopra ogni altro poeta italiano questo è pure indubbio. Versi che non trovano altro riscontro parallelo in tutta l’Europa per la profondità delle tematiche e per singolarità di stile. Ho letto quasi tutti i componimenti sagrediani, compresi gli stupendi poemi: in primis ORIANA; OXFORD e TOLOSAE COMBUSTUM,,, e credo di non esagerare affatto!
    Al contrario quei versi “civili” sono da incorniciare fra tanti versi che quasi 50 anni fa più o meno bene scrivevano i più avvertiti versificatori. tanto più avvertiti quanto meno ideologizzati: qualità che metteva tali poeti in uno stato di oggettività quasi naturale.
    g. r.

  3. C’è da dire che «il tono alto» di Sagredo è anche oscuro. E le due poesie “civili”, specie la seconda, qui pubblicate ( su mia proposta all’autore, anche per far notare un certo scarto tra i due periodi, diversi sul piano storico ma anche su quello dello stile) oscure restano nel complesso. Potranno anche “svettare” sopra la produzione corrente o coeva, ma il problema resta. E già in precedenti interventi sui suoi testi l’ho posto.
    Lo ripropongo traendo tre spunti da un odierno articolo su “Le parole e le cose”, La lingua dei giovani accademici di Claudio Lagomarsini (http://www.leparoleelecose.it/?p=26263).
    L’articolo tratta di di critica e non di poesia ( e, correttamente, alla poesia e al romanzo concede un credito in più rispetto al saggismo:« La scrittura scientifica – diversamente da quella letteraria – non può permettersi di mimare la complessità del reale o quella del pensiero («Nulla è semplice nel mondo, e nulla è semplice nello stile di Proust», scriveva Spitzer). Deve fare lo sforzo, tutto inverso, di risolvere ciò che è intricato, rendendo disponibile a una comunità intera quello che passa per la testa dei suoi singoli membri. Non necessariamente una poesia o un romanzo cercano il dialogo»).
    Tuttavia a me pare che la questione chiarezza/oscurità in poesia, anche se si pone in termini diversi dalla prosa, non possa e non debba essere elusa. Quanta oscurità in poesia è necessaria, indispensabile? Quanta è rischiosa o superflua o inganno? Cosa ci dicono in più sull’Europa *queste* due poesie? Non accettiamo, insomma di inchinarci davanti a dei feticci, chiari o oscuri che siano:

    1.
    Quanto a oscurità, la lingua di alcuni studiosi del passato − penso a ovviamente Gianfranco Contini − raggiunge livelli parossistici. Ma l’oscurità di Contini (è una differenza fondamentale) deriva dalla condensazione di molta sostanza semantica in poche parole; al contrario, l’oscurità di chi “contineggia” è spesso il risultato di poca sostanza semantica goffamente impreziosita con un linguaggio esoterico. Si hanno poche idee ma confuse, e allora si scrive difficile.

    2.
    Non sostengo l’idea che la lingua accademica debba essere standardizzata su uno stile spoglio e bianco. La difficoltà, quando è inevitabile, va bene. Ci sono situazioni in cui i problemi sono estremamente complessi e richiedono argomentazioni articolate. Il ragionamento può allora servirsi (per non occupare il triplo dello spazio e ripetere cose già note) di una lingua tecnica e semanticamente densa.
    In molti altri casi, però, gli oggetti o le idee di cui si discute sono mediamente semplici e non ci sono ragioni plausibili per cercare una complessità linguistica. Quando questo invece accade, dovremmo essere consapevoli che la lingua non è più al servizio del lettore, ma diventa un esercizio narcisistico con cui l’autore si dà un tono e cerca di mascherare le proprie insicurezze. In ambito accademico, scrivere oscuro serve anche a scoraggiare repliche e attacchi: diventa difficile contestare un’idea (ammesso che ce ne sia davvero una) se questa è stata espressa in modo ambiguo o contorto.

    3.
    Una caratteristica ricorrente di questa lingua, poi, è l’innamoramento per certi vezzi espressivi che non disturbano se isolati, ma diventano snervanti se usati più volte

  4. “Lasciate che vi dica”
    E’ l’inizio colloquiale di Europa, Europa! atteggiamento insolito, questo, nelle poesie di Antonio Sagredo; che nell’abbassarsi resta a livello di Whitman, vale a dire a diversi chilometri dal suolo. Questa poesia pare un resoconto sopra le parti: una conservatrice e l’altra in tumulto. Elementi di una stanca messa in scena, dove si cerca di rimediare a secoli di conflitti ma senza poter fare un decisivo passo in avanti. E’ un punto di vista discutibile o c’è dell’ovvietà? e dove starebbe l’ovvietà, nel non coinvolgimento rasoterra dell’autore?

    Da Ultime prove mostruose
    Qui ritroviamo i versi suoi, di Sagredo, come “io so adesso cos’è una Resurrezione senza fine, un traguardo di tramonto!” e altri, secondo me più accessibili rispetto alle poesie dell’Antonio più barocco, quello sì a tratti oscuro, ma perché denso di metafore e rimandi al punto che il lettore ( io all’inizio ero tra questi) si scoraggia; senza contare quell’io superbo oltre misura che pare di un attore protagonista. Ma Sagredo ha dimostrato in molte poesie di saper stare nella sua terra di Puglia, vero come suo frutto orgoglioso anche nelle situazioni più infime e maleodoranti, perché nulla viene risparmiato e malgrado il tono si capisce che non si sta viaggiando comodamente in lettiga.
    In questa poesia domina la falsità, la prostituzione delle chiacchiere. Ma Sagredo non scrive da scontento, da vittima infelice; piuttosto va nello sberleffo, a modo suo s’intende. Altri più seri interrogheranno la geo politica, ma questo non li risparmierà comunque dall’essere presi per i fondelli da chi seriosamente conta i propri e gli altrui guadagni. Se non è una farsa questa Europa, qualcuno allora dica della realtà non televisiva, dei poveri e gli emarginati che non sono soltanto numeri; comunque esclusi.

  5. …Antonio Sagredo ci presenta due poesie sullo stesso tema, l’Europa,scritte a distanza di quasi cinquant’anni. Gli stili linguistici sono molto diversi, ma il contenuto delle riflessioni non sembra differenziarsi molto, come se l’autore volesse dimostrarci che già nel lontano 1970 erano presenti tutte le ragioni del fallimento dell’istituzione Europa. Lo stile asciutto e lapidario del primo componimento, che presenta molti versi mancanti, forse per l’usura del tempo sull’inchiostro, potrebbe essere quello di un canovaccio che introduce alla stesura del secondo componimento, un testo teatrale completato…molti sono i riferimenti a costumi scenici: “Avevo una gobba di madreperla e un deserto di stiletti m’attraversava gli occhi pacifici…”

  6. Ha ragione la signora Locatelli quanto riguarda il “fallimento” europeo, non perché Sagredo non creda, quanto è nell’impossibilità della realizzazione poiché sappiamo la storia secolare dell’Europa. Carmelo Bene in “Cristo ’63” – 54 anni fa – mise in scena questo spettacolo, quando aveva 25 anni, in cui la centralità di questo lavoro era rappresentata da un Cristo incapace di completare il suo martirio su di una croce poggiata per terra e su cui il corpo dell’attore smaniava… il salentino ripeté la scena in un celebre suo film “Salomè”… in una intervista dichiarò che il martirio di Cristo era incompleto perché dopo essersi inchiodati con la mano destra i piedi e la mano sinistra non riusciva a inchiodarsi la mano destra dopo numerosi tentativi: mai si era visto un Cristo così “impossibile” a compiere su se stesso il miracolo! – E allora è questo che Sagredo vuole riferirci. La sua Poesia – sublime in tanti versi da far piangere o ridere allo stesso tempo – è la testimonianza di come la Historia non si può forzare alla stessa maniera di un miracolo che non accade se non truccato – il fatto è che non succede anche se truccato – e questa è disperazione pura! La disperazione di una Europa (cristiana o meno non importa) che non riesce a realizzarsi nemmeno per finta!
    Il Poeta mi ha riferito, prima della pubblicazione di questi versi, che nella parte prima alcuni versi appunto sono mancanti perché si sentiva un groppo alla gola, insomma che li ha cancellati dopo averli scritti – ma che nei suoi materiali originari cartacei sono presenti – li ha cancellati perché non erano (e non sono tuttora ) all’altezza del tema… Quanto invece ai componimenti “maturi” – che considera “tardivi” perché troppo tardi li ha composti e quindi lui stesso “poeta tardivo”, rivendica la non-oscurità presente in ogni verso e in ogni parola di cui è formato il verso stesso; e che non poteva certo pensare alle difficoltà del lettore, del quale nulla gli importa… “non sono certo un cretino” – mi dice per telefono -, “non sono certo uno di quei cretini che hanno visto la madonna o uno di quei cretini che non l’hanno vista mai”, ripetendo un adagio beniano.
    E dà mezza ragione all’Abate … si, mi dice, è “un esercizio narcisistico”, ma al contrario: “per nascondere le grandi sicurezze che possiedo!”. Mi confessa la sua grande emozione ogni volta che si ripete “a voce recitante” le due strofe finali… “emozioni che si contano a decine nei miei versi in cui mi smarrisco”.
    Chissà dunque se l’infinito leopardiano è (in) questo versificare alto e sublime, e non lo spazio astronomico che noi pensiamo il recanetese vuole farci credere… e allora: la finzione come infinito e il suo contrario, come in un suo componimento del 2011 dedicato appunto a Leopardi , “Infanzia Infinita”, e di cui riporto la strofetta finale:
    —-
    Il furore e il riso… e ti sei assolto da una condanna inesistente
    per una colpa che ti sei inventato inorridita,
    e di ritornare umana a malincuore è più che una farsa –
    è una finzione!
    Grazie per l’attenzione, G. R.

  7. ” si, mi dice, è “un esercizio narcisistico”, ma al contrario: “per nascondere le grandi sicurezze che possiedo!”. “( rispoli)

    Ecco, il punto decisivo! L’esercizio “narcisistico” del Poeta sollecita nel lettore ” del quale nulla gli importa” [e perché mai? Già quest’affermazione è una *visione del mondo*!] un atto di fede o una scommessa (pascaliana o meno): può “nascondere le grandi sicurezze” o l’insicurezza; può mostrare un *nuovo mondo* o decorare di ghirigori un Nulla; stracciare l’infinito leopardiano o banalmente pisciare sulla siepe.

  8. Mettere in poesia tutta la cultura accumulata – e perchè no, se la lingua è il deposito, il pianoforte trascinato da un corpo nell’antico film di Bunuel, l’arricchimento spirituale di un corpo animale, se parlare all’infante è animare il suo spirito?
    Eppure forse non è questa poesia di tutti. Mi si spieghi la necessità che non lo sia.

  9. Gentile e cara Cristiana
    (saluto anche Anna Maria Locatelli),
    da tempo che non ci sentiva…
    dunque il Poeta non ha alcun compito se non sodisfare (piacere a) se stesso in primis; ed essendo parte di una comunità, sodisfa anche chi lo circonda, come quasi in un circolo (dove indifferentemente è centro o estrema periferia) – da un micron a miliardi di anni-luce… di diametro ).
    Chi non riesce ad essere sodisfatto deve riconoscere una sorta di colpa… o a se stesso (difficilmente lo ammetterà) o al Poeta (più facile e comodo bersaglio)…
    il Poeta comunque non se ne cura in entrambi i casi, affatto.
    risposta a :

    “Eppure forse non è questa poesia di tutti. Mi si spieghi la necessità che non lo sia”.
    —————————————————————————————————————–
    Il Poeta poi di fronte ha la condanna dello svanire, di cui deve tener conto, e che lo assilla senza requie; e unica risposta-domanda che si può dare è questa, quasi fosse questa la sola necessità a cui deve sottostare:
    >> Di tutte le rivelazioni che l’arte ha fatto nel corso dei tempi, solo una piccolissima parte si conserva nell’opera d’arte e nel libro. La maggior parte di esse scompaiono con le anime che poterono o dovettero sognare le loro vittorie in silenzio.<<>>> Inconcepibilità
    io so cosa c’è dietro la Fine
    se non se stessa e il Principio
    di una Domanda che sposa la Risposta
    o Natura che divide la propria maschera
    e unisce e riconosce ciò che ri-ferisce
    forse…
    o soltanto il Tutto o il Nulla
    la loro Somma o Sottrazione
    quell’Insieme che forma e disforma
    simili
    un riflesso o una finzione.

    antonio sagredo, novembre 2013

    1. Parafraso il movimento della risposta, prima parte “forse questa non è la poesia di tutti”.
      Io sono soddisfatto e insieme opero a soddisfare gli altri.  Se io non li soddisfo è perché non ammetteranno mai di non sapersi soddisfare da sé soddisfacendo insieme gli altri. Quindi non me ne curo. Ragionamento inattaccabile e liscio come torre che non crolla.
      (Aristotele Fioravanti di Bologna, specializzato in spostamento con ingabbiature di ferro, consolidamento e raddrizzamento torri. Una volte gliene cadde una. Importante architetto e ingegnere idraulico. Morì a Mosca nel 1486 presumibilmente.
      Alla seconda parte “mi si spieghi la necessità che la poesia non sia di tutti”. La necessità non si può mostrare se il fondamento fosse posto dietro la fine, infatti è indietro nel corponascita.

  10. @ Sagredo

    1.
    « il Poeta non ha alcun compito se non soddisfare (piacere a) se stesso in primis; ed essendo parte di una comunità, soddisfa anche chi lo circonda».
    Passi per la prima affermazione: l’Ego ha le sue esigenze. Ma la seconda è una frottola: non c’è nessun automatismo: se io mi piaccio, non è detto che piaccia agli altri.

    2.
    « Chi non riesce ad essere soddisfatto deve riconoscere una sorta di colpa… o a se stesso (difficilmente lo ammetterà) o al Poeta (più facile e comodo bersaglio)…. il Poeta comunque non se ne cura in entrambi i casi, affatto».

    E fa male. Cosa lo esenta dalla colpa in cui incapperebbero solo gli altri?

    3.
    « Il Poeta poi di fronte ha la condanna dello svanire, di cui deve tener conto, e che lo assilla senza requie».

    E perché gli altri non hanno di fronte «la condanna dello svanire», non ne sono pur essi assillati?

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