Trump e i Trumpini italiani

di Donato Salzarulo

I. – Venerdi 24 febbraio 2017. Verso sera mia moglie mi fa vedere un video abbastanza sconfortante. Una donna spaventatissima, chiusa nel container dei rifiuti di un supermercato – visto dall’alto una specie di gabbia – , piange e urla verso due giovani (uno di questi ha la barba) che, soddisfatti per la situazione, si divertono a dileggiarla e ripetono: «Non si può entrare nell’angolo rotture della Lidl…». Non capisco bene ciò che sta succedendo, ma il sadismo allegro e feroce di questi giovani appare innegabile. Giuseppina è turbata, sconsolata.
«Sarà sempre peggio!…», le dico, «Colpa di Trump e dei Trumpini che lo imitano nel nostro paese…Stanno sdoganando i sentimenti peggiori delle persone…»
Certo, le mie parole non l’hanno consolata, hanno, per così dire, buttato benzina sul fuoco, ma l’associazione mentale col Presidente statunitense mi è venuta spontanea. Una decina di minuti prima, avevo finito di leggere un’intervista di Christian Salmon con la filosofa Judith Butler proprio su Trump e m’ero riordinato le idee su cosa fondamentalmente pensare di questo miliardario e dei suoi imitatori e ammiratori.
Trump è un fascista. Su questo, ormai, non ho più dubbi. Lo è perché tale è la sua concezione del potere. Chi pensava che, dopo la cerimonia d’insediamento, il quotidiano esercizio della funzione di Presidente l’avrebbe reso più moderato, ha sbagliato di grosso. Il signore è un tipico rappresentante di ciò che Gramsci definiva “sovversivismo delle classi dirigenti”. Egli si sente al di sopra della legge, dei fatti e della logica. Pensa di essere investito di un potere che gli consente di andare dove vuole, di dire quello che vuole e di fare quello che vuole.
Giuste le parole di Butler: «Agisce come se avesse il potere esclusivo di decidere sulla politica estera, di decidere chi va in prigione, di decidere chi deve essere espulso, di decidere quali accordi commerciali dovranno essere onorati, quali politiche estere dovranno essere disattese e quali ratificate. Allo stesso modo, quando afferma che vorrebbe picchiare o ammazzare qualcuno che lo interrompe tra la folla rivela un desiderio omicida che, per dirlo sinceramente, tocca corde sensibili in molte persone.» (La Repubblica, 24 dicembre, 2016)
Trump ha “liberato” il blocco sociale dei suoi ammiratori e dei suoi elettori dai sensi di colpa e dalla vergogna di definirsi razzisti, maschilisti e antifemministi, intolleranti verso i diritti delle minoranze. Contro il “buonismo” e il “politicamente corretto”, si può essere Caini e politicamente scorretti. Si può essere liberi di odiare, schernire gli avversari, licenziare in tronco il giudice in disaccordo coi tuoi diktat, mettere alla porta i giornalisti sgraditi, ecc.
È trascorso poco più di un mese. Siamo ancora agli inizi. Ma col Presidente “orange” e i suoi sostenitori non ci mancheranno problemi e drammi da affrontare.
Il consenso per l’America trumpista appare fra i leghisti nostrani il più alto d’Europa (82%). Perciò non c’è da meravigliarsi se Salvini abbia applaudito i giovani schernitori di Follonica.

2. – Sabato 25 febbraio 2017. Ritrovo l’episodio di violenza sui giornali. «L’umano ridotto a “merce difettosa” fa spettacolo» è il titolo di un corsivo in prima pagina sul “Manifesto”. Lo firma Alessandra Pigliaru. «Ciò che va in scena è una nuova grammatica del sadismo, sdoganata da un clima di violenza politica qui come oltreoceano. È un clima in cui l’orrore razzista sembra lecito, diminuibile quando è inferto ai più deboli. Non sono solo energumeni i protagonisti – istituzionali e no – di questo sfascio che si tende a giustificare. Hanno anche volti più quotidiani, quasi innocui di trentenni che scherzano come durante un aperitivo serale […]. È insomma una deriva, politica e sentimentale, inarrestabile in cui al senso dell’umano si contrappone l’incapacità di vedere l’altro se non immaginandone la soppressione. […] Qualsiasi cosa per infliggere a chi non può difendersi le umiliazioni più svariate, basta che siano disponibili al proprio godimento. E a quello dei migliaia dei propri contatti virtuali. Un bel supermercato anche i social, dove l’umano ridotto a merce difettosa fa spettacolo.»
La responsabilità è individuale. Quindi, i giovani trentenni risponderanno del loro comportamento eventualmente criminoso, così come risponderanno dei loro comportamenti – la donna o le donne – rinchiuse nel gabbiotto perché, così si dice, stavano rubando non si sa cosa. È innegabile, però, che certi comportamenti individuali possono essere amplificati o contenuti in relazione al giudizio e alla probabile sanzione, non soltanto penale, ma sociale, culturale e politica che ricevono. Se migliaia di persone applaudono a ciò che viene ritenuta, al massimo, una goliardata e un leader politico offre loro assistenza legale, ci attende un futuro nero e di violenza. È bene prenderne coscienza.
Accanto al corsivo della Pigliaru, il “Manifesto” pubblica una vignetta di Biani.
Un uomo rinchiuso nel gabbiotto invita a «Restare umani», come suggeriva il giovane Arrigoni. Ma lo slogan si trasforma, via via, in un grido e diventa «RESTIAMO UMAHAHAH». In fondo, secoli di storia stanno lì a dimostrarci come gli umani siano capaci di inenarrabili nefandezze, orribili ferocie e immani tragedie. La storia è un mattatoio, non dimentichiamolo. Per cui, forse, di fronte a simili episodi, promossi e sostenuti da forze politiche, sociali e culturali, è opportuno armarsi di ragionamenti, ma anche di corpi che si alleano per fronteggiare sadismi individuali e sociali, invidie, rancori, desideri di vendette, odi, ingiustizie palesi ed occulte.
Pure “La Repubblica” avverte il bisogno di intervenire, in prima pagina, sulla vicenda e affida il commento a Roberto Saviano. L’articolo è ben scritto e largamente condivisibile. Respinge l’accusa di “buonismo” (diventato ormai «una specie di scudo contro qualsiasi pensiero ragionevole») e sottolinea la gravità della reazione di Salvini: «un leader politico che dovrebbe favorire il dibattito costruttivo, e che invece non fa altro che istigare all’odio e giustificare le azioni violente.» Il problema per il capo della Lega «non è assolvere o condannare le donne rom sorprese a rovistare nella spazzatura, ma utilizzarle come bersaglio, avvelenare i pozzi del ragionamento, alimentare solo il pregiudizio. Solo pregiudizio e scontro, che non portano a nessuna soluzione rispetto al flusso dei migranti […]. Si usa il social come una palestra di idiozia, amplificatore della miseria umana di cui Salvini vuole fare capitale.»
Saviano, invece, propone ragionamenti, argomentazione, attenzione ai percorsi da fare per affrontare problemi che indubbiamente ci sono e non si prestano a soluzioni facili o demagogiche.
Conclusione finale: «Per spiegare il meccanismo che porta allo sfruttamento della paura da parte della politica vorrei citare la Scuola di Francoforte, che ha a lungo parlato di questo. Vorrei poter citare anche la “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, testo fondamentale di Freud per capire come funziona la testa di tutti gli odiatori e commentatori accaniti del nostro tempo. E invece citerò il Maestro Yoda, che forse persino chi vota Salvini e Salvini stesso conosceranno e che ha spiegato a tutti il populismo di ogni tempo: “La paura è la via per il Lato Oscuro. La paura conduce all’ira, l’ira all’odio; l’odio conduce alla sofferenza”»
Non so quanti leghisti leggeranno questo commento. Sicuramente meno dei famosi 25 lettori di Manzoni. Chi arriverà, comunque, alla fine, vedendosi propinata la pillola antipopulista del Maestro Yoda (figura di saggio nella saga fantascientifica di “Guerre stellari”), invece delle citazioni di Adorno o di Freud, esclamerà: «I soliti intellettuali di merda che credono di possedere chissà quale cultura alta!…».
Per quanto mi riguarda, avrei concluso bollandoli per quelli che sono: “Caini!…” Giusto per ricordare le “radici cristiane” (e vetero-testamentarie) della loro cultura che un giorno sì e un giorno pure rivendicano a sproposito. Visto che dimenticano il comandamento dell’amore («Amerai il prossimo come te stesso») e non hanno problemi a rinchiudere poveracce in una gabbia o a respingere barconi di esseri umani in fuga da guerre, fame e dittature.

3. – Domenica, 26 febbraio 2017. Faccio una passeggiata col mio amico Abate per Cologno. Parliamo, tra l’altro, del video con la donna rinchiusa e spaventata. L’ha visto anche lui e mi racconta il confronto/scontro sviluppatosi su Facebook: da un lato una sequela di contumelie e insulti contro la signora Rom (“Pezzenti”, “Razza bastarda”, “Zingari di merda”, “ladri”, ecc.), dall’altro chi cerca di capire e precisare (rovistare tra i rifiuti non è rubare; in gabbia non si dovrebbero chiudere neanche gli animali, figurarsi le persone; la giustizia “fai da te” nel nostro paese è vietata, ecc.).
L’amico ritiene che episodi simili dovrebbero farci riflettere sulle cattiverie che magari anche noi compiamo, quando il peggio di noi prende il sopravvento. Tutti potremmo essere occasionalmente sadici, aggressivi, violenti. Il mondo non può essere diviso in “noi-buoni-misericordiosi” e in “reietti-carnefici-malfattori”. Giusto. Ma quando i cittadini vengono sollecitati da precise forze politiche, sociali e culturali ad organizzare ronde e cortei contro gli immigrati, quando la loro aggressività, la loro paura dello straniero e del diverso prevalgono su tutto; quando xenofobia, razzismo e intolleranza vengono “liberati” dall’impaccio della vergogna, del pudore, del riconoscere nell’altro la propria umanità, come difendersi? Come contenere questi sentimenti aggressivi?…D’accordo, prestare attenzione alla soggettività delle vittime. Ma cominciamo col dire che le persone forse odiano sentirsi vittime, non vogliono essere messe in questa posizione. Salvo che non soffrano di masochismo. E, comunque, se ci sono vittime ci sono carnefici, più o meno consapevoli.
Il fatto politico è la viralità del video. Come giustamente scrive Abate, in un suo commento su Facebook: «Il gesto diventa politico e ha una grande forza simbolica. È come un cerino acceso in una polveriera, rappresentata dal clima politico da “duri” che la Lega in Italia e ora Trump, il neopresidente USA, avallano e esaltano. E senza essere dei “mostri” i tre contribuiscono ad alimentarlo nella vita quotidiana.»
Inoltre, contro gli attuali Cainiti, credo che il mio amico faccia a bene a rivendicare persino l’uso del termine “buonismo”.
«Cosa svela questo uso ossessivo del termine “buonismo” da parte di quelli che mi paiono degli accaniti provocatori? […] Una volontà di usare le parole come fossero sassi da tirare indiscriminatamente in faccia a chiunque tenti di ragionare e non è disposto a dare addosso ai poveri, ai marginali, agli immigrati […]
Sul termine “buonismo” si concentra oggi lo stesso odio che in passato si concentrò sui termini “socialismo” e “comunismo” (o in tempi più antichi sul termine “cristianesimo”) […]
Secondo me si tratta di rivendicarlo orgogliosamente come un valore e precisare sempre di più i contenuti positivi e le pratiche di solidarietà e di lotta che esso contiene ancora confusamente facendone un progetto politico da praticare con coraggio e senza timidezza..»
Nell’attuale situazione, un progetto politico “buonista” forse non è sufficiente, ma condivido l’esigenza da cui Abate è mosso.
Infine, è costretto anche lui a tirare in ballo Freud. Lo fa contro un provocatore che con un fotomontaggio mette il viso della signora rom al posto di quello disegnato nell’Urlo di Munch. Dopo avergli spiegato che la nostra coscienza è solo la “punta di un iceberg” che, anche quando sembra funzionare in modo razionale, «è sempre condizionata dall’inconscio, che ha modi di funzionamento illogici, alogici, infantili, primitivi, pericolosi», gli rinfaccia (o gli rivela?) che il «tuo/vostro accanimento contro la donna rom e i rom si spiega solo in parte sul piano razionale. È in gran parte, invece, uno sfogo di pulsioni aggressive inconsce. Che vi dominano e non vi permettono di ascoltare gli altri che qui stanno intervenendo. Voi “parlate” con dei vostri “fantasmi”non con me.»
Vero. E allora?…
Recentemente, ho letto il libro di un famoso psicoanalista: «Vite non vissute» di Thomas H. Ogden (Raffaello Cortina Editore, pag. 196, 2016). Nel secondo capitolo affronta il tema di alcune “forme di pensiero” che caratterizzano la nostra esperienza. La prima è quella del pensiero magico o onnipotente. «Il pensiero magico ha un obiettivo, e uno soltanto: evitare di affrontare la realtà della propria esperienza interna ed esterna. Il metodo che utilizza per raggiungere questo scopo è la creazione di uno stato della mente in cui l’individuo crede di aver inventato la realtà in cui lui e gli altri vivono. […] Le caratteristiche del pensiero magico […] rispecchiano tutte l’utilizzo della fantasia onnipotente al fine di creare l’illusione […] di non essere soggetti alle stesse leggi che vengono applicate agli altri […]. Così ci si può rivolgere a un’altra persona in modo crudele e poi credere di poter letteralmente “riprendersi” il commento (ri-creando la realtà – per esempio dicendo che era uno scherzo). Dire qualcosa lo rende effettivo. La percezione è che le proprie parole abbiano il potere di sostituire a una realtà che non è più conveniente una realtà appena creata. Più in generale, la storia può essere riscritta a comando.» ( pag. 27-29).
Negli atti linguistici performativi il dire è fare. Ma qui si va molto al di là. Qui si ha a che fare con persone che hanno un Ego grandioso, smisurato; che pensano di essere divinità, al di sopra di qualsiasi legge; che inventano “fatti alternativi”, favole su presunti attentati terroristici in Svezia, ecc. ecc. Sì, è proprio lui. È il Presidente. Non ho competenze per diagnosticare alcunché; ma, a naso, direi che il pensiero magico abbia una certa prevalenza nel suo apparato psichico.
Serve, post festum, condurre analisi psicologiche di personaggi come Hitler, Mussolini, Stalin, ecc.?…Non so. Sarebbe stato utile, magari, farle prima.
Proporre che chi intende svolgere funzioni (elettive e non) da cui dipende la vita di milioni di altre persone, sia fornito di un certificato di buona salute mentale?…Non sarebbe male, in tempi di personalizzazione della politica e di voglia di leader “forti”. Perché, in tutta franchezza, un artista eventualmente psicotico non mi spaventa. Un Presidente “imprevedibile” – questo è l’eufemismo che usano molti giornali- dello Stato più potente della Terra, un po’, invece, mi spaventa. Se poi penso che custodisce la valigetta con cui comanda migliaia di testate nucleari, il crampo allo stomaco si fa più violento.
La psicanalisi fornisce dei modelli di funzionamento della mente. Può aiutarci a capire di che pasta psichica sono fatti i tanti osannati leader e perché conquistano ammiratori. Ma per liberarcene serve la politica dei corpi, la solidarietà collettiva, comune. Occorre organizzarsi e resistere. Non c’è altra strada.

27 febbraio 2017

24 pensieri su “Trump e i Trumpini italiani

  1. Ci sono alcuni cortocircuiti (o corticircuiti, vanno bene tutti e due) nel testo di Salzarulo. Prima del linguaggio di Salvini c’è stato il “li asfalto” di Renzi, prima della politica autocratica di Trump c’è stata l’ipocrisia progressista dei Clinton (e c’è stato Napolitano che impedisce il voto alla fine del 2010, e l’attacco al nostro paese nel 2011 con lo spread. E prima ancora c’era Prodi che rifiutava di ricevere il Dalai Lama, e c’è la Merkel che sostiene la politica terroristica di Erdogan e lo paga perchè si tenga i siriani…) Voglio dire che la corruzione dello stile e il lassismo dei comportamenti vengono da lontano, lontano.
    Un altro cortocircuito riguarda il giudizio che si traveste di politica, invece che essere morale ed etico, si allarga a gruppi, categorie, avversari politici, e non focalizza i singoli. Ma se ragioniamo per gruppi, per masse piccole e grandi, e per esempio accusiamo il soggetto Lega e non il soggetto Salvini, contribuiamo noi stessi a che i comportamenti individuali si diffondano e si standardizzino, che cioè uno si giustifichi dicendo: “infatti io voto lega”, oppure: “allora voterò lega”.
    La responsabilità è individuale, scrive Salzarulo a un certo punto. Infatti a scuola insegniamo ad assumersi i propri pensieri e comportamenti. L’età più difficile per il genitore è l’adolescenza dei figli perchè possono subire facilmente influenze negative nel gruppo di coetanei.
    Come adulti, poi, giudichiamo gli adulti per quello che fanno personalmente, “è innegabile, però, -aggiunge Salzarulo- che certi comportamenti individuali possono essere amplificati o contenuti in relazione al giudizio e alla probabile sanzione, non soltanto penale, ma sociale, culturale e politica che ricevono.”
    Ma vogliamo continuare ad avallare queste identificazioni di singoli a partiti, modi di pensare, propagande, categorie eterne (fascismo, ego smisurato), amici del bar?
    Il problema è serio: “Ma quando i cittadini vengono sollecitati da precise forze politiche, sociali e culturali ad organizzare ronde e cortei contro gli immigrati, quando la loro aggressività, la loro paura dello straniero e del diverso prevalgono su tutto; quando xenofobia, razzismo e intolleranza vengono ‘liberati’ dall’impaccio della vergogna, del pudore, del riconoscere nell’altro la propria umanità, come difendersi?” Risponde Salzarulo: “per liberarcene (dai leaders negativi) serve la politica dei corpi, la solidarietà collettiva, comune. Occorre organizzarsi e resistere. Non c’è altra strada.”
    D’accordo, anche per darsi reciprocamente la forza di introdurre ragione e comprensione in ogni occasione necessaria. Una volta era un’altra identificazione, in un altro gruppo reificato dei buoni e bravi, dei giusti e illuminati, era un altro partito. Occorre organizzarsi… Chissà cosa vuol dire.

  2. «Occorre organizzarsi…Chissà cosa vuol dire» domanda (e si domanda) Fischer…Vuol dire, ad esempio, leggere insieme (o più o meno simultaneamente) lo stesso libro. Dopo la rilettura dell’intervista della Butler a “Repubblica”, in questi giorni sto leggendo «L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva» (Nottetempo, 2017). È un libro utilissimo. Aiuta a capire il significato del termine “popolo”, la differenza fra ronde anti-immigrati e manifestazioni come quelle di Occupy, e, sono certo, andando avanti nelle pagine, anche il significato di un bisogno (democratico) come quello di organizzarsi per resistere alle violenze dei Trump e Trumpini.

    1. Avevo letto un’anticipazione della Alleanza dei corpi comparsa su Opera Viva in febbraio. In quelle poche pagine Butler avanza le nozioni di precarietà e di performatività:
      “Per coloro che sono considerati inammissibili nella sfera
      dell’apparizione diventa fondamentale allearsi e la lotta deve prevedere
      un’istanza plurale e performativa di ammissibilità là dove essa non esiste”,
      e, sulla precarietà:
      “La precarietà è ciò che accomuna donne, queers, transgenders, poveri, disabili, apolidi, nonchè le minoranze religiose o razziali: si tratta di una condizione sociale ed economica, non di un’identità”.
      Non so se, in questi termini, si abbiano di mira le stesse analisi e gli stessi obiettivi di lotta che abitualmente si condividono in area marxista.
      Certo bisognerebbe leggere il libro intero più o meno simultaneamente e discuterne, si finirebbe a pensare anche di femminismo.

      Chi altro ci sta?

  3. Trump e Trumpini…
    —————–
    Krupp e Kruppetti

    (Majakovskij in >>>> La nuvola in calzoni – 1914-1916)
    ——————–
    …. Trumputin

  4. Ho sempre detto che rifiuto sia il “buonismo” che il “cattivismo”, surrogati secondo me delle distinzioni “forti” (Destra/Sinistra; fascismo/comunismo) di epoche passate. Perciò se, nel corso di una polemica con un “cattivista”, mi sono sentito di rivendicare l’uso del termine “buonismo”, è perché non ne posso più di sottostare a questo martellamento che fa di tutt’erbe un fascio e sta diventato ormai un coro che condiziona anche il confronto tra “amici”.
    So che rivendicare polemicamente il “buonismo” è insufficiente. E infatti ho precisato che «i contenuti positivi e le pratiche di solidarietà e di lotta», che nelle pratiche buoniste affiorano «confusamente» potranno maturare e chiarirsi ( e avere altri nomi più esatti) solo se si sarà in grado di ridefinire « un progetto politico da praticare con coraggio e senza timidezza».
    Quale?
    Fuor dal linguaggio incerto a cui siamo costretti a causa della sconfitta subita e dell’isolamento e lutto ad essa seguiti, dico chiaro e tondo che per me il *vero* buonismo va cercato nella fortiniana scommessa della «lotta per il comunismo» da riprendere e riorganizzare.
    E perciò sono del tutto insoddisfatto del confronto a mezza bocca e dal silenzio di molti redattori di Poliscritture. Sia su temi culturali ( come quello del rapporto poesia/guerra) sia su quelli politici come quello di questo post.
    Non si tratta di un problema solo di linguaggio. Secondo me, è secondario accertare se il «li asfalto» di Renzi sia venuto prima del linguaggio razzista di Salvini (o del “celodurismo” di Bossi) o ricordare che « prima della politica autocratica di Trump c’è stata l’ipocrisia progressista dei Clinton» etc., come dice Cristiana. Perché comunque queste sono tutte posizioni da avversare. Né capisco il sottile distinguo tra il «soggetto Lega» e il «soggetto Salvini», come se Salvini non fosse il rappresentante riconosciuto di quel partito e i comportamenti individuali dei suoi militanti o simpatizzanti non fossero in buona misura standardizzati e imbevuti- concedo: sia pur con sfumature – da una comune ideologia, fortemente razzista e neonazionalista, che sta diventando senso comune di una parte della popolazione.
    Chi riconosce come nemica questa identità o tipologia ideologica si dovrebbe ancora interrogare dubbiosamente se per caso sia lui a « continuare ad avallare queste identificazioni di singoli a partiti, modi di pensare, propagande, categorie eterne (fascismo, ego smisurato), amici del bar» ?
    No, grazie. Per me i messaggi di Salvini su FB e quelli dei suoi coscienti o incoscienti seguaci che ho dovuto fronteggiare nel confronto/scontro su FB a proposito dell’episodio della donna rom messa in gabbia si collocano in un medesimo “album di famiglia”. E mi pare un fare orecchie da mercanti, dichiarare, come fa Cristiana, «Occorre organizzarsi… Chissà cosa vuol dire».
    Vuol dire non solo quello che ha detto Donato: « leggere insieme (o più o meno simultaneamente) lo stesso libro» per capire certe cose ( « il significato del termine “popolo”, la differenza fra ronde anti-immigrati e manifestazioni come quelle di Occupy» etc.), ma anche chiarire da che parte stiamo: con Trump o contro Trump e i Trumpisti, con i neonazionalismi (più o meno populistici) o contro.
    So che il chiarimento non è facile e potrà essere anche lacerante, ma questo tergiversare per me non ha più senso.

    1. “dico chiaro e tondo che per me il *vero* buonismo va cercato nella fortiniana scommessa della «lotta per il comunismo» da riprendere e riorganizzare”.
      Non so cosa sia il comunismo. Abolizione della proprietà privata? delle “classi”, una volta borghesia e proletariato? è la “dittatura del proletariato”?
      (O, più genericamente, il comunismo è l’abolizione dello sfruttamento sociale ed economico, in base alla convinzione profonda della uguale dignità umana? Questa aspirazione non è però il comunismo, non il solo comunismo ha questa meta, questo traguardo.)
      Scriveva sul Manifesto Luciana Castellina in preparazione del convegno Comunismo 17: “È singolare che sebbene tutt’ora si sia in (relativamente) tanti a definirci comunisti, il concetto sia sempre rimasto nebuloso. Oggi, per fortuna, si è imparato a declinarlo al plurale; e già questo aiuta. Ma non basta. Perché ci definiamo tali?” Quindi converge sulla formula di Marx «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti». Bella frase, va bene “movimento reale”, va bene “abolire”, va bene lo “stato di cose presenti”, sono cose che vediamo e riconosciamo. Però in realtà aprono delle praterie: quali tra i movimenti reali sono *quel* movimento? ce n’è parecchi, che aboliscono, ma in quale prospettiva?
      Castellina prosegue: “Marx [che] si è sempre distinto da ogni altra critica *progressista* (infatti io credo che parlare di sinistra non equivalga a parlare di comunismo) perché ispirato dall’idea che era necessario trasformare non solo il titolo di proprietà da privato a pubblico, ma l’insieme dei rapporti sociali, i valori individuali e collettivi, che la posta in gioco era – insomma – una vera rifondazione sociale (che è poi la distinzione fra riformismo e rivoluzione).”
      Abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione e rifondare i rapporti sociali e i valori, quindi.
      Conquistare la società, prima ancora del potere statale, dice Castellina, “implica una riflessione innanzitutto sulla attuale frantumazione sociale, determinata dalle nuove forme del lavoro, così come dalle diversificazioni culturali indotte dai processi di individualizzazione che essa ha indotto.” E benchè lei creda che per cambiare lo stato di cose presenti sia necessario un soggetto collettivo e una politica che lo rappresenti coerentemente, “proprio questa frantumazione, l’aggiungersi di contraddizioni diverse da quella capitale-lavoro, rendono la costruzione del soggetto collettivo ancor più difficile, meno spontanea, più bisognosa di una mediazione politica alta.”
      Preferisco tornare all’ambiguità della frase marxiana, identificando nel *movimento reale* una serie di componenti, mi faccio carico di individuare collegamenti possibili, non auspico un soggetto collettivo, che serve solo a prendere il potere come se fosse un castello, e che quando c’è stato ha dato brutte prove. Conclude l’argomentazione Castellina: “Per ora, dunque, ci siamo schiantati, ma in futuro ce la possiamo fare anche noi”, e mi pare che pensi in continuità con la rivoluzione del 17, che si è, sì, arrestata, e ha anche tralignato, ma che si debba proseguire su quella traccia. Poi chiude l’articolo su una frase di Sartre completamente priva di senso: «se l’ipotesi comunista non è valida, significa che l’umanità non è diversa dalle formiche», che richiama Occam: dall’impossibile segue qualunque cosa, che come dimostrazione logica del comunismo non vale un’acca.

      Perdonami, Ennio, questa scomposizione della tua “fortiniana scommessa della *lotta per il comunismo*”, fatta con l’aiuto dell’articolo di Castellina, ma quello che per te, e anche per lei, è forte e chiaro, per me continua a restare nebbioso e indefinito. Ora rispondo punto a punto alle tue critiche.
      1. problema di linguaggio: lo sdoganamento di sentimenti rabbiosi, di derisione, e vera e propria costruzione del Nemico, NON è di oggi. Voglio ridimensionare la mostrificazione di Trump e di Salvini, perchè non sono peggio di quello che abbiamo vissuto negli anni ’60, ’70, ’80, ’90 ’00 ’10 fino ad oggi. Invece questa mostrificazione e schiacciamento dei due+compari sul nazifascismo serve solo a reificare le divisioni in modo sempre più feroce;
      2. nel sottile distinguo tra il soggetto Lega e il soggetto Salvini alloggiano un sacco di persone, che non sono fasciste e razziste come le più estreme posizioni di alcuni, anche molti, leghisti;
      3. le separazioni NON sono ideologiche, anche se la ideologia struttura e rinforza fino a rottura definitiva le parti. Prima che questo accada possono essere contraddizioni in seno al popolo, occorre ragione e politica per non farlo accadere;
      4 “organizzarsi … vuol dire anche chiarire da che parte stiamo” mi suscita brutti echi, quello del socialfascismo per dire.
      Credo e spero che la situazione sia ancora fluida, pur non vivendo più al nord e in una grande città, e quindi non essendo in contatto con l’asprezza dei conflitti tipici della città, dalle relazioni che mantengo e dall’insieme dei media non noto che tutto stia precipitando verso nuovi anni ’20-’30 dell’altro secolo. Il conflitto ideologico mondiale mi sembra vivo e attivo, non c’è solo Trump, e anche i “populisti” di sinistra (alcuni sono fini ragionatori) hanno una vista piuttosto limpida. Come diceva un papa che non mi piaceva affatto: non abbiate paura.

  5. APPUNTI: COMUNISMO NO. E ALLORA?

    @ Fischer

    1.
    « Non so cosa sia il comunismo» (Fischer)
    Ad affermazione provocatoria ( per la storia da cui vieni e veniamo) risposta altrettanto provocatoria: perché, Cristiana, forse sai cosa sia Dio o il femminismo o la poesia, di cui insistentemente ti occupi? ( E lo stesso vale per i quanti, i buchi neri, la storia e tante altre cose che non conosciamo, che non vediamo, che non si possono toccare o percepire subito o direttamente).
    Subito dopo un rilievo di metodo, che riguarda il tipo di comunicazione tra noi. Ci seguiamo e confrontiamo da tempo, più o meno assiduamente, su questo sito, sulla sua “succursale” (Poliscritture FB) o nella redazione della rivista. E non ti è sfuggito che ho speso tempo per commentare passo passo l’articolo scritto da Franco Fortini nel 1989 , intitolato appunto «Comunismo». (ne ho pubblicato i primi cinque punti qui: https://www.poliscritture.it/2017/02/09/appunti-politici-3-comunismo-di-f-fortini/). Sarebbe stato meglio partire da lì per contestare o criticare. Aggiungo che a me va bene anche confrontarmi con una posizione che liquida ogni ipotesi di comunismo, com’è quella di G. La Grassa, perché permette di chiarirsi, di decidersi: o ad eliminare questo problema ( o scommessa) dalla propria riflessione o a riproporselo *malgrado* quelle critiche in altra forma. Cadere dal pero ( o fingerlo), elencare interrogativi retorici, parafrasare la generica e fiacca posizione della Castellina è perdita di tempo. Meglio semmai un corpo a corpo con alcune delle posizioni ”forti” emerse dalla recente “Conferenza sul comunismo” di Roma.

    2.
    La costruzione del Nemico non è di oggi. Vero. Ciò comporta forse che nessuno ci è più nemico o che indicando come nemici Trump o Salvini si va dritti verso una loro «mostrificazione»? Se io critico le loro politiche, reificherei «le divisioni in modo sempre più feroce». Invece Trump, che vuole far costruire al Messico a sue spese il muro che dovrebbe difendere gli Usa dai migranti, o Salvini, che li vuole respingere in tutti i modi, non reificano nulla?

    3.
    Il « distinguo tra il soggetto Lega e il soggetto Salvini» è talmente «sottile» da rendere impalpabili le somiglianze (quando non le coincidenze) tra ideologie e comportamenti dei leghisti (a partire dai loro capi) e ideologie e comportamenti tipici dei razzisti (che tuttora esistono) e dei fascisti ( che ci furono e tuttora prolungano la loro influenza in forme “morbide” e più “mascherate”. Sulla questione, per quanto ho letto, La Grassa e Buffagni sostengono, con argomenti diversi e provenendo da storie diverse, che fascismo e comunismo sono ormai cascami del passato. Non mi convincono. Non credo sia giusto fare tabula rasa del passato. O io a questo punto non ci sono arrivato. Per Salzarulo non ci sono dubbi: «Trump è un fascista». Per me ci somiglia molto, ma l’etichetta può fuorviare. Credo necessario l’approfondimento delle continuità e delle discontinuità storiche tra processi del passato e del presente e tra personaggi del passato e del presente.

    4.
    Le differenze e le separazioni tra gli umani «NON sono [*soltanto*] ideologiche», ma, appunto, come tu stessa ricordi, « la ideologia struttura e rinforza fino a rottura definitiva le parti». E perciò ragione e politica misurano la loro validità proprio quando sono capaci di indicare le reali ( e non immaginarie) « contraddizioni in seno al popolo». Non restiamo però nell’astrattismo di una formula maoista del passato. Quali sarebbero oggi le possibili contraddizioni «in seno al popolo»? Per me, ad esempio, sulla questione migrazioni, potrebbero essere quelle tra una parte della popolazione italiana e una parte dei migranti (contro i “cattivisti”). Per Salvini e i neonazionalisti lo sarebbero quelle tra «noi italiani» (contro i migranti e i “buonisti”).

    5.
    «“Organizzarsi … vuol dire anche chiarire da che parte stiamo” mi suscita brutti echi, quello del socialfascismo per dire»? No, non evoco per impaurire un ritorno agli «anni ’20-’30 dell’altro secolo », ma ambivalenze e tentennamenti non fanno bene. Specie in questa situazione di crisi. A me paiono impedire dei chiarimenti possibili ( e indispensabili). Ormai certe ipotesi hanno fatto capolino nei nostri discorsi anche qui su Poliscritture. E sono più o meno quelle riconducibili ad alcuni autori, a cui abbiamo fatto in varie occasioni riferimento ( Badiou, Buffagni, Fagan, Formenti, Fortini, La Grassa, Negri). O, in qualche caso, al M5S. Discutiamone lealmente e fino in fondo. Usciamo dalla “zona grigia”.

  6. DA POLISCRITTURE FB A POLISCRITTURE SITO

    Cristiana Fischer

    Questioni di metodo: 1) non so quanti si vadano a leggere su Poliscritture sito il mio commento a cui tu rispondi anche qui, del resto citi qualche breve frase, ma perlopiù fai un discorso tuo che non è propriamente una risposta alle affermazioni mie; 2) se inviti a discutere “lealmente e fino in fondo” collocandomi in “zona grigia”, e -non dirò accusandomi di, ma dirò invitandomi a non- “cadere dal pero ( o fingerlo), elencare interrogativi retorici, parafrasare la generica e fiacca posizione della Castellina [che] è perdita di tempo”, invitare a discutere così, intendo, è davvero… invitante!
    p.s. La povera “fiacca” Castellina la ho usata perchè è stato lodato questo suo articolo proprio da partecipanti di C17.

    1. “se inviti a discutere “lealmente e fino in fondo” collocandomi in “zona grigia”” (Fischer)

      Ho scritto “Usciamo dalla “zona grigia””. Ho usato il plurale.

  7. …parto dalla considerazione che, come sembra appurato, nella società globale come la nostra un numero esiguo di sessanta persone detenga una ricchezza pari alla metà di quella di cui dispone il resto del genere umano…Il fatto sembra abbondantemente dimostrare lo squilibrio conseguente alle dinamiche del capitalismo, sorretto a sua volta da un minaccioso apparato militare…Sembra quindi necessario porsi dalla “nostra” parte, cioè quella dei poveri…Poveri oggi in aumento, se si pensa alle vecchie e alle nuove povertà, comprendenti disoccupati, piccola borghesia impoverita, migranti…Su una realtà cosi’ complessa si estende poi, come una densa cortina di fumo, una propaganda mediatica mistificante a confondere e mescolare le idee. La ricerca stessa dei poveri, con cui identificarsi, diventa difficile: come entrare in un campo minato. In effetti ci imbattiamo in poveri aarroganti con altri poveri, poveri che hanno paura dei poveri, poveri che fanno paura ai poveri…come se la povertà non fosse una sola, le cui case sono strettamente interconnesse. Ma la tattica ricorrente è quella di cercare un capro espiatorio tra i poveretti che in realtà condividono la medesima situazione…I politici, come Salvini, lo fanno senza tregua e di sassi ne hanno già lanciati troppi per non suscitare reazion…le contrapposizioni ormai sono in atto e diventano esasperate, in Italia, in certe zone del sud, dove disoccupazione e caporalato imperversano o nelle periferie cittadine del nord dove le povertà sembrano portarsi via il pane, casa e lavoro, a vicenda…Penso che “il comunismo in cammino”, in maniera laica e trasversale (sbaglio se penso che possa ispirarsi anche al cristianesimo piu’ autentico e al movimento pacifista?), come crocevia di diversi credi, possa affrontare questi conflitti e additare una diversa strada per la loro soluzione o trasformazione nella direzione di una società piu’ giusta e umana…

  8. Condivido quasi interamente le considerazioni fatte da Donato e anche quelle di Ennio, compreso l’annesso allarme – implicito nell’appello alla “resistenza” – per il possibile configurarsi di un “nuovo” fascismo. Nulla di ineluttabile, anzi; è possibile oltre che doveroso contrastarlo vittoriosamente prima che abbia fatto ulteriori danni.

    Aggiungo alcuni corni del dilemma, in ambito politico-culturale, che mi sembrano rilevanti. Da un lato l’imbarbarimento della scena mondiale depone a favore di un nuovo schema “frontista”, per quanto una sua riproposizione non piaccia quasi a nessuno, anche perché trascura totalmente la “novità” del fenomeno. Ma è chiaro che se la alternativa torna ad essere, per usare termini antichi (di cui dobbiamo smettere di vergognarci, come diceva Ennio a proposito del cosiddetto buonismo), quella tra “socialismo o barbarie”, altrettanto nette devono essere le scelte che ne conseguono. Prioritario dovrebbe quindi diventare il riflesso unitario a sinistra e discriminanti le scelte di collocazione da parte delle forze “centriste” (PD in primo luogo) per decidere se comprenderle o meno in un’alleanza “frontista”. Lo schema frontista, anche se rischia di assomigliare a una politica del “male minore”, non ha in realtà molto a che vedere con questa sciagurata posizione, che è all’origine del problema.
    Tutto ciò ha ovvie ripercussioni anche a livello elettorale, sebbene questo non sia l’aspetto più importante.

    Dall’altro lato però sta la constatazione dell’inadeguatezza delle forze di “sinistra”, vecchia e nuova, radicale e moderata. Non c’è dubbio, secondo me, che in questa deriva anche le forze che l’hanno, almeno a parole, contrastata, portino una grande responsabilità. E se la responsabilità etica e penale è individuale, come ci ricorda Donato, quella politica è anche collettiva. Paradossalmente la divisione tra le due sinistre esce accentuata dall’accentuarsi della gravità della situazione e del crescere dei rischi di guerra e distruzione. Sono stato sempre tra quelli che hanno contrastato una certa tendenza – la cui leggerezza oggi paghiamo, come nella favola di “Al lupo, al lupo” – a mettere sullo stesso piano “destra” e “sinistra”, come se il moderatismo, che combatto da una vita, fosse la stessa cosa del fascismo, del razzismo e dell’odio di classe. Ma non credo che si possa sottovalutare o curare sintomaticamente l’ampiezza della spaccatura tra le due sinistre, che non è solo italiana, ma mondiale, forse epocale. Anche perché non è detto che la risposta frontista, che ha sempre una componente (auto)assolutoria, sia quella che difende più e meglio “le nostre verità”.

    Contro il trumpismo, il lepenismo, il populismo, il nazionalismo “sovranista” (che non a caso godono di qualche simpatia anche a “sinistra”), occorrerebbe quindi una larga unità, senza spocchie di bandiere o di primogeniture, in uno spirito antidogmatico che, peraltro, caratterizza la migliore tradizione della sinistra. Ma come arrivarci? Le scorciatoie rischiano di compromettere il traguardo; ma il tempo non lavora a nostro favore, vista la necessità di mettere un argine qui e ora. Dobbiamo navigare tra Scilla e Cariddi. È anche di questo che penso oggi si debba discutere.

    (Dico anche che si tratta di una discussione lacerante per ognuno di noi, perché siamo tutti intimamente divisi, proprio mentre pensiamo all’unità; per quanto mi riguarda, ad esempio, pur essendo spesso in filosofia un “relativista”, non mi sento di trasferire questo relativismo all’ambito politico, soprattutto oggi, come mi sembra faccia Cristiana con alcuni suoi distinguo).

  9. Volendo pensare alla situazione presente in senso tragico (nessuna ironia), vedo che il Nemico è in primo piano. Secondo alcuni è l’avanzata ideologica di Trump, Salvini, Le Pen, del nazionalismo e del populismo. Per altri è l’avanzata di migranti dai sud del mondo nelle nostre società della legalità, dei diritti e del (decrescente) welfare. Migrazioni e Fascismo, in breve, e di essi si misurano le combinazioni.
    Le migrazioni rappresentano la necessità, non si può fermarle. I fascisti vogliono reprimerle brutalmente, ma forse anche ci speculano e le sfruttano, e intanto così conquisteranno il potere per controllare gli autoctoni.
    Una politica moderata e razionale cerca di regolare in modo intelligente e razionale l’afflusso dei migranti e le reazioni politiche eccessive.
    Una politica radicale ritiene di dover combattere il fascismo politico-affaristico, ma anche la politica moderata, che in realtà tiene la popolazione sottomessa al capitalismo e per questo non vuole disturbi.
    C’è anche una visione più raffinata e di complottismo globale. Le migrazioni africane sono gestite da gruppi criminali locali che si alleano con la nostra criminalità mafiosa e quella internazionale. Nel deserto attraversato dai migranti dell’Africa occidentale atterrano gli aerei del contrabbando internazionale di droga e armi. Quali gruppi politici nei diversi stati europei sono alleati o inquinati da gruppi mafiosi? Quale ideologia è più adatta a rappresentare questo incrocio mafioso tra politica e affari neri? Ho scritto “complottismo”, ma tutti sappiamo che queste cose stanno accadendo.
    Sul pericolo attuale di fascismo, razzismo e populismo, riporto alcune osservazioni di Bagnai. Bisogna frenare l’impoverimento dilagante negli stati europei. Marine Le Pen ha capito una cosa importante, che la frammentazione della popolazione inizia dall’impoverimento, che colpisce prima i lavoratori industriali, poi il ceto professionale, poi i pensionati… ma ogni volta quelli colpiti non si rendono conto che toccherà o è già toccato agli altri. Bagnai fa notare che le regioni in cui Le Pen vince voti, sono quelle in cui è maggiore la disoccupazione, non i migranti. Secondo Bagnai la sinistra europeista e eurista non ha offerto al suo popolo analisi corrette sui problemi suscitati dall’euro e dall’immigrazione, ora è indebolita e sconfitta, il suo popolo si è allontanato, Salvini se lo prende.
    La soluzione per Bagnai e tanti altri è la fine dell’euro, indebolendo questa UE. Farebbe sorgere governi politici facilmente inquinabili dall’economia criminale? Invece forse il nazionalismo di Le Pen, e il suo populismo tradizionalista, sarebbero un freno. Lo stesso ragionamento vale per Salvini.
    Certo, a chi è consapevole che momenti di repressione e restringimento di diritti sociali politici ed economici hanno visto sempre la presenza di razzismo e nostalgie nazifasciste, pare pericoloso affidarsi a tradizionalismi e sovranismo, che si accompagnavano in altro tempo a veri e propri regimi. Ma la presente situazione ha troppe costituenti che il fascismo non ha conosciuto. Allora direi che fascismo è una parola-bagaglio, che contiene razzismo ed elitismo, ma anche nozioni incerte che appartengono ad altre aree politiche, come nazionalismo, populismo e sovranismo e nella situazione presente preferirei non doverla usare come terreno di discussione.

  10. Cara Cristiana, l’allerta sul trumpismo e sui trumpini non vuole certo contribuire alla “costruzione del Nemico”, al contrario. Sono proprio i silenzi, le sottovalutazioni, le indifferenze, che contribuiscono, ognuno nel suo piccolo, a far sì che il mondo sia pieno di guerre e di conflitti basati sullo schema amico/nemico. Bisognerebbe forse tacere di fronte alle chiusure delle frontiere, alla ricostruzione dei muri, all’episodio di Follonica, ai fatti di razzismo che si moltiplicano ogni giorno? Sorridere alle battute e alle figuracce di Trump e trumpini come loro vogliono? Trovarvi qualcosa di sinistra (oltre che di sinistro) perché non sono “politicamente corretti”? Io non credo, penso che proprio l’accettazione di uno stile di discussione in cui si può dire tutto, perché niente è falsificabile nel circo della post-verità, in cui nessuno si prende la responsabilità delle cose che dice e degli insulti che lancia, favorisca proprio la logica amico/nemico, o con me o contro di me. L’osceno filmetto di Follonica non aveva proprio lo scopo di togliere ogni umanità a una intera etnia, in modo da poterla indicare come nemico, razza inferiore, a cui si può fare di tutto? Anch’io preferirei non tirare in ballo la parola fascismo, e sono consapevole che in passato ciò è stato fatto qualche volta con colpevole semplificazione, indistinzione, dogmatismo e strumentalità. Però oggi il rischio mi sembra esattamente l’opposto: permettere l’apologia (non solo a parole) del fascismo, ma soprattutto la ricostruzione di un clima culturale e mentale dominato dalla intolleranza e dalla violenza di tipo fascista o razzista, senza incontrare quasi nessuna reazione. Sottoponendoci a un processo di assuefazione. Dobbiamo domandarci se un fascismo (necessariamente assai diverso da quello passato) sarà ancora riconoscibile qualora dovesse presentarsi o ci saremo ormai abituati a tutto.

    1. a Luca Ferrieri. Ricordo troppo bene le manifestazioni contro la guerra in Vietnam, quelle dopo la strage di piazza Fontana, ricordo lo sconcerto -il disgusto- all’elezione di Reagan, ricordo ventanni di rifiuto di Berlusconi con la sua accolita di alleati… Sono cinquant’anni ormai, di minacce alla vita civile, alle lotte sociali e ai diritti politici della maggioranza della gente. Oggi è più grave? In che cosa è diverso? Secondo me: nella depressione del nostro paese (non è il solo) impoverito, spogliato, invecchiato. Si passa di allarme in allarme crescente ma, sono convinta, crescente è solo la sensazione della nostra debolezza.
      Sia chiaro che non scuso proprio niente, né l’indifferenza dei molti, né la piatta cattiveria di troppi. Ma ho visto che è stata preparata dall’allentamento sociale del berlusconismo, anzi perseguita intenzionalmente, con un’ideologia di arrivismo, di servilismo e ipocrisia, di sguaiatezza. E soprattutto, il letto in cui scorre questa corrente fangosa è scavato da una crisi che dura, per l’Italia, da 9 anni, e che la politica non sa o non vuole rimediare. Allargando lo sguardo, la crisi riguarda Europa e America, il nostro occidente, con le guerre in cui siamo stati impegnati di fatto dal ’91, che hanno diffuso i germi per la pericolosa disgregazione sociale in cui stiamo vivendo. Suonare il tamburo della minaccia di fascismo schiarisce le idee? O consola le menti stringendole in vecchi schemi? L’era moderna, col colonialismo e il fascismo, è finita. Le invasioni dai sud del mondo non le fermeranno i muri o i razzismi e occorre un pensiero a questo ordine di grandezza.
      Qual è il vero pericolo di oggi? La gestione “liberalprogressista” di una politica che vuole lasciare che le cose continuino così come stanno, la UE con l’erosione democratica, l’obnubilamento di ogni pensiero politico a favore della lotta alla  corruzione.
      Lascerò parlare per me Carlo Galli, dal suo blog Ragioni politiche, con frasi da un post intitolato Tesi sull’Europa.
      “La possibile fine della Ue nella sua configurazione attuale (resa visibile dalla Brexit, e dalla scelta inglese per un modello imperiale finanziario informale, il cosiddetto global England che coesiste con un marcato neonazionalismo) sta insieme ad altre fini: della globalizzazione che la destra anglofona ha aperto e che ora chiude (oltre alla secessione del Regno Unito, la guerra di Trump a chi ha guadagnato troppo dalla globalizzazione: Cina e Germania), del doppio modello neoliberista e ordoliberale imposto all’Europa
      dall’euro (che ha portato o stagnazione o forti disuguaglianze economiche e sociali, o entrambe, e che ha fatto nascere i populismi); e in prospettiva della stessa democrazia occidentale postbellica.”
      Amo la politica, sono attenta a quello che accade e la storia non si ripete. La reazione anti UE per me va sostenuta: è anch’essa una corrente fangosa, occorre discriminare e individuare le parti più forti e giuste, che combatteranno quelle peggiori (razziste e suprematiste. Ma leggevo che stanotte un clochard è stato bruciato vivo a Palermo, e lì non c’è la lega). Ancora dal post di Galli.
      “Sono necessarie riforme che vadano in senso opposto a quello che si è affermato fino ad ora. Ci si deve porre come obiettivo non la crescita generica ma la piena occupazione, si deve far leva sulla domanda interna e non principalmente sulla esportazione, si deve perseguire la rivalutazione economica e giuridica del lavoro e scalzare la centralità sociale e politica del mercato e/o del pareggio di bilancio, si deve mirare alla redistribuzione della ricchezza e non solo all’aumento del Pil, alla giustizia e non alla indiscriminata diminuzione del carico fiscale (peraltro mai realizzata). Questi sono i veri problemi dell’Italia, non i vitalizi nè le date dei congressi, che sono solo momenti della lotta politica di palazzo, e che servono a celare i conflitti politici fondamentali. Questi, una volta che la rivoluzione neoliberista ha esaurito la sua spinta propulsiva, e che l’ipotesi ordoliberista si è rivelata mera conservazione del potere tedesco, sono ormai una contrapposizione oggettiva tra ristrette élites economiche e massa impoverita della popolazione (ceti medi inclusi).”
      I fascismi sono stati nazionali. Oggi le rivolte al globalismo sono diffuse ma contemporaneamente puntano alla sovranità. A proposito di questa contraddizione concordo con la lettura che ne fa Galli:
      “Lo strumento principale per […] rimettere ordine in casa nostra, per ridare
      l’Italia agli italiani, nella democrazia e non nel populismo è lo Stato e la
      sua rinnovata centralità. La Stato non è intrinsecamente portatore di
      nazionalismo e di egoismo: è invece uno spazio politico potenzialmente
      democratizzabile (soprattutto se in parallelo i cittadini si impegnano in un
      nuovo civismo, e non nella protesta populistica, incoraggiati in ciò dal
      constatare che non tutte le strade sono chiuse, che il destino non è segnato),
      una via importante per la riduzione della complessità dell’indecifrabile spazio
      europeo. Il termine dispregiativo sovranista non significa nulla se non un
      rifiuto di approfondire l’analisi del presente, e quindi denota una subalternità
      di fatto ai poteri dominanti (e declinanti).”
      Non trovo giusta la tua frase “Sono proprio i silenzi, le sottovalutazioni, le indifferenze, che contribuiscono, ognuno nel suo piccolo, a far sì che il mondo sia pieno di guerre e di conflitti basati sullo schema amico/nemico”: il contrario del silenzio non è gridare “al lupo-fascismo”, ma ragionare di più e meglio.

  11. TRUMP SECONDO IL SUO IMITATORE

    Alec Baldwin è una specie di Crozza statunitense. Per la sua imitazione di Trump negli ultimi tempi è diventato un icona nazionale. Il sabato sera, milioni di cittadini si sintonizzano sulla Nbc per gustarsi le sue parodie e caricature del presidente.
    Luca Celada l’ha intervistato per “Il Manifesto” del 10/3/2017. Ecco gli stralci di alcune sue risposte.

    a) Cosa davvero pensa del Presidente Trump

    La gente parla di lui giorno e notte. «Dicono che quando ha vinto a New York è stato come un 11 settembre. Si è insediata una mentalità del disastro, come un meteorite che si avvicina e che incombe…nessuno ricorda di aver visto i newyorchesi così costernati e sconfortati da quando hanno attaccato le Torri […]. Ogni giorno c’è una notizia peggiore, non ci sono più le buone notizie. La Casa Bianca è inetta, la presidenza nel caos…e siamo appena alla seconda settimana di marzo! Gli americani sono in preda a un attacco di panico. Stiamo letteralmente andando oltre la satira. Ci stiamo addentrando in un mondo in cui la realtà supera la parodia […]»

    b) Le questioni ambientali

    «Quando sono venuto qui [a Los Angeles] per la prima volta nel 1983 […] era più facile vivere sulla luna che in questi quartieri e la ragione principale era l’aria, quello spesso strato di gas tossico che si vedeva quando scendevi dalle colline. L’aria di Los Angeles era irrespirabile. Ebbene, ci sono voluti trent’anni ma gli sforzi della California e le norme ambientali implementate dopo decenni di lotte politiche hanno cambiato tutto questo. Ora si può vivere e respirare a Downtown, a Silverlake a Echo Park…Trump vuole disfare tutto questo. Vuole abolire le regole ambientali, le leggi che ci hanno permesso di progredire fin qui.»

    c) Molti poteri allineati dietro a Trump

    «Ci sono elementi del governo che hanno fatto di tutto per eleggere Trump. Per me rimane un mistero e spero che possa essere svelato durante la mia vita perché gli Stati Uniti sono un congegno per offuscare i fatti, non per rivelarli. Storicamente il nostro sistema politico ha nascosto i dati sul mutamento climatico, sul cancro e il tabacco, sul fracking e i terremoti. Spero solo che durante la mia vita arriveremo a sapere cosa ha spinto molti poteri ad allinearsi dietro a Trump.»

    d) Il mistero Trump

    «Nessuno è ossessionato come noi americani dal meticoloso studio psicologico della presidenza. Ma come per Trump non si è mai visto. […] Ha costruito un suo Xanadu [mito di un luogo incantato esotico e mistico], rincorso i sogni attraverso potere e denaro. Trump è davvero uno che anche quando vince è infelice. È davvero un gran mistero. Da attore, da uno che per mestiere studia il comportamento altrui, confesso che ero convinto che dopo la vittoria sarebbe completamente cambiato. Invece non è stato assolutamente così. Ha vinto ed è rimasto amareggiato e scontroso esattamente come prima.»

    e) Il paese è sull’orlo di una crisi di nervi?

    «Qualcuno l’altro giorno diceva che un presidente da il tono ad un’amministrazione, al proprio governo e che si suppone debba trasmettere una sensazione di responsabilità agli americani, aiutarli a sentirsi sicuri nelle proprie vite. Il presidente dovrebbe darmi la sensazione che il governo si incarica delle priorità che mi permettono di fare la mia vita di cittadino, genitore e lavoratore. Bene, Trump ha l’effetto esattamente contrario. Perfino i suoi supporter sono tesi, pieni di ansia e di dubbi mentre lui accudisce gli interessi e le lobby che lo hanno messo al potere per monetizzare la presidenza. Come la Nra (National Rifle Association), che ora puntualmente vede abrogare quelle poche restrizioni che rimanevano sulle armi da fuoco per ottimizzare le vendite. Di questo si tratta: affari.»

    f) Il fratello sostenitore di Trump

    «Con mio fratello Stephen non ci vediamo molto spesso oggigiorno. Forse lui passa più tempo con la sua nuova famiglia – quella che vive a Trump Tower. Il fatto è che lui rappresenta molto bene quella categoria di elettore. Non ha finito l’università e ora bazzica la gente che ama le risposte semplici alle cose. Non gli interessa il relativismo e le sfumature. Vogliono risposte facili, nette alle complicate questioni cui andiamo incontro in questo paese e nel mondo. Problemi che implicano che gli americani sappiano fare qualche sacrificio. Si parla sempre della produttività degli Americani di quanto lavorino sempre di più, a costo di ogni felicità, per mantenere un livello di vita e di consumo. Quello che ci vorrebbe invece sarebbe una leadership in grado di convincerli a rinunciare a certe cose per poter sistemare il bilancio, investire nella sanità pubblica e nell’infrastruttura necessaria. Credo percò che molti americani non ci pensino nemmeno. Come si diceva ai tempi di Jonshon “vogliono il burro e le pistole”. Porsi nel mondo con un esercito potente, armato fino ai denti e influire sul destino altrui. Poi ci sorprende se siamo in deficit. Ci vorrebbe un presidente che aiuti la gente a rendersi conto del punto in cui ci troviamo e delle cause reali. Altrimenti ci si mette poco a scivolare in fretta verso il basso. Basta una serie di poche decisioni infelici e ti ritrovi nei libri di storia. Come è accaduto all’Inghilterra o altre potenze decadute.»

  12. …anch’io ringrazio Cristiana per la segnalazione del libro di J. Butler “L’alleanza dei corpi”, che mi avvio a leggere…anche Ennio per per i chiari appunti sui Totalitarismi del Novecento…

  13. Premetto, a scanso di equivoci, che non sono una sostenitrice di Trump.
    Non uso il termine ‘trumpina’ onde evitare associazioni salaci la cui tipologia pare essere un ‘classico’ nell’ambiente clintoniano sulla scia lasciata da Monika Lewinsky e a finire con la proposta-premio fatta da Veronica Ciccone, alias Madonna, a coloro che avrebbero votato per la Clinton.
    Quindi, più che ‘prendere parte’, vorrei fare alcune considerazioni a partire dalle citazioni di Salzarulo, davvero stimolanti:
    a)*La psicanalisi fornisce dei modelli di funzionamento della mente. Può aiutarci a capire di che pasta psichica sono fatti i tanti osannati leader e perché conquistano ammiratori*.
    b) * Le caratteristiche del pensiero magico […] rispecchiano tutte l’utilizzo della fantasia onnipotente al fine di creare l’illusione […] di non essere soggetti alle stesse leggi che vengono applicate agli altri […].*

    Parlare dunque di psicoanalisi, in questo caso del rapporto tra i gruppi e il loro leader, non significa mettere in secondo piano l’analisi sociale, politica ed economica. Questa si configura come l’altra gamba – accanto a quella emotiva – su cui si appoggia il passo del mondo (anche se abbastanza sgangheratamente).
    Mi scuso se mi dilungherò un po’.
    Poiché si tratta di ‘rapporti’, di ‘relazioni’, dobbiamo considerare che la pasta ‘psichica’ di cui sono fatti i leader (il cui ventaglio comprende non solo i Trump) è anche frutto delle proiezioni dei cosiddetti ammiratori i quali, in una situazione di grande confusione come l’attuale, non si presentano come gruppi ‘omogenei’ (ad esempio, una ‘classe’) e nemmeno organizzati da una disciplina o un credo comunemente condivisi, bensì come portatori di tipologie disarticolate sia in orizzontale che in verticale. Le loro presunte affinità sono, il più delle volte, il costrutto di mirate operazioni massmediatiche destinate a mutare non appena venti di paura, che indossano le casacche note di comunismo e nazismo (e terrorismo come ultima trovata, summa di ogni barbarie), si affacciano alla scena. Le minacce di ‘venti di guerra’ fanno il resto. (**)
    Casacche fantasma dalle quali non ci si è liberati; con cui non si sono mai fatti davvero i conti perché, novelli Amleto, fa sempre comodo avere qualcuno da accusare per la ‘morte del padre’, o per mantenere la fantasia onnipotente che non siamo debitori nei confronti di nessuno e che ci siamo creati da soli. Ovviamente sto parlando dell’uso ideologico dei termini in questione.
    Sarebbe infatti da chiederci quanti dei cosiddetti ‘ammiratori’ (o elettori) di Trump sarebbero disposti a voltare gabbana. Italia docet.
    Perché il fine è più quello di prendere il potere che non di portare avanti l’espressione di una analisi mirata della società nel suo complesso e non di singoli spezzoni di essa.
    Come ho detto, costoro fanno parte di un gruppo sociale più o meno variegato, di difficile catalogazione secondo le vecchie categorie di ‘classe’ e non saranno certo le statistiche ad esserci di aiuto nell’analisi. Si tratta di gruppi che, pur rispondendo a spinte sollecitate da sentimenti di disagio, di ribellione, di desiderio di un cambiamento, mescolano il tutto in un pot-pourri dove ogni senso della politica (sia pure con le sue contraddizioni) è andato perduto e sostituito dall’idea di prendere il potere nell’illusione di poter produrre, attraverso quello, il cambiamento agognato.
    In questo modo viene ‘abolita’ anche l’idea ‘democratica’ di ‘opposizione’. Ad esempio, perché ‘democraticamente’ si lascia correre Trump per le presidenziali ma non si accetta che possa vincere? Allora è una partita truccata! ? Però ‘democraticamente’!
    Mia domanda a latere: e se parte degli stessi che hanno votato Trump avesse invece votato la Clinton, agli occhi del politically correct sarebbero automaticamente diventati capaci di intelligere, si sarebbero trasformate le loro coscienze?

    Sappiamo che la paura va ad attingere e a stimolare ansie primitive di tipo psicotico e di splitting per cui vengono scisse, e rovesciate sugli altri, parti di sé vissute come aspetti insostenibili. Per questi motivi accade che “più disturbato è il gruppo e più sono facilmente rintracciabili queste fantasie e questi meccanismi primitivi; mentre più stabile è il gruppo, più esso corrisponde alla descrizione che Freud dà del gruppo come ripetizione del gruppo familiare e di meccanismi nevrotici”. (W. R. Bion, 1961).
    Ma chi (e come) ha ridotto le popolazioni a vivere in uno stato di perenne paura?

    Gli studi di Freud avevano per oggetto l’individuo – le vicissitudini interne, le motivazioni inconsce che lo agitavano – e solo in tempo successivo si dilatarono all’osservazione delle dinamiche che intervenivano tra l’Io e il gruppo (“Totem e tabù” (1913), “Psicologia di massa e analisi dell’Io” (1920) e il “Disagio della civiltà” (1927).)
    Intuì, comunque, che il gruppo è portatore di forze regressive che erano in grado di condizionare l’individuo e il suo sviluppo per cui anche persone mature e creative, una volta riunite, possono dare luogo a forme di gruppificazione altamente patologiche sotto la veste di perniciose aristocrazie.
    Mantenne comunque l’idea dell’importanza/necessità emotiva di una leadership su cui le masse riversano il loro Ideale dell’Io, ovvero quelle capacità e idealità che loro, come singoli individui, non sono in grado di raggiungere.
    Il capo diventa dunque il serbatoio dell’Ideale dell’Io di ogni individuo, il quale fa delega al capo di ogni sua facoltà critica. Nel contempo, questo comune Ideale dell’Io, legando ogni singolo membro del gruppo al capo, ne determina i rapporti reciproci in quanto, attraverso l’attaccamento al capo, essi membri si identificano l’uno con l’altro.
    Freud, avendo comunque in mente le dinamiche legate allo sviluppo dell’Io – che consiste nel prendere le distanze dal narcisismo primario investendo la libido narcisistica sull’Ideale dell’Io imposto dall’esterno, dalla realtà sociale – utilizza il concetto di Ideale dell’Io come concetto-ponte per la comprensione della psicologia delle masse. “Esso è l’Ideale che accomuna una famiglia, un ceto, una nazione” (Freud, 1914, “Introduzione al narcisismo”).
    Rappresenta in questo modo l’espressione di una crescita attraverso forme sublimatorie che portano a prendere le distanze dagli ‘stadi primitivi’ della mente.

    W. R. Bion, invece, attraverso l’analisi dei gruppi (che funzionano come totalità e non come aggregati di individui), osserva come in essi vengano utilizzate forme di difesa arcaiche, le quali comportano la presenza di nuclei psicotici che frenano il progresso del gruppo e la sua maturazione. Ed è proprio questo tipo di difese primitive a produrre forme di aggregazione finalizzate a contrastare il cambiamento.
    In questi gruppi, soprattutto quando rispecchiano uno ‘stadio primitivo’, può sembrare che all’interno regni l’uguaglianza e che non vi siano divieti mentre in realtà non vi è capacità di discriminazione; non vi sono conflitti perché realmente non sono state percepite differenze (cfr. W. R. Bion, 1970). I sentimenti di invidia e di persecutorietà, tipici di quello stadio, la minaccia di espulsione e il timore della catastrofe imminente, anziché trovare delle strade di elaborazione, vengono inglobati o nel vissuto fusionale (siamo tutti uguali), oppure messianico (qualcuno, o qualche cosa ci salverà), oppure di attacco e fuga (il nemico è sempre esterno).
    Secondo Bion, dunque, (a differenza di quanto sostenuto da Freud) il leader (Capo carismatico, Messia oppure Duce autoritario) non è che il portato, il rappresentante, delle parti più regressive, disgregate e disgreganti del gruppo di riferimento le quali, attraverso il capo, scaricano, legittimandolo, il loro disturbo.
    In una situazione di questo tipo, trionfano gli aspetti narcisistici e perversi. L’importanza dell’immagine, per le sue caratteristiche di immediatezza, viene anteposta a quella della parola, necessitata invece a confrontarsi con il tempo del vuoto.
    Ciò che allora sembra necessario è il passaggio dallo ‘stadio primitivo’ allo ‘stadio della discriminazione’. Questa transizione implica però l’uso del pensiero non come strumento magico oppure come mezzo di contatto sensoriale e di riassicurazione, ma come “griglia vuota”: un pensiero non vincolato alla colpa e alla angoscia di distruzione; un pensiero che non si sottrae al dubbio saturandolo con una risposta già immagazzinata nella memoria, o anticipandone una che esprime soprattutto il bisogno di riacquistare sicurezza. Con questa pausa di “vuoto” il pensiero acquista i tratti della coscienza ed in particolare l’elasticità e la capacità di autosvilupparsi. Nello stesso tempo perde l’onniscienza, cioè la presenza di una risposta ad ogni domanda, e l’onnipotenza cioè il rapporto automatico tra stimolazione e azione (cfr. J. Lotman, 1978, pag. 58).

    Ma qui veniamo alla seconda osservazione di Salzarulo rispetto al pensiero magico.
    *Le caratteristiche del pensiero magico […] rispecchiano tutte l’utilizzo della fantasia onnipotente al fine di creare l’illusione […] di non essere soggetti alle stesse leggi che vengono applicate agli altri […].*
    Ma *l’illusione di non essere soggetti alle stesse leggi che vengono applicate agli altri* è l’effetto. L’origine della fantasia onnipotente del pensiero magico riguarda una realtà considerata inaccettabile e si rende quindi impossibile l’accesso a future relazioni.
    Appunto come premette lo stesso Ogden quando afferma: * il pensiero magico ha un obiettivo e uno soltanto: evitare di affrontare la realtà della propria esperienza interna ed esterna*. Dove per realtà interna si intende anche regolarsi con le proprie convinzioni e le proprie ideologie.

    Prendendo spunto da quanto scritto dallo stimato ‘amico’ Ogden (se “il pensiero deriva dal bisogno umano di conoscere la verità” e si sviluppa per far fronte alla disturbante esperienza emotiva e, per far questo percorso, occorrono sempre due menti) ci rendiamo conto di come oggi, invece, siamo di fronte ad una autarchia del pensiero, ad un pensiero unico che, pur proclamando il dialogo, non accetta contraddittorio.
    A partire dal dopoguerra, si è venuta a creare una specie di aristocrazia intellettuale depositaria del ‘giusto pensiero’ (quasi una investitura divina), ragion per cui – come nella fase di stadio primitivo della mente (dove non c’è un confronto reale tra il dio e l’uomo, perché una tale distinzione non esiste realmente) – il divario tra l’uomo e Dio viene trasformato nell’uomo che diventa il portatore del “ipse dixit”. Allo stesso tempo, la divisione individuale tra sé e sé, la distinzione tra gruppo idealizzato e ordinario non sono presenti né ritenute necessarie (Bion in “Attenzione e interpretazione”).
    Eppure si tratta di elementi di discriminazione che diventano acquisizioni fondamentali per la crescita e lo sviluppo.

    Ci sono molte forme di pensiero magico che fanno comunque capo ad un “si può”, onnipotente:
    – “Si può far la guerra per scopi giusti/Si può siamo autentici pacifisti, si può./Si può trasgredire qualsiasi mito/ Si può invaghirsi di un travestito/Si può fare i giovani a sessant’anni/Si può far riesplodere il sesso ai nonni, si può” (Ballata tragica di G. Gaber)
    – “Yes, Y can” (W. Veltroni)
    – Rottamare senza proporre una alternativa, se non fumosa, di generiche riforme. (Il ‘giglio magico” renziano)
    – L’idea di poter distruggere impunemente (‘guerra giusta’): dopo di che c’è tutto un giro di affari, investimenti per la ricostruzione (di che tipo? e a vantaggio di chi?), con gli interessi e le spartizioni di poteri, con le ONLUS…
    – Il guerrafondaismo dei Clinton e l’autarchia onnipotente di Trump.
    Però, quale che sia il filone, alla base c’è sempre una situazione di regresso ad un ‘non-pensiero’.
    Ma la domanda è: come si è arrivati a questo degrado culturale?
    Ci sarà una qualche responsabilità oppure funziona come la tarantella “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto…/chi ha dato, ha dato, ha dato…/scurdámmoce ‘o ppassato,/simmo ‘e Napule paisá!…”.

    ** Notizie del 7.4.17 (senza commenti!)

    Il ‘paladino’ Trump che fa il lavoro ‘sporco’ al posto di Obama. “Trump ha fatto ciò che Obama aveva promesso” (Caracciolo).

    Siria: 59 missili USA contro base aerea dei raid chimici. Trump: “Mondo sia con noi”.
    La reazione americana per la strage di Khan Sheikhoun in cui martedì mattina sono morte più di 80 persone, fra cui 28 bambini, è arrivata poco dopo le 20.40 ora di New York (le 2.20 in Italia).
    Prima di colpire, riferiscono fonti del Pentagono ai media USA, i russi sono stati avvertiti, così come confermato dal portavoce del Cremlino Dmitri Perkov. “Ci sono russi alla base e abbiamo adottato precauzioni straordinarie per non colpire l’area in cui si trovano”, spiega Jeff Davis, portavoce da Washington.
    L’ira di Putin: “Washington ha compiuto un atto di aggressione contro uno Stato sovrano”.

    R.S.

  14. @ Simonitto

    Se ripenso alla mia esperienza di militante o a quella fatta nei vari gruppi a cui ho partecipato (d’insegnanti a scuola, di poeti e poetanti, di intellettuali – spesso “periferici” – promotori di riviste), non posso che condividere gli avvertimenti di Rita [Simonitto].
    Questi suoi saperi psicanalitici sono anche per me gli unici veri antidoti da usare all’occorrenza per non lasciarsi ipnotizzare dalle «forze regressive», che ho avuto modo di sentire all’opera in ogni collettivo ( ma penso anche in me stesso e sia quando agisco “da solo” sia quando opero con altri).

    In alcuni di questi gruppi ho svolto varie volte il ruolo di leader. E ho trovato il compito faticoso e insidioso. Quella «importanza/necessità emotiva di una leadership» è a conti fatti impossibile da negare. Ma guai a semplificarla, ad autocompiacersene, ad affezionarsi ad essa, facendone il proprio abito da indossare in modo fisso, pur di tenere in vita il gruppo …
    Ho tentato sempre (senza molto successo, devo dire) di essere un leader critico e criticabile; e dunque di contrastare la delega “spontanea” delle facoltà critiche del singolo partecipante al gruppo. Gli amici plaudenti o lodanti mi infastidiscono: mi pare che perdono e mi fanno perdere tempo, distraendosi o distraendomi dai problemi irrisolti.

    Ho pure contrastato la tendenza del gruppo a chiudersi in sé o ad aprirsi acriticamente anche a chi nel gruppo porta veleni più che critiche (ammetto che non è facile distinguere le due cose). E sono stato sempre ostile alle espulsioni dei “rompicoglioni” di turno (forse perché lo sono spesso io, ma anche perché lo stimolo intellettuale ed emotivo che arriva da un “rompicoglioni” è più chiaro e a volte produttivo degli indecifrabili “silenti”…).
    Su quest’ultimo aspetto fin dal ’68 mi apri gli occhi uno scritto di Elvio Fachinelli, «GRUPPO CHIUSO O GRUPPO APERTO? », che ho continuamente riproposto in tutta la sua problematicità: http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/11/ennio-abate-riflessione-di-un.html) ma in un duello costante con l’altro scritto – a questo in parte antagonista e in parte complementare secondo me – di Fortini («Il dissenso e l’autorità» ( Quaderni Picentini, n.34, 1968).

    In conclusione, mi pare che il rapporto io/noi si possa vivere solo in modi inquieti e facendo il possibile (senza illudersi in pacificazioni e rasserenamenti definitivi) per tenere aperta la dialettica sempre contraddittoria e senza soluzioni sicure che lo caratterizza. ( Un po’ come per la faccenda del ‘comunismo’ nella versione fortiniana…).

    Ho sentito sempre con forza il richiamo alla dimensione che chiamerei “monacale” e però anche quello a “fare gruppo”. Una volta m’ero persino raffigurato una immaginaria e impossibile alleanza tra Kafka e Lenin. Non sono mai stato affascinato dai modelli autoritari del Capo carismatico, del Messia o del Duce (e questo ben prima di sapere qualcosa di Bion o di Adorno). Ma, se si evitano questi modelli, so che è davvero arduo non diventare « il portato, il rappresentante, delle parti più regressive, disgregate e disgreganti del gruppo di riferimento le quali, attraverso il capo, scaricano, legittimandolo, il loro disturbo». Il Capo è odiato ma temuto. Ma chi, senza cedere alla mistificazione del “siamo tutti capi”, si fa carico della funzione di leader con criticità, appare spesso “leader debole” e diventa di solito il parafulmine degli odi e delle invidie che il Capo, odiato ma temuto, riesce a schivare o a non far esprimere. Quelle «difese arcaiche» vogliono soprattutto e solo il Capo? E sono, saranno immodificabili?

    P.s.
    Questa problematica si è affacciata nel mio tentativo di “narratorio”. Eccone un esempio da «Unio», che avevo già pubblicato:

    «Ora osserviamo Unio proprio mentre, come tanti suoi coetanei risvegliati dal ’68, segue un congresso politico della Compagnia, in cui è entrato volenteroso apprendista politico. S’è forzato non poco. Ha messo da parte libri di religione, letteratura, poesia e arte che gli occupavano la mente. E vuole crescere – la maturità è tutto, come diceva il Piemontese del mestiere di vivere – occupandosi di politica. Con l’ansia, sospetta per noi che lo conosciamo, di chi sente di aver perso tempo o addirittura di essere corso dietro favole popolari. È l’ora del materialismo scientifico. Tenete presente che fino ad allora aveva sempre guardato le faccende politiche con disinteresse. O con la coda dell’occhio, quasi pezzo di un paesaggio in ombra. Non diciamo che le ombre non vanno a un certo punto diradate. Per quel che è possibile. Ma che fa in fondo la Compagnia in cui è entrato? Dopo la sfuriata in cui tutti hanno parlato di rivoluzione, s’è organizzata per imporre all’attenzione degli elettori tre sui dirigenti abbastanza in vista. Tutto qua. C’è da entusiasmarsi? Qualcuno già li chiama le tre volpi. Sono lì. Si aggirano solenni e seri nel salone fra i partecipanti al congresso. Quello che gira pavoneggiandosi di più è il primo delle tre volpi. Ha sul capo un cappuccio medioevale, come quelli che usano a Granada durante la processione della settimana santa. Sopra sta scritto: io sono il capo. Poi si fanno notare anche altri dirigenti. Sono quelli fuori dal giro delle tre volpi. Ma anche loro, sulla fronte però, portano scritto: io desidero essere il capo. E attorno a loro tanti giovani che discutono in modi accaniti, ma superficiali. Un’accolita di ambiziosi e confusionari, pensa deluso Unio. Vorrebbe rimproverarli. E sa anche che dovrebbe rimproverare se stesso. Ma ora sul palco è salito un dirigente di secondo piano, un bonaccione accomodante e cauto. Presiederà il congresso. Ma subito è in difficoltà. Deve difendersi da un’accusa infamante: si sarebbe appropriato del danaro della Compagnia. Tutti sanno che è una falsità. Ma a muovere l’accusa contro di lui, sono dirigenti ben più potenti di lui, coalizzatisi per liquidarlo. E nessuno nella Compagnia osa fiatare. Unio vorrebbe gridare: Perché vi mettete tanto facilmente dalla parte delle tre volpi, che è dopotutto solo una fazione della Compagnia e nemmeno ascoltate più le ragioni degli oppositori? Ma è troppo tardi. I giochi sono stati fatti. E lui con la sua preparazione politica da apprendista non conta proprio nulla.».

  15. Rita Simonitto, 7 aprile, 22.06: “Parlare dunque di psicoanalisi, in questo caso del rapporto tra i gruppi e il loro leader, non significa mettere in secondo piano l’analisi sociale, politica ed economica. Questa si configura come l’altra gamba – accanto a quella emotiva – su cui si appoggia il passo del mondo (anche se abbastanza sgangheratamente).”
    Non solo Rita spiega nel suo commento il rapporto tra i gruppi e i loro leaders, ma legge anche una intera fase storica, cioè quella “a partire dal dopoguerra”, con quel discorso psicanalitico.
    Mi sembra però impossibile contenere in un discorso psicoanalitico gruppo-leader sia il protagonismo politico popolare sia la conflittualità tra i gruppi dirigenti.
    Per applicare ai conflitti politici a cui stiamo assistendo negli ultimi mesi – la Brexit, le elezioni americane, gli avvenimenti in Italia, le prossime elezioni in Francia, ecc – il discorso gruppo-leader Rita individua *elettori* o *spezzoni di società* (resi affini con “mirate operazioni massmediatiche”) e li identifica come gruppi. A questo punto è il discorso di Bion, le pulsioni primitive riversate sul leader, a coprire il campo della politica. Questo mi sembra una forzatura.
    Possibile che la crisi del sistema rappresentativo e la crisi della sinistra globalista; i movimenti populisti che hanno bisogno di un leader ma anche di alleanze e di performatività politica; lo svelamento del globalismo come ideologia della mondializzazione economica; possibile che queste questioni storiche e politiche possano essere interpretate a partire dall’argomento: le “parti più regressive, disgregate e disgreganti del gruppo di riferimento le quali, attraverso il capo, scaricano, legittimandolo, il loro disturbo”?
    Il commento successivo di Ennio Abate riguarda invece la conflittualità interna a gruppi selezionati e élitari (“d’insegnanti a scuola, di poeti e poetanti, di intellettuali – spesso ‘periferici’ – promotori di riviste”), non il rapporto tra elettori e i leader.
    Il passaggio tra le dinamiche in questo tipo di gruppi e le dinamiche tra masse -o gruppi sociali di votanti- e loro leaders è garantito forse dall’idea leninista e gramsciana dell’intellettuale sineddoche della classe.
    In ambedue i casi comunque si prende in considerazione la verticalità del rapporto gruppo-leader e meno l’orizzontalità delle relazioni. “Prendendo spunto da quanto scritto dallo stimato ‘amico’ Ogden (se ‘il pensiero deriva dal bisogno umano di conoscere la verità’ e si sviluppa per far fronte alla disturbante esperienza emotiva e, per far questo percorso, occorrono sempre due menti) ci rendiamo conto di come oggi, invece, siamo di fronte ad una autarchia del pensiero, ad un pensiero unico che, pur proclamando il dialogo, non accetta contraddittorio”, scrive Rita. E la seconda gamba dell’analisi sociale, politica ed economica, rischia di diventare la gamba fantasma amputata…

  16. @ Ennio
    del pertinente commento – che parte dalla esperienza personale – selezionerei questo punto che mi sembra molto importante:

    *In alcuni di questi gruppi ho svolto varie volte il ruolo di leader. E ho trovato il compito faticoso e insidioso. Quella «importanza/necessità emotiva di una leadership» è a conti fatti impossibile da negare. Ma guai a semplificarla, ad autocompiacersene, ad affezionarsi ad essa, facendone il proprio abito da indossare in modo fisso, pur di tenere in vita il gruppo …* (Ennio 15.04 h. 18.47)

    Da questo osservatorio, e dalle riflessioni che ne sono seguite, ci rendiamo conto che la ‘conoscenza’ non sempre ci permette di evitare che i fatti accadano – non tutto dipende da noi -, bensì, se possibile, di poterci orientare al meglio. Ed è proprio per questa ragione che il compito diventa *faticoso e insidioso*.
    Anch’io, nelle sia pur diverse esperienze gruppali, ho sperimentato analoghe difficoltà soprattutto in merito al dilemma di *tenere in vita il gruppo*.

    Condivido perciò pienamente la conclusione: *In conclusione, mi pare che il rapporto io/noi si possa vivere solo in modi inquieti e facendo il possibile (senza illudersi in pacificazioni e rasserenamenti definitivi) per tenere aperta la dialettica sempre contraddittoria e senza soluzioni sicure che lo caratterizza. ( Un po’ come per la faccenda del ‘comunismo’ nella versione fortiniana…).*

    @ Cristiana

    Seleziono i due seguenti passi (Cristiana, 17.04.2017) in merito alla cosiddetta *forzatura* (Sub A) e alla ipotizzata incongruenza tra lettura teorica psicoanalitica e questione storico (Sub B).
    Nonché (punto 2), l’ipotesi di una possibile composizione tra verticalità e orizzontalità delle relazioni.
    Cito i punti e poi rispondo cumulativamente.

    Punto 1) *Per applicare ai conflitti politici a cui stiamo assistendo negli ultimi mesi – la Brexit, le elezioni americane, gli avvenimenti in Italia, le prossime elezioni in Francia, ecc – il discorso gruppo-leader Rita individua *elettori* o *spezzoni di società* (resi affini con “mirate operazioni massmediatiche”) e li identifica come gruppi.
    (Sub A): A questo punto è il discorso di Bion, le pulsioni primitive riversate sul leader, a coprire il campo della politica. Questo mi sembra una forzatura.
    Possibile che la crisi del sistema rappresentativo e la crisi della sinistra globalista; i movimenti populisti che hanno bisogno di un leader ma anche di alleanze e di performatività politica;
    (Sub B): lo svelamento del globalismo come ideologia della mondializzazione economica; possibile che queste questioni storiche e politiche possano essere interpretate a partire dall’argomento: le “parti più regressive, disgregate e disgreganti del gruppo di riferimento le quali, attraverso il capo, scaricano, legittimandolo, il loro disturbo”?

    2) Il passaggio tra le dinamiche in questo tipo di gruppi e le dinamiche tra masse -o gruppi sociali di votanti- e loro leaders è garantito forse dall’idea leninista e gramsciana dell’intellettuale sineddoche della classe.
    In ambedue i casi comunque si prende in considerazione la verticalità del rapporto gruppo-leader e meno l’orizzontalità delle relazioni

    Rita: preciso subito che le ‘semplificazioni’, al pari delle teorie più sofisticate, sono sempre delle ‘falsificazioni’ in quanto contemplano – ça va sans dire – spezzoni di realtà che, per quanto significativi possano essere, sono sempre ‘parziali’. Anche per questa ragione è importante l’apporto di altri punti di vista, di altre angolazioni. Ma ciò non significa, allora, che tutti possono dire tutto. Avere il diritto alla parola non significa automaticamente che quella parola dovrà essere presa in considerazione come fondativa: oltre che creare confusione, sarebbe anche assumere una posizione delirante. Possiamo affermare che potrà avere il suo peso in un determinato contesto ma che poi dovrà aggiornarsi con i cambiamenti dei contesti stessi. Altrimenti neghiamo che possano esserci delle trasformazioni (pur mantenendosi delle permanenze).

    Per quanto ci sia la tendenza del pensiero verso la verità, nessuno è depositario della stessa.
    Ogden chiama ‘bisogno’ questo movimento: a me sembra un termine forte, connotato troppo a ridosso di quella ‘materialità’ che contraddistingue i nostri ‘bisogni’ vitali a coté dell’organico. Non si può né vivere, né sopravvivere, senza respirare, nutrirsi, evacuare. Ma si può sopravvivere anche senza ‘pensare’, inteso come nutrimento della psiche. E l’osservazione della realtà attuale ce lo conferma pianamente.
    D’altra parte, questo fu un grosso errore dell’intellighenzia di sinistra la quale, a partire dall’ipotesi ‘comunista’ e sentendosi – a torto o a ragione – depositaria dei destini del mondo, pur di mantenere quella posizione (di investitura di potere) sbracò nel riformismo più bieco.
    Avere il mandato da qualcuno non significa soltanto avere il potere ma anche la capacità di gestirlo, la responsabilità di sapersi destreggiare proprio con quella parte inconsapevole che è stata proiettata dai mandanti. I quali possono avere delle aspettative diverse rispetto a quelle che inizialmente li avevano portati a quella scelta.
    Ed è proprio perché si tratta di confrontarsi con una ‘parte’ inconsapevole, la gestione diventa più problematica.
    Piccolo excursus ironico: avevamo giurato che non saremmo morti democristiani! A cento anni di distanza ci troviamo ancora tra i piedi la gestione di una legge elettorale (nuovo patto Gentiloni? **) mirata non tanto a sostenere un programma politico quanto alla gestione dei voti.
    Quando infatti, qualche anno fa, avevano chiesto a Paolo Gentiloni (attuale Presidente del Consiglio dei Ministri) cosa occorresse di più al Pd, lui rispose chiaramente: “Il pensiero liberale: nel partito democratico ci saranno sia eredi di una cultura comunista che è stata sconfitta dalla storia, sia militanti di una cultura cattolica che ha avuto torti e ragioni. Possibile che manchino interpreti di quella liberale, che ha vinto la battaglia culturale del Novecento? Cercansi disperatamente – concludeva – interpreti della cultura liberale”.
    Perciò, rispetto a quanti pensano di essere i depositari di verità, giustizia e conoscenza, è proprio vero che gli dei mandano la superbia a coloro che vogliono perdere.
    Un po’ di memoria storica, no?

    Quanto al riferimento sottolineato da Cristiana: le “parti più regressive, disgregate e disgreganti del gruppo di riferimento le quali, attraverso il capo, scaricano, legittimandolo, il loro disturbo”, mi è venuta alla mente la fiaba di H. C. Andersen, “I vestiti nuovi dell’Imperatore”.
    Quando l’Imperatore gira nudo per le strade atteggiandosi come se fosse addobbato di un abito straordinario, i sudditi applaudono. Per paura? Per abitudine? Oppure perché necessitano di proiettare su di lui quella magnificenza (fasulla) di cui loro si sentono deprivati? Il loro vissuto di impotenza, anziché essere elaborato e ricondotto ad una analisi di realtà, viene negato tout court e l’onnipotenza perduta viene proiettata su falsi portatori.

    ** liberamente tratto da Wikipedia
    La locuzione “patto Gentiloni” indica un accordo politico informale intervenuto tra i liberali di G. Giolitti e l’Unione Elettorale Cattolica Italiana (U.E.C.I), presieduta dal Conte Vincenzo Ottorino Gentiloni, accordo le cui basi furono poste nel 1909 da Pio X con la creazione di una associazione laicale con il compito di indirizzare i cattolici italiani impegnati in politica, e che divenne operativo nelle elezioni politiche del 1913 in cui diversi cattolici si candidarono nelle liste liberali giolittiane.
    Il risultato fu che furono eletti 21 “deputati cattolici” nelle liste di Giolitti. Il fine fu quello di fermare l’avanzata socialista, marxista e anarchica.
    Non dimentichiamo che Giolitti aveva acconsentito ad una riforma elettorale (ampliando il numero degli aventi diritto al voto) come contropartita da pagare ai socialisti di Leonida Bissolati per l’appoggio ottenuto durante la guerra italo-turca.
    Ma essendo la maggioranza degli elettori operai e di estrazione popolare, si temeva una maggioranza guidata dal partito socialista, che all’epoca comprendeva anche posizioni massimaliste e anarcoidi, oggi diremmo populiste.
    In questo senso, l’azione di Vincenzo Gentiloni fu decisiva per consentire di affrontare la nuova legge elettorale, collegio per collegio, con lo scopo di far perdere i socialisti.

    R.S.

  17. Due buoni consigli: siate prudenti come serpenti e semplici come colombe. Ma guardatevi dagli uomini.

  18. SEGNALAZIONE

    ll rovescio della libertà
    di Massimo De Carolis
    (https://sinistrainrete.info/filosofia/9593-massimo-de-carolis-il-rovescio-della-liberta.html)

    Ho trovato la lettura dell’introduzione di Massimo De Carolis al suo «Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà» (Quodlibet) davvero ricca di stimoli. La segnalo in questo post per la trattazione profonda e critica (rispetto alle banalità ottimistiche di Paolo Gentiloni, riportate da Simonitto) sia del pensiero liberale e sia della questione di come rapportarsi alla «‘parte’ inconsapevole» delle società ( alias questione delle masse, egemonia gramsciana, etc.).
    Purtroppo non riuscirò a leggere questo libro e mi limito a una selezione dei brani dell’introduzione che mi sono parsi più acuti, sperando d’invogliare qualcuno/a dei redattori o commentatori di Poliscritture a scriverne. [E. A.]

    Stralci:

    1.
    La tesi [di Massimo De Carolis] è che a spingere, ai nostri giorni, il neoliberalismo verso il suo inesorabile tramonto non siano le urgenze economiche o gli equilibri politici fluttuanti, ma principalmente la sua incapacità di riconoscere, capire e governare fino in fondo proprio la dimensione antropologica primaria che esso stesso ha contribuito a far emergere. La neoliberalizzazione della società, in altre parole, ha finito col generare un mondo che né le teorie, né i metodi di calcolo né le strategie politiche messe a punto dal neoliberalismo sono minimamente in grado di descrivere e capire. E non per un qualche difetto contingente, ma per un limite intrinseco, un vero e proprio «punto cieco» da cui il progetto neoliberale era segnato fin dal primo momento.

    2.
    la ricerca ruota essenzialmente intorno a due interrogativi. In primo luogo: qual è il problema epocale che i neoliberali riescono a intercettare e a cogliere, con uno sguardo forse parziale e indiretto ma comunque più efficace, alla prova dei fatti, rispetto a ogni altro soggetto politico attivo, all’epoca, sullo scenario globale? E, in secondo luogo, qual è il punto cieco, il limite di questa visione, tanto profondo, a quanto pare, da condannare oggi il neoliberalismo a un inglorioso tramonto?

    3.
    I neoliberali furono tra i primi a convincersi non solo dell’irreversibilità dell’evoluzione in atto, ma anche della necessità di affrontare il problema alla radice, spingendosi a immaginare un meccanismo di civilizzazione davvero alternativo a quello di Hobbes, che non si concepisse più come una negazione dello stato di natura ma, all’opposto, come un suo progressivo governo dall’interno. E furono gli unici, a mio parere, a tradurre questa intuizione in un progetto coerente, capace di non ripiegare, di fronte alla prova dei fatti, su una versione più o meno edulcorata della macchina sovrana messa a punto nel Leviatano.

    4.
    il primo tentativo «filosofico» di offrire una risposta alla crisi: la teoria della volontà di potenza che Nietzsche si sforzò, senza successo, di mettere a punto nei suoi ultimi anni di lucidità. Rileggendo, ora, gli appunti postumi di Nietzsche, ci si accorge che la maggiore difficoltà della teoria è quella di dover cucire insieme due accezioni della «potenzialità» sicuramente legate tra loro, ma di fatto sostanzialmente diverse. Da un lato, l’accezione assoluta del termine «potenza», intesa come generica forza creativa, assimilabile alla «potenza di agire» di Spinoza; dall’altro, l’accezione relativa: la potenza esercitabile su qualcun altro, che nel linguaggio ordinario è espressa in genere con la parola «potere». È chiaro che le due cose non sono equivalenti, già solo per il motivo banale che una crescita del potere relativo, all’interno di una società, si accompagna, di regola, a una maggiore dipendenza di chi il potere lo subisce, per cui il risultato include una diminuzione – quanto meno relativa – della «potenza di agire» complessiva del sistema. D’altro canto, i due aspetti non sono nemmeno del tutto scindibili l’uno dall’altro, perché nel profondo rispondono a una stessa istanza basilare: aumentare il controllo sul mondo e ridurre, così, l’incertezza, il pericolo e l’imprevedibilità del futuro.

    5.
    Contrariamente a quanto lascia intendere lo schema neoliberale, a minacciare l’ordine civile non è insomma l’opposto della libertà ma il suo rovescio: la capriola con cui il governo delle possibilità si capovolge da se stesso nel controllo preventivo delle scelte, fino a esigere la garanzia dell’obbedienza e della fedeltà assoluta

    6.
    neoliberalismo: rifeudalizzazione e pluralismo. Il mondo dischiuso dal tramonto del neoliberalismo – questa, in sintesi, la tesi conclusiva – è dominato dalla tensione interna o, più precisamente, dalla bipolarità fra pluralismo e rifeudalizzazione. E, trattandosi del mondo nel quale dobbiamo vivere, credo sia bene cercare di mettere a fuoco, già in questa introduzione, almeno gli aspetti più significativi dello scenario che si sta delineando.
    In primo luogo, parlo intenzionalmente di bipolarità e non di opposizione o conflitto. Oggi, in effetti, c’è una forte propensione – irriflessa ma ampiamente condivisa – a raffigurarsi la lotta fra pluralismo e rifeudalizzazione nella forma di uno scontro fra due soggetti opposti e nemici: le bandiere arcobaleno contro i drappi neri dell’oscurantismo, la civiltà contro la barbarie. Vedremo invece che il quadro è molto più contorto e che la bipolarità in questione è, di fatto, la traccia di un problema profondo, al quale, per il momento, nessuno dei soggetti in campo è davvero in grado di offrire una risposta univoca e definitiva. Di conseguenza, tutti i soggetti sono attraversati dalla bipolarità al proprio interno, anche se con esiti molto eterogenei, che possono respingere o attrarre le nostre simpatie, a seconda dei casi. Le simpatie, ovviamente, sono del tutto legittime. Purché non rendano ciechi, però, di fronte alla complessità delle cose, come avviene fin troppo spesso, invece, nelle situazioni di alta conflittualità.

Rispondi a cristiana fischer Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *