che nessuno mi tocchi la torta pasqualina!

 

 di Angelo Australi

 

 

La schizofrenia del nuovo millennio si percepisce anche dalle nostre abitudini culinarie, perché ormai si può cucinare una peperonata o delle melanzane alla parmigiana in pieno inverno. Una volta nessuno si sarebbe mai immaginato di mangiare cacciagione fuori dai mesi di apertura della caccia, oggi invece si può avere in tavola capriolo, cinghiale e lepre tutto l’anno. Ci lamentiamo se le stagioni non rispettano il loro corso, ma quando invitiamo a cena degli amici magari di novembre, gli cuciniamo un bel risotto di asparagi. E’ stravolto tutto dentro noi stessi, pretendiamo dalla natura il rispetto delle regole e delle stagioni ma poi, se ci sono ospiti, sembra che non possiamo fare a meno di imbandire la tavola con delle ciliegie o delle fragole a gennaio. Si chiama globalizzazione lo so, questo fatto che le merci devono circolare per creare ricchezza, e siccome la terra è tonda dove c’è l’inverno non è estate, ma credo che questa parola con la quale ci riempiamo la bocca in ogni ora del giorno offuschi la nostra esistenza piena di contraddizioni perché, preoccupati ad affermare noi stessi, rispetto a ciò che avvertiamo una vita quotidiana dalle aspettative, in fondo in fondo, … modeste, desideriamo essere sempre in un posto diverso da quello dove ci troviamo.

E’ così anche per il cibo, credetemi.

Nonostante il concetto di spazio negli ultimi decenni si sia dilatato a dismisura grazie alle scoperte scientifiche viviamo una continua frattura con la dimensione temporale della nostra esistenza, e quello che ci seduce maggiormente è che non possiamo fare a meno di questa contraddizione. Non vado neanche a parlare di quello che c’è dietro a tutto questo a livello psicologico, perché altrimenti mi verrebbe voglia di scagliare giù dalla finestra il computer e lo smartphone, e di andare a stare tra gli aborigeni nei deserti australiani, ammesso e concesso che ancora ce ne viva qualcuno. Ma per guardare avanti è meglio non dare di pazzo, perché dopotutto se la poesia è nella vita, la vita è tutto questo: si lavora, ci si odia o ama anche con gli asparagi sul banco del fruttivendolo nel periodo delle melagrane. In piena centrifugazione schizofrenica devo ammetterlo, non è che cambi niente nei problemi di pancia. E’ assurdo e contraddittorio il mio ragionamento, ma comunque consiglierei di non fidarsi troppo dei moralismi tendenti al populismo. Sembra così impossibile tenere insieme tutto, che spesso raccogliamo dei cocci e li incolliamo. Non possiamo fare altrimenti. La nostra anima nel millennio della cibernetica è spesso trattenuta in questo bisogno ancestrale di provare a incollare dei cocci sparpagliati sul terreno come le stelle nell’universo. Dovunque si guarda o ci sono cocci o ci sono stelle. Diffido per natura di chi ha la bacchetta magica, il nostro presente è un mondo “femmina”, se le esperienze non le metabolizziamo dentro di noi, credo resti poco da decodificare del mistero di una spiritualità interiore portata a creare una sintesi capace di produrre bellezza che va di pari passo con quello che mangiamo, digeriamo, defechiamo. Non si tratta di sesso, e neanche solo di un concetto metaforico, forse c’è dietro qualcosa di più ampio respiro che ci ostiniamo a non voler capire; dopo la seconda guerra mondiale chi mai avrebbe auspicato per esempio, tra le persone semplici, questo caos di conflitti, di esodi e sofferenze di interi popoli in nome di una fede religiosa? La seconda guerra mondiale, nella maggioranza degli individui, è stata subita come oggi subiamo la barbarie di questa deformazione del mondo che ci assale in ogni momento del giorno in cui crediamo sia possibile fare di tutto. Basta restare sulla difensiva, rispedire la pietà al mittente e arroccarsi in un piccolo guscio dove l’io stenta a tradursi in un noi, che il gioco è fatto, ogni autentico viaggio è rimandato a data da stabilire, entrano in scena dei pensieri a contrastare il quotidiano, gli obblighi con delle illusioni, il dovere con il diritto. E quando si parla solo di diritto i populismi sbocciano come i fiori in primavera. Ogni pianta una categoria sociale, ogni fiore germogliato in una pianta un individuo. E le piante di una razza sono tante, diverse l’una dall’altra così come ogni fiore. Chi ci capisce più niente a questo punto?

Tornando al cibo e alle infinite possibilità della globalizzazione, le melanzane oggi ci giungono dalle serre disseminate nella campagna italiana magari a Natale e l’estate dal Marocco perché costa meno raccoglierle, così l’estate noi in serra coltiviamo sedano, finocchi e varie specie di cavoli, che sono ortaggi più tipicamente invernali. Sono il primo a non poterne fare a meno, perché mi faccio condizionare prima di tutto dalle persone con le quali mi sento in sintonia. Se si vuole mantenere un contatto umano si fa quello che tutti fanno, anche se questo aspetto non soddisfa fino in fondo, a onor del vero è meglio così che apparire un palloso rompiscatole con le persone a cui tieni in modo particolare. Assaporiamo delle prelibatezze fuori stagione in uno di questi ristorantini a lume di candela, con la musica jazz e la voce calda di una cantante in sottofondo, o in pizzeria, dove magari la chiassosa sinfonia obbliga ad alzare il tono della voce perché le persone con cui ti trovi capiscano che non sei un marziano. Ci va bene una cosa e l’altra, pur di non sentirsi soli troppo spesso davanti alle aspettative represse dalle tentazioni dei demoni che si riproducono in quel guscio ingannevole dell’io; anche se, in verità, la solitudine non dovrebbe far paura ma avvicinare all’assurdità emozionale, tanto fragile sì, ma anche ricca di folle energia, … e di forza immaginativa.

Ho subito tutte le forme di compromesso dettate da questo mondo fatto di apparizioni assurde, pur di non recidere il cordone ombelicale che avvicina il noi alla vita e alla voglia di scrivere, ma almeno su un paio di cose legate al cibo tutt’ora non accetto compromessi e resto sul soggettivo. Per amore verso me stesso e verso gli altri su queste due cose non posso accettare stravolgimenti epocali, così non mangerò mai formaggio e baccelli se non di aprile/maggio, oppure la torta pasqualina che si cucina in Umbria nelle settimane che precedono la Pasqua. Per la torta pasqualina è semplice perché viene preparata solo in quel particolare periodo dell’anno; siccome è fatta con il formaggio e dopo un certo numero di giorni tende a deteriorarsi, il costo elevato ne sconsiglia la produzione industriale in tempi più lunghi. Purtroppo i baccelli già ai primi di febbraio si trovano nei supermercati; purtroppo perché per me invece sono legati alle prime cene all’aperto che nel mese di maggio annunciano l’estate. Ti sdrai in un prato e aspetti quella che chiamo la mia ora: “il bruzzico”. Il sole ormai tramontato preannuncia la notte sfocando in una campagna arrossata e silenziosa le immagini verso il buio, e quando appare in cielo la prima stella è ancora percepibile il contorno di ogni paesaggio che hai intorno. Quella è l’ora ideale per mangiare “cacio e baccelli”! Un’ora in cui qualche volta ci si può anche innamorare, perché è facile trovare sintonia nelle cose da guardare e nelle poche parole da dire con la persona che hai accanto.  Tu magari guardi verso una collina quella casa bianca che si percepisce chiaramente sul contrasto della notte che arriva minacciosa dai colli ancora più alti, e mangiando “cacio e baccelli” ti rendi conto che anche lei fissa la stessa immagine fuggevole. Inghiotti un sorso di vino a garganella e le fai una carezza sulla guancia. Non servono parole, in casi come questo preferisco offendere dio mentalmente piuttosto che parlare. Non c’è bisogno di nient’altro da quello che hai: l’erba dove sei seduto, il formaggio, i baccelli, il vino, un contorno di formiche a raccogliere le briciole, qualche insetto svolazzante intorno al naso, e poi solo certe ombre capaci di tratteggiare una luce, un velo mentale su quel volto di donna che si raccoglie tutto nel gesto essenziale di un bacio.

La torta pasqualina invece è un sapore legato alla mia infanzia nella campagna umbra. A Pasqua la campagna era di una monotonia assordante, non si faceva che mangiare e abbracciare i parenti venuti da lontano. Io mi consumavo le labbra, baciavo anche le immagini dei morti al cimitero, perché questo era il rito: loro dovevano essere partecipi della nostra gioia. Grazie al ricordo della resurrezione di Gesù Cristo la famiglia per una volta era ancora in grado di riunirsi, fare comunità. In questa noiosa attesa della spigatura del grano, dopo che era stata benedetta dal sacerdote alla messa la notte del sabato santo, non facevo che mangiare una fetta di torta pasqualina dietro l’altra. Il gusto del pecorino romano mescolato alle spezie sradicava ogni altro desiderio. Quelle soffici torte cucinate nel forno a legna erano meravigliose a vedersi! Alte come la cupola del duomo di Firenze, sembravano montagne, sporgenze di tufo o rimasugli vulcanici di un pianeta dove in un futuro avrebbe potuto nascerci la vita. Prima di mangiare la mia fetta ammiravo quella struttura uscita dal recipiente dove magari a luglio, nel periodo della battitura venivano cotti i pici per essere poi strafogati nel sugo di “locio”. Da bambino vincevo sull’ingordigia solo perché i grandi mi ordinavano di smettere, ma da adulto non è mai stato così semplice, per me la torta pasqualina nel sapore ha lo stesso significato di attraversare il regno dei morti come hanno fatto Orfeo, Ulisse e Dante Alighieri, dal quale posso ritornare dopo aver parlato con mia madre, mio padre, i miei nonni, e con un mucchio di persone con le quali magari in vita non ho fatto in tempo a chiarirci degli affetti, dimostrargli tutta la mia stima, o un certo rancore, o una parte insostenibile di odio represso.

Amo vivere la vita come un viaggio pieno di speranza, per questo durante il periodo pasquale, lo giuro, potrei anche morire sotto una montagna di torte pasqualine che mi accingo a mangiare fino a scoppiarne. Magari mi libererò del nemico con una scoreggia come Gargantua, ma potrei anche lasciare in eredità al prossimo il compito di giudicare un’assurda morte per indigestione.

                                                                    

 

8 pensieri su “che nessuno mi tocchi la torta pasqualina!

  1. Che meraviglia! Che bellezza! Che grande capacità di far assaporare al lettore il piacere di certi gusti da fargli schioccare la lingua dalla goduria!
    Ma anche capacità di illustrare, in modo più pregno di tante teorie, il senso di ciò che abbiamo perduto e di ciò che sarebbe bene recuperare.
    Attraverso la metafora del cibo, si viene a parlare della bulimia di uno pseudo-pensiero che non accetta specificità e competenze diverse; e nemmeno pause di riflessione (al pari del non accogliere l’alternarsi delle stagioni sperimentandone il desiderio e l’attesa), bensì vuole vivere in un regime edenico di continuo godimento: informazioni, notizie ‘a go-go’ che non nutrono la mente perché i tempi di metabolizzazione del pensiero sono del tutto particolari: *se le esperienze non le metabolizziamo dentro di noi, credo resti poco da decodificare del mistero di una spiritualità interiore portata a creare una sintesi capace di produrre bellezza che va di pari passo con quello che mangiamo, digeriamo, defechiamo. Non si tratta di sesso, e neanche solo di un concetto metaforico, forse c’è dietro qualcosa di più ampio respiro che ci ostiniamo a non voler capire;…* (A. Australi).
    E’ stato davvero un piacere (anche se condito da una certa tristezza) leggere questo bel pezzo.

    R.S.

    1. Cara Rita,
      grazie della lettura.
      Devo dire che sono un po’ commosso, oggi è un mondo di riscritture, il post moderno in letteratura ci assale ad ogni livello da almeno vent’anni. Non c’è un’altra strada? Credo di sì. E’ importante lasciare alla mente degli spiragli di vita vissuta, su cose magari anche banali, ma autentiche.
      La torta al formaggio è ancora importante nella tradizione umbra legata alla Pasqua, infatti l’altro ieri ci sono andato (zona Lago Trasimeno) per comprarne alcune da diversi fornai e gustarne la differenza. L’abbuffata è già iniziata, ormai non aspetto più che siano benedette in chiesa.

      Buona Pasqua.

  2. …Angelo Australi grazie, che bella scrittura poetica e riflessiva! Terro’ presente la torta pasqualina umbra come antidoto ai veleni che siamo costretti ad ingoiare per amore della vita che ci circonda…Tra globalismo e populismo si sa mai che non si possano salvare degli ingredienti che “incollati” un po’ a caso, un po’ per fortuna, un po’ per maestria, com’è capitato a certi cuochi illustri, non ne possa nascere un piatto prelibato, certo mai prima gustato…in fondo gli esseri umani hanno dimostrato di averne di risorse. Lo spero soprattutto per le nuove generazioni…Ma certe serate di frontiera tra il giorno e la notte immersi nella natura estiva, dove la parola è bandita e la voce è degli insetti, degli sguardi, dei gesti, dei sapori, delle visioni calme e serene potranno mai ritornare? Con quanto fracasso e sconquasso teniamo dentro? La digestione per incominciare, che per molti poi è ancora una conquista

    1. Cara Annamaria,
      per me la torta al formaggio è un sapore ancestrale, la mangio davvero a fettone, una dietro l’altra.
      Invece dei molti amici a cui l’ho così tanto mitizzata e fatta assaggiare, in pochi ne hanno apprezzato la prelibatezza. Per lo più rimangono delusi dal fatto che sembrando un panettone poi non sia dolce.
      A parte me, che ripeto, essendone innamorato non so esprimere un giudizio critico e la mangio senza companatico, come fossero normali fette di pane , è consigliabile gustarla con prosciutto e/o capocollo (o coppa, come chiamar si voglia). L’usanza infatti vuole che si mangi come antipasto insieme agli affettati per il pranzo pasquale.
      Per il resto, credo che tutto possa ritornare, non solo certe serate di frontiera tra il giorno e la notte (bella questa frase: serate di frontiera), basta ripercorrere la stessa strada per tornare al punto di partenza di un’esperienza. E per fortuna questo in letteratura si può trovare il coraggio di farlo.

      Buona Pasqua

  3. Caro Angelo, un altro aspetto della tua scrittura che ancora una volta riporta alle nostre radici, all’importanza di riconoscerci per quello che siamo. Per fortuna ce ne ricordiamo, grazie anche a riflessioni simpatiche e indagate come la tua che aiuta a entrare nel nostro presente distratto e caotico, da un’altra porta, quella del gusto e del cibo. Abbiamo perduto la bussola: vaghiamo (o siamo costretti a farlo) soddisfatti o meno, nei deserti della nostra cultura. Perché la cultura oggi purtroppo è tutto fuorché ciò che dovrebbe essere, vale a dire costume, lingua, abitudini che parlano tante lingue. Tutto fuorché “consumo”. Invece ecco qua: “consumo, dunque esisto”.
    Grazie delle tue acute osservazioni; ancora una volta lanci la freccia nel sociale e stabilisci un dialogo costruttivo con il lettore.
    Un abbraccio. Lucia

    1. Cara Lucia,
      … lo sai, per me scrivere è fare lo sforzo di lasciare una traccia di autenticità. Sono ancora fedele al vecchio Hemingway (autore un po’ troppo dimenticato a mio avviso) che diceva: <>. Importante che sia, ne ho piene le scatole di questo assordante postmodernismo culturale che ci portiamo dietro da almeno trent’anni, dove è tutto un riscrivere, riadattare, confezionare romanzi in nome di un vissuto quotidiano che ci sfugge e diventa banale stereotipo giornalistico nel quale il lettore può riconoscersi. Romanzi che diventano film dove sembra di assistere ad un talk show in cui c’è di tutto di più, romanzi storici riadattati a fumetto per renderli digeribili come prodotto alle nuove generazioni.
      C’è niente di più provinciale, al di là dei temi e delle ambientazioni?
      La letteratura per me è ancora un punto di vista privilegiato sulla realtà, mica una ribollita dove ci trovi solo quello che vuoi sentirti dire.
      Grazie per la lettura

Rispondi a Rita Simonitto Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *