Da “La solitudine di Schenk”

Edizioni d’arte L’Arca Felice, collana “Coincidenze” a cura di Mario Fresa, 2017

di Paolo Rabissi

Indicazioni

…a ben vedere non c’erano obblighi
solo inviti, indicazioni di percorso.
Eppure qualcuno si sentiva addosso
un destino, come una condanna.
Si interrogavano i più, segno
che la questione importava,
se la libertà nel cammino era totale.
I giovani, usciti dal liceo,
ne parlavano per strada
tra un semaforo rosso e l’altro

quel trattato di Pisacane,
Saggio sulla rivoluzione,
faceva mostra di sé
sulla bancarella di libri usati.
L’edizione era vecchia, ma la copertina
di colore grigio topo,
aveva resistito bene all’usura

quei due ragazzi visti controluce sulla darsena
avevano movenze da danzatori
si contendevano tra i piedi un sasso
finché uno dei due di esterno destro
lo infilò dritto nel tombino

la cappella situata nei pressi della scuola
ospitava qualche studente solitario
la sua preghiera mattutina era muta
la volta a crociera lo avvolgeva invece con calore

chiamava alla responsabilità personale
verso il sacro con ferma virilità.
Chi avvertiva in sé l’imminente perdita
ne restava intimorito.
Nella memoria quella virilità non fu intaccata,
l’insegnante di religione, come poi si seppe,
era stato invece allontanato a divinis.

 

La solitudine di Schenk

Per fissare i rinvii della memoria
è utile il disegno di una mappa.
In quel territorio s’intrecciano tuttora
sentimenti e progetti. Più a Nord rispetto
ai due campi, è certo,
turchi, greci, spagnoli, italiani abitano
periferie chiassose dove le risse scoppiano
frequenti.

A Sud i due campi contigui sono separati
da una fitta rete di ferro.
Gli abitanti del campo a Nord,
per entrare in quello a Sud, devono possedere
un pass, il più delle volte non serve,
i volti infatti sono quasi sempre gli stessi.
Stagionali e avventizi sono rari
ma forse è la memoria che immobilizza
lo scenario.

Dieter sciancato, rifugiato dall’Est, parla inglese,
è convinto che la libertà assoluta non esiste
“…ma voglio essere libero di scegliere
le mie schiavitù, you see?”.
A est del campo, lasciando correre lo sguardo
lungo la pianura fino all’orizzonte,
tutto appare deserto, è non conosciuto.

Qualcuno potrebbe dire che qui
l’unica religione è il lavoro.
Sul permesso di lavoro, controfirmato da un
religioso, deve comparire la religione professata.
Con qualche insistenza si riesce infine a ottenere,
evitando il balzello, la scritta keine religion.

Tra versi petrarcheschi e ragazze Carla
le indicazioni non abbondavano,
tra erbe e rami fioriti e tic tac di macchina da scrivere
si poteva imboccare un sentiero poco noto,
forse una scorciatoia oppure il contrario.
A Ovest i bassi casamenti sono depositi
per ricambi di lenzuola, coperte
e qualche altro comfort. Non lesinano
nella distribuzione anzi invitano a una cadenza
settimanale, per non trascurare l’igiene.

La memoria ha fissato un tempo duraturo,
un inverno inoltrato, un principio d’estate, un sole a tratti,
un verdeggiare fresco e sul piazzale delle passioni
al cambio di turno l’incontro regolare con Schenk
– Wunderschön, ah?
– Wunderbar…
Alla cava vicina lo spettacolo è assicurato, corpi
al sole, trasparenze.

Dieter passeggia conversevole trascinando il suo piede,
indica due caccia americani che sfrecciano nel cielo,
ricorda la sua fuga nel bagagliaio.
Forse è per questo che frequenta il vicino aerodromo
per alianti. Quando è in alto e il suo apparecchio si sgancia
dice che urla per la libertà e la bellezza.
A leggergli versi in italiano si lascia cullare,
non capisce, gli piace la musica che faccio.

Sicuramente la memoria ha fissato da tempo
la mappa dei luoghi, degli incontri.
Bastava solo ridarle occasione,
questa storia, ma verrebbe da pensare ogni storia,
scritta era scritta da tempo,
bastava trascrivere il tutto come sotto dettatura.

Al cambio di turno nei pressi del cancello minore
la solitudine di Schenk si staglia ogni giorno,
non è tanto la sua notevole altezza, la magrezza
ma l’impronta dello sconfitto dalla vita.
-Tu studi la Storia, non ne caverai niente.
Da tremila anni è bloccata, è sempre la stessa.
Sarai solo anche tu.
Quando esce dal suo casamento nella rientranza
della sua finestra accomoda terra e acqua
nel piccolo vaso dove a volte
fiorisce un fiore rossastro.

L’entrata è dal Main Gate, situato a Est,
chiedono il pass solo la sera al rientro
da scorribande notturne nei quartieri a Nord,
veri e propri dormitori, attrezzati con qualche verde
e di presidi sanitari dove s’incontrano mogli
e madri turche, italiane, greche, spagnole
con i figlioli vocianti. L’intreccio delle lingue
le fa esplodere tutte in risate concilianti.
L’entrata nel campo è dal Main Gate dove
talvolta sostano due cani pastori tedeschi.
Si tratta solo di una coreografia di qualche
malizia, il conduttore dei cani chiede il saldo
di un debito dimenticato.

Schenk non commette errori, quando esce
punta diritto verso il sentiero in terra battuta
e lo segue. Non vigila su nulla e per l’habitat
non è possibile distrarsi per alcunché
– il verso è una misura d’uomo, non più in là
di tanto né meno, un equilibrio interiore.
Il suo passo sottile, come una lametta
incide il sentiero in silenzio
– a volte inseguo il pensiero e non trovo
la parola. Se qualcuno è vicino a te puoi
chiederla a lui, la prima che dice.

3 pensieri su “Da “La solitudine di Schenk”

  1. La memoria è lo strumento da cui Rabissi parte per tracciare a se stesso e a chi legge, la sua attuale misura di uomo e poeta.
    “– il verso è una misura d’uomo, non più in là
    di tanto né meno, un equilibrio interiore.”
    Essa memoria è un contenitore di accadimenti e di correlazioni ma è anche fissazione di blocchi:
    “ma forse è la memoria che immobilizza lo scenario”.

    Memoria è un ordinatore di spazi (come directory e cartelle?):
    “Per fissare i rinvii della memoria
    è utile il disegno di una mappa.
    In quel territorio s’intrecciano tuttora
    sentimenti e progetti”
    e però è anche temporale:
    “La memoria ha fissato un tempo duraturo,
    un inverno inoltrato, un principio d’estate, un sole a tratti,
    un verdeggiare fresco e sul piazzale delle passioni
    al cambio di turno l’incontro regolare con Schenk
    – Wunderschön, ah?
    – Wunderbar…”
    e alle occasioni spazio-temporali si agganciano situazioni emotive:
    “nei quartieri a Nord

    dove s’incontrano mogli
    e madri turche, italiane, greche, spagnole
    con i figlioli vocianti. L’intreccio delle lingue
    le fa esplodere tutte in risate concilianti.”

    Quindi Rabissi riflette sulla mobilità, nel rapporto tra memoria, storie e Storia, riguardo fissazione e dicibilità:
    “Sicuramente la memoria ha fissato da tempo
    la mappa dei luoghi, degli incontri.
    Bastava solo ridarle occasione,
    questa storia, ma verrebbe da pensare ogni storia,
    scritta era scritta da tempo,
    bastava trascrivere il tutto come sotto dettatura.”
    Di sicuro la Storia è affare da chiudere.
    “-Tu studi la Storia, non ne caverai niente.
    Da tremila anni è bloccata, è sempre la stessa.
    Sarai solo anche tu.”

    Dove il testo viene interrotto, l’ultima riflessione scioglie il nesso memoria/storie viventi, impersonato dal silenzio e la solitudine di Shenk, verso la comunicazione e il dialogo:
    “Il suo passo sottile, come una lametta
    incide il sentiero in silenzio
    – a volte inseguo il pensiero e non trovo
    la parola. Se qualcuno è vicino a te puoi
    chiederla a lui, la prima che dice.”

  2. …la prima poesia di Paolo Rabissi, “Indicazioni”, ci immette ( ricordi?) in una realtà giovanile d’altri tempi: serie discussioni fra coetanei sul destino dell’uomo, giochi scanzonati sulle strade, “indicazioni” “alla responsabilità personale” in una oscura esperienza all’ombra di una cappella…Ci parla, credo, del tempo che conferma le delusioni che già la giovinezza conosce…La Storia di ogni tempo le ripropone, infatti: “Da tremila anni è bloccata” (La solitudine di Schenk ), Storia in cui l’essere umano che vuol ribellarsi ha solo un piccolo spazio di intervento, una misura, simile al verso di una poesia…Il destino è già segnato, i percorsi stabiliti, come in una immensa prigione…Nella stessa poesia si descrive il paesaggio di un “morbido” lager (ho pensato alla metafora della nostra Europa), dove si consente alle persone un certo spostamento, ma i popoli più penalizzati, e spesso ridono perchè ne sono inconsapevoli, sono quelli mediterranei: spagnoli, greci, italiani, turchi…Sempre i più poveri. I controllori parlano tedesco “Main gate”, sempre i più forti.I supervisori, i caccia americani, vigilano dall’alto il loro impero…Il più consapevole, e solo, è Schenk, un clandestino dell’est, non si illude, può forse scegliere come morire e “Quando esce dal suo casamento…/ accomoda terra e acqua/ nel piccolo vaso dove a volte/ fiorisce un fiore rossastro” – mi ha ricordato la rosa di Maroncelli nelle Mie prigioni di S. Pellico, ieri come oggi-. Gli ultimi versi della poesia sono forse i più tragici, nella loro mitezza: “..a volte inseguo il pensiero e non trovo/ la parola. Se qualcuno è vicino a te puoi/ chiederla a lui, la prima che dice”, dove si arriva alla rassegnazione, al totale disuso del pensiero e della parola. Sono poesie molto forti

  3. NOTE SU «LA SOLITUDINE DI SCHENK»

    Essendo i versi di Paolo Rabissi, ripresi qui su Poliscritture dal libretto cartaceo, «parte di un poema intitolato “Inverno a Colonia” di prossima pubblicazione», dirò poche cose provvisorie e rivedibili. Innanzitutto, partendo dal testo, le mie prime impressioni e incertezze di lettore.

    Nelle «Indicazioni» iniziali vengono esposti 5 scene/ frammenti:
    – dei giovani liceali impegnati in una discussione sulla libertà;
    – il «Saggio sulla rivoluzione» di Pisacane che fa «mostra di sé» ( neutro, impersonale) «sulla bancarella di libri usati» (una “rovina archeologica” del passato risorgimentale dell’Italia, che , sì, ha «resistito bene all’usura», ma non si sa se mai sarà da qualcuno ripensata, interrogata, riusata);
    – due ragazzi spensierati colti in un momento di ozio giocondo;
    – una chiesetta presso la scuola (riferibile al primo frammento) dove «qualche studente solitario» ( impersonale, indeterminato) prega in silenzio al mattino ( forse prima di entrare a scuola);
    – un «insegnante di religione» ( di cui poi si dice che verrà «allontanato a divinis» senza specificare ragioni)che richiama «alla responsabilità personale /verso il sacro con ferma virilità» chi (ancora impersonale e indefinito) già pare avviato a una crisi religiosa .

    Sulla base di questi «rinvii della memoria» ( o suoi frammenti) il narratore (in versi) progetta di disegnare una mappa.
    Il «territorio», a cui accenna, non ha nome, ma – da quanto aggiunge man mano – possiamo intuire che ci troviamo in qualche paese o città della Germania, probabilmente degli anni ’50- ’60 del Novecento.
    Parla di «due campi», a nord dei quali ci sono «periferie chiassose», abitate da un’umanità (coattamente) cosmopolita : « turchi, greci, spagnoli, italiani»; mentre, a sud – e non si capisce se si parla sempre degli stessi due campi di prima (indicati ora come «contigui») -, essi sono separati «da una fitta rete di ferro».
    Pare sempre di capire che «gli abitanti del campo a Nord,/per entrare in quello a Sud» (per lavorare?) abbiano bisogno di un pass, che poi di fatto non serve, perché sono sempre gli stessi.
    A questo punto il primo personaggio, fornito di un nome preciso e qualche scarno dato distintivo: «Dieter sciancato, rifugiato dall’Est». E’ costui che – in altro tempo e altro spazio – sembra quasi rispondere negativamente e con un certo cinismo pragmatico e popolaresco al problema che si ponevano i giovani studenti (del primo frammento delle «Indicazioni»): « la libertà assoluta non esiste / “…ma voglio essere libero di scegliere / le mie schiavitù»).
    Viene poi chiarito che in quel mondo sociale l’unica religione è il lavoro. Poi – sempre per frammenti – pare ci si sposti in un ambiente studentesco (forse un collegio?) e urbano ( versi petrarcheschi; la «ragazza Carla», l’ eroina da boom economico di Pagliarani). E poi un altro personaggio preciso, Schenk. Si parla di una cava, di corpi esposti al sole. E poi torna Dieter. Ci viene detto della sua fuga (dall’Est), che frequenta «il vicino aerodromo / per alianti». E ancora torna in un accenno concreto il tema iniziale della libertà: « Quando è in alto e il suo apparecchio si sgancia/ dice che urla per la libertà e la bellezza.».
    Nel successivo frammento un incontro tra il solitario Schenk (operaio?) e uno studente di storia. Torna lo scetticismo contro le illusioni di libertà:« -Tu studi la Storia, non ne caverai niente. / Da tremila anni è bloccata, è sempre la stessa.». E compare la dura profezia negativa : «Sarai solo anche tu» .
    Ancora un altro frammento e la solitudine di Schenk si staglia e assume una dimensione epica e destinale (da eroe alla Fenoglio, direi): «Schenk non commette errori, quando esce/ punta diritto verso il sentiero in terra battuta/ e lo segue».

    L’impersonalità anaffettiva, la frammentarietà implacabile e una ricostruzione sorvegliata e disincantata dei dati fissatisi in un tempo/spazio non storico ma quasi metafisico/mitico mi paiono i tratti principali di quest’anticipazione del poema di Rabissi.
    Soggetto protagonista sembra essere, appunto, una impersonale memoria, che fissa «da tempo / la mappa dei luoghi, degli incontri». E basta «ridarle un’occasione» perché una storia venga fuori «come sotto dettatura». Ma è una storia senza un “noi” – obietterei – una storia al massimo di solitudini. E Il narratore è mero suo esecutore, quasi un copista a cui la Memoria ( la maiuscola ci starebbe) detta.
    Fortissima a me pare in questi versi e nel taglio delle immagini l’influenza di Giampiero Neri. Appunto per quel cogliere le cose senza legami con dei soggetti operanti e volenti e da un puro e impersonale osservatorio : « quel trattato di Pisacane,/ Saggio sulla rivoluzione,/ faceva mostra di sé».

    Sulla frammentarietà (meglio: il grado di frammentarietà o di unità nella frammentarietà raggiungibile oggi da chi scrive). Non so se sarà la forma caratterizzante e definitiva del poema di Rabissi, ma utilissimo sarebbe il confronto problematico con uno scritto di Fortini, «Il controllo dell’oblio», del febbraio 1982, ora in «Insistenze». Lo farò in altra occasione, spero.

Rispondi a Ennio Abate Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *