Politica del nemico

 di Ezio Partesana

 

La propaganda confonde spesso le cose, per convenienza e per effetto, ma più ancora impoverisce il linguaggio e i concetti, li riduce a uno e, quanto è possibile, a un poco meno di uno; poiché non deve mutare la realtà non è legata alla comprensione, ma il suo termine di riferimento sono le coscienze che deve far piombare nell’ignoranza, e dunque semplifica dove può.

Un esempio è l’uso della parola “terrorismo”. La violenza è accetta quando può essere ricondotta alla natura – sia essa un terremoto o il prezzo della manodopera immigrata – ma diventa un tabù non appena si rasenti la linea di confini che passa, invisibile oggi, tra le leggi del mondo e quella della giustizia.

“Terroristi” si chiamano a vicenda tutti quelli che sono in conflitto, perché “terrorista” è un termine spregevole, e essere un terrorista è una mala cosa. Sono terroristi gli Stati Uniti, i Palestinesi, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, Fidel Castro (anche se morto), i partigiani a mano a mano che non ne resta nessuno a chiedere conto, gli ebrei tutti, per definizione, e via seguendo con le multinazionali del farmaco o le Brigate rosse. Ora non è questione di etica della violenza: si può essere teneri come una colomba, ma anche le colombe hanno diritto a sapere di che cosa si parla. Vorrei allora proporre alcuni punti di riconoscimento, o un abbozzo di mappa, per navigare nelle notizie per lo più terribili che giungono, filtrate, a noi da ogni parte del mondo. E da casa nostra.

A scanso di equivoci dichiaro fin da subito che non intendo far apologia di nulla, che ho le idee molto confuse sulla violenza – quella che Benjamin chiamava Gewalt – e che se quel che annoto potesse servire come un manuale per verificare chi sta mentendo a proposito e chi no, avrei la soddisfazione che cerco. Detto questo, quali sono le differenze tra “lotta armata” e “terrorismo”?

Alcune appaiono da sé evidenti.

La lotta armata sceglie i suoi obiettivi razionalmente e individualmente; quel capo reparto che non riferisce i casi di asbestosi per non far calare le quote di produzione, quel ministro che intende abolire il diritto di sciopero, quel generale che si è assunto il compito di far strage degli insorti. Il terrorismo deve, al contrario, essere anonimo e casuale: tutti devono sentirsi colpibili e a rischio, indipendentemente da quel che sanno, fanno, pensano o credono. Questo è il terrore, la paura di poter essere una vittima senza ragione alcuna.

La lotta armata, la resistenza, i movimenti di liberazione, non hanno mai distinto etnie, religioni, razze o sesso, se non per mostrare come i suoi obiettivi e quelli delle etnie, religioni, razze o sesso potessero coincidere. Il terrorismo colpisce tutte le vittime, ma tende a suddividerle in base a caratteri ideologici quanti altri mai, e così i morti si dividono in sionisti, mussulmani, capitalisti, zingari, intellettuali, negri, stranieri, donne, e avanti a piacere.

Il terrorismo è sempre internazionale. Quando anche agisca in una situazione concreta – diciamo la Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana – ha sempre presente una ordinata repressione generale. Non gli interessa, come non interessò ai fascisti, quella casa, quel quartiere o quel popolo. Al contrario i movimenti di lotta armata hanno sempre e dovunque indicato una determinata situazione locale che andava cambiata a ogni costo. Si può pensare che fosse un delirio, la follia di un gruppo di disperati o quel che vi pare; dal punto di vista del mondo unificato, lotta armata e terrorismo sono uno antico l’altro aggiornato in tempo reale.

Nonostante tutte le commissioni, le inchieste, le ciance, etc., nessun movimento di lotta armata ha mai negato al nemico, neppure quando sceglieva di doverlo uccidere, la sua condizione di essere umano. Nella maggior parte dei casi chi combatté armi in pugno contro un nemico cercò di spiegare che era quel che faceva, non chi era, che rendeva necessaria la sua morte. I terroristi non hanno memoria, né del passato né del futuro, e ogni morto è una ghirlanda di fiori del paradiso, o una promozione nell’ordine gerarchico delle cose.

Chi decida che ogni altra cosa è meglio che restare così e ora, ha come compagni o avversari uomini concreti, il vicino di casa, l’eletto parlamentare o l’uomo di colore che lavora il campo venti chilometri al di fuori del cerchio della città. Il terrorismo è imperfettamente astratto e si rivolge a tutti e a nessuno, i suoi interlocutori sono gli uomini che detengono il potere di scelta politica o l’indistinta massa che deve rimanere indistinta. La reazione parla “a tutti”, la lotta, per forza di cose, a qualcuno. L’idea che non esista conflitto che divida gli esseri umani in due parti distinte e antagoniste è la quinta essenza della propaganda.

I cani sciolti dalla catena di solito scappano; allo stesso modo alle rivendicazioni del terrorismo può applaudire chiunque, alle azioni della lotta armata segue una assunzione di responsabilità collettiva. Non è possibile rispondere al terrorismo usando il terrorismo. Non perché non ci sia il modo di vendicarsi, qualunque potere costituito potrebbe far strage tra gli amici e i parenti del terrorista, ma perché l’azione sarebbe la stessa logica che vuole contrastare: far paura.

Dappertutto si vende l’orrore per le morti inutili e ovunque si compra la buona compassione. Eppure nemmeno il più astuto tra i filosofi può sfuggire alla differenza tra un atto crudele fatto in nome della giustizia e un altro fatto in nome del potere. Da qui siamo chiamati a un esercizio che oggi vien giudicato come passatempo ozioso, e cioè giudicare, scegliere da che parte stare. È palese la differenza che passa tra uccidere il guardiano fuori dal carcere dove vengono accolti gli schiavi e far impiccare chiunque non si converta alla nostra fede. È vero, non c’è un giudice divino che ci assicuri mai di questo o di quello, non ci possiamo far nulla. Siamo consegnati – come scriveva Kafka – dalla speranza alla certezza. Chi spera nel dominio è terrorista, chi spera nella liberazione partigiano.

Alla fine l’inversione tra etica e politica è la cifra che distingue la lotta dal terrorismo. “Una volta per sempre” è scritto, no? Quando l’etica precede la politica è possibile l’errore, è l’errore politico è il più grave di tutti. Ma quando la politica precede l’etica, quando prima si identifica il nemico e poi, di conseguenza, si stabilisce che cosa sia male e che cosa bene, allora semplicemente l’etica scompare e vale far paura più di ogni altra cosa, perché il diavolo è un acquirente di anime migliore del suo superiore.

6 pensieri su “Politica del nemico

  1. …”i punti di riconoscimento” che porterebbero, secondo Ezio Partesana, alla netta distinzione tra lotta armata e terrorismo non mi hanno convinta, ma certo hanno aperto una possibilità di riflessione. Secondo l’autore, la lotta armata sembra avere più obiettivi mirati da raggiungere e colpisce una fascia specifica di “nemici”, ma poi gli esempi a proposito riportati nel primo “distinguo” : ” quel capo reparto che non riferisce i casi di asbestosi per non far calare le quote di produzione, quel ministro che intende abolire il diritto di sciopero, quel generale…”, sembrano piuttosto riferirsi a crimini per il potere economico o politico -terrorismo di stato?- Forse perchè associo l’idea di lotta armata resistente per i diritti come la libertà e la giustizia di un popolo all’autodifesa, cioè all’unica caso in cui la violenza sarebbe consentita…
    Anche dire che il terrorismo pesca le vittime nel mucchio in maniera assolutamente casuale non mi convince: penso che non siano scelte casualmente nè le strategie, nè i luoghi, nè la componente umana delle vittime, nè gli obbiettivi, il terrore e altro ancora…Giorgio Mannacio ha trattato diffusamente dell’argomento in un suo saggio

    1. Devo essermi perso il saggio dell’amico Mannacio – col quale, per altro, ho parlato di queste cose -, me lo può cortesemente indicare, per favore?

    2. Ho appena letto l’intervento di Mannacio.
      Vuole spiegarci in che senso trova quanto detto da lui in contrasto con il mio tentativo di illuminare due concetti che ritengo diversi? Certo, l’esperienza mostra più spesso mediazioni che non l’in sé e per sé, come a dire che quel che si vede sta spesso a metà strada tra l’una cosa e l’altra. Ma è proprio per questo, perché esistono forme confuse, che bisogna cercare di fare chiarezza sui concetti. O no?

  2. …non sono in grado di rintracciarlo ora, ma forse non è ancora stato pubblicato sul blog e uscirà inserito nel numero 12 della rivista Poliscritture…Ennio Abate è sicuramente informato

  3. Il ragionamento che fa Partesana distingue tra lotta armata e terrorismo lungo una serie di “punti di riconoscimento”: obiettivi individuati o generici, eccesso ideologico nel definire chi colpire, proiezione internazionale o carattere specifico dell’azione, disumanizzazione del nemico, divisione dell’intera umanità secondo amico/nemico, introiezione della disumanizzazione.
    Ma quando tira le somme, con l’ultima frase, conclude sul piano dell’etica: “quando la politica precede l’etica, quando prima si identifica il nemico e poi, di conseguenza, si stabilisce che cosa sia male e che cosa bene, allora semplicemente l’etica scompare e vale far paura più di ogni altra cosa, perché il diavolo è un acquirente di anime migliore del suo superiore”.
    Con questo si ricongiunge alla premessa iniziale, sulla propaganda, che “poiché non deve mutare la realtà non è legata alla comprensione, ma il suo termine di riferimento sono le coscienze che deve far piombare nell’ignoranza, e dunque semplifica dove può”.
    L’etica è conoscenza, del confine -tuttavia oggi invisibile- tra le leggi del mondo e “quella” della giustizia, che è una sola.
    Insomma etica e conoscenza, in quanto legate alla giustizia, stanno fuori/sopra i conflitti reali, non sono realmente coinvolte e possibilmente lacerate, dai due contendenti terroristi (che si accusano reciprocamente: terrorista sei tu, no tu).
    Che dire?
    Possono permettersi, quelli che sono in guerra, lo scandalo di dire che la ragione è solo quella dei vincitori (come si disse Gott mit uns, e come si accusò il processo di Norimberga)?
    Oppure ci stiamo appellando alla ragione per rifiutare -fin che è possibile- la guerra?
    E’ un dato di fatto che in nessuno dei due casi, nella guerra che è stata e in quella che non si vuole ci sia, si conferma l’etica come conoscenza, eppure è esattamente quello a cui tutti ancora si appellano. Questo è un paradosso ed è infernale.

    Il saggio di Mannacio è quello sul numero 12 di Poliscritture che uscirà presto.

  4. Questo tipo di vissuto terroristico che ti entra nelle ossa e non ti permette di valutare la differenza tra amico e nemico e mina a fondo il senso di comunanza e fratellanza (che già si deve confrontare con la ambiguità dei sentimenti di odio e amore) lo ho sperimentato in prima persona attraverso i racconti e le angosce dei miei genitori a seguito dei bombardamenti da parte degli Alleati a fine della seconda guerra mondiale. Ma non si trattava soltanto dei bombardamenti in sé, ma di qualche cosa d’altro ben più drammatico: questi si accompagnavano a volantini che piovevano dall’alto e in cui si affermava che chi bombardava non ce l’aveva con i cittadini italiani. Sarebbe bastato che loro avessero buttato giù il fascismo e non ci sarebbero state più le distruzioni.
    L’invito alla lotta ‘civile’ per destituire il tiranno era evidente.
    Tradotto in altri termini, tu, dal basso, fai per me il lavoro sporco (perchè poi in quella lotta ‘fratricida non furono presenti soltanto le linee di un glorioso desiderio di trasformazione del paese, ma si diede anche legittimazione a faide interne), mentre io, dall’alto, sotto la minaccia di radervi al suolo tutti quanti, mi approprierò del risultato. E ciò creava una reciproca diffidenza ‘in orizzontale’, e dove gli stessi vincoli di sangue, già messi in crisi dalla contrapposizione delle idee, contavano ancor meno.
    Era come assoldare sicari o mercenari facendo leva sugli aspetti più primitivi dell’animo umano. In questo modo si veniva a perdere anche quel senso dell’onore – che riconosceva al nemico la sua posizione di nemico e del rispetto che gli era comunque dovuto -, e perciò non si mirava solo alla resa delle armi, ma l’avversario doveva essere annientato ed esposto al pubblico ludibrio.
    Questo modello di terrorizzare la popolazione fu ulteriormente sperimentato attraverso lo sgancio dell’atomica a Hiroshima e Nagasaki, e poi ampiamente esportato in tutti quei paesi in cui gli USA volevano destituire dei governi ottenendo due piccioni con una fava: il cambiamento del tiranno (con un altro) e, soprattutto, la frammentazione della popolazione civile, impedendo quelle forme di coabitazione interna che pur prima esistevano. Il classico ‘divide et impera’.
    E. Partesana scrive * Il terrorismo è internazionale*: sì, perché fa capo alla fragilità profonda che alberga in ognuno di noi, attinge agli strati più arcaici dove vige, per difendersi dalla paura irrazionale, non lo strumento evoluto della ragione ma il primitivo ‘occhio per occhio, dente per dente’.
    E’ la situazione di guerra che va ad alimentare il clima del sospetto che coinvolge tutti i contendenti, nessuno escluso. Quindi non intendo sostenere che tedeschi, russi ecc. ecc. fossero fuori dall’usare questi modelli di terrore. Ci mancherebbe!
    Anche la lotta armata utilizzava questi slogan per fare alleanze contro il nemico individuato.
    Ma ora si stava introducendo in modo sistematico qualche cosa di profondamente diverso: la non assunzione di responsabilità.
    Infatti, ciò che mi preme segnalare nel mio commento, è l’aspetto di propaganda: “io sono buono, ma se tu non sottostai al mio dictat, non solo uccido te ma anche tutti gli altri. Quindi la colpa dei disastri che verranno fatti non sarà mai mia, bensì tua”.
    E’ il presupposto che sostiene il principio della ‘guerra giusta’: Deus vult, Allah lo vuole, il ristabilire la democrazia lo richiede a gran voce!
    Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro!

    R.S.

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