Il conflitto con l’ISIS ovvero uno scacco alla razionalità (almeno alla mia)

di Giorgio Mannacio

Per l’affinità col tema del post di Ezio Partesana (qui)  e alcune incursioni anche sul tema delle migrazioni (qui) anticipo la pubblicazione dell’articolo di Giorgio Mannacio, segnalato in un commento da Annamaria Locatelli e che uscirà con molto ritardo – è bene precisare che la sua stesura risale al dicembre 2015 –  nel n. 12  cartaceo di Poliscritture ora in stampa. [E. A.]

1. Non ho alcuna difficoltà a confessare – e dunque lo confesso – di avere scritto almeno quattro versioni, del testo che qui propongo, dal giorno degli attentati terroristici a Parigi (13 novembre 2015) ad oggi. Nessuno mi ha soddisfatto e li ho via via abbandonati incompiuti. Probabilmente tale esito infelice si fonda sull’errato convincimento che la ragione possa spiegare tutto quanto sta succedendo e dare a tale tragica catena di eventi una sistemazione razionale che possa volgerla ad esiti desiderabili di pacificazione. Forse la linea diritta della razionalità non riesce a mettere insieme i pezzi – così disparati e in perenne contraddizione – che costituiscono la trame degli attuali eventi. Ma, abbandonata la razionalità, si apre una domanda drammatica: cosa resta ? Raccolgo i cocci del passato lavoro che ho cercato di svolgere documentandomi sul nuovo che avanza e utilizzando le vecchie convinzioni rimastemi come criterio di orientamento. Sono rimaste, alla fine, indicazioni specifiche, magari scollegate tra loro ed ecco, dunque, il mio percorso nei suoi frazionamenti.

2. Sono convinto che il conflitto Francia – Isis (e aggiungo la Russia) sia una guerra in senso proprio. Penso che non sia ancora in atto una guerra Italia – Isis, anche se tale eventualità è da mettere in conto a tutti gli effetti. La convinzione espressa si fonda sull’opinione che Isis sia un vero e proprio Stato, ancorché in fase nascente e che la sua azione (condotta secondo metodi diversi, tra i quali gli atti terroristici) sia diretta alla conquista definitiva di un certo territorio e alla sconfitta dell’avversario o degli avversari. Se almeno due degli avversari possono essere individuati indirettamente attraverso le Nazioni colpite dagli attentati (Francia e Russia), la portata dell’azione bellico/terroristica sembra più ampia in quanto Isis intende colpire l’intera Europa assunta come simbolo di un certo modo di vivere e pensare. Tale rilievo implica che l’azione dell’Isis abbia una forte connotazione ideologico/religiosa.

3. Sono convinto che la guerra sia un atto politico, un mezzo per la gestione di “interessi’’ di natura complessa che indico nella difesa di aggressioni dovute a “cause naturali e non’’ e nell’acquisizione di una identità permanente (con tutto ciò che essa comporta).

4. Una volta iniziata, la guerra si svolge secondo “regole proprie”. Queste sono poste, di volta in volta e secondo le circostanze, dagli stessi soggetti del conflitto i quali sono, quindi, allo stesso tempo, legislatori e osservanti di esse. Tale caratteristica determina la tragica conseguenza che in guerra nessuno è innocente. Nata per uno scopo e strutturata per raggiungerlo, la guerra ha un esito che si definisce retoricamente “giudizio della Storia”. Svincolato da ogni valutazione etica e da ogni riflessione politico/storica esso si riduce alla costatazione di uno stato di fatto non modificabile o modificabile solo da eventi successivi, tra i quali si può annoverare anche un’altra guerra. Ciò finisce per mettere tra parentesi le cause della guerra e induce ad una sorta di rassegnazione/cinismo.

5. Si può parlare di asimmetricità della guerra in due modi diversi. Il primo riguarda lo scarto che le guerre attuali presentano rispetto ai modelli tradizionali di conflitto. Non è, a mio giudizio, un argomento particolarmente rilevante. È cruciale, invece osservare come le ragioni di una guerra possano essere diverse a seconda dei soggetti in conflitto. Ragioni, comunque, sempre complesse.  Parto dalla costatazione dell’utilità, se non addirittura della necessità, della costituzione di una formazione stabile ed organizzata cui diamo il nome di Stato. La tendenza di tutte le popolazioni del mondo ad aggregarsi in formazioni dotate di una certa organizzazione stabile è ‒ comunque – una costante della Storia. Tale necessità è stata riconosciuta sin dalle prime riflessioni politiche che conosciamo. All’interno di questa necessità o utilità si possono rilevare specifici motivi di utilità (o inutilità) della sua azione (tra cui – vedi sopra – l’azione militare) ma, dato il carattere collettivo di essa, la sua azione può essere utile ovvero inutile (se non addirittura dannosa) rispetto ad alcuni cittadini o alla maggioranza di essi.  Tale discordanza può creare tensioni all’interno dello Stato perché anche l’azione militare presenta aspetti collettivi sia nella deliberazione della guerra sia nell’attuazione di essa. Sotto altro aspetto la responsabilità dei cittadini rispetto alla guerra iniziata o subita ha un diverso grado di intensità a seconda della forma di governo assunta da quello Stato. Infine, le tensioni interne possono essere assunte come “arma asimmetrica’’ dallo Stato nemico. Se lo Stato è necessario e utile, sembra corretto concludere che la forma di guerra utile per definizione sia la guerra difensiva cioè quella che è diretta a salvaguardare l’esistenza dello Stato (ritenuta in tesi necessaria). Se sia riscontrabile un modello “puro’’ di guerra difensiva è un problema, se non altro in considerazione del seguito che le operazioni militari assumono: la guerra da difensiva si può trasformare in guerra offensiva. Specularmente una guerra offensiva (ingiusta) si può trasformare in una guerra per la difesa dell’organizzazione stabile che abbiamo definita per brevità Stato. Si tratta di una delle tante complessità riscontrabili nell’evento guerra.

6. La complessità della guerra si riscontra anche indagando sulle ragioni che ciascuno accampa e che spesso non sono quelle dichiarate. Scendendo – in sintesi – nel concreto, rileviamo che la Francia si dichiara aggredita dagli assalti terroristici di Isis ( così come la Russia) ed in particolare sente minacciata in modo stabile la sua tranquilla quotidianità che possiamo sinteticamente esprimere come “european way of life”. In tale nozione rientrano entità davvero eterogenee che spaziano dalla libertà religiosa a quella di parola e di circolazione (a sua volta comprensiva di interessi particolari e specifici diversificati). È difficile sostenere che la società francese (laicizzata come o più di quella italiana) si senta minacciata dal fatto che taluno creda al Paradiso delle Urì o da una particolare interpretazione di un versetto del Corano. La Francia non combatte per una religione ma per la libertà di pensiero che è altra cosa. Alla fine la Francia – nell’ovvio disegno di assicurarsi consensi operativi in funzione bellica – si assume il ruolo di difensore di quella che con brutto neologismo chiamo occidentalità.  Isis sostiene di essere l’entità aggredita inserendo in questo quadro una serie di ragioni che vanno dalla dominazione coloniale (i cui effetti deleteri sono indiscutibili), a più recenti aspetti come gli interventi militari in alcuni distretti del mondo islamico, interventi nei quali si intravvede una continuazione di un progetto “neocoloniale e capitalistico’’ e le condizioni degradate in cui vivono i musulmani nelle periferie urbane francesi (e non solo francesi). Isis assume un ruolo di difensore di qualcosa che, però, è più radicale dei “valori francesi’’ posto che il disegno dichiarato è quello di costituire – attraverso una guerra che è, insieme, asimmetrica (attentati terroristici) e simmetrica (battaglie in campo aperto) – uno stato islamico fondato sulla costituzione Corano. Insomma uno stato religioso a fondamento religioso.  Vi è dunque una asimmetria negli scopi e una radicale diversità tra ciò che vuole la Francia e ciò che vuole Isis. Ma nessuno dei due Stati è esente da disegni per così dire occulti, anche se di diversa articolazione. Essi ricalcano, però, aspetti rispettivamente diversi. Non penso che la Francia persegua una politica neocoloniale in senso proprio (occupazione reale di territori) ma è certo che la sua economia (il tenore di vita dei suoi abitanti) ha bisogno di un tipo di politica particolare cui sono connessi intrecci capitalistici e di sfruttamento (di vario genere): ad essi sono o possono essere funzionali azioni paramilitari o comunque di “guerra economica”. In tale quadro è rilevante anche la disponibilità piena (il possesso diretto o indiretto) delle fonti energetiche sulle quali si fonda parte del benessere occidentale. Sono questi “i beni” che mi vengono con più frequenza in mente. L’azione dell’Isis è più direttamente segnata da un progetto di occupazione di territori, quantomeno nella fascia mediorientale, progetto fondamentalista che ha una forte identità religiosa ma che collide (può collidere) con gli interessi economici francesi. Sotto questo aspetto presenta una minore equivocità, anche se non manca un motivo di contrasto interno alle varie confessioni dell’Islam. Esemplificando perché non ne conosco altre articolazioni: Sunniti – Sciiti. La rivalità tra ortodossia sunnita e eterodossia sciita è millenaria e – secondo le convenienze – i diversi interessati a certi assetti dell’area mediorientale si sono appoggiati all’una o all’altra in funzione della lotta per gli assetti geopolitici di tale zona. Qualche precisazione si impone, forse, parlando della Russia che denuncia – a giustificare la guerra all’Isis – il tentativo di islamizzazione della sua “cultura’’. Per decidere sul carattere autentico di tale denuncia bisognerebbe verificare il livello di “laicizzazione’’ della società russa, cioè quale sia il peso della religione cristiano-ortodossa nella formazione dell’identità di quel paese. Penso che da un certo punto di vista la “cultura ’’ russa sia più prossima a quella “occidentale’’. Ma anche rispetto alla Russia non vanno nascoste alcune “ragioni’’ tipicamente politiche che impongono o consigliano determinate alleanze e determinati scontri militari. La Russia ha rivendicazioni territoriali e si sente – a torto o a ragione – accerchiata  dall’occidente (leggi Usa); non rinuncia, poi, ad un ruolo di grande potenza nel settore mediorientale, mentre non sembra avere interessi energetici. Tali osservazioni spiegano gli intrecci di alleanze, la discontinuità e le contraddizioni all’interno di esse che si modellano a seconda delle convenienze politiche ed economiche del momento. Anche questi fattori creano complessità entro le quali la linea diritta e ferma della ragione si smarrisce.

7. Il contesto geopolitico e demografico attuale – di alta drammaticità – impone anche una riflessione sulla necessità di modificare alcune nostre idee sullo “spazio nazionale’’, sulle “migrazioni’’ e sull’“integrazione’’. La libera circolazione in Europa di cittadini di diversa nazionalità (principio di cui meniamo vanto) importa inevitabilmente lo spostamento di un certo numero di persone da un paese e da un continente all’altro. E in proposito si rifletta su quanto segue. È contro ragione – ed è smentita dai fatti – la convinzione che i migranti di massa lascino nella terra di origine “tutti i loro panni’’ cioè la loro identità culturale. Costoro la conservano e tale atteggiamento è tanto più forte se assistito da una identità ideologica (religiosa od altro) che li unisce. Se la religione musulmana si conserva con caratteri tanto precisi ed indelebili nei “francesi di seconda e terza generazione’’ significa che costoro hanno mantenuto (vogliono mantenere) una loro identità (almeno su certi punti). Se le migrazioni di massa, in senso proprio e tradizionale, possono essere citate, attendibilmente, come cause storicamente accertate di conflitti in senso stretto (guerre), è argomento di analisi e discussione la potenzialità conflittuale delle migrazioni frazionate nella quantità e dilazionate nel tempo.  Tale punto può essere sgradito ma è ineludibile. Su un piano, per così dire filosofico, penso che si stia assistendo (e quindi anche subendo una) ad una destrutturazione del concetto di “luogo’’ come frazione di spazio in cui si vivono le proprie identità. Ad esso si sostituisce il concetto di “spazio virtuale’’ entro il quale le stesse identità si manifestano senza la necessità di  “presenza fisica di soggetti’’. L’informatica da un lato distrugge le aggregazioni tradizionali e dall’altro lato ne crea altre, non meno efficaci a certi scopi. Entro questo quadro si debbono collocare le “migrazioni metaforiche’’ costituite dal trasferimento di soggetti portatori di forti identità culturali dalla terra di origine ad altre terre. In queste ultime tali soggetti ricostituiscono (possono ricostituire) e perpetuare la propria identità originaria. Se nella terra di arrivo si pratica (per una qualsiasi ragione: dalla più nobile alla più cinica) l’accoglienza e si accede – in tutto o in parte – ad alcune componenti culturali del migrante, si è già, parzialmente, fuori dalla metafora. Se l’accoglienza si accompagna a condizioni di vita reale degradanti e intollerabili, vengono ad emergere precise cause di tensione che finiscono per fare del “luogo in cui si è arrivati’’ un “non luogo’’. Se a tali migranti – quale che sia il grado di generazione demografica – arrivano dall’esterno segnali in cui vengono riconosciuti tratti più o meno intensi di partecipazione alla loro condizione e se tali segnali contengono anche tratti di “identità” culturale, si hanno – a mio giudizio – tutti gli elementi favorenti il conflitto. In generale i migranti sono moderati. Non si insisterà mai abbastanza nel vedere nella moderazione una virtù, ma occorre distinguere tra moderazione per convenienza e moderazione per convinzione.  Trascurando la sostanza delle cose, si adopera con disinvoltura il termine “integrazione”. Il termine non dovrebbe essere adoperato, o dovrebbe essere adoperato con cautela, da coloro (e io sono tra questi) che affermano il principio che la democrazia non va esportata. Più in genere nessuna cultura deve essere estirpata con la violenza e sostituita di forza con altra. Mi chiedo se l’integrazione, in certe circostanze ed a certe condizioni, non sia una forma di violenza.  La notazione supplementare è che – alla fin fine – “si integrano solo i ricchi e non i poveri’’. Forse è più corretto e più civile fare ricorso – teoricamente – alla parità di trattamento. Il migrante ha diritto a tutto ciò che è permesso e concesso al cittadino dello Stato ospitante, nulla di più e nulla di meno.  Ma tale principio non può determinare la concessione di “privilegi” per il fatto di essere ospitato. Se un certo comportamento è vietato dalle leggi nazionali l’ospite che sia formalmente francese deve rispettare il divieto; il privilegio accordato all’identità ne riconosce il valore ma allo stesso tempo può implicare serie tensioni con le identità prevalenti nello stato “ospitante”.

8. La sconsolata e cinica conclusione che si potrebbe trarre da tali osservazioni e che si potrebbe esprimere nella crudele frase – lasciamoli cuocere nel loro brodo – non è eticamente tollerabile e neppure lungimirante. Tutto ciò che può accadere è già accaduto (considerazione utilitaristica ). Considerazione etica. Anche la Rivoluzione francese aveva le sue tre Virtù teologali: libertà, eguaglianza e fraternità. I cristiani parlano di Fede, Speranza e Carità. Diffido delle prime due e mi piace leggere come equivalenti Fraternità e Carità. Sono virtù che non poggiano sull’Invisibile ma su una o più persone reali che ci stanno di fonte e che chiedono un aiuto. Sì, perché ognuno di noi è perseguitato dai mali dell’esistenza che ci possono colpire da un momento all’altro e anche solo questo ci induce ad un rapporto di fratellanza. Cosa significa tutto questo? Abbozzo una linea di massima, un principio di orientamento: solo aiuti umanitari disinteressati (cioè non scambiabili con altre utilità) e solo se richiesti; solo conflitti difensivi e nei limiti strettamente necessari; ritiro delle forze armate estranee; ridisegno di “luoghi/confini’’ che favoriscano un equilibrio tra identità diverse. Le mie osservazioni segnalano, però anche e realisticamente, tutte le difficoltà che i nostri comportamenti più giusti ed eticamente raccomandabili incontrano in questi giorni. L’utopia, come progetto che va perseguito con forza è onorevole ma va controllato nelle sue possibilità di realizzazione concreta. E ogni nostro pensiero di pacificazione si scontra con aporie che oggi sembrano insuperabili. Mi attengo ai dati meno discutibili. Gli Usa non vogliono Assad perché feroce dittatore e a feroci dittatori si sono appoggiati nella loro storia; la Turchia dichiara di voler combattere l’Isis ma bombarda “di preferenza” i Curdi ai quali non vuole riconoscere nulla e forse anche commercia con la stessa Isis; la Russia appoggia Assad e l’Iran in prevalente funzione dei propri interessi… l’elenco può continuare. C’è speranza che si agisca “per la Pace” ? Come che sia lo sforzo di pensare a lungo termine e in profondità non deve mai cessare.

NOTE

Nel testo che precede non sono contenuti richiami, con note, a specifici testi. Molti libri letti in tempi remoti sono diventate memorie, costitutive di convinzioni personali. Come tali non citabili. Stampa e interviste televisive, a parte il merito delle scelte stesse, mi sembrano (opinione strettamente  personale) prive, nell’impostazione dei problemi, di quel rigore logico che cerco in me stesso e dunque non me ne servo. Preferisco, quindi, elencare, qui di seguito, alcuni testi che ritengo abbiano avuto più o meno direttamente influenza sulle mie osservazioni. Essi sono elencati secondo un ordine rigorosamente alfabetico e non di maggiore o minore importanza:
1) Carl von Clausewitz, Della guerra, a cura di G. E. Rusconi, Einaudi, Torino, 2000. Particolarmente interessante l’Introduzione del curatore.
2) Graham Greene, L’americano tranquillo in Graham Greene, Romanzi, vol. I, Mondadori, Milano 2000, con nota introduttiva da non trascurare.
3) Michel Houellebecq, Sottomissione, Bompiani, Milano 2015.
4) Karl Loewith, Da Hegel a Nietzsche – La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XX secolo, Einaudi, Torino, 1949. 5) Platone, Protagora, Laterza, Bari 1982, pag. 82.

18 pensieri su “Il conflitto con l’ISIS ovvero uno scacco alla razionalità (almeno alla mia)

  1. Nella sua ricerca della ragione, disperata (*dare a tale tragica catena di eventi una sistemazione razionale*) e disperante (*abbandonata la razionalità, si apre una domanda drammatica: cosa resta?*), G. Mannacio nel suo post ci mette comunque davanti ad alcuni indizi che potranno trasformarsi in altre domande, soprattutto rispetto all’idea che non tutto ciò che appare risponde veramente alla realtà profonda.
    Credo, comunque, che la politica, soprattutto oggi, non possa più essere letta secondo un profilo lineare bensì strategico, che tiene conto dei rapidi mutamenti di campo e di alleanze.
    Per questo mi fa piacere che riporti in nota, nella sua bibliografia, il romanzo di Graham Greene (“The quiet american”), tradotto in film sia nel 1958 da Joseph L. Mankiewicz e sia nel 2002 da Phillip Noyce. Consiglierei la visione di quest’ultimo, più esplicito rispetto al precedente in quanto rafforza la denuncia, anche cruda, nei confronti dei sistemi utilizzati dalle forse del Bene (= USA) per raggiungere i loro obiettivi di prendere il dominio (come “terza forza”) durante la Prima Guerra d’Indocina.
    Vediamo anche messi a confronto due ‘cinismi’, quelli del Vecchio Mondo, la disillusione nei confronti di un colonialismo brutale ma ormai agli sgoccioli, e un ‘cinismo’ di nuova generazione, ammantato di ideali e che intanto opera nell’ombra per destabilizzare i comunisti vietnamiti, attraverso orrendi attentati a loro imputati. Così, l’americano tranquillo, portatore di aiuti umanitari, è solo la facciata dietro la quale si nascondono i torbidi maneggi americani, per impedire l’avanzata di Ho Chi Minh e per paura che l’Unione Sovietica estenda il suo controllo nel Sud-est asiatico.

    Quando G. Mannacio (punto 2.) scrive *Sono convinto che il conflitto Francia – Isis (e aggiungo la Russia) sia una guerra in senso proprio. Penso che non sia ancora in atto una guerra Italia – Isis, anche se tale eventualità è da mettere in conto a tutti gli effetti*, apre tutto un mondo di domande. Perché l’Italia no? Ci sono stati accordi? E, se sì, quali? Solo perché non è Potenza (o e condannata a non esserlo) e deve mantenere il basso profilo di chi non può alzare la testa?
    Ma anche quando osserva che l’Isis *assume un ruolo di difensore di qualcosa che, però, è più radicale dei “valori francesi’’ posto che il disegno dichiarato è quello di costituire – attraverso una guerra che è, insieme, asimmetrica (attentati terroristici) e simmetrica (battaglie in campo aperto) – uno stato islamico fondato sulla costituzione Corano. Insomma uno stato religioso a fondamento religioso*, la domanda che ci possiamo porre è “che cosa osta a tale progetto?
    Sono solo le rivalità interne tra ortodossia sunnita e eterodossia sciita (che, però, come nota Mannacio, sono millenarie)? O, forse, ad impedirlo sono le Sante Alleanze tra i paesi (Francia in testa) che vogliono difendere i principi dell’occidentalità, oppure, la Russia che denuncia *– a giustificare la guerra all’Isis – il tentativo di islamizzazione della sua “cultura’’*? Ragion per cui, per difendersi dagli attacchi, all’Isis non rimane altro che contrattaccare?
    Sembra una logica ‘lineare’, come quella che contrassegnava le guerre di un tempo, “tu mi provochi e io ti attacco e vinca il più forte sul campo!”. Ma oggi non è così.
    L’Isis, come perenne minaccia, serve così com’è (ed è anche per questo che ha le sue fonti di alimentazione esterna!) per mantenere il terrore a livello ‘internazionale’, (il terrorismo è internazionale, come scrive E. Partesana).
    E’ illogico, verrebbe a tutti da gridare! Eppure, più oltre, Mannacio scrive: * le tensioni interne possono essere assunte come “arma asimmetrica’’ dallo Stato nemico*. Già. Allora, altrettanto logicamente, verrebbe da dire: individuiamo il Nemico, quello con la ‘enne’ maiuscola!
    Ma la targhetta di Nemico, quello non ce l’ha stampigliata in fronte, e, oltretutto, il Nemico è sempre l’Altro; quindi bisogna saper leggere tra le righe della realtà, oggi sempre più magmatica, ma senza codici pregiudiziali e vecchie retoriche.
    Mentre quelli con la ‘enne’ minuscola, li possiamo trovare via via, oggi sono i migranti o i terroristi stessi. E’ più facile!
    Oltretutto, la tendenza sempre più spinta a fare dei “nostri luoghi” dei “non luoghi” e quindi a perdere le nostre identità, ivi comprese le nostre memorie (perché questo non è valido, soltanto per i migranti e la loro accoglienza, ma anche per la nostra stanzialità: *Se l’accoglienza si accompagna a condizioni di vita reale degradanti e intollerabili, vengono ad emergere precise cause di tensione che finiscono per fare del “luogo in cui si è arrivati’’ un “non luogo’’*, come scrive G. Mannacio), ci renderà ancor più difficoltoso riconoscere e differenziare, saper distinguere l’amico dal nemico.
    A quel punto, così confusi, il ricorso, facilitato e tranquillizzante, alle etichette e ai luoghi comuni è il drammatico passo successivo!

    R.S.

  2. “Credo, comunque, che la politica, soprattutto oggi, non possa più essere letta secondo un profilo lineare bensì strategico” (Rita S. 3 giugno).
    Dopo aver affermato che valgono in questo momento le manovre geostrategiche, che legano e interrompono alleanze e occupazioni di campi, Rita passa alla critica delle ideologie-generalizzazioni che sostengono quei particolari disegni.
    “L’Isis, come perenne minaccia, serve così com’è (ed è anche per questo che ha le sue fonti di alimentazione esterna!) per mantenere il terrore a livello ‘internazionale’, (il terrorismo è internazionale, come scrive E. Partesana)”: la difficoltà di individuare il Nemico con la N maiuscola dirige l’aggressività che nasce dal disordine verso i nemici con n minuscola facili da individuare per via.
    Mi pare, il discorso di Rita, una buona introduzione per assumere come possibili solo posizioni di astensione, sobrietà e scetticismo (evitando, a livello personale, la disperazione). La efficacia pratica del pensiero critico è forse zero, sia sul piano generale della politica geostrategica multipolare, sia sul piano delle democrazie interne agli stati.
    Non c’è che da guardare alla nuova titanomachia in corso e intanto occuparsi del giardino di Voltaire all’intorno, confidando in regole millenarie di coltivo. Potendo scegliere per i tempi prossimi, come in una nuova epoca alessandrina, tra una posizione individualista di criticismo scettico e un’altra, politica, di stoicismo razionale super partes e fuori dai giochi.
    E’ forse questa l’unica realmente pratica prospettiva?

  3. La guerra dell’IS non è difensiva, vale a dire che NON è vero che senza gli (sciagurati) interventi occidentali in Afghanistan, Irak, Siria, Libia, etc., questi se ne starebbero tranquilli a casa loro a studiare il Corano e a innaffiare i fiori.
    Gli interventi occidentali hanno creato la finestra di opportunità nella quale i jihadisti si sono infilati. Le potenze dell’anglosfera, e a rimorchio la UE, dopo l’implosione dell’URSS si sono proposte l’obiettivo di un completo ridisegno del Levante, da sempre un’area chiave, per assicurare il dominio globale degli USA (v. il piano dei neoconservatori americani, https://en.wikipedia.org/wiki/Project_for_the_New_American_Century). Per realizzare il progetto, era necessario destabilizzare e distruggere gli stati nazionali laici arabi, impiantati dai nazionalisti arabi negli anni Cinquanta dello scorso secolo con l’appoggio o il permesso degli USA, che all’epoca volevano sostituirsi ai britannici e ai francesi in quell’area. Momento di svolta, la crisi di Suez, dopo la quale i britannici non poterono più condurre una politica internazionale completamente autonoma dagli USA (https://it.wikipedia.org/wiki/Crisi_di_Suez). Esemplare anche il caso di Gheddafi in Libia, che andò al potere rovesciando re Idris, sostenuto dai britannici, con un colpo di Stato organizzato con l’appoggio del governo italiano e il semaforo verde americano.
    Nel Levante, ci sono solo tre forze in campo: il nazionalismo socialista autoritario del Baath, l’Islam con i Fratelli Mussulmani e le altre organizzazioni politico-religiose islamiche, e le tribù o i clan. La nuova potenza dominante dell’anglosfera, gli USA, ha dunque rispolverato le tradizionali politiche “multiculturali” dell’Impero britannico, che ha sempre sfruttato religione e tribù per dividere il nemico (v. Lawrence d’Arabia contro l’Impero Ottomano). La prova generale di questo gioco, per gli USA, è stato l’appoggio ai mujaheddin contro l’URSS in Afghanistan, coronato da un completo successo.
    In questo gioco si è inserita anche la Casa di Saud, insediata proprio dai britannici dopo la fine dell’Impero Ottomano. La Casa di Saud deve contenere la potenza regionale iraniana, sciita, e per legittimarsi – è uno Stato teocratico che ha sul proprio territorio la Mecca, sacra a tutti i mussulmani – ha bisogno di riaffermare una versione rigorista dell’islam, il wahabismo. Israele, dal canto suo, che avrebbe beneficiato largamente del progetto USA (nascita della “Grande Israele”, frammentazione dei suoi nemici arabi) ha promosso la formazione di Hamas, islamica, ai danni di Al Fatah, laica.
    Il progetto neoconservatore, ambiziosissimo, naturalmente ha incontrato diversi ostacoli, e nella sua esecuzione sono stati commessi diversi gravi errori, (particolarmente catastrofica la gestione del dopoguerra in Irak). L’errore strategico più grave in assoluto è stata la politica immigrazionista “a porte spalancate” in tutto l’Occidente, che ha regalato ai jihadisti solide e preziose teste di ponte in territorio nemico. Ragione fondamentale dello sbaglio: gli USA hanno sottovalutato la forza dei jihadisti, perché ubriacati dall’enorme differenziale di potenza economica, tecnologica e militare a loro favore; la UE, dal canto suo, non ha mai avuto la capacità di pensare la guerra, ed è accecata dalla propria ideologia universalista ed economicista. I britannici hanno confidato nella loro capacità di continuare a gestire il multiculturalismo imperiale anche sul suolo della madrepatria, e stanno cambiando idea soltanto oggi.
    I jihadisti, che non sono stupidi per niente, hanno accettato l’aiuto, e vorrei vedere: ma come le potenze dell’anglosfera intendevano strumentalizzare i jihadisti, così i jihadisti intendevano strumentalizzare le potenze dell’anglosfera. A quale scopo?
    Questi signori hanno motivazioni trascendenti, ragionano su un range temporale di secoli, e hanno un programma politico a lunga scadenza: ricostituzione del Califfato. Non è un programma nuovo. E’ la più recente versione del progetto di rivincita contro l’Occidente (ex) cristiano. La vittoria storica degli occidentali ex cristiani non è mai andata giù ai mussulmani perché non collima con la loro persuasione che Allah è con loro, e che il Suo progetto è di rendere mussulmana, cioè sottomessa al Suo volere, l’intera umanità; viene dunque intesa come punizione divina per l’insufficiente adesione all’Islam dei popoli mussulmani e soprattutto dei loro governanti. Qual è la cura? Più rigore nell’osservanza, più radicalismo religioso, dunque più jihad, interiore ed esteriore.
    Obiettivo strategico dei jihadisti: partita di ritorno vittoriosa di Poitiers, della Reconquista spagnola, di Lepanto e Vienna, quindi conquista dell’Europa anzitutto mediterranea. Obiettivi intermedi: distruzione degli Stati arabi laici, costruzione di una base di potenza statuale islamica nel Levante, fondazione del Califfato islamico con capitale Damasco; in Europa, o sollevazioni islamiche con guerra civile tra mussulmani ed ex cristiani, o (meglio) partizione degli Stati europei a forte presenza islamica: la partizione tra zone ex cristiane e zone islamiche diventerà inevitabile a causa del differenziale di dinamica demografica tra ex cristiani e mussulmani e dell’impossibilità di integrare grandi numeri di mussulmani in una società occidentale. Segnalo che l’ex presidente Hollande, nel suo recentissimo libro-intervista “Un président ne devrait pas dire ça”, dice esattamente questo: che prima o poi si renderà inevitabile una partizione della Francia tra zone islamiche e zone occidentali (http://www.lefigaro.fr/vox/politique/2016/10/12/31001-20161012ARTFIG00292-immigration-l-incroyable-aveu-de-francois-hollande.php)
    E’ realizzabile o irrealizzabile, il progetto jihadista? Naturalmente non lo sa nessuno. Però è un progetto politico razionale, che si fonda su forze e tendenze realmente esistenti, e che sfrutta abilmente debolezze politiche e culturali del suo nemico (noi, e dico noi perché i jihadisti non distinguono gli occidentali in base alle posizioni politiche). Le principali debolezze politiche sono la debolezza politica dell’impero USA, che negli ultimi anni si dimostra incapace di sostenere e stabilizzare la sua egemonia mondiale, e la totale inettitudine politica, militare e ideologica della UE. Le principale debolezze culturali sono, per esprimersi molto in breve, il consumismo e l’individualismo occidentali, cioè a dire la pretesa di fondare la società sulla sola base delle relazioni economiche, che mina sia la coesione sociale, sia la conformazione delle personalità. Sempre per esprimersi molto in breve, per le società capitalistiche occidentali i valori supremi sono la conservazione della vita fisica e l’accrescimento del benessere e del piacere individuali; esse affidano la loro sicurezza alla superiorità tecnologica dei loro eserciti (professionali), e non vogliono sacrificarsi né per la famiglia, né per la patria, né per Dio.
    I jihadisti sì, tant’è vero che sono pronti a compiere missioni suicide. Come si diventa jihadista? Anzitutto, bisogna togliersi di mente l’idea che il jihadista sia un folle. Non è per niente folle sacrificare la vita, propria e altrui, per la famiglia, la comunità, la patria, Dio: altrimenti l’intera storia umana va rubricata nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. I jihadisti che vengono dalle seconde e terze generazioni di immigrati in Occidente di solito lo diventano come segue. Sono sradicati: non possono più aderire spontaneamente a tradizioni, usi, costumi del paese di provenienza della loro famiglia: la prima generazione di immigrati continua a seguirli anche all’estero, la seconda e la terza non ci riescono più. Però non possono/vogliono integrarsi o assimilarsi, perché la distanza culturale è troppo grande, e per gli usi e costumi occidentali non hanno che odio, risentimento e disprezzo. L’unica cosa che ne apprezzano, perché è la più facile da apprezzare, è la più vistosa e banale, cioè la libertà di fare soldi e di procurarsi piaceri d’ogni sorta. Fare soldi legalmente è difficile, quindi, se hanno carattere indipendente e aggressivo, diventano criminali. Nelle zone extraterritoriali islamizzate delle periferie europee ci sono due centri di potere e autorità: i caid della droga, e gli imam fondamentalisti, che sono potenti e ascoltati sia perché la versione di Islam che propagandano è molto semplice e accessibile anche ai più ignoranti, sia perché sono largamente finanziati da sauditi e soci, e fanno rete di sostegno/welfare per la popolazione. Quando il giovane sradicato divenuto criminale si accorge che la sua vita, nonostante i soldi e piaceri, non gli dà vera soddisfazione, va in depressione, e invece di andare dallo psicanalista o prendere lo Xanax va dall’imam. L’imam gli spiega una cosa più che vera per tutti, mussulmani o no che siano: che non c’è vera soddisfazione nel vivere soltanto per se stessi e i propri piaceri; la soddisfazione e la gioia vera si trovano nel vivere per qualcosa o qualcun altro. Poi naturalmente gli indica anche per chi e per che cosa vivere: per i suoi confratelli mussulmani, e per Allah. Il giovane sradicato mette la testa a posto, guarisce dalla depressione, e diventa jihadista.
    Ecco spiegato perché a combattere in Siria contro Assad ci sono un ventimila cittadini europei. I quali cittadini europei, quando le vicende della guerra in Siria – che ha lo scopo di creare uno Stato islamico con tutti i crismi – non sono favorevoli, tornano ai luoghi di provenienza e continuano a combattere contro il loro nemico, noi. Noi tutti, non solo i nostri governi, o i nostri eserciti, i nostri capitalisti, o le nostre classi dirigenti politiche: noi, donne e bambini compresi, perché uno degli obiettivi strategici della loro lotta è la disgregazione delle società e degli Stati occidentali, e per raggiungerlo è indispensabile a) spargere il terrore tra la popolazione occidentale, che così perde fiducia nei governanti che non sanno proteggerla b) mostrare agli immigrati mussulmani che i jihadisti sono eroici e potenti, capaci di sacrificare la vita e di battersi in pochissimi contro migliaia di poliziotti e soldati: ogni attentato suicida è una Termopili c) provocare se possibile una reazione simmetrica dei governi o (meglio ancora) delle popolazioni occidentali, cioè violente rappresaglie legali o illegali contro gli immigrati mussulmani, che così si radicalizzeranno, e per vendetta e paura si faranno egemonizzare dalle dirigenze jihadiste.

  4. La coerenza e l’universalismo sono i pregi del quadro disegnato da Buffagni, e potrebbero essere anche la sua debolezza, il sostrato ideologico che lo regge.
    Ma quando afferma che “non c’è vera soddisfazione nel vivere soltanto per se stessi e per i propri piaceri; la soddisfazione e la gioia vera si trovano nel vivere per qualcosa o qualcun altro” va vicino al vero di molti.
    Quando aggiunge che il mullah indica però al giovane musulmano di terza generazione che si vive per Allah e per i confratelli dopo di che il giovane musulmano diventa jihadista, si comprende che invece i giovani occidentali dovranno introiettare la missione di vivere per valori altrettanto cogenti.
    Ma la vera cogenza sarebbe per tutti, i quali tutti comprendano che non esistono posizioni terziste o neutrali. Altro che coltivare il giardino!
    Questa logica di guerra somiglia a un meccanismo inesorabile, una volta definito “un” nemico. C’è oggi una vicinanza e un intreccio crescente tra “politica” e “guerra”, diminuisce l’autonomia per la politica, e la guerra appare sempre più come la sua vera faccia.

    1. Pierre-André Taguieff dans son ouvrage sur Julien Freund – Julien Freund, au cœur du politique – relate un dialogue savoureux entre le philosophe Jean Hyppolite et Julien Freund lors de la soutenance de thèse de ce dernier, en 1965 à la Sorbonne.

      Des années plus tôt, Hyppolite, penseur marxiste convaincu, avait révoqué Freund en des termes pour le moins expéditifs après avoir obtenu de lui les cent premières pages de sa thèse devenue célèbre, L’Essence du politique :

      « Je suis socialiste et pacifiste. Je ne puis diriger en Sorbonne une thèse dans laquelle on déclare : Il n’y a de politique que là où il y a un ennemi.»

      Freund déçu s’était alors tourné vers Raymond Aron qui accepta de prendre la relève.

      Le jour de la soutenance, Hyppolite attaqua sévèrement :

      «Sur la question de la catégorie de l’ami-ennemi, si vous avez vraiment raison, il ne me reste plus qu’à aller cultiver mon jardin.»

      Freund répliqua :

      «Écoutez, Monsieur Hyppolite, vous avez dit […] que vous aviez commis une erreur à propos de Kelsen. Je crois que vous êtes en train de commettre une autre erreur, car vous pensez que c’est vous qui désignez l’ennemi, comme tous les pacifistes. « Du moment que nous ne voulons pas d’ennemis, nous n’en aurons pas », raisonnez-vous. Or c’est l’ennemi qui vous désigne. Et s’il veut que vous soyez son ennemi, vous pouvez lui faire les plus belles protestations d’amitiés. Du moment qu’il veut que vous soyez son ennemi, vous l’êtes. Et il vous empêchera même de cultiver votre jardin.»

      Hyppolite répondit :

      «Dans ce cas, il ne me reste plus qu’à me suicider.»

      Taguieff cite ensuite le commentaire critique fait par Raymond Aron à propos de Hyppolite et rapporté par Freund :

      «Votre position est dramatique et typique de nombreux professeurs. Vous préférez vous anéantir plutôt que de reconnaître que la politique réelle obéit à des règles qui ne correspondent pas à vos normes idéales.»

      https://lmdldb.wordpress.com/2010/02/01/4563/

      1. Sì, l’episodio è noto. Ma non fa che ribadire quanto avevo scritto: “meccanismo inesorabile, una volta definito ‘un’ nemico”, solo che è visto dall’altra parte dell’elastico.
        Nel n. 12 di Poliscritture, di prossima uscita, c’è un’intervista a Meo Valpiana, Presidente nazionale del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa per la nonviolenza di Verona e direttore della rivista mensile “Azione nonviolenta” (http://www.azionenonviolenta.it/) in cui parla di Difesa Civile Non armata e Nonviolenta.
        Riporto alcuni punti ma va letta nella sua interezza.
        “Un esercito invade uno Stato e vince la guerra quando la gente collabora e si lascia soggiogare. […] Ci furono vari episodi di resistenza armata, ma anche casi importanti di resistenza nonviolenta all’invasione tedesca. Quella più conosciuta, studiata ed approfondita dagli storici è stata quella danese: in Danimarca l’invasione nazista non riuscì completamente, ma solo in parte. Ad esempio non si verificò alcuna deportazione di ebrei, nemmeno un singolo ebreo danese fu deportato, grazie al fatto che riuscirono a nasconderne 5000. La popolazione non riconobbe il governo fantoccio che era stato messo in sostituzione dell’allora monarca e ci fu una non collaborazione totale e complessiva, ben organizzata.

        Per attuare la nonviolenza, prima va fatta una buona analisi della situazione, altrimenti non si sa come affrontarla e si fanno disastri. Ora il contesto è indubbiamente molto complesso. Ciononostante possiamo certamente delineare alcuni elementi chiave: quindi prima di andare a contrastare l’Isis (o chi per loro) sul piano militare, cerchiamo di bloccar loro i finanziamenti; capiamo da dove arrivano o in taluni casi evitiamo di darglieli direttamente, smettiamo di fornirgli le armi, blocchiamo il mercato internazionale delle armi. […] Una cosa non fatta e che bisogna fare tuttora è il sostegno anche finanziario, oltre che culturale dei gruppi di resistenza nonviolenta, civile e democratica che ci sono ad esempio in tutti i Paesi del Maghreb (Valpiana si riferisce all’epoca delle primavere arabe e poi alla guerra in Libia).

        Di fronte all’Isis, la domanda che ci fanno sempre: cosa facciamo davanti a loro? Con la nonviolenza non lo so, ma posso dire che intanto possiamo utilizzare gli strumenti a disposizione per non finanziarli, per contenere il traffico umano degli immigrati, e dove è necessario intervenire anche con atti di forza che è diverso dal dire atti di guerra. Io non mi sentirei di oppormi ad un intervento militare se c’è da salvare una città o una popolazione. Dicendo però che siamo costretti a farlo perché ancora non abbiamo delle alternative, nonostante siano decenni che le chiediamo.”

        1. La nonviolenza la lascerei perdere, con L’IS. La resistenza non violenta ai nazisti in Danimarca riuscì certo per il comportamento coraggioso del re e della popolazione, ma soprattutto perchè i tedeschi, nel loro progetto di Europa, mettevano gli scandinavi nel novero delle popolazioni da integrare, non da schiavizzare. Faccio notare che l’IS non ha la minima intenzione di “integrare” le popolazioni occidentali, a meno che non si convertano all’Islam (perlomeno non sono razzisti, è già qualcosa).
          In Europa di nonviolenza, non nel senso della gandhiana , ma nel senso di incapacità totale di pensare la guerra e di mentalità pacifista demente e autolesionista, plasticamente rappresentata dai gessetti colorati e dalle orecchie di coniglio dopo gli attentati, ce n’è anche troppa, troppissima. Sintesi, veniamo allevati per essere dei vigliacchi, degli struzzi che di fronte a una aggressione ficcano la testa sotto la sabbia, e dei cocchi di mamma che si mettono a piangere quando qualcuno gli fa “Bù!” Esemplare la scelta unanime di Ministre della Difesa che quandosi riuniscono sembrano il club del libro all’ora del tè e pasticcini.

          Oltre ai provvedimenti da lei elencati, anzitutto il taglio dei finanziamenti dall’estero, e naturalmente allo stop o perlomeno al monitoraggio + riduzione dell’immigrazione, per battere l’IS su suolo europeo la ricetta c’è, è sperimentata e funziona. E’ la stessa ricetta impiegata contro l’OAS da De Gaulle, o dalla Thatcher contro l’IRA. La seconda, che è un’analogia più calzante, funziona così.

          A) presidiare il territorio (in questo caso, le zone extraterritoriali islamiche) con l’esercito e la polizia, senza reagire con violenza simmetrica quando si venga colpiti, quindi accettare di subire più perdite di quelle che si infliggono. Lo scopo è comunicare alla popolazione che l’unico garante di una vita quotidiana decente e ordinata è lo Stato.

          B) Contemporaneamente, i servizi di informazione individuano con vari mezzi (corruzione, ricatto, infiltrazione, decodificazione delle comunicazioni ostili) i dirigenti dell’opposizione, e le forze speciali – in GB, il SAS – li fanno sistematicamente fuori. Ne fanno fuori il più possibile, senza arrestarli, senza portarli in tribunale, senza aspettare che commettano reati: li fanno fuori e basta. E’ illegale, ma funziona, se c’è tacito accordo nella classe dirigente. Si chiama controterrore di Stato, non è bello da vedere ma se qualcuno ha un’idea diversa lo invito a proporla.

          Nel caso dell’IS, la situazione è molto più difficile che con l’IRA, anzitutto perchè i militanti sono di più, sono più vaste e popolate le aree di contiguità ideologica ed etnica, e poi perchè sono disposti a compiere missioni suicide, e hanno un track record di violenze terrificanti tipo Beslan che ci si può attendere replicherebbero, se messi alle corde.

          Io però un altro metodo non lo vedo. Poi si può anche continuare a far finta di niente. Però questi non spariscono quando suona la sveglia e riaccendiamo la luce.

          Caveat: se qualcuno replica che bisogna integrarli e che la chiave della questione è dargli un lavoro con un salario decente + welfare con i fiocchi, non gli rispondo.

  5. «Votre position est dramatique et typique de nombreux professeurs. Vous préférez vous anéantir plutôt que de reconnaître que la politique réelle obéit à des règles qui ne correspondent pas à vos normes idéales.»

    Certo, la politica nella sua prassi non può corrispondere ad un modello ideale. Lo abbiamo toccato con mano – e con tutte le resistente che ancora angustiano molti di noi – anche a seguito di tutti i movimenti ‘rivoluzionari’. Politica ed esercizio del potere vanno sempre a braccetto e gli ideali servono a reggere lo strascico di questi sponsali.
    Ma procediamo.

    Dalla interessante e articolata disamina di Buffagni, mi sono posta queste due domande, non da poco, ovviamente.
    La prima: “perché adesso” questa escalation?
    La seconda: il ruolo che in questo ‘adesso’ ha avuto la progressiva destituzione della ragione, intesa come faticoso raggiungimento dell’essere umano nella sua crescita, che ci impone limiti e rispetto, e che è anche ciò che ci permette di interloquire qui, in questo luogo, sia pure virtuale, senza prenderci a sediate o a spararci addosso se incontriamo il disaccordo degli altri.

    Sono in parte d’accordo sul fatto che *senza gli (sciagurati) interventi occidentali in Afghanistan, Irak, Siria, Libia, etc., questi [IS] se ne starebbero tranquilli a casa loro a studiare il Corano e a innaffiare i fiori*, perché in questo modo *hanno creato la finestra di opportunità nella quale i jiadisti si sono infilati* ma, come ben sappiamo, c’è anche la presenza di altre concause. Una fra queste, come cita Buffagni, *Per realizzare il progetto, era necessario destabilizzare e distruggere gli stati nazionali laici arabi*.
    Ergo, filo conduttore, la distruzione di ogni parvenza di identità raccolta attorno ad una nazionalità.
    Solo che questo dissennato progetto apparteneva piuttosto alle mire imperialiste di stampo coloniale prima e smaccatamente distruttive di ogni spinta di autonomia nazionale, poi. Ovviamente mascherando questa abolizione dietro ideologie universaliste e intrise di multiculturalismo per cui, le nazioni, non devono esserci, come sosteneva Toni Negri in una recente intervista, perché appartengono ad un barbarico retaggio culturale!
    Eppure l’*esemplare* e tragico destino della Libia, a partire dalla destituzione di re Idris all’avvento e annientamento di Gheddafi, stava già sotto gli occhi di tutti!

    Buffagni scrive: *Quando il giovane sradicato divenuto criminale si accorge che la sua vita, nonostante i soldi e piaceri, non gli dà vera soddisfazione, va in depressione, e invece di andare dallo psicanalista o prendere lo Xanax va dall’imam. L’imam gli spiega una cosa più che vera per tutti, mussulmani o no che siano: che non c’è vera soddisfazione nel vivere soltanto per se stessi e i propri piaceri; Poi naturalmente gli indica anche per chi e per che cosa vivere: per i suoi confratelli mussulmani, e per Allah*.
    Mi permetto di porre una domanda su un punto che mi sembra venga dato per scontato (*una cosa più che vera per tutti*): che cosa significa per se stessi?
    La tutela di sé, della propria dignità e del proprio valore sono caratteristiche importanti nel raggiungere il nostro stato di individuo (da non confondere con l’individualismo!). Da lì impariamo se e quanto possiamo essere sedotti dalle sirene del consumismo o dei piaceri sfrenati!
    Altrimenti, questa destituzione della ragione a vantaggio della fede, può portare a non fare differenze tra il ricevere l’assistenzialismo dei paesi ospitanti e l’assistenzialismo da parte dell’imam. Ovvero, no. Una differenza, e non da sottovalutare, c’è.
    Vale a dire che l’iman propone una uscita ‘attiva’ (si fa per dire) dalla depressione. Guardiamoci indietro, alla nostra storia occidentale: quanti si arruolarono per dimostrare il loro eroismo, a costo anche della vita! Andate a vedere il film del 1930, “All’Ovest niente di nuovo”, di Lewis Milestone, su scrittura di Erich Maria Remarque, e ambientato in Germania all’inizio della prima Guerra Mondiale!
    Mantenere le persone in uno stato di ‘infantilismo’ senza far loro apprendere il percorso, anche sofferto, della individuazione, gioca in favore soltanto di chi regge i fili del potere.
    E la UE, dietro istigazione USA, dietro la falsa promessa del ‘tutti per uno e uno per tutti’, ha di fatto tolto ogni autonomia ai paesi più deboli, tartassati e piegati al potere di quelli più forti.
    Ma, probabilmente, come accade all’apprendista stregone, certe ambiziose e sciagurate scelte si ritorcono contro. Ma contro chi? Soprattutto contro cittadini inermi. Non certo contro i palazzi del potere. Anche perché è da lì che vengono le garanzie di sussistenza.

    R.S.

    1. Grazie della replica. Io per la verità ho scritto che senza gli (sciagurati) interventi occidentali in Afghanistan, Irak, Siria, Libia, etc., questi [IS] NON, RIPETO NON se ne starebbero tranquilli a casa loro a studiare il Corano e a innaffiare i fiori”, perchè l’intenzione della rivincita sull’Occidente ce l’hanno da qualche secolo.
      La finestra di opportunità aperta dalle politiche dell’anglosfera è stata solo un bel regalo, ma l’idea e il progetto erano già lì.

      Il “perchè adesso” mi sembra abbastanza chiaro: perchè non c’è più l’URSS. I nazionalismi arabi laici, ma anche i movimenti antimperialisti e nazionalisti laici di tutto il mondo, sono sorti quando l’URSS c’era e li appoggiava. Adesso non solo non c’è più l’URSS, ma come dicevo le potenze occidentali hanno lavorato per distruggere il principio ordinatore “nazione” e hanno messo tanta benzina nel serbatoio dei movimenti religiosi fondamentalisti e tribali. Il risultato eccolo qua.

      Questione individuo. Dico che non si può vivere (bene, soddisfatti) per la propria individualità empirica e i propri piaceri perchè è vero.

      Con questo non intendo affatto dire che il processo di individuazione sia un male, anzi! Sottintendo anzi che il processo di individuazione riesca assai male, se lo si persegue attraverso il narcisismo e la ricerca dei piaceri.

      Credo però che il processo di individuazione passi proprio per il riconoscimento che a) abbiamo radici b) ci sono realtà più importanti della nostra persona, che di solito individuiamo nella nostra famiglia, comunità, patria, Dio (c’è poi anche chi le individua in una ideologia, e qui spesso son dolori),

      Queste due consapevolezze elementari possono essere declinate in mille modi e lungo mille vie: una di queste vie è proprio la religiosa, ma non è certo l’unica. Anche la ricerca interiore del Sè è sovraindividuale, no?

  6. @ Roberto Buffagni

    * Il “perchè adesso” mi sembra abbastanza chiaro: perchè non c’è più l’URSS. I nazionalismi arabi laici, ma anche i movimenti antimperialisti e nazionalisti laici di tutto il mondo, sono sorti quando l’URSS c’era e li appoggiava. Adesso non solo non c’è più l’URSS, ma come dicevo le potenze occidentali hanno lavorato per distruggere il principio ordinatore “nazione” e hanno messo tanta benzina nel serbatoio dei movimenti religiosi fondamentalisti e tribali. Il risultato eccolo qua*

    Grazie a questa precisazione di Buffagni, che apre nuovi scenari di pensiero, anche se mi riesce ancora difficile collocare lo sfrenato desiderio di abbattimento di quel *principio ordinatore “nazione”*, senza alcuna rielaborazione in merito. Sarebbe troppo semplicistico includere anche questo come facente parte del pacchetto di distruzione della ragione e di tutto ciò che presenta limiti, confini e, appunto, ordinamento.

    D’accordo anche con il discorso sull’individuo, che non è mai ‘individuo a se stante’ (una monade. E quindi narcisismo e solipsismo) ma che, per essere tale, ha sempre bisogno di relazionarsi con altri, non solo in ‘orizzontale’ (il gruppo dei sodali) ma anche in ‘verticale’ (gruppo famiglia e istituzioni) e pertanto, necessariamente, storicizzarsi.
    Nel senso che un individuo è anche la sua storia, personale e collettiva.

    R.S.

    p.s.

    Considerazione a latere:
    se nel confronto tra due posizioni razionali vince quella che ha maggior capacità argomentativa, e quindi accresce il campo della conoscenza, nel confronto tra due ‘irrazionalismi’ vince il più forte, ovvero quello che non mette in cale né la sua vita (come bene terreno) e tantomeno quella degli altri. Non c’è quindi nessuna possibilità di trasformazione: non solo è il “muoia Sansone con tutti i filistei”, ma il “si muore” e “si uccide” per una ‘trascendenza’, una ideologia, un Dio, una Patria (“e chi per la patria muor, vissuto è assai”!).

    1. Nel DNA statunitense, ci sono due linee politiche di fondo.

      1) linea realistica-liberalconservatrice (Kissinger, oggi Tillerson). Qui il rapporto con le altre potenze è ordinato in base ai soli interessi. Come disse perspicuamente Kissinger, “Gli alleati si scelgono in base agli interessi. Se ci sono anche i valori in comune, meglio” sottinteso, se non ci sono pazienza. I valori diventano politicamente importanti solo nella politica interna, perchè qui il governo deve assicurare la coesione sociale e il consenso. In politica estera i valori importano solo in quanto propaganda, supporto all’estensione delle alleanze. Si entra dunque in rapporto con le altre potenze per quel che sono, di solito dunque nazioni statualizzate.

      2) linea wilsoniana-liberalprogressista. E’ la linea “eccezionalista” della politica estera come imposizione, per mezzo del soft power ma anche dell’hard power, dei principi ordinatori democratici. L’egemonia americana viene intesa come americanizzazione del mondo. Gli Stati Uniti non sono una nazione che si riconosce soggettivamente come tale in quanto radicata nella storia, nella geografia, nell’etnia, insomma nel Blut un Boden. Sono una nazione che si riconosce come tale in quanto aderisce a principi ideologici, che poi nella vita quotidiana diventano lo “american way of life”. Chiunque può diventare americano, basta che si adegui ai suddetti principi. Di lì, il passo a pensare e non solo pensare che tutto il mondo deve diventare americano è molto breve; di lì anche la peculiare incapacità genetica degli statunitensi a comprendere sul serio gli altri popoli e gli altri modi di vivere e sentire (chi ci arriva appartiene al gruppo 1). “Ma perchè non dovrebbero voler essere come noi?”. Sembra difficile da credere, ma questi si aspettavano sul serio che in Irak, dopo la vittoria di Desert Storm, li avrebbero accolti a braccia aperte come liberatori.

      Finchè c’era l’URSS comunista, la linea wilsoniana – pur sempre presente e forte – è stata tenuta a bada, perchè per il liberalismo tutto, e in particolare per la potenza liberale egemone, era indispensabile stipulare una alleanza strategica con il conservatorismo e il cristianesimo, che sono strutturalmente “realisti”, in politica (tranne quando il cristianesimo diventa messianico, ma questa è un’altra storia).
      Caduta l’URSS, caduto il comunismo, questa alleanza è finita. La linea wilsoniana si è trovata di fronte un “mondo vuoto”, e il tentativo di egemonia mondiale in solitaria messo in opera dagli USA negli anni seguenti l’implosione dell’URSS ha indossato le vesti del “mondialismo”, con relativa esportazione della democrazia, etc. Gli interpreti principali di questo tentativo sono i neoconservatori, che tutti o quasi tutti vengono, direttamente o indirettamente, dal trotzkysmo, riveduto alla luce dell’insegnamento Leo Strauss. Pur cambiando campo nella battaglia comunismo/capitalismo, i neoconservatori restano mondialisti come Trotzky, e al posto della rivoluzione comunista mondiale cercano la rivoluzione capitalista e americana mondiale, l’americanizzazione totale del mondo+il governo mondiale. Sono trent’anni che ci provano. La prima battuta d’arresto che subiscono, non si sa ancora se solo effimera, è l’elezione di Trump.
      Trump è un coglione, ma il gruppo di uomini che ne ha preparato l’elezione è formato da realisti, che vogliono tornare a una politica realistica. Le ragioni sono molte. Le principali: l’impero è overextended; la delocalizzazione delle manifatture eccessiva, tanto da mettere a rischio la sicurezza nazionale (se domani ci fosse una guerra, gli USA dovrebbero rimpatriare la produzione della componentistica di molti loro sistemi d’arma, cosa non so se possibile ma certo non facile); il consenso interno a rischio; e soprattutto, gli USA non vincono una guerra seria da un numero impressionante di anni (l’Irak è una vittoria militare + sconfitta politica).

  7. Non è “irrazionale” morire per la patria, eccetera. L’amor di patria, comunità, famiglia, Dio, e di tutte le buone cose di pessimo gusto che non è più educato nominare dalle nostre parti, può certo essere malinteso, strumentalizzato, causare disastri e via dicendo, come sempre l’amore in generale, come ben sa chiunque abbia amato un’altra persona in vita sua.
    Insegnava Dante che è per amore malinteso o maldiretto che si va all’inferno, no?
    Però il problema è che senza amore (senza amore con tutti i suoi rischi di errori e colpe) la macchina uomo non parte proprio.

    Nel 1941, George Orwell ha scritto:
    “The energy that actually shapes the world springs from emotions—racial pride, leader-worship, religious belief, love of war—which liberal intellectuals mechanically write off as anachronisms, and which they have usually destroyed so completely in themselves as to have lost all power of action.”

    Parlava degli intellettuali liberali che non erano riusciti a capire una cippa di zio Adolf, il ridicolo autodidatta coi baffetti; non gente stupida, anzi: persone di grande intelligenza e cultura.

    Ma la cura per evitare che si ripresentino zio Adolf e i suoi analoghi non è definire l’amore “irrazionale”, ed escluderlo dal novero degli argomenti di cui una persona beneducata può parlare. La cura per evitare che si ripresentino zio Adolf e i suoi analoghi è amare bene, amare giusto; e render capaci di amare bene e giusto è il più importante e difficile lavoro di una civiltà.

    1. Gentile Buffagni, come sarebbe bello amare bene e amare giusto, magari a partire dall’amare sé (l’altro *come* te stesso). Ma se già c’è qualcuno che ci deve rendere capaci di amare bene e giusto, siamo nei pasticci. Perché ogni persona per bene cerca di fare proprio quello. E se l’impresa riuscisse non esisterebbero quelli per male: che, poi, è proprio al loro influsso che si dà eventualmente la colpa dell’educazione non riuscita (o almeno non sempre e non perfettamente).
      Voglio dire: l’amore c’è, più spesso di quanto si pensi, ma non si può imporne la corretta applicazione, e poi… ci sono molti esempi di amore che produce risultati forse “apparentemente” contraddittori, Luca, 7, 44-50.

    2. aggiungo, “non si può imporne la corretta applicazione” perché non serve, o addirittura è autocontraddittorio: basta ascoltare qualche criminale, come Carminati per esempio, parlare di sé, come di un bambino cresciuto amato e in una buona famiglia.

  8. Nota di E. A.
    Ripubblico qui questi commenti di C. Fischer che non so per quali motivi tecnici compaiono come link ma non sono visibili.

    06/06/2017 alle 18:58

    46.31.249.82 In risposta a roberto buffagni.

    Gentile Buffagni, come sarebbe bello amare bene e amare giusto, magari a partire dall’amare sé (l’altro *come* te stesso). Ma se già c’è qualcuno che ci deve rendere capaci di amare bene e giusto, siamo nei pasticci. Perché ogni persona per bene cerca di fare proprio quello. E se l’impresa riuscisse non esisterebbero quelli per male: che, poi, è proprio al loro influsso che si dà eventualmente la colpa dell’educazione non riuscita (o almeno non sempre e non perfettamente).
    Voglio dire: l’amore c’è, più spesso di quanto si pensi, ma non si può imporne la corretta applicazione, e poi… ci sono molti esempi di amore che produce risultati forse “apparentemente” contraddittori, Luca, 7, 44-50.

    cristiana fischer

    46.31.249.82 In risposta a roberto buffagni.
    aggiungo, “non si può imporne la corretta applicazione” perché non serve, o addirittura è autocontraddittorio: basta ascoltare qualche criminale, come Carminati per esempio, parlare di sé, come di un bambino cresciuto amato e in una buona famiglia.

    1. Cara signora Fischer,
      Certo che amare bene e difficile, e certo che non lo si può imporre. Ci si può provare. Però ci si DEVE provare, e per provarci bisogna farsi un idea un minimo realistica di come siamo fatti noi uomini, requisito che oggi mi pare brilli per la sua assenza.

  9. SEGNALAZIONE

    Si spacca la Nato Araba
    “Riad ha messo l’occidente spalle al muro”

    A. Bianchi intervista Fulvio Scaglione

    Crisi diplomatica senza precedenti nel Golfo Persico. Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi ed Egitto hanno rotto i rapporti diplomatici con il Qatar.

    Hanno 48 ore gli ambasciatori del Qatar per uscire dai paesi, nel frattempo sono state chiuse tutte le frontiere aeree e terrestri verso la nazione accusata di sostenere organizzazioni terroristiche e di interferenze negli affari interni del confinante Bahrein. Quest’ultimo, in particolare, accusa il Qatar di «incitamento dei media, il sostegno alle attività terroristiche armate e i finanziamenti legati a gruppi iraniani per sabotare e diffondere il caos in Bahrein». Già dieci giorni fa gli alleati di Riad avevano bloccato le trasmissioni di Al-Jazeera, con sede a Doha, nei loro Paesi e nelle capitali arabe, riporta oggi Stabile su La Stampa, “girano da giorni voci di un intervento delle truppe egiziane e saudite nella penisola, per detronizzare l’Emiro. La Borsa di Doha è crollata, mentre il prezzo del petrolio è schizzato in alto. Il Qatar è uno dei più grandi esportatori di gas al mondo e condivide con l’Iran un enorme giacimento nel Golfo persico, una delle ragioni della sua posizione più accomodante verso Teheran.”

    Abbiamo chiesto ad un grande conoscitore dell’area come Fulvio Scaglione, ex vice direttore di Famiglia Cristiana e fonte autorevole su diverse testate, di aiutarci a comprendere meglio la decisione e la posta in gioco.

    * * * *

    E’ stato sorpreso dalla decisione?

    In parte si. Anche se il viaggio di Trump ha accelerato un percorso che era già iniziato e non avremmo dovuto essere colti di sorpresa più di tanto. Nel viaggio a Riad, il neo presidente statunitense ha legittimato e dato grande forza a Re Salman. Certo, la politica degli Stati Uniti non è che sia cambiata oggi – il record di vendita delle armi raggiunto da Trump supera il record precedente di cui si può “vantare” l’amministrazione Obama – ma quest’ultimo viaggio è stato un messaggio chiaro al mondo.

    In che senso?

    Nel senso che gli Stati Uniti hanno chiarito inequivocabilmente come avrebbero sostenuto in tutti i modi possibili l’Arabia Saudita nella sua lotta contro quello che rappresenta il vero nemico di Riad: l’Iran. Non va sottovalutato che le due capitali scelte da Trump per il suo viaggio – in concomitanza elemento da non sottovalutare con le elezioni iraniane – fossero Riad e Tel Aviv. Messaggio chiaro che ha dato forza a quanto deciso oggi da Riad e dagli altri paesi del golfo contro il Qatar.

    La causa principale di questa rottura è quindi da ascrivere all’Iran e alla posizione “moderata” del Qatar verso la Repubblica Islamica?

    Si, ma non solo. E’ chiaro che l’Iran rappresenti il convivato di pietra. Ma da decenni l’Arabia saudita, con coerenza, dedizione e miliardi e miliardi di dollari, lavora assiduamente perché il waabismo abbia il monopolio del mondo islamico. Le voci discordanti non vengono accettate e si cerca di abbatterle. Chiaramente in primis lo sciismo e le sue applicazioni in Iran, Siria e Yemen, ma, in generale, anche tutti coloro che assumono posizioni più dialoganti come il Qatar.

    L’ha sorpresa che anche l’Egitto abbia aderito al blocco contro il Qatar?

    Qatar significa Fratelli Musulmani e quindi no, non mi ha sorpreso.

    In questi anni, e l’Italia ne è chiaro esempio, il Qatar ha conquistato spazi enormi in Occidente grazie ad enormi finanziamenti e investimenti. Che strategia utilizzerà per difendersi da questo blocco imposto dai paesi vicini?

    Innanzitutto, il Qatar non è privo di armi, oltre ai grandi finanziamenti fatti in occidente certo. Ma il colpo è duro e le ripercussioni saranno enormi per il paese. Anche le prossime decisioni della Turchia ci diranno molto da questo punto di vista. Ora è troppo presto per sbilanciarsi.

    E l’Occidente che farà ?

    Ecco questa è la vera questione. Che cosa facciamo noi adesso? Assecondiamo quanto ci dice chi più di tutti ha finanziato e supportato quel terrorismo responsabile della destituzione recente del Medio Oriente? Assecondiamo quanto dice il nostro “alleato” saudita e consideriamo valide le sue affermazioni, vale a dire che il Qatar finanzia il terrorismo? E allora come reagiamo? Sanzioniamo, imponiamo embarghi d’armi e commerciali a chi finanzia il terrorismo, cioè il Qatar? Oppure, se non lo facciamo, diciamo esplicitamente che l’Arabia Saudita ha torto? E allora: cosa facciamo verso l’Arabia Saudita e l’esportazione del wahhabismo? Continuiamo ad inondarlo di armi e mezzi magari per una prossima invasione del Qatar oltre che per continuare a massacrare lo Yemen?

    Questo nuovo scontro nel mondo islamico aizzerà ulteriormente il ciclo di attentati in corso in Europa?

    Non saprei. Ma qui molto spesso si commette un errore di valutazione grave. Come nelle analisi per il variegato mondo islamico viene analizzato tutto come se fosse un unico grande calderone, lo stesso sta avvenendo con gli attentati terroristici in Europa. Prendiamo gli ultimi due casi. Mentre quello di Manchester è il frutto di organizzazione, struttura e ordigni non del tutto rudimentali, l’attacco a Londra è il contrario, frutto di pazzia non controllabile. Quest’ultimi chiaramente preoccupano dipiù. Ma invito alla prudenza nelle analisi. Qui la vera questione è come noi vogliamo difenderci. Chi è che predica in Europa? Chi li finanzia? Sappiamo chi e cosa c’è dietro questo fermento? E’ il momento di rispondere a queste domande, anche se le risposte non sono in linea con la politica estera dei nostri governanti.

    (https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/9966-fulvio-scaglione-si-spacca-la-nato-araba.html)

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