Su “L’adatto vocabolario di ogni specie” di Alessandro Silva

Illustrazione di Giovanni Munari

di Luigi Paraboschi

La storia del cammino dell’umanità ( non solo nel nostro paese ) è ricca di esempi di disastri ecologici. Da Seveso a Casalmonferrato, da Cernobil a Fukuyama, per citare quelli più noti, ogni tanto il mondo si è imbattuto in qualche strage dovuta al prezzo da pagare al progresso, ma il disastro di Taranto ed in particolare al quartiere Tamburi vicinissimo a quella che un tempo di chiamava Italsider e successivamente  Ilva, è qualcosa che si avvicina moltissimo allo sterminio di massa della popolazione condotto in modo silenzioso e che si  è perpetrato negli anni.

Ogni tanto i giornali ne riparlano. In questi giorni sta succedendo. Pare che finalmente i cosi detti “ saggi “ ( i commissari addetti al salvataggio dell’azienda in questione ) abbiamo valutato le varie offerte pervenute e deciso di assegnare la fabbrica, commissariata dal 2013 , alla cordata Arcelor Mittal-Marcegaglia per l’ammontare di 1,800 miliardi.

Inutile dire di quale economia si stia parlando, lo sapete tutti voi che leggete i giornali, parlo di quella che nelle pagine d’apertura del suo libro di poesie l’autore dettaglia con queste parole :

Tutta l’economia di questa città ruota attorno al polo siderurgico dell’Ilva, ad una raffineria ENI e a impianti di produzione del cemento che non hanno reso possibile una necessaria diversificazione economica. Agricoltura e allevamenti di bestiame e mitili sprofondano sotto uno dei più gravi casi di inquinamento ambientale della storia europea.

 Se n’è parlato tanto di questa azienda a partire dal 2012 anno in cui un magistrato, viste le condizioni generali di salute dei residenti, decide di sottoporla a sequestro, e Silva scrive ancora a pag. 15 del suo libro :

Anno 2000. Ci sono neonati che nascono già con il cancro. I bambini vivi, giocando sulla poca erba rimasta, soffrono di allergie e malattie respiratorie. Muoiono di leucemia. Le madri li lavano ogni sera, nella vasca tiepida di acqua. E l’acqua diventa grigia. E se con un panno si raccoglie la sporcizia nera attaccata ai bordi. E se si prende un phon e si asciuga il panno, il grumo nero che resta è polvere di minerale. Nemmeno gli occhi di un bambino riescono più a salvare il mondo. Hanno dentro polvere di minerale. E su tutto il corpo.

 ma il sequestro senza facoltà d’uso ordinato dal magistrato si scontra con

«L’attività criminosa che portò al sequestro degli impianti dell’Ilva nel 2012 non si è mai interrotta e anzi prosegue in violazione del codice dell’ambiente e senza le valutazioni di accettabilità del rischio e del danno sanitario». Sono le conclusioni di una lettera inviata al capo della Procura della Repubblica. Un vuoto insano di giustizia che fa da pietra e buio.

 Queste sono le parole che suonano come antefatto e presentazione al lavoro poetico di Silva, e avrei anche potuto non riportarle ai fini della comprensione della sua poetica, ma se il giornalista ha il dovere di riportare i fatti, il poeta ha invece il compito di elaborarli, di rileggerli, e di trasmettere ai lettori  la sua chiave emotiva ed interpretativa affinché quanto egli canta non sia dimenticato, come succede quasi sempre per un articolo di giornale.

Ha ragione a scrivere che “ Nemmeno gli occhi di un bambino riescono più a  salvare il mondo “ ormai questo lo sappiamo tutti, da Erode alla Siria il cammino è lungo ma è sempre lo stesso, e dei bambini, del loro dolore, non  importa quasi niente e nessuno, se non a qualche grande fotografo, come quello che ritrasse la bimba nuda che fuggiva  con la mani alzate nel Vietnam sotto l’ attacco del Napalm nella nostra gioventù, o a qualche  poeta come Silva che ha scritto un libro che dovrebbe essere distribuito gratuitamente nelle scuole, con obbligo di commento per gli insegnanti (quelli non in malafede, ovvio ).

La fabbrica è vista come mostro che sovrasta l’umanità sottostante a lei asservita :

Non si vedono case ma una colonna/alzata per trentacinque metri di cielo,/quel tanto che basta a oscurare/il sole. Una torre medioevale/di argento e pietra, per i più ilari/bicchiere rovesciato sul sostegno/di una tazza, un tino posato sopra/una sacca.

Questo mostro a volte agita la sua coda ed abbatte coloro che osano avvicinarsi :

Nel pomeriggio è accaduto/all’altoforno Due, l’incidente./Ci sono state, dopo, ventiquattro/ore di mani alte [mani di ferro/calloso e nodi di dita nerastre].//Una babele di passi scesa in battaglia/tra rottami e mantici di aria che ustiona./Occhi rauchi e cicatrici aperte di labbra.//C’era un morto e nessun messia/per motivi di sicurezza. Quaggiù/è la terra in fondo un sudicio/ossario e, del nostro tocco o sguardo/poco importa a qualcuno.

 Vorrei soffermarmi un solo istante sul dramma racchiuso in questo verso finale:

                    del nostro tocco o sguardo/poco importa a qualcuno.

 per condurre l’attenzione di chi legge su questa conclusione:

 È morto, l’operaio. L’ho visto finire/due volte. La prima gravemente leso/il corpo non ha superato di un passo/il suolo dell’area a caldo. La seconda/tra flebo e mosche [l’anima] nella goccia/bianca di un letto a sponde, poco cibo//e solo un fiore di carta//attaccato dal figlio sopra la porta./Le proiezioni di metallo fuso fanno/anche dieci metri di fiammate e dieci/sono gli indagati per omicidio colposo./ Il loro cattivo gusto di nutrire la bocca/con terra strappata alle unghie di quelli//a cui nessuno presta più fede.

 e ancora in altra  subito dopo:

L’operaio, forse, si è dimenticato/di fuggire. Ha detto «Sono io/fammi passare» ma la testa gli è stata/divorata in un solo balzo di cuore…………….

 e la conclusione della stessa è:

 ……..L’uomo/lascia di sé un’immagine insanguinata/che guarda dal fondo di uno specchio./Lascia una moglie cieca di lacrime/a passeggio tra gli spini della stanza/nella nuova abitazione mentre il figlio/nel letto con il lenzuolo in testa e occhi/di buia dolcezza fugge dal residuo di morte/dentro il sonno [crede nel segno della croce/e allo scontorno che lasciano i vivi]……………..

 Tutto l’ambiente esterno sembra essere indifferente ai drammi individuali che si consumano :

….Fuori c’è chi mantiene le proprie/faccende e i diritti civili. Agli altri/spalti nuovi negli stadi

e c’è anche chi specula sul dramma:

……Non c’è nulla di cui si rimprovera/chi tiene la coscienza pulita da sciacallo./Camuffa i bottoni in monete, li versa/nella borsa sonante e guadagna/un approdo sicuro sulla riva di città

che non brucia. A chi resta si attacca sotto/la pelle una fiamma. Calma di poco/l’alito freddo che spoglia i polmoni./Fino a quando ciglia e capelli si bruciano.

 come pure resta quasi indifferente l’opera di quelli che dovrebbero rappresentare la difesa dei diritti dei lavoratori:

……….La macchia di protesta nei cartelli/ha già fatto tana di ragno in cantina

Tutti i dati in possesso della cosiddetta società civile sembrano congiurare contro il buon senso:

Dopo si vociferò di premonizioni tra i morti,/di documenti ignoti e intercettazioni scomparse./La procura attestò, fra gli operai, che ci fosse/eccesso di mortalità per carcinoma:/del 107 percento all’impianto gastrico/del 71 percento ai sacchi pleurici, del 69/percento alla vescica e del 50 percento/nel quadrante anatomico prostatico./L’uomo informato nulla conosce e/si percepisce tutto confuso in un freddo/biancore dove scivola e cade.//Ogni persona dal buon costume sociale/scandagliò l’aria con le mani in gesti/di sconcerto. Tutti pretendevano/[proprio tutti – quando si fa tardi e/la colpa non è di nessuno] di avere/saputo che dai camini uscivano sogni/mortali fatti da 11 mila tonnellate di biossido/di azoto e 11 mila tonnellate di anidride/solforosa, più 7 tonnellate di acido cloridrico./Ma nessuno a ricordarsi di un preciso giorno/[a quello servono i telegiornali, guardando/la televisione senza la rabbia dell’udito]

 Eppure vi fu un tempo in cui l’ambiente era differente, il tempo di quando l’uomo non aveva ceduto alle lusinghe della industrializzazione forzata del dopo guerra :

……..Per la salubrità dell’aria e la folta/macchia di ulivi e pini, si diceva,/il quartiere viveva prima sotto/un’ebrezza di cielo chiaro.//Le finestre che guardano al mare/aprono buchi dove l’aria scavata/riposa. La città ora cade e giace/sotto un belato di cielo nero//che consuma memorie di sangue./………….

e in un’altra si leggono queste immagini di una serenità perduta :

In questa città di/sale dove ogni strada incornicia/e tace le labbra ciò che esiste lo fa/in un solo modo: ogni seme gemma/uno stelo già bruciato di urina./Da cinquant’anni sporca bellezza di/cane sciolto che ringhia all’immondizia.//Negato il gioco negli spazi verdi/[la rovina di polveri in vortice/schiaccia l’erba e gli animali del luogo]./I muri, freddi, esposti a crolli di venti./D’acqua agra la luna, corvi gli astri/seccati dai fumi alti nella notte/dei campi, e la confusione di sterpi.//Come e perché non è rivelato.

Le emissioni hanno contagiato ogni speranza, anche quella di ogni coppia, di avere una prole :

Lei sa poco, io so molto di meno./La dottoressa spiega: «Una scintilla/spenta di estrogeni nelle cellule/che baciano l’ovulo e lo portano/dolci a maturazione è la causa/del vostro essere sterili».//Lei ha un sorriso infranto, commiato/di mano che porge una rosa e si vede/sgomenta di un petalo caduto, bianca/fiammella di cero sul pavimento.//Un tocco di morte ci prende e spegne/i passi in corsia. C’è un sussulto/tagliato di luce sul vetro opaco/di un bicchiere nella stanza davanti/aperta dove dalla notte al giorno/su un fianco, un corpo fasciato ci prova//a sgusciare dal secco destino e deviare./Lei sa poco, io so molto di meno./Ci rinnega la terra ora come fece/il canto di un gallo in epoca antica.

 E’ una condanna drammaticamente  inevitabile quella che pende sulla testa dei lavoratori

Un crepitio/di gola e brace ingoio e sputo per non/morire secco come morì mio/nonno. Sopra una sedia come un vecchio/pesce che nemmeno le branchie spinge/al sole e cede al pensiero di terra/asciutta. Ci pianta la coda e lascia/aperta l’ultima bocca/che più non allaccia il fiato.

 Ma se un tempo il non conoscere le conseguenze del lavoro in condizioni così onerose era quasi giustificato dall’ignoranza collettiva, oggi almeno si erge dalla prefazione a pag. 17,  la voce solitaria di un operaio:

«Posso maledire l’ignoranza di mio padre perché non poteva sapere l’inquinamento e le morti che avrebbe provocato il siderurgico; ma non possiamo aspettare che i nostri figli maledicano la nostra indifferenza». Lo dice Aldo R.,da 14 anni dipendente dell’Ilva. Lo dice in piedi, su un’ape car, dopo l’irruzione pacifica fatta con un corteo di lavoratori nella manifestazione mobilitata dai sindacati, a Taranto, il 2 agosto 2012.

 e la conclusione dell’autore è drammaticamente vera .

 Ha – bloccato in gola – la sua versione/ dell’inferno.

Poiché l’uomo vive soprattutto nei ricordi, quelli che ognuno di noi porta con sé lungo gli anni, quelli che  fanno compagnia nei giorni tristi, quelli che recano sollievo nel riviverli,  gli ultimi versi di questa poesia parlano più di mille discorsi:

 Non è una morte che si merita quella/da letto bianco e brodo granulare.//La pelle è impreciso orologio d’acqua/quasi disciolto nella forza magra/delle ossa. Una chiarezza di vuoto/sta nel pozzo secco di pupille e manca/carne al polmone sinistro schiacciato/dall’ingombro tumorale.//Invece, per mille ragioni ignote/il tuo sorriso resta. Il vento/fa un cammino di tregua e tra i capelli/porta ogni stagione di frutti caduti/e quelli ancora da fare. Non basta/la bocca per il tuo nome di padre//quando, al tramonto di agosto si entrava/nell’acqua di un mare svanito e il caldo/di sotto le costole era un rifugio.

 Sotto le costole, dentro l’abbraccio di una mano del padre sulla spalla, stanno molti dei ricordi del nostro autore, e anche nella memoria si fanno spazio la casa e le donne di casa, in particolare della madre:

Non ho mai tirato pugni all’aria./Le mani vanno conservate, sono/le prime a perdere forza. Mio padre/lo diceva, proprio lui dal gran corpo/in vigore e le dita inquiete.//Le sere di festa a dicembre stavo/in soggiorno tra gli uomini colmi/di vizi e libertà dovute. Facevo/mio il loro respiro, per cose di vita/pregne in bocca parlate.//Anche cercavo con occhio segreto/le donne, adunate in cucina./Erano tiepide e lente di viaggio/per prendere parte alla vita ma/a nessuno nessuna briciola/facevano mancare.//Tra loro mia madre. Se di giorno/sul presto vedrò il buio dei prati farsi/mattino lo devo anche alla mano/di sangue che ogni donna spinge/nei nati. Mia madre, dolcissima/nube gonfia in una camera buia//dove il mare, di schiuma, si spoglia.

 Una scrittura, quella di Silva, che sembra appartenere a qualcuno che condivide quotidianamente la tragedia di coloro che sono costretti per forza maggiore a risiedere nel luogo della contaminazione, dibattuti e lacerati tra il dover scegliere  tra la salute e la sicurezza del salario.

Dramma che gli ultimi annunci della cospicua riduzione del personale che  l’ azienda, ( il  maggior  gruppo mondiale di produzione di acciaio) ha in mente di effettuare al più presto, non può che accentuarsi, in quanto a coloro che saranno dimessi non potrà che adattarsi quel detto popolare che amaramente dice “ cornuti e mazziati “ visto che la maggior parte di loro, oltre al lavoro avrà già perso la salute, o quella dei loro figli.

E di fronte a tanta sciagura può ben poco un libro di poesie, lo sappiamo, ma anche in Omero prima di parlare della guerra di Troia forse sarà nata la stessa angoscia, eppure se noi conosciamo quei fatti dolorosi lo dobbiamo a lui, alla sua capacità di restituirli alla nostra memoria, proprio come fa Silva che possiede il dono di una scrittura priva di retorica e di demagogia, e che rivela l’influsso di ottime letture, come mi pare di aver intuito da questa poesia che ha una cadenza da “ Mari del sud “ di pavesiana memoria :

Camminiamo da più di mezz’ora./Mio padre si ricorda del pane e /recupera in tasca qualche moneta./“Va” mi dice. Un profumo di vento/ci avvolge e dentro la polla dei suoi occhi/trasogna l’acqua scaldata dal sole./Sempre c’è acqua in quegli occhi/e a ogni giorno si fa più lucida/e fonda. La timida pelle nostra si sfiora e infiniti timori/fanno trambusto sul viso.
/Cosa importano gli altri per strada?//Fu lieve carezza la nube che toccò/le piante in un’eco di mare.
/………..

 o anche questa che invece ricorda certe figure femminili da “ Lavorare stanca “

……………Il mare è una tela di fili di acciaio,/il cielo un liquido specchio. E se ognuno/oscilla è perché il vento passa i confini./Certi giorni mi sembra di cadere/da cielo a cielo e scordare ogni cosa./Nel silenzio scorgo allo specchio/il collo, la piega dei seni e/lo splendore di vuoto, nel ventre.//Tu hai un modo di uscire di casa/che resta. Mi baci le ciglia con un fresco /di labbra e da lì il mio tempo non passa.//A nulla possono abissi e scorie di fumo./Tenera spiga hai poggiata tra i denti/come un vezzo di luce: il nitore di un taglio/[la bocca] mi riempie i polmoni.

  • Alessandro Silva, L’adatto vocabolario di ogni specie, edizioni Pietre Vive 2016

12 pensieri su “Su “L’adatto vocabolario di ogni specie” di Alessandro Silva

  1. Ringrazio Luigi Paraboschi per questa utile, doverosa e bella segnalazione: il libro di un poeta che finalmente non si occupa di se stesso, delle sorti della poesia o dell’inesistente. Quel che mi dà meraviglia, in quel che son riuscito a cogliere nei versi riportati da Paraboschi, è la capacità di Alessandro Silva di saper restare “in poesia” anche quando la narrazione, e la trattazione, richiederebbe l’uso sfrenato della prosa o di scivolare nell’ideologia; che per me, date le circostanze attuali, è terreno senza ritorno, contraltare della metafisica. Con questo non voglio dire che la strada della partecipazione sia preclusa a chi vuole occuparsi delle cose “alte” dello spirito – molti sono stati gli esempi che mi possono smentire, e all’istante – dico solo che trovo difficile, come ho detto, poter restare in poesia; non per via della problematica del dopo-Auschwitz sollevata da Adorno, ma in ragione del linguaggio, per via dei tecnicismi della poesia che, come a me sembra, han finito con l’imbrigliare le possibilità espressive, sia sul fronte della tradizione che in quello della sperimentazione. Si è visto come nello sperimentalismo che accompagnò gli anni cruenti del ’68, i poeti fecero la loro rivoluzione: principalmente mandando a gambe all’aria la sintassi. Meglio che niente, sia chiaro: qui non si butta nulla, sappiamo che si possono aprire strade in ogni frangente. E oggi si ha sete di cambiamento, che poi vuol dire sete di futuro. Ma fa bene Paraboschi a ricordare il Pavese di Lavorare stanca, lì ci sarebbe stato da continuare; solo che Pavese, questo penso io, non era nella tradizione italiana, sapeva di letteratura americana, quindi non poteva passare nelle meningi né di destra né di sinistra; perché il nostro è sempre stato un paese chiuso in sé, fin dentro le cantine. Però in queste poesie di Silva s’intravede qualcosa che sembra andare oltre Pavese, magari perde nello stile, ma scrive “la testa gli è stata/divorata in un solo balzo di cuore”, “guardando/la televisione senza la rabbia dell’udito”, tanto per dare due esempi che nulla hanno di Pavese. O poco. In tutti i casi, ma io non sono così tanto esperto, vi sarebbero reminiscenze di poeti tenuti guarda caso al margine, come Calogero e Campana. Ma, e questo è l’aspetto che distingue la poesia socialmente impegnata, si ha il problema di voler comunicare, quindi con l’obbligo di essere comprensibili, di dire i fatti e non solo le parole. Le “cose”, che altri chiamano il reale, sono l’ancora di salvezza per chiunque voglia scrivere poesia: il punto del ritorno. Ma dopo che si son rapite le muse, altrimenti si è a mani vuote ( di poesia). Complimenti vivissimi.

    1. Buongiorno Lucio e grazie per il commento lasciato. Pavese e Campana sono stati numi e protettori, il primo l’ho accolto come fosse un padre l’altro è stato il fratello prezioso dal quale ho preso il fuoco dell’ardire per raccontare i fatti come stavano. Ho cercato di andare oltre lo stile e tenermi sui margini perché dai margini si ha una visuale completa sia della parte chiara sia di quella ancora nascosta. Si vedono bene le “cose”, insomma, e me ne sono riempito le mani, fin sopra le braccia, da non sapere più dove sistemarle, ma orgoglioso di poter dire “sono passato di lì”.

  2. Ringrazio anch’io Luigi Paraboschi per avere presentato questo libro di Alessandro Silva. In rete scopro che è biologo e ha un blog, Scienza e conoscenza. Forse una formazione non letteraria lo ha aiutato a raccontare la realtà nuda e cruda, anzi farabutta e crudele, legandola ai sentimenti più profondi, affetti e spiriti vitali, di bellezza (“Il mare è una tela di fili di acciaio,/il cielo un liquido specchio. E se ognuno/oscilla è perché il vento passa i confini”) e di amore.
    Proprio perché la vita è amore e bellezza Silva non può tacere le accuse a chi ha voluto orrore per chi invece può solo subire.
    E’ un orrore che non risparmia chi legge, fa straziante la compassione e chiama a prendere posizione politicamente.

    1. Grazie Cristiana e sì, hai ragione. Dentro ogni realtà crudele si trova uno spirito di vita e con questo bisogna raccontare i fatti. Non per dovere di cronaca e nemmeno come disperato appello, semplicemente per dire che quello o quella esiste fa strazio e rabbia e non si può subire. La risposta non appartiene al poeta, ma la sua ricerca sì.

  3. ringrazio sia Mayor Tosi che Cristiana Fischer per il tempo che hanno cortesemente dedicato alla lettura del mio commento a Silva.

    Preciso per Mayor che il mio riferimento al Pavese di ” lavorare stanca ” non ha nulla a che fare con la tematica che Silva tocca in questo suo lavoro.
    Pavese non era un poeta ” civile “, era un ottimo narratore di sentimenti, e conosceva abbastanza a fondo l’animo femminile, ma il mio riferimento alla sua poetica è dovuto solamente al fatto che alcuni versi di Silva ( non tutti, ovvio, solo quelli che ho citato) se li si legge a voce alta si scopre che possiedono la stessa musicalità contenuta in alcune poesie di Pavese. Niente di più di questo, per il resto Silva viaggia bene sui propri binari
    usando una metrica da professionista.
    Grazie ancora

    1. Gentile Paraboschi,
      nel mio commento di ieri tentavo solo di ricollegarmi a una discussione, sempre aperta su questa rivista, mi pare, in merito a questioni di etica, forma e contenuto, interrogazioni su cosa e come scrivere di questi tempi ecc. Solo per questa ragione mi sono sbilanciato a fare considerazioni su Pavese e altri autori che, se avessi letto il libro di Silva, forse non avrei fatto, o fatto meglio. Questo suo articolo, pur avendo il taglio di una ragionata segnalazione, si presta ad essere commentato perché tocca aspetti della poesia che mi stanno a cuore. Si tratta semplicemente di questo. Non cercavo di porre etichette, tra l’altro a un autore che non conosco ancora; mi è bastato il suo breve commento critico, per il quale mi complimento, e l’aver letto la selezione dei versi che lei ha proposto: non occorre essere esperti, la qualità di questi versi balza subito agli occhi. Ho quindi notato quanto raramente succede che su questioni tanto importanti, qualcuno, un buon poeta, riesca ancora a scrivere senza dimenticarsi, nemmeno per un attimo, di essere poeta. Ancora grazie.

  4. Ecco una nuova, splendida lettura a firma di Luigi Paraboschi. L’adatto vocabolario di ogni specie è un libro importante e la bellissima voce poetica di Alessandro Silva non ha bisogno di alcuna etichetta “civile” o “sociale”. Vale per lui molto di quanto io penso della poesia di Francesco Sassetto: entrambi dicono precisamente, ma senza strepito e continuando l’opera evocativa che – forse – rappresenta la tensione più pura della poesia. Siamo nell’ordine della testimonianza: ben lontani dal cronachismo che nasce con la denuncia e muore un attimo dopo nel dimenticatoio. Grazie al poeta e al lettore.

    1. Silvia Secco è una poetessa che conosco personalmente e apprezzo. Sebbene poco ci si veda e si parli, è amica nel senso folgorante del termine: affinità e comunione emotiva. Rispetto e dedizione sostenuti con quella forza che un poeta non sa dove cercare ma sempre arriva. Dunque grazie per il sostegno che mostri alla mia “testimonianza”. E continua a diffondere le tue, altrettanto importanti, di testimonianze!

  5. “quando, al tramonto di agosto si entrava
    nell’acqua di un mare svanito e il caldo
    di sotto le costole era un rifugio.”
    Nella poesia lirica, ma vi invito a correggermi, vi è sempre il rischio di scadere nell’elegia e nel sentimentalismo. Mi sembra che Alessandro Silva, con quel “di sotto le costole era un rifugio” ne venga fuori molto bene. Ha talento, e non dico altro per non ingarbugliar/mi. Va bene la testimonianza, la tensione evocativa, ma qui c’è dell’altro…

    1. Lirismo e testimonianza, un connubio complicato e meraviglioso. Occorre lavorare sulle parole, dedicare tempo per cercarle e ordirle in trame di buon tessuto. E’ lavoro di precisione, è passione mai spenta e a volte improvvisata, è un lungo, estenuante ritorno alla propria casa di origine. E’ talento? Non saprei, ma grazie, Lucio, per avermelo attribuito!

  6. …Alessandro Silva si cimenta in poesia con una tragedia, forse la peggiore, del nostro tempo entrandovi in prima persona, come testimone, ma anche facendosi portavoce degli eventi drammatici di una comunità e di un territorio massacrati dalla presenza di un “mostro” che, come le più feroci divinità antiche, esige sacrifici umani, senza nessuno o cosa risparmiare…Una poesia epica e collettiva, ma anche lirica per i sentimenti che vi affiorano di nostalgia del passato, di affetti familiari sempre vivi, che non riescono tuttavia a trovare la forza di tramutarsi in lotta aperta e forte…Lo spirito e la carne terribilmente provati per gli effetti di una tecnologia al servizio del capitalismo più efferato rasenta, a tratti, uno sorta di rassegnazione consapevole…Sull’altro versante c’è infatti lo spauracchio della fame…In questo senso la composizione in versi di A. Silva mi ha ricordato, a tratti, la narrazione lirico-verista di G. Verga, con un’aggiunta di senso della beffa e dell’assurdo che L. Paraboschi ha giustamente sottolineato: proprio nel più importante centro siderurgico del mondo, occhi puntati su di noi, che la morte non è solo annunciata, ma spudoratamente inscenata…

    1. Giusto Annamaria, un poesia collettiva che attraverso il passato, gli affetti e l’incapacità di tramutare in un dissenso aperto e feroce ciò che sta accadendo all’operaio protagonista e la sua compagna del libro porta alla scelta più drammatica: una rassegnazione al tempo stesso consapevole e colpevole. Una soluzione pare non esserci, anzi, eliminiamo il pare visti anche i risultati deludenti delle ultime votazioni amministrative tenutesi a Taranto quando i cittadini lavoratori avrebbero sul serio potuto promuovere un cambiamento. Non è un giudizio di colpevolezza. Ma la sopraffazione di un leviatano fuori controllo che non consente più una scelta, forse…

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