Villaggio? No, grazie…

DIALOGANDO CON IL TONTO (12)

 

di Giulio Toffoli

E’una serata afosa di luglio di questa estate che si annuncia fra le più calde dell’ultimo secolo. Non sapendo cosa fare ho invitato il mio amico, il Tonto, a casa. Abbiamo l’aria condizionata, la birra in frigo e la televisione super 4HD, 50 pollici, al nostro servizio.

Dopo una rapida cena fredda ci siamo seduti sul divano. Mi chiede: “Bene, e ora cosa facciamo?”

“Ma come? E’ ovvio – gli rispondo – vediamo nell’edizione rimasterizzata HD Fantozzi, il primo, il mitico, l’inimitabile …”.

Sto continuando quando lo vedo alzarsi: “Non se ne può più. E’ da giorni che rompono i gabasisi con la deificazione del Fantozzi o meglio del Villaggo. In morte tutti diventano santi … Io proprio non ci sto.

Son disposto a concederti che era persona di un qualche spessore e che in questa valle di lacrime c’era e c’è infinitamente di peggio. Ma non vado oltre e il film te lo guardi da te …”.

Gli chiedo di sedersi e aggiungo: “Vabbè parliamone …”.

“E’ stato un diluvio. Sui giornali sperticati elogi, su internet, Facebook e altri social, un profluvio di ricordi, di like, di scappellamenti alla memoria. Io ho quasi avuto una eruzione di bile. Concediamogli che ha scritto a quattro mani Carlo Martello …, concediamogli che ha scritto un libro, appunto Fantozzi, che ha venduto centinaia di migliaia di copie quando, a detta dello stesso autore, era scritto malissimo, concediamogli che ha sbancato il botteghino nel 1975 quando uscì l’omonimo film, concediamogli infine che ha fatto qualche altra presenza in altri film non del tutto disprezzabili. Ma di qui a presentarlo come una fra le figure più luminose della comicità italiana ne passa davvero.

Qualcuno, non posso negarlo, ha cercato di porre dei paletti sottolineando le ambiguità dell’opera di Villaggio proprio dal punto di vista culturale, ma è stato silenziato nel modo oggi più funzionale. Tutti impegnati a piegare la fronte; neppure si è perso il tempo a ragionare su quelle motivazioni.

Motivi che a mio vedere sono tutt’altro che di poco conto …”.

“Insomma – gli dico – mi par evidente che Fantozzi non ti piace …”

“Sarei più radicale – mi corregge – non mi è mai piaciuto ed è proprio su quel tempo al passato che vorrei fosse fermata la tua attenzione. Ci sono nel flusso del tempo, del nostro tempo umano, periodi dove il passare degli anni è lieve come il moto di una piuma e quasi non ce ne accorgiamo, altri invece sono caratterizzati da anni pesanti che segnano profondamente il destino individuale e collettivo. E’ proprio su quel particolare periodo che vorrei fermare la tua attenzione. Il libro esce nel 1971 e il film nel 1975. Ragionaci su …”.

“Non capisco, – aggiungo – certo erano anni caldi, ma qual è il nesso che vuoi mettere a fuoco?”

“Molto semplicemente voglio dire che la piccola borghesia, il ceto impiegatizio, quello che è il soggetto della cosiddetta comicità di Villaggio, nasce in Italia più o meno fra l’età giolittiana e il periodo fascista. E’ un piccolo ceto privilegiato del tutto asservito al padrone, che vive in una condizione di subordinazione che è ottenuta tramite il riconoscimento di uno stato gerarchico superiore a quello della plebe e con una condizione finanziaria relativamente migliore. Essere dipendente statale o impiegato in una qualche ufficio è meta ambita.

Coloro che giungono ad ottenerla non hanno altra identità se non quella dell’impresa. Una forma radicale, per usare un termine oggi non più di moda, di alienazione. Inutile pensare a diritti del lavoro, a qualche cosa che non sia graziosamente concesso dall’alto. Il ceto medio che cresce fra gi anni cinquanta e sessanta, gli anni del boom economico, rimane fondamentalmente uguale a se stesso. Anche una qualche forma di sindacalizzazione avviene attraverso la creazione di sindacati professionali, i famosi sindacati gialli, che partecipano al teatrino padronale.”

“Un poco come oggi – mi sento di dire …”.

Non lo avessi mai fatto, lo vedo guardarmi in cagnesco e mi apostrofa:

“Non capisci proprio nulla. Pensa alle date, 1968, 1969, 1971, 1975 … Siamo nella fase più acuta della contestazione. Sono anni di fuoco. Oggi può sembrare una formula senza costrutto, ma allora il clima della protesta sociale era davvero caldo. Tanto caldo che per iniziare a soffocarla servirono le bombe. In questo contesto anche il ceto medio, non solo gli studenti, ma perfino gli impiegati e i quadri aziendali iniziano a chiedere il riconoscimento di diritti e nuovi rapporti sui posti di lavoro.

E’ un elemento di novità di cui si è sostanzialmente persa memoria, ma allora vedere per le strade manifestazioni di bancari, di impiegati di concetto era cosa davvero stupefacente ma che si verificava.

E’ questo il contesto in cui esce il Fantozzi. Ed è anche il momento in cui per contrapporsi alla montante protesta sociale qualcuno inventa un nuovo soggetto che inizia a farsi vedere prima sui giornali poi anche nelle piazze: la maggioranza silenziosa.

Fantozzi si trova preso in questa morsa e dove trova la sua collocazione?

Nell’eterna dimensione servile della piccola borghesia italiana che, dopo essersi permessa di uscire per un attimo dalle righe, ritorna alla sua naturale condizione di sottomissione.

No, il pubblico che ha decretato il successo di Fantozzi non ha mai visto alcuna comicità da applaudire, quanto piuttosto una identificazione sado-masochista di chi tanto per dirla senza peli sulla lingua “servo è e servo è destinato a restare”.”

“Non ti pare di essere particolarmente duro? Villaggio era persona di sinistra e anzi di estrema … ”

“Questo al massimo mi consente di farti notare ancora una volta come possa capitare una vera e propria discrasia all’interno dell’artista,  una accentuata falsa coscienza che si esprime in modo particolare nell’esperienza artistica.

Tanto per mettere il dito nella piaga fino in fondo, pensa a quella affermazione di Fantozzi davanti ai suoi colleghi giubilanti: “ La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!”. Certo può ben darsi che in quegli anni l’opera di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn sia stata usata e abusata oltre ogni misura tollerabile, ma era ed è anche un simbolo.

A chi poteva far piacere che si esprimesse, con un imprimatur artistico degno del più bieco populismo reazionario, quell’urlo  che mi si dice “liberatorio”? A coloro che nonostante tutto sapevano bene che La corazzata Potemkin era null’altro che la narrazione di una rivolta, una rivolta riuscita, una rivolta che rimaneva uno scandalo che non era stato ancora esorcizzato.

La rivoluzione sociale, ci ricordava la Potemkin, poteva mutare le regole del gioco, chi era sotto poteva andare sopra. L’assalto al cielo poteva perfino riuscire!

Fantozzi invece ricordava alla piccola borghesia nostrana e forse non solo a lei che la ricreazione era finita. Che esisteva un’unica legge, quella del padrone, che sancisce immutabili rapporti di gerarchia e domina come il fato l’esistenza dell’individuo. Si può cercare di ridacchiarne, ma il “mega-dirigente” rimane a comandare e per gli altri c’è solo da scegliere fra la servitù o l’emarginazione sociale …”.

“Va bene – gli dico- mi hai convinto; La corazzata Potemkin non è una “cagata pazzesca” …

Allora cosa vediamo? Ti va bene un Walt Disney. Avrei qui nuovo nuovo: La bella addormentata nel bosco. Hai delle critiche …? ”.

15 pensieri su “Villaggio? No, grazie…

  1. La deificazione dell’ultimo divo o quasi divo morto, e appena morto, è un’usanza mediatica che sono d’accordo nel criticare a fondo. Tanto più che gli stessi giornali e le stesse televisioni tacciono o emarginano in poche righe la morte di personaggi ben più meritevoli (letterati, scienziati ecc.) o ben più tragici (come il caso di Salvatore “Doddore” Meloni, morto mercoledì 5 luglio scorso dopo 50 giorni di sciopero della fame, in difesa della sua battaglia indipendentista per la Sardegna. Qualunque siano le opinioni su una battaglia del genere, bisogna però dire che Meloni è stato calunniato e assassinato dallo Stato e dalla magistratura, perché per un “delitto” di opinione e di obiezione civile per una protesta pacifica non si mette in carcere un uomo di 74 anni e non lo si lascia morire così nell’indifferenza, anzi, nella malevole ferocia delle istituzioni).
    Ma, detto questo, non me la sento di condividere un’affermazione di Toffoli di questo tenore: «No, il pubblico che ha decretato il successo di Fantozzi non ha mai visto alcuna comicità da applaudire, quanto piuttosto una identificazione sado-masochista di chi tanto per dirla senza peli sulla lingua “servo è e servo è destinato a restare”».
    Io ho apprezzato e mi sono divertito con il “primo” Villaggio, quello di Fracchia del 1968-1975 e quello di Fantozzi (1971-1975), poi meno, perché Villaggio si è commercializzato e si è ripetuto fino alla noia e alla nullità, svilendo la sua creatività e la sua vena eversiva, che nei momenti migliori giungeva fino alla ferocia e all’apparente cinismo con l’invenzione linguistica e macchiettistica contro ogni regola.
    Io ci ho visto della comicità nuova da applaudire e non mi sono mai sentito, né, ripensandoci, mi sento oggi, un «sado-masochista» destinato a restare servo. E credo che questo giudizio sia profondamente sbagliato. Come era sbagliato il giudizio di chi vedeva, ai suoi tempi, in Totò solo un guizzo di infimo avanspettacolo o in Franco Franchi un cretinetto creato con il timbro.
    La sinistra, purtroppo per lei, non ha mai avuto un buon rapporto con l’ironia e la comicità (casomai qualche volta si è dedicata al sarcasmo, categoria ben diversa), e anzi, spesso, ha ritenuto che non c’è proprio nulla da ridere e che ridere era, di per sé, un qualcosa da borghesi indifferenti alle tragedie sociali. Quasi fossero frati del Medioevo in lotta con la parte perduta della Poetica di Aristotele, quella sul riso.
    A me, il primo Fracchia, al contrario, era proprio sembrato un personaggio che, con la sua paradossale comicità, contestava radicalmente l’organizzazione sociale del lavoro in quell’ambito dell’impiego privato e pubblico e di piccolissima borghesia impiegatizia. Contestava dall’interno (da un finto interno, se così posso dire), i miti di quell’Italia dalla bandiera tricolore Dio-Patria-Famiglia e Carriera-Progresso-Benessere e riscattava i più umili, quelli che, in quel contesto, pur tentando di farlo, non riuscivano ad adeguarsi e a competere. Riscattava, dunque, i perdenti. Doppiamente perdenti, i tipi come Fracchia e Fantozzi non potevano avere una «coscienza di classe», non potevano essere sindacalizzati e politicizzati, ma esprimevano il loro disagio in una istintiva e testarda inadeguatezza alle norme e alla vita stessa, che si trasformava in contestazione e critica radicale. La stupidità individuale, e gli spettatori lo capivano benissimo, purché non fossero accecati da una lettura preconcetta paralizzata dall’ideologia, rivelava la stupidità dell’organizzazione di quegli uffici, di quelle aziende, di quel sistema economico e sociale.
    Ricordo i tempi in cui i compagni, quelli che osavano farlo, andavano a vedere di nascosto i film di Totò e di Franco Franchi ed esaltavano invece ogni cazzata che fingeva di essere impegnata o che, impegnata davvero, trasformava la critica sociale in una noia infinita. Non concordo con le recenti rivalutazioni delle commedie erotiche all’italiana, degli attori come Alvaro Vitali o come Lino Banfi, che pure danno una certa immagine del loro tempo (anni Settanta in particolare) in una maniera non del tutto da disprezzare, ma tanto meno concordo con gran parte della critica cinematografica di sinistra di allora che non seppe vedere in Totò un grande del cinema comico, grande a livello mondiale, assoluto, e in Franco Franchi (molto meno in Ciccio Ingrassia) una indovinata maschera popolare e popolaresca che, in forme di comicità farsesca e spesso grottesca, scavava nei luoghi comuni dell’Italietta del tempo.
    In questo contesto va interpretata la storica battuta fantozziana sulla Corazzata Potëmkin di Ejzenstein, che non è certo una «cazzata pazzesca», ma lo diventava, agli occhi dei “perdenti due volte”, quando, sopravvalutandone il valore cinematografico e il significato storico, veniva esaltata e riproposta in ogni cineclub e cineforum del mondo come uno dei massimi esempi del cinema rivoluzionario. Una «cazzata pazzesca» non era il film, ma la sua esaltazione retorica nell’ambito di un approccio elitario al cinema che escludeva i perdenti alla Fantozzi, tanto che anche i cineclub di sinistra, nelle Case del Popolo prima e nei tanti luoghi della contestazione extraparlamentare poi, si riducevano a discussioni artificiose fra i soliti quattro gatti. E chi non capiva dove stesse il grande e superlativo valore della Corazzata Potëmkin doveva stare zitto perché era proibito non capire. Fantozzi era uno dei tanti che non capiva e uno dei pochi che ha avuto il coraggio di dirlo, suscitando, da un lato un applauso liberatorio, dall’altro il disprezzo degli intellettualini abbonati ai cineclub d’élite.
    Lo stesso meccanismo distorto riguardava anche la letteratura. Era proibito non capire e non apprezzare la letteratura impegnata e quella dell’avanguardia e vergognoso leggere i romanzi di intrattenimento, da quelli di avventura a quelli sentimentali, da quelli di genere (gialli, fantascienza, spionaggio ecc.) a quelli comici. Eppure tanti libri di allora che pretendevano di esprimere una critica radicale alla società, anche quando lo facevano davvero, erano illeggibile e non letti rimasero sempre, se non da pochi che, per curiosità o “dovere” di informazione, si sforzavano di leggerli (e mi riferisco a tante cose di Balestrini, di Sanguineti, di Renzo Paris, di Volponi, del primo Giuseppe Bonura ecc.). Così ottennero un grande successo, considerato scandaloso, romanzi come Fantozzi o, su un altro versante, Papillon (o, pochi anni dopo, «Il nome della rosa» di Umberto Eco che, con la sua contraddittorietà, si pone come romanzo al confine fra gli anni dell’avanguardia e quelli del ritorno alla narrativa tradizionale). Ma oggi, a oltre quarant’anni di distanza, dobbiamo dire, o almeno io lo dico, che quel successo era meritato. Ciò non vuol dire che quei romanzi fossero scritti meglio o che avessero più valore letterario, ma vuol dire che presentavano, agli occhi e all’intelligenza dei lettori, almeno una delle tre caratteristiche che giustificano la lettura di un libro: a) erano divertenti; b) erano interessanti; c) insegnavano qualcosa. Se un libro, o un film, non ci dà almeno una di queste tre cose, e per giunta ci obbliga a una lettura/tortura, perché mai dovremmo applaudirlo?
    Riposino in pace, dunque, Totò, Franco Franchi e Villaggio, grandi comici (in misura diversa e decrescente nell’ordine in cui li ho elencati), vittime di un’organizzazione distorta del cinema e della cultura popolare alla quale (distorsione) ha contribuito anche una sinistra troppo spesso di origine borghese e quindi elitaria e affetta da quella malattia che si chiama «aver la puzza sotto il naso». Di quella puzza di fabbrica, di officina, di cantiere e di campi concimati a merda naturale, di quella buona puzza di una volta che i comici conoscevano meglio dei professori universitari.

  2. Fantozzi non morirà mai. S’aggira ancora negli uffici, fra le scrivanie, nelle giurie, davanti al televisore con il suo rutto libero che libero non sarà mai.

  3. Do ragione a Luciano Aguzzi: di quella sinistra diversamente bacchettona e conformista non se ne poteva più. Non mi va di tornare a dire dello smarrimento generale dei “militanti” (Il primo libro “Fantozzi” uscì nelle librerie nel 1971, il primo film del ’75) vorrei però far notare che Paolo Villaggio si occupò degli esclusi dall’ideologia sessentottina, la piccola borghesia di allora, deridendola, ma lo fece da clown, quindi con un fondo di (tragica) amorevolezza. A me vengono in mente gli omini di Jean-Jacques Sempé, insomma era su quella falsariga. Però, siccome penso che l’arte della comicità abbia le sue regole, Villaggio andrebbe considerato per il clown che era.
    Non era granché: si è troppo ripetuto, non è riuscito a uscire dal cliché che gli fu imposto dall’industria dello spettacolo, che lo rese certo famoso e ricco ma lo impoverì creativamente. Non a caso, sempre secondo me, quando invecchiò sempre più spesso si presentava davanti al pubblico televisivo in modo stravagante, a volte vestito con tuniche, segno evidente che la libertà gli stava a cuore e che forse questa era la ragione della sua sofferenza. Così son fatti i clown, anche nello stereotipo, per metà ridanciani per metà tragici. Di lui mi resta questo disperato messaggio di libertà, che però faceva a pugni con la libertà stessa, non solo perché s’era arricchito non sempre degnamente ( film di quarta categoria) ma perché la libertà non può essere tale finché non è libertà di tutti, o non tenta di provarci. Questa è anche la comicità di Massimo Boldi: libera, ma è come dicesse IO mentre voi tutti siete dei pirla! Paolo Villaggio non è stato becero fino a questo punto, ha cercato di riscattarsi; prima impegnandosi con Democrazia Proletaria, ultimamente sposando la protesta del Movimento 5 stelle. Ma non solo, ebbe anche l’occasione nobilitante di poter lavorare con Federico Fellini, il quale cercò di far uscire la sua clownerie. Ma che ne venne? Un clown bizzoso e arrabbiato.

  4. Rischio di amarcord, ma tant’è…
    E’ sui tempi che bisogna mettere ordine. Il Tonto parla della piccola borghesia, il ceto impiegatizio perennis, quello che va dall’età giolittiana e poi fascista fino a… ?
    Invece Aguzzi si riferisce alla seconda metà degli anni ’70, quindi alla chiusura di quel grande periodo di mobilità sociale e geografica riassunto nell’espressione “il 68”: tra il 1955 e il 1970 ci furono 24,812 milioni di trasferimenti anagrafici, la popolazione propriamente urbana in un ventennio passa dal 29,1% sul totale degli Italiani al 35,3%. Accoppiandolo al boom di nascite del dopoguerra, in quel periodo le città e le scuole erano piene di giovani. Insieme a Villaggio-Fantozzi (e a partire dalla canzone Re Carlo torna dalla guerra…) si guardavano (un po’ di nascosto) i western all’italiana, si leggeva Piero Camporesi che presentava l’albero della cuccagna e Bertoldo contadino furbo come i nonni, si andava ad arrabbiarsi (nessuno si scandalizzi per l’accostamento) per la Morte accidentale di un anarchico. Fantozzi non era più l’impiegato “piccolo ceto privilegiato del tutto asservito”, non lo guardavano solo i genitori, che potevano riconoscersi nell’organizzazione demente dell’ufficio e nella miseria umana di capoufficio e colleghi, ma anche i figli che quel mondo lo disprezzavano.
    E’ certo invece che ben presto si cominciò a far sentire precarietà e insicurezza a quelle nuove generazioni, e bisognerebbe inseguire una -forse- involuzione conservatrice in Fantozzi con gli anni, ma chi aveva più voglia di occuparsene? (Anche se ricordo di aver letto una recensione di Tullio Kezich che lodava Villaggio per la fatica fisica che non si risparmiava nei film, per tutte le cadute che faceva e i colpi che prendeva.)
    In questa corsa a mettersi al sicuro dei giovani, un po’ nel PCI, un po’ nelle file impiegatizie pubbliche e private, e quindi nella nuova acculturazione, “elitaria” in quanto retorica, la cagata pazzesca di Fantozzi (1976), ormai sarcasmo e non comicità, era una zampata in mezzo al conformismo.

    1. Davvero godibili i commenti alla… “Fantozzità”… e devo dire che stimolano a una piccola sintesi; si, c’è abbondanza di verità in tutti gli approcci degli amici che hanno contribuito a colorare storicamente e idealmente (mi rifiuto di usare l’avverbio ideologicamente) quella comicità, mi ritrovo proprio in tutte queste sfaccettature critiche!!!
      Il motivo mi sembra proprio l’ ambivalenza che fa da struttura portante di molte forme artistiche, magari in modo ancora più estremo nella comicità…. Fino ad arrivare all’ ambiguità assoluta nella “cagata pazzesca”, atteggiamento liberatorio contro la seriosità della Storia con la S maiuscola e una certa tetraggine della cultura ufficiale, tanto quanto atteggiamento di bieca ricerca dell’ evasione nello spettacolo e nel tempo libero, sistematicamente in vigore nel ns. “bel paese” con tanto di rivalsa dell’ ignorante dei confronti della cultura in qualunque forma…!!!

  5. APPUNTI

    1.
    Divertire, interessare, insegnare qualcosa: questi i tratti essenziali della buona letteratura, dei buoni film (anche comici)?
    Ma è sul qualcosa da insegnare (o insegnato da Ėjzenštejn o da Villaggio o da Totò) che siamo in disaccordo. Cosa insegnava il primo? Che la rivoluzione è possibile e giusta. Cosa il secondo? Che il massimo di ribellione è incazzarsi una volta contro il Riccardelli/Partito che impone di seguire la Messa Rivoluzionaria Russa e, dopo vari tentativi di evadere (andando al night, lanciandosi in un’avventura amorosa con la collega d’ufficio) tornare a festeggiare il Santo Natale in famiglia.

    2.
    Il film di Ėjzenštejn, un episodio della Rivoluzione russa fissato a regola d’arte su una pellicola, sarà «boiata pazzesca» (disvalore e non più valore) solo per chi si è convinto che quella rivoluzione e quel film del regista sovietico lo siano; e preferisce ad essa questa società e i suoi i rapporti sociali (capitalistici) o una rassegnata ironia di fronte alle sue forme di vita. Chi apprezza il film di Villaggio, anche se non fa tutto questo ragionamento, rimuove quel contenuto storico e la rappresentazione artistica che ne diede il regista.

    3.
    Si dirà che il film è comunque divertente e interessante e gli spettatori se lo possono anche godere lasciando sullo sfondo questi contenuti politici e ideologici. Accettato. Non si dica però che la sua comicità sia «eversiva». Non si dica che i «perdenti» di Fantozzi, non potendo avere una «coscienza di classe» o «essere sindacalizzati e politicizzati» (e chi l’ha stabilito? è una legge di natura?) ed esprimendo «il loro disagio in una istintiva e testarda inadeguatezza alle norme e alla vita stessa», siano un esempio di «critica radicale» e «non paralizzata dall’ideologia».

    4.
    Questo giudizio, secondo me, è pura ideologia populista. E si bea della sua polemica genericamente antintellettualistica contro i «professori universitari», ridotti a “mucchio”.
    « La stupidità individuale [ di Fantozzi] rivelava la stupidità dell’organizzazione di quegli uffici, di quelle aziende, di quel sistema economico e sociale.»? E gli spettatori lo capivano benissimo?
    No, l’organizzazione capitalistica del lavoro non è stupida, ma funzionale al dominio capitalistico ( talvolta fino ad eccessi che appaiono grotteschi e ridicoli, se visti da un’ottica diversa), E quel loro “capire” dei fans di Villaggio rimaneva inerte, si fermava alla risata, allo “sfogo”.

    5.
    Oggi – dopo la sconfitta di quel movimento degli anni ’68-’69, che il film di Villaggio già contrastava, attaccandolo nei suoi simboli “veterocomunisti” – è fin troppo facile trovare non sado-masochista la sua comicità, dipingere tutta la sinistra di una volta come «frati del Medioevo», apprezzare o privilegiare solo la «contestazione dall’interno» dei « miti di quell’Italia dalla bandiera tricolore Dio-Patria-Famiglia e Carriera-Progresso-Benessere ». Vabbè, ne abbiamo preso atto dai tempi del “riflusso” e del “ritorno al privato”.
    Ma m’interesserebbe discutere su chi erano e che evoluzione hanno avuto quei « compagni» che oggi Aguzzi dipinge come sovversivi o eroi della “nuova verità” solo perché già allora « osavano» (!) andare a vedere di nascosto i film di Totò e di Franco Franchi». E trovo unilaterale e ingeneroso che tutte le cose “impegnate” che allora si facevano, anche con grandi sacrifici personali, oggi possano apparire anche ad uno con la sua storia una «cazzata», una finzione, una «noia infinita».

    6.
    No, il film «La corazzata Potëmkin» – credo sia stato detto da molti in questi giorni – non diventava una «cazzata pazzesca» solo perché « veniva esaltata e riproposta in ogni cineclub e cineforum del mondo come uno dei massimi esempi del cinema rivoluzionario». Come non diventa una «cazzata pazzesca» la «Commedia» di Dante solo perché riproposta in modo scolastico e asfissiante in tutte le scuole.
    Certe opere lo diventano purtroppo per i molti che non sono nelle condizioni materiali e culturali per accostarle cogliendo nella forma artistica che gli ha dato l’autore i valori estetici e umani centrali e “riusarle” per uno scopo (liberatorio) non dissimile da quello dell’autore morto da secoli.

    7.
    Di molte opere e eventi del passato (pensiamo alla Resistenza, ma anche allo stesso ’68-’69) viene imposto un’*uso pubblico* distorto e propagandistico. E questo avviene sotto la pressione di spinte populistiche o elitarie. Perso il valore più “universale” dell’opera, a cui si può accedere – sia chiaro – solo attraverso un lavorio critico ( fatto sia dal semplice lettore che , ad altro livello, dallo specialista), resta un suo feticcio.
    Nel caso del film di Ėjzenštejn è contro quello che si scagliò il povero Fantozzi e senza trovare più opposizione, perché il Vento dell’Ovest ormai tirava troppo forte. Ejzenstein, Dante, Manzoni, la Resistenza ecc. possono restare valori condivisi solo per chi è capace di contrastare certi usi pubblici distorti, di parte, propagandistici che se ne fanno. E che oggi sono prevalentemente populistici, ieri erano elitari.

    8.
    Quando un valore (per una comunità, una generazione, un partito) non viene più compreso, non lo si può neppure più condividere. E lo si sente come un’imposizione. Secondo me, fa bene Fantozzi a esprimere la sua insofferenza (per quei cineforum) simile a quella provata da una certa massa di persone e di compagni d’allora.
    Ma che propone? Quella che Aguzzi chiama la « buona puzza di una volta che i comici conoscevano meglio dei professori universitari». E qui casca l’asino. Perché, come ho detto, si fa un “mucchio” di una categoria. E perché Aguzzi enfatizza parlando di proibizione ( «era proibito capire»), manco se il «Da leggere,da non leggere» dei «Quaderni piacentini» fosse l’«Index librorum prohibitorum» dela Controriforma.
    Certo, è bene sottolineare che c’erano difficoltà reali a leggere Marx o Allthusser o altri autori che circolarono tra i giovani del movimento di quegli anni, specie se provenivano da una condizione sociale piccolo-borghese o semiproletaria e da certi ambienti culturali e popolari cattolici. Ma si insisteva nello studio personale o nei gruppi di studio perché si intuiva che in quei “mattoni” ci potesse essere «qualcosa che valeva la pena di capire.
    «Illeggibili» certi libri sono diventati *dopo la sconfitta*, quando si è imposto il “riflusso” o “il ritorno all’ordine”, al “tradizionale”. Allora sì che «ottennero un grande successo» (scandaloso solo per chi si opponeva a quel ritorno al passato e resisteva ai nuovi padroni) « romanzi come Fantozzi o, su un altro versante, Papillon (o, pochi anni dopo, «Il nome della rosa» di Umberto Eco». Quel successo era ed è « meritato» solo se si condivide quel valore (l’Ordine) e il rifiuto di quella prospettiva difficile, illeggibile che chiamavamo” rivoluzione”.

  6. Caro Ennio, come ho già scritto altrove, nei tuoi ragionamenti, come in quelli dell’articolo di cui si discute, c’è a mio modesto avviso un errore di fondo fondamentale, cioè quello di ritenere che per gli sceneggiatori del film il rag. Fantozzi dovesse configurarsi come un eroe positivo e che quindi il suo sberleffo al capolavoro sovietico o le altre sue azioni (ovviamente tutt’altro che rivoluzionarie!) dovessero essere giudicate encomiabili e condivisibili. E’ del tutto evidente invece che il personaggio di Fantozzi è un concentrato di difetti e di miserie che vengono stigmatizzati proprio mostrandoli ed esacerbanoli iperbolicamente (e comicamente). Per questo la corazzata Potemkin resta un capolavoro e “Giovannona Coscialunga” una cagata pazzesca! Il secondo tragico Fantozzi, poi, magari non sarà un capolavoro, ma senz’altro merita di essere rivisto e riletto con maggior attenzione, perché è del tutto evidente che, nonostante l’apparente semplicità dei suoi “messaggi” (o forse paradossalmente proprio per questo), non sempre sembra essere stato davvero compreso e contestualizzato correttamente.

    1. @ Claudio Resentini

      Per me il rag. Fantozzi è visto come “eroe positivo” dalla “maggioranza silenziosa”, di cui ha parlato Toffoli, volessero o no gli sceneggiatori del film ottenere questa reazione da parte del pubblico. E il suo sberleffo al capolavoro tedesco resta *sberleffo*: come i baffetti alla Gioconda. Desacralizza un mito (la Rivoluzione russa). E cosa propone al suo posto? La « buona puzza di una volta che i comici conoscevano meglio dei professori universitari», come dice Aguzzi.
      Poi ogni opera d’arte – capolavoro o meno – ha le sue ambivalenze e si potranno cercare altri messaggi oltre questo ( e quello della comicità «eversiva», che per me non regge). Ma bisogna pur dire quali siano.

      P.s.
      Qui mi pare si stia parlando di Grillo e del M5S!

      1. Pensandoci, mi sono accorta… di non avere mai visto un film con Fantozzi, quindi il personaggio debordava, e quindi bisogna collocare il debordaggio, non Fantozzi nel film.
        La cagata pazzesca era intolleranza ai cineforum e alla pedagogia condiscendente dei “figiciotti”: quelli che ridevano della battuta sapevano per certo che, nonostante le pretese, con la rivoluzione russa il PCI non aveva rapporti.
        Certo, dato che ci furono altri che si sciropparono i film successivi, allora forse già col Secondo tragico Fantozzi alcuni avevano deriso l’idea di rivoluzione. Ma questo non valeva per tutti. Non dimentichiamo che nel caso della Kotiomkin c’erano contemporaneamente Breznev, il compromesso storico, l’austerità con il perbenismo e la supponenza del PCI, e si rideva di tutto questo.
        Purtroppo solo oggi si può ridere molto a leggere La Provvidenza rossa di Ludovico Festa, in quanto si ricorda bene allora. Ma allora ci si doveva accontentare di Fantocci.

      2. Non sono d’accordo, Ennio. E la dimostrazione di quanto Fantozzi non possa essere certo visto come eroe positivo dalla maggioranza (silenziosa o meno) degli italiani è data dall’uso del termine “fantozziano”, talmente invalso nella lingua italiana da meritare una voce nel vocabolario Treccani on line (http://www.treccani.it/vocabolario/fantozziano) che denota una persona impacciata e servile che si mette in situazioni penose e ridicole… non esattamente quello che si dice un eroe, direi, no?!
        Quanto allo sberleffo mi sembra, come si suol dire, che confondi il dito con la luna, nel senso che lo sberleffo degli autori è chiaramente riferito ai riti servili dell’azienda in cui si svolge il cineforum e non al capolavoro (sovietico, non tedesco!) in sé.
        Non ho capito invece il riferimento a Grillo e ai 5 Stelle.

        1. @ Resentini

          Non è importante essere d’accordo, se dal disaccordo vengono spunti per mettere meglio a fuoco le nostre opinioni e arrivare a un giudizio più meditato sui temi che stiamo trattando.

          Per dire che Villaggio è il portavoce simbolico della “maggioranza silenziosa” – che in quegli anni scendeva già in piazza e avrà poi nel 1980 il suo “ trionfo” con la marcia dei 40mila capetti e impiegati della Fiat contro gli operai della Fiat (che avevano fatto un’altra «cagata pazzesca» con l’occupazione della fabbrica?) – non è necessario che essa consideri Fantozzi un suo «eroe positivo». Può non identificarsi affatto con lui (difficile farlo) ma anzi trovare nel film una conferma della sua superiorità.

          Per la seconda obiezione trascuri davvero troppo il fatto che per Fantozzi una boiata pazzesca è *proprio* quel film simbolo della Rivoluzione russa. Lo sberleffo – ti posso concedere al massimo – è doppio: alla Rivoluzione russa e a quanti la usano per il «riti servili dell’azienda».

          Il riferimento a Grillo e al M5S è da collegare al mio accenno all’ambivalenza dell’opera d’arte. Non è che la politica del M5S tenda all’opera d’arte (!).

  7. …mi viene spontaneo fare il confronto tra Fantozzi ed altri comici o maschere, come Arlecchino e Totò in quanto contadini, popolani del borgo o del piccolo mondo impiegatizio, spesso comunque vittime di soprusi da parte di chi li comanda e di chi li calpesta…Però mentre Arlecchino e Totò muovono alla risata proprio quando trovano l’espediente furbo per rovesciare le parti, per trovare una scappatoia alla miseria, anche se le bastonate non mancano sono solo di passaggio, nel personaggio di Fantozzi il vittimismo è assoluto, unito a servilismo, come se non ci fosse scampo…Fa ridere, è vero, quel suo estremizzarsi nella “iella” e nella mediocrità in tutte le situazioni lavorative e familiari, ma mi chiedo perchè? Che rappresenti per il pubblico una sorta di capro espiatorio delle miserie in cui nell’ultimo mezzo secolo siamo caduti? Come dire: noi in fondo siamo messi un po’ meglio! Consolatorio?

  8. Capisco che qualcuno possa irrigidirsi per quella “cacata pazzesca!”, perché è chiaro che il capolavoro di Ėjzenštejn non c’entra, ma quell’episodio centra con l’accodamento – ragionante quanto si vuole – che non si vuole ammettere ci sia stato in quegli anni. Per come la vedo io il ragionier Fantozzi avrebbe anche potuto essere dipendente del Politburo sovietico, tanto era sconfitto e senza speranza alcuna. Ma è vero che, per essere un personaggino nato nel 1968, un minimo di riscatto sociale avrebbe dovuto cercarselo.

  9. Il mio intervento non intende rientrare nella commemorazione, secondo l’invalso uso di santificare i defunti, quanto nel voler imparare dal passato.

    Ringrazio pertanto G. Toffoli il quale – attraverso il dialogo con il Tonto e a partire da un momento di attualità come la scomparsa di un personaggio che, volente o nolente, appartenne alla cultura italiana e cioè Paolo Villaggio – ha permesso di allargare l’attenzione su *quel tempo al passato*, in cui si collocarono i personaggi fantozziani e il senso che ebbero in quel contesto storico.
    E ringrazio anche L. Aguzzi per le altre considerazioni portate e che, a mio parere, non vanno lette in contraddizione con le prime bensì affiancate, così come avviene in ogni modello di dialogo (non monologo, e pertanto oppositivo).
    E, va da sé, ringrazio Ennio per l’ospitalità che dà a questi confronti.

    Partirei dalla notazione del Tonto:
    *Molto semplicemente voglio dire che la piccola borghesia, il ceto impiegatizio, quello che è il soggetto della cosiddetta comicità di Villaggio, nasce in Italia più o meno fra l’età giolittiana e il periodo fascista. E’ un piccolo ceto privilegiato del tutto asservito al padrone, che vive in una condizione di subordinazione che è ottenuta tramite il riconoscimento di uno stato gerarchico superiore a quello della plebe e con una condizione finanziaria relativamente migliore. Essere dipendente statale o impiegato in una qualche ufficio è meta ambita* ragion per cui *coloro che giungono ad ottenerla non hanno altra identità se non quella dell’impresa.*
    A ciò, fa da contrappunto quanto scrive L. Aguzzi:
    *A me, il primo Fracchia, al contrario, era proprio sembrato un personaggio che, con la sua paradossale comicità, contestava radicalmente l’organizzazione sociale del lavoro in quell’ambito dell’impiego privato e pubblico e di piccolissima borghesia impiegatizia. Contestava dall’interno (da un finto interno, se così posso dire), i miti di quell’Italia dalla bandiera tricolore Dio-Patria-Famiglia e Carriera-Progresso-Benessere e riscattava i più umili, quelli che, in quel contesto, pur tentando di farlo, non riuscivano ad adeguarsi e a competere. Riscattava, dunque, i perdenti. Doppiamente perdenti, i tipi come Fracchia e Fantozzi non potevano avere una «coscienza di classe», non potevano essere sindacalizzati e politicizzati, ma esprimevano il loro disagio in una istintiva e testarda inadeguatezza alle norme e alla vita stessa, che si trasformava in contestazione e critica radicale*.

    Ho voluto riportare per intero queste due notazioni, ma senza metterle l’una contro l’altra, per far vedere alcune interessanti note in comune.
    Innanzitutto, ambedue gli interventi parlano di “piccola borghesia impiegatizia” le cui caratteristiche, messe in evidenza dal Tonto, sono di ‘asservimento al padrone’, anche se più avanti il Tonto stesso parla della *montante protesta sociale*, come *il contesto da cui nasce il Fantozzi*: *E’ un elemento di novità di cui si è sostanzialmente persa memoria, ma allora vedere per le strade manifestazioni di bancari, di impiegati di concetto era cosa davvero stupefacente ma che si verificava*.

    L. Aguzzi sottolinea invece l’attacco a questa piccolissima borghesia impiegatizia da parte dei soggetti Fracchia e Fantozzi, i quali però sono perdenti in quanto sprovvisti di una “coscienza di classe”: *i tipi come Fracchia e Fantozzi non potevano avere una “coscienza di classe”*.

    Ma non si trattava soltanto di questa perdita perché, dietro la legittima richiesta di maggiore benessere e migliori condizioni di vita, veniva a perdersi, a invalidarsi anche come modello scientifico, quell’altro concetto di marxiana memoria relativo alle “potenze mentali della produzione”, dove si auspicava l’alleanza tra il lavoratore salariato, il braccio (“il manovale”) e il lavoratore della mente (“l’ingegnere”).
    La loro alleanza – che avrebbe dovuto costituire la spinta rivoluzionaria per il cambiamento della società -, si dovette confrontare invece con il declino della ‘classe operaia’ ristretta dapprima alle ‘tute blu’, e poi anch’esse ormai imborghesite, e un ‘lavoratore mentale’ sempre più irretito dai consumi, trovando così il suo disfacimento.
    Emblematica di questa decadenza – che si imbricò fortemente con una altrettanta decadenza culturale – fu la battuta dissacrante di Fantozzi (“è una cagata pazzesca”) nei confronti del film “La corazzata Potëmkin”, leggibile sia secondo il versante di Toffoli che secondo quello di Aguzzi. Lì si esprime e si condensa davvero tutto un mondo, un progetto di trasformazione, di speranza, e poi…i ‘posteri’, dissacranti per delusione o per avversione a quel modello di cambiamento.

    Fra l’altro, vi voglio raccontare un aneddoto personale: una studentessa, di sinistra (di anni 35 – oggi 40 –), sgranò gli occhi quando le parlai del grande valore di quel film, sotto tutti i profili, politico innanzitutto, di eccelsa regia che dava carica al messaggio rivoluzionario, e ricco di notazioni sia a livello emotivo che di scelta strategica: ella era invece convintissima che si trattasse davvero di una ‘cagata pazzesca’! E per questo non era andata a vederlo!
    E qui viene d’obbligo la precisazione di Aguzzi su quel falso mondo culturale, costituito in gran parte da intellettuali di sinistra, forti di un loro ruolo di intellighenzia al potere, che distrusse il senso della cultura (parlo qui dello specifico cinematografico) con inutili (e dannosi, perché tediosi) cineforum in cui si parlava del sesso degli angeli: quelli sì che erano “cagate pazzesche”, ma non si poteva dire ciò perché si sarebbe passati per reazionari!. E non sto sparando nel mucchio, come afferma Ennio. Era proprio così, non c’era verso di far valere la propria voce critica e questo fatto, agli occhi del pubblico, affossò film, per fortuna oggi riabilitati, fra cui molti di Totò (ne ricordo uno, rivisto recentemente, “Il comandante” di P. Heusch, che fu cassato perché Totò non faceva la solita macchietta, ma invece era un personaggio tragico che anticipava già nel 1964 la espressione “Non è un paese per vecchi”); molti film dell’epoca fascista; e ci fu un accanimento particolare contro il film “Miracolo a Milano”, che subì un pesante ostracismo perché ‘fuori’ dai canoni del realismo comunista! (E però il fantozziano ‘uomo parafulmine’ è tratto pari pari dall’omino meteo, esposto alla tormenta dal megagalattico padrone-delle-ferriere in “Miracolo a Milano”!).
    Ma citare i debiti con il passato, mai!
    Solo chi ha vissuto la ‘schizofrenia’ di quegli anni, in cui era proibito manifestare il proprio atteggiamento critico, può farne testimonianza (beh, anche le frequenti scissioni e/o espulsioni ‘a sinistra’ fanno testo!). Villaggio stesso, forse più che Totò, e meno che l’altro grande attore/autore, Paolo Paoli (anche quello non ebbe vita facile), visse questa schizofrenia.
    Il dramma è che passarono molti di quei film che, purtroppo, ci hanno abituato a ‘ridere, ridere, ridere’ (come diceva Petrolini nel suo indimenticabile “Gastone”) e ad abusare della trasandatezza nell’uso della lingua italiana (i vari “facci lei” ecc.). Anche lì dimenticando il grande padre di questo trasformismo linguistico e che fu il sopracitato Petrolini – a sua volta debitore del progetto futurista -, autore che oggi nessuno ricorda più.
    E pertanto, senza alcuna possibilità di disporre di una guida critica, non fu possibile separare il grano dal loglio, la comicità intelligente, che comunque aveva qualche cosa da trasmettere, da quella costituita da battute insulse, da smorfie e smorfiette a cui soggiacque il meritevole Franco Franchi che dimostrò invece il suo grande valore quando fu guidato da registi di pregio quali Fellini e i Fratelli Taviani.

    Mi sento comunque di ribadire che ci fu un trasformismo che, richiamandosi arbitrariamente al pensiero di Marx (il quale non pensò mai ad un democratico affermarsi delle masse attraverso pacifici movimenti elettorali o attraverso giuste rivendicazioni di non essere più spogliati dei frutti del loro lavoro), passò da posizioni orientate verso la trasformazione rivoluzionaria al riformismo.
    I contesti sociali richiamati nei film fantozziani non riguardano nemmeno una media borghesia, o un ceto medio ben individuabile, ma trattano di lavoratori che, attraverso la lotta per quel giusto *riconoscimento di diritti e nuovi rapporti sui posti di lavoro* (G. Toffoli, alias il Tonto) avevano raggiunto un certo tenore di vita (benessere economico a cui rimanere aggrappati a tutti i costi) e senza che ad esso corrispondesse un altrettanto significativo arricchimento culturale.

    R.S.

  10. FRACCHIA SIAMO NOI !

    Fosse per me, sfidando ogni giudizio
    di qualunquismo e populismo,
    fonderei il partito FRACCHIA.
    Disegnerei una bella Corazzata Potemkin
    e la innalzerei a simbolo delle genti sottomesse.

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