Note su De Felice, Margherita Sarfatti e Maddalena Santoro

 

Margherita Sarfatti
Maddalena Santoro

—————————————————————–

********************

+++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++

Ad Attilio Mangano – e al suo “Senso della possibilità”, in memoria

  di  Federico La Sala  

Pubblico, scusandomi per il notevole ritardo, queste note di Federico La Sala, che mi erano state consegnate e dovevano essere pubblicate insieme ai video della serata di commemorazione del 2 maggio per il primo anniversario della morte di Attilio Mangano (qui). [E. A.]

 

  1. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI

GRAMSCI: “UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO” (1924). All’interno di uno straordinario articolo, scritto per celebrare Lenin (morto il 21 gennaio 1924), nella prima pagina dell’Ordine Nuovo del 1° marzo 1924, con il titolo “Capo” (ripreso, poi, nell’Unità del 6 novembre 1924 col titolo Lenin capo rivoluzionario), Antonio Gramsci – in contrapposizione – delinea con magistrale e storica lungimiranza i tratti essenziali del governo guidato dal “Duce”:

  “Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampati nei giornali, ogni giorno, decine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti.
Conosciamo quel viso (…) Abbiamo visto la settimana rossa del giugno 1914. Più di tre milioni di lavoratori erano in piazza, scesi all’appello di Benito Mussolini, che da un anno circa, dall’eccidio di Roccagorga, li aveva preparati alla grande giornata, con tutti i mezzi tribunizi e giornalistici a disposizione del «capo» del partito socialista di allora, di Benito Mussolini: dalla vignetta di Scalarini al grande processo alle Assise di Milano.
Tre milioni di lavoratori erano scesi in piazza: mancò il «capo», che era Benito Mussolini. Mancò come «capo», non come individuo, perché raccontano che egli come individuo fosse coraggioso e a Milano sfidasse i cordoni e i moschetti dei carabinieri. Mancò come «capo», perché non era tale, perché, a sua stessa confessione, nel seno della direzione del partito socialista, non riusciva neanche ad avere ragione dei miserabili intrighi di Arturo Vella o di Angelica Balabanoff.
Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia. (…)
Benito Mussolini ha conquistato il governo e lo mantiene con la repressione più violenta e arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale di una amministrazione. Ha smontato qualche congegno dello Stato, più per vedere com’era fatto e impratichirsi del mestiere che per una necessità originaria. La sua dottrina è tutta nella maschera fisica, nel roteare degli occhi entro l’orbite, nel pugno chiuso sempre teso alla minaccia…
Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo” (Antonio Gramsci, Sul fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 223-229)

STORIA E STORIOGRAFIA: DE FELICE (1966). Renzo De Felice, nel capitolo quinto del volume della biografia del “Duce”, dedicato a “Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925” (Einaudi, Torino, 1966), scrivendo delle “prime esperienze di governo” del Duce, riprende e ricorda questo “noto articolo” di Gramsci e, pur apprezzandone la “lucida intuizione (al fondo della quale si sente l’antico socialista che aveva visto in Mussolini l’uomo nuovo del socialismo italiano e ne era rimasto deluso): Mussolini non era un «capo»” e pur esprimendo la giusta persuasione che questo giudizio “merita a nostro avviso di essere attentamente vagliato” (p. 464), mostra di essere assolutamente dimentico della nota iniziale dell’analisi gramsciana (“Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampati nei giornali, ogni giorno, decine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti”) e alla sua nota finale (“Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo”)! E, assunta a tutto solo una parte (“Mussolini […] il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti”, p. 464) , così conclude:

  “Detto questo ci pare ci si debba però guardare dall’accettare la tesi generale che sottende tutto l’articolo di Gramsci: che cioè Mussolini non fu un «capo» […] Se si accettasse questa tesi generale si dovrebbe negare la qualità di vero «capo» non solo a Mussolini, ma – facciamo solo l’esempio più macroscopico – a Hitler, il che in sede storica sarebbe veramente un assurdo. La risposta alla domanda se Mussolini, come un qualsiasi altro uomo politico, sia stato o no un vero «capo» non può essere ricercata in banali formule e in facili sillogismi” (p. 464)!

DE FELICE (1975): IL MITO DELLA ROMANITA’ E L’AVVIO DI UNA “AUTOCRITICA”. Nel 1975, nell’intervista sul fascismo, De Felice (con alle spalle già gran parte della sua imponente costruzione biografica dedicata a Mussolini e al fascismo) ricorda che, nel 1961 (all’inizio del lavoro sistematico sulla figura del “Duce”), in occasione del lavoro per la “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo” (Einaudi, 1961), ha avuto “la fortuna, più che altro sul piano della curiosità umana, di poter parlare a lungo – tutto un pomeriggio d’inverno – con Margherita Sarfatti, poco prima che morisse, in un appartamento d’albergo, in via Veneto a Roma”; e, al contempo, dichiara (e fa intendere in modo più che chiaro e forte) di non aver considerato a pieno o, meglio, di aver del tutto sottovalutato, relativamente al processo di conquista e di organizzazione del potere da parte di Mussolini, proprio il ruolo e la figura dell’autrice di “Dux”, la biografia ufficiale pubblicata con tale titolo nel 1926 (e già anticipata nel 1925, in una edizione londinese, con titolo “The life of Benito Mussolini”, con la prefazione dello stesso Mussolini):

  “Da questa conversazione, attualmente, documentariamente, non ho cavato nulla. Mi è servita moltissimo, invece, per capire questa donna, per capire (…) il tipo di influenza che deve aver avuto per alcuni anni. Dopo quella conversazione mi sono chiesto, per esempio, quanto del mito della romanità fosse farina del sacco di Mussolini, e non invece piuttosto frutto dell’influenza della Sarfatti. Perché non ho mai conosciuto in vita mia una persona malata come lei di romanità” (Renzo De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di Michael Ledeen, Bari, Laterza, 1975, pp. 12-13).

MARGHERITA SARFATTI (1880-1961), RENZO DE FELICE (1929-1996), E “LUCIFERO”. Nel 1993, nella “Prefazione” del loro lavoro “Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce” (Mondadori, Milano), 1993), dedicato “a Renzo De Felice”, Philip V. Cannistraro – Brian R. Sullivan così scrivono:

  “Abbiamo cominciato a scrivere questo libro per tentare di risolvere un mistero. In un piovoso pomeriggio di febbraio 1984 Philip Cannistraro raccontò a Brian Sullivan che forse le lettere di Benito Mussolini alla sua amante e confidente Margherita Sarfatti erano negli Stati Uniti. A rivelarglielo era stato l’anno precedente a Roma Renzo De Felice, il noto storico del fascismo italiano. (…) Seguendo gli indizi che ci fornì il professor De Felice, cominciammo le ricerche (…) Mentre eravamo alla ricerca delle lettere scomparse, scoprimmo Margherita Sarfatti. Come molte donne, Margherita era stata volutamente cancellata dalla storia. Mussolini non solo tentò di negarne il ruolo nella creazione del fascismo, ma dopo l’alleanza con Hitler non tollerò più che l’opinione pubblica fosse a conoscenza che una donna – un’ebrea – aveva contribuito quanto lui a costruire il regime fascista. Negli ultimi anni della dittatura ne fece una “non persona”. Lei, per salvar se stessa e la famiglia, si prestò al gioco. La conseguenza fu che ancora prima di morire, Margherita Sarfatti sparì nel nulla. A quei pochi che la ricordavano non sembrava altro che la protagonista della più lunga storia d’amore di Mussolini” (pp. 3-4).
E nei “Ringraziamenti”, alla fine, gli Autori ancora precisano con chiarezza e forza: “Il professor Renzo De Felice, il maggior studioso del fascismo italiano, ci ha non solo suggerito l’argomento, ma ci ha ripetutamente dimostrato la sua simpatia e generosità fornendoci documenti, fonti e indicazioni preziose, e aprendoci, con la sua estesa rete di contatti, le porte degli archivi pubblici e privati. Il nostro debito nei suoi confronti è enorme” (p. 643).

Nel 1993, De Felice – evidentemente molto segnato dall’incontro del 1961 – in una intervista con Stefano Folli (“La bella Margherita guardò Lucifero. Lì c’era scritto il destino di Benito”, “Il Corriere della Sera”, 1° febbraio 1993), ritorna ancora sul tema e fornisce ulteriori elementi relativi al “sogno” sarfattiano, del “rinato Sacro Romano Impero” (Gramsci), e della «riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» (Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, la sera del 9 maggio 1936):
“Di Mussolini non parlava quasi mai negli ultimi anni della sua vita… Mi disse: «Anche Augusto, dopo la morte di Livia, si avviò a diventare un Tiberio». Il significato autobiografico era evidente. Lei si identificava in Livia. Come dire: finché lui è rimasto con me, io sapevo tenerlo sulla retta via (…) Conservò sempre un particolare riserbo (…) Quando la conobbi era già molto vecchia. Non molto ieratica ma certo una bella donna. Consapevole del suo passato. (…) Le idee guida della sua vita si erano trasformate quasi in ossessioni. La principale era la romanità. Cioè il senso delle forme classiche come motivo dominante della civiltà artistica (…)”.

MARGHERITA SARFATTI E “IL CULTO DEL LITTORIO”. E non ultimo, sempre nel 1993, Emilio Gentile, allievo di De Felice, presso Laterza, pubblica “Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista”. In questo lavoro, e in particolare in tutto il capitolo intitolato “I templi della fede” (pp.197-228), l’attenzione al ruolo e al contributo di Margherita Sarfatti comincia a essere portata al livello dovuto e a dare i suoi frutti, ai fini di una nuova e più profonda comprensione di come e quanto, “fin dai primi anni del fascismo al potere” – come scrive Gentile (p. 240) -, la “euforia per la «nuova Era» sbrigliò” non solo “la fantasia monumentalistica degli architetti”, ma la fantasia degli uomini e delle donne della gran parte della società italiana e delle sue Istituzioni (e non solo laiche, ma anche religiose)!

STORIOGRAFIA. Nel 2003, nella scia del lavoro di Philip V. Cannistraro – Brian R. Sullivan e di Emilio Gentile, viene pubblicata la biografia di Simona Urso, “Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano” (Venezia, Marsilio, 2003): un lavoro fondamentale, per ripensare la figura di una protagonista della storia italiana e per ricominciare a riscrivere una più “felice” biografia sia di Mussolini sia del fascismo!

Nel 2015, Rachele Ferrario,nella sua biografia “Margherita Sarfatti” (Mondadori, 2015), pur focalizzando maggiormente l’attenzione sull’aspetto di “regina dell’arte nell’Italia fascista”, riprende l’intervista di Stefano Folli e, così, continua e commenta:
“De Felice, che aveva colto la sensibilità di raffinato storico dell’arte della Sarfatti, vicino agli intellettuali europei – Focillon, Warburg, Le Corbusier -, era rimasto colpito dal racconto che Margherita aveva accompagnato con un gesto simbolico: «La ricordo benissimo nel vano della finestra aperta. Mi fece avvicinare e alzò un braccio esile, con un ditino lungo e un po’ arcuato. Per la precisione non indicò la luna, ma una stella. E con un tono concitato e allusivo sibilò: “Lucifero…”. Si riferiva, credo, alla stella del destino, che determina le azioni e la fine degli uomini» “(pp. 182-183).

MITO E STORIA: “LA STELLA DEL DESTINO” (1993). Delio Cantimori, nella prefazione al primo volume del lavoro di De Felice (“Mussolini il rivoluzionario 1883-1920”, Einaudi, Torino 1965), a solo quattro anni dall’incontro del suo allievo e amico con Margherita Sarfatti, già accennando alla “fine della carriera personale e individuale di Benito Mussolini” e all’ultimo volume di un’opera “così importante e di così ampio respiro” (p. XI), sottolinea la difficoltà del lavoro dello storico, richiama “la saga dei Nibelungi nella traduzione cinematografica di Fritz Lang, o, se si vuole, alcune pagine del vecchio Rovani”, e così prosegue:

  “[…] Nel giro della saga nibelungica Benito Mussolini era stato trascinato, durante gli ultimi anni della sua presenza sulla scena storica e politica, dal concatenarsi di eventi da lui in qualche modo presentiti […] -Trascinato, in fin dei conti, e non sa da chi, né come: un uomo che cerca, – per usare un’immagine di De Felice, – e cammina seguendo una sua stella, – per usare un’immagine che fu attribuita a Mussolini -: la stella lo trae, – non si sa dove […] ed osserviamo come ad un protagonista si addica non solo questo presentarsi quale uomo trascinato da questo o da quel «Fato» o «Destino», ma anche quel carattere generico e «classico» delle sue intuizioni politiche a lunga scadenza: propone e impone la direzione generale, e spesso vede o intravvede quel che c’è da fare in una situazione storica e in una data prospettiva, ma si lascia trainare dalla sua stella, non si occupa direttamente delle possibilità ed eventualità particolari” (p. XII).

PROBLEMA: “LUCIFERO!”. Prima che a Stefano Folli, nell’intervista del 1993, del lungo incontro del 1961 con Margherita Sarfatti, a Philip V. Cannistraro (in un colloquio del 6 ottobre 1985) Renzo De Felice aveva già così raccontato:
“[…] verso la fine della conversazione Margherita si alzò dalla sedia e andò alla finestra, che inquadrava la luna piena sullo sfondo del cielo scuro. Tornando verso il suo ospite, gli posò una mano ossuta sulla spalla. «Venga, venga, professore,» lo pregò. Quando con De Felice raggiunse la finestra, Margherita lentamente alzò il braccio sottile e con il dito lungo e ricurvo indicò la stella della sera ed esclamò: «Lucifero!»” (cfr. Philip V. Cannistraro – Brian R. Sullivan, op.cit., p. 639).

Con il suo tono sibilante o esclamativo, cosa Margherita Sarfatti avesse voluto indicare o significare con la evocazione di “Lucifero”, a De Felice non fu chiaro né quella fatidica sera, né nel 1985, e né nel 1993. Con il voler credere che ella si volesse riferire “alla stella del destino”, egli continuò a ingannare solo se stesso e – come era già avvenuto – il suo stesso maestro, Delio Cantimori! E, paradossalmente, finì col ripetere – nei confronti di Margherita Sarfatti – lo stesso gioco del «duce»!

«VENGA, VENGA, PROFESSORE»: LA “LEZIONE” DELLA SARFATTI. Dal resoconto del racconto (a e) di Cannistraro, si percepisce in modo chiaro quale sia stato il tono del colloquio: “Si incontrarono nelle stanze di Margherita all’Hotel Ambasciatori in una sera tetra, gelida, e parlarono per ore. Margherita non si offrì di mostrare documenti al giovane studioso, né gli fornì rivelazioni. Gli aprì però uno squarcio sulla propria influenza sulla politica culturale del fascismo parlando a lungo del classicismo, che negli anni del regime era stato per lei uno dei capisaldi della critica d’arte. Per definire, inoltre, il proprio ruolo accanto a Mussolini e le cause della sua caduta citò un episodio della storia romana: «Anche Augusto, dopo la morte di Livia, si avviò a diventare un Tiberio…» (op.cit., p. 639).

Per De Felice, l’intervista concessa da Margherita, contrariamente a quanto forse all’inizio avrà pensato, alla fine si è risolta in una sorprendente lezione e, al contempo, in un vero e proprio trauma! Per lo storico che nel 1961 aveva già tutto impostato e “da poco cominciato lo studio sistematico di Mussolini e del regime fascista”, la “provocazione” della Sarfatti fu inaccoglibile – insopportabile!

Nel 1965, infatti, fin dall’inizio del capitolo primo (“Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza”) del volume primo, con il titolo “Mussolini il rivoluzionario 1883-1920” (Einaudi, 1965), con una dichiarazione (carica di straordinaria “superficialità” e di “autoritario” sprezzo), nei confronti della Sarfatti e della sua biografia ( il “Dux” dell’edizione del 1932 alla 13 edizione – non del 1926, e senza alcun riferimento all’edizione inglese del 1925), così scrive (pp. 3-4):
“I biografi di Mussolini, quelli che scrissero di lui dopo che egli era ormai divenuto il «duce» dell’Italia fascista, i Beltramelli [1923], le Sarfatti [1932], i De Begnac [1936], lo stesso Megaro [1947 (ed. inglese 1938)] – l’unico che per molti anni si sia posto di fronte alla figura di Mussolini non con l’animus dell’apologeta, ma neppure con quello del pamphlétaire, bensì con quello dello storico – hanno dato una grande importanza al fatto che egli sia nato e cresciuto in Romagna, alla sua «romagnolità»” (pp.3-4).

Per De Felice, la reazione (o, meglio, la “negazione”) fu sì “naturale” (come se l’incontro non ci fosse mai stato, continuò “tranquillo” per la sua strada), ma noi, di “Lucifero!” – come della Romagna, di Mussolini, di Sarfatti, e dello stesso Fascismo – ovviamente, continuiamo a saper e a capire ancora ben poco!

L’ITALIA GIACOBINA, L’EFFETTO “LUCIFERO!” E “IL PREMIO NOBEL”. All’incontro con Margherita Sarfatti, storica dell’arte, giornalista, scrittrice e intellettuale cosmopolita (e “ghostwriter del Duce”, come hanno ben mostrato nel 1993 Cannistraro e Sullivan proprio sulle indicazioni di approfondimento dello stesso De Felice!), Renzo De Felice si era – per così dire! – preparato fin dall’inizio con il suo lavoro sul periodo della rivoluzione francese e dell’Italia giacobina, dalle tesi sulle “Correnti del pensiero politico nella prima repubblica romana” (1954), allo studio del “triennio giacobino in Italia (1796-1799)”, alle ricerche “sugli illuminati e il misticismo rivoluzionario (1789-1800)”, all’evangelismo giacobino e altri studi.

Nel saggio sulla “Opinione pubblica, propaganda e giornalismo politico nel 1796-1799”, De Felice così scrive:
“Ai giacobini italiani – in gran parte intellettuali e per il lungo esulato avulsi dalla vita e dal processo economico nazionale – mancò, oltre all’adesione delle masse e alla capacità di procurarsele, soprattutto una vera autonomia politico-sociale dal resto della borghesia. la loro grande forza fu una forza del tutto spirituale, psicologico-morale: fu la fede nella Rivoluzione e nella sua forza di rigenerazione. Nella loro azione è, da questo punto di vista, riscontrabile un che di religioso che inizia veramente il Risorgimento e inizia Mazzini. La loro grande debolezza fu di rimanere egemonizzati dal gradualismo della borghesia italiana del tempo” (cfr.: “I giornali giacobini italiani”, a c. di R. De Felice, Milano 1962, p. 50).

Se è vero, come è vero, che alla fine del suo percorso, “da molto, tempo, andava palesando la sua insoddisfazione per l’interpretazione del fascismo che aveva dato fino ad allora”, sicuramente – e contrariamente a quanto ipotizza Emilio Gentile (“Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio”, Laterza, Bari 2003, p. 140) – “sarebbe tornato a studiare i «suoi» giacobini, come egli era solito ripetere con una certa civetteria”, e avrebbe ripreso la sua strada in compagnia di Gramsci, proprio dal “Lucifero!” della Sarfatti (da tener presente: molto amica di Antonio Fogazzaro, convertita al cattolicesimo nel 1928), cioè, dal poeta dell’Inno a Satana, dal Carducci giacobino, a partire dalla nota sul racconto di Filippo Crispolti (giornalista, scrittore, e uomo politico, molto amico di Antonio Fogazzaro e cattolico favorevole alla collaborazione con il fascismo, in Parlamento fino agli ultimi anni della sua vita nel 1942 ):
Il premio Nobel. Filippo Crispolti ha raccontato in un numero del «Momento» del giugno 1928 (della prima quindicina) che quando nel 1906 si pensò in Svezia di conferire il premio Nobel a Giosuè Carducci, nacque il dubbio che un simile premio al cantore di Satana potesse suscitare scandalo tra i cattolici: chiesero informazioni al Crispolti che le dette per lettera e in un colloquio col ministro svedese a Roma, De Bildt. Le informazioni furono favorevoli. Così il premio Nobel al Carducci sarebbe stato dato da Filippo Crispolti” (“Quaderni del carcere”, Torino 1975, I, p. 79)!

Nel capitolo dedicato al libro della Sarfatti, “Dux”, nel loro lavoro, Cannistraro e Sullivan, con grande acume hanno colto il filo di questo nodo: “Già nel 1919, al momento della fondazione del primo fascio, Margherita aveva insistito sul valore ideologico e propagandistico che avrebbe avuto l’associazione del fascismo con Roma imperiale. Margherita vagheggiava un capo che imponesse alla civiltà moderna un nuovo genere di cultura, una cultura che poggiasse sulle virtù romane dell’ordine e della disciplina. La concezione che Margherita aveva di Roma non derivava tanto dallo studio approfondito dei classici, quanto dalla letteratura italiana del tardo Ottocento, in particolare dal poeta Giosue Carducci”; e, brillantemente, cercano di chiudere il cerchio: “Una quarantina d’anni dopo uno studioso italiano [Renzo De Felice], intervistando Margherita, rimase colpito nel constatare quanto fosse ancora malata di romanità“(op.cit., pp. 337-338).

“Carducci giacobino” (E. Sanguineti): “Decapitaro, Emmanuel Kant, Iddio,/ Massimiliano Robespierre, il re” (“Versaglia. Nel LXXIX anniversario della Repubblica Francese“, sulla “Plebe” di Lodi, 2 novembre 1871). Un tema carico di (storia e) teoria, su cui ricollegandosi al lavoro già di Gramsci in dialogo con Croce, Edoardo Sanguineti (anch’egli poco prima di morire, nel 2007) ha cercato (“Cultura e realtà”, Milano, 2010, pp. 111-122) di chiarire con la sua straordinaria e viva intelligenza il “nodo epocale filosofico e politico”, proprio per neutralizzare l’“effetto Lucifero” (Philip Zimbardo) e, finalmente, uscire dall’inferno! Coraggiosamente: ha cercato, ha lottato, ma non è riuscito a venir fuori dal labirinto.

La questione è filologica, certamente – ma non è solo storica: è filosofica, teologica, e antropologica – e bisogna scavare ancora nella direzione indicata da Gramsci – e Marx, e Feuerbach, e Kant ( a riguardo, cfr., in particolare, le note su “Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia – oggi“: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790). E proseguire nel lavoro di De Felice – e dello stesso Sanguineti. Ricominciando, ovviamente, da “capo” – da Kant e Gramsci, dalla critica dell’ideologia dell’uomo supremo e del superuomo di appendice (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5007)!

  1. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
      • ” “La Conciliazione […] è nostra ferma convinzione che il regime fascista si possa considerare non solo delineato ma sostanzialmente realizzato in tutti i suoi elementi, in tutte le sue essenziali strutture portanti solamente con la firma dei patti del Laterano. […] Con i patti del Laterano Mussolini conseguì un successo – forse il più vero e importante di tutta la sua carriere politica – che da un giorno all’altro ne aumentò il prestigio in tutto il mondo” (Renzo De Felice, “Mussolini il fascista. L’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929”, Torino, Einaudi, 1968, p. 382).

PATTI LATERANENSI (11 FEBBRAIO 1929). A un’udienza concessa ai professori ed agli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il 13 febbraio 1929, due giorni dopo la firma dei Patti Lateranensi, Pio XI così illustra il grande evento:
“Il Trattato conchiuso tra la Santa Sede e l’Italia non ha bisogno di altre spiegazioni e giustificazioni esterne, perché in realtà esso è a se medesimo spiegazione e giustificazione la più chiara e definitiva. Ma c’è pure una spiegazione ed una giustificazione esterna non meno chiara e definitiva, e questa è il Concordato. Il Concordato, anzi, non solo spiega e giustifica sempre meglio il Trattato, ma questo gli si raccomanda come a condizione di essere e di vita. È il Concordato che Noi, appunto perché esso doveva avere questa funzione, fin da principio abbiam voluto che fosse condizione «sine qua non» al Trattato… Le condizioni dunque della religione in Italia non si potevano regolare senza un previo accordo dei due poteri, previo accordo a cui si opponeva la condizione della Chiesa in Italia. Dunque per far luogo al Trattato dovevano risanarsi le condizioni, mentre per risanare le condizioni stesse occorreva il Concordato. La soluzione era di far camminare le due cose di pari passo. E così, insieme al Trattato, si è studiato un Concordato propriamente detto e si è potuto rivedere e rimaneggiare e, fino ai limiti del possibile, riordinare e regolare tutta quella immensa farragine di leggi tutte direttamente o indirettamente contrarie ai diritti e alle prerogative della Chiesa, delle persone e delle cose della Chiesa […]”(Allocuzione di Sua Santità Pio XI ai professori e agli studenti dell’Università cattolica Sacro Cuore di Milano «Vogliamo anzitutto», 13 febbraio 1929).

L’INCARICO DI PAPA BENEDETTO XV (1919) E LA PROVVIDENZA DI PIO XI (1929). Sul conseguimento di questo risultato (“conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti”), e sulla sua comprensione (sul meglio capire come sia stato possibile), gettano luce non solo i “grandi” fatti – ricordiamo che la strada era stata già aperta dal Papa precedente, Benedetto XV (morto nel gennaio 1922), che aveva abrogato nel 1919 il “non expedit” e favorito l’ingresso dei cattolici nella vita politica e la nascita del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo – ma anche i “piccoli” fatti: in particolare, una lettera del 1919, inviata da una donna di Lecce a una sua amica pugliese di Mola di Bari.

In questa lettera, la donna salentina così scrive (“Lecce, 27-7-1919”):
“Carissima […] sono tanto occupata, adesso; probabilmente, fra giorni, dovrò mettermi in viaggio per la Basilicata, per esercitare anche lì il mio apostolato, avendo avuto l’incarico dal Papa di delegata regionale anche della Basilicata e, forse, della Sicilia e della Calabria, essendo la Puglia divisa fra tre delegate, ed occorrendo nelle suddette altre regioni un tipo di delegata energica e attiva come mi hanno fatto l’onore di definirmi a Milano”.
E prosegue: “Poiché anche gli onori sono castighi di Dio, a me è stato dato un incarico più esteso e complicato che non quello delle altre sedici rappresentanti d’Italia. A Lecce i successi sono già cominciati e domenica, 3 agosto, ci sarà l’inaugurazione del primo circolo giovanile cattolico, che aspetta la mia parola di incoraggiamento. Possa, davvero, la mia povera opera essere proficua di bene alle giovani anime […] Maddalena”.

MADDALENA SANTORO (1884-1944). Chi è Costei? Come mai di lei non c’è alcuna traccia nei libri di storia? Questo documento apre la pista a infinite domande: fa parte di un “carteggio” sorprendente (32 lettere – dal 1919 al 1938) tra Maddalena Santoro e la sua amica Caterina Tanzarella, riportato nel lavoro di Nicola Fanizza, “Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare” (Edizioni Dal Sud, Bari 2016).
Tale carteggio (pp. 109-154) è di grande rilevanza: mostra solo la punta di un gigantesco iceberg e sollecita a sapere di più e meglio di questa donna salentina, dirigente di primo piano dell’Azione Cattolica, intellettuale e scrittrice e, non ultimo, anche amante del fratello del Duce, “il fratello di un Grande Fratello”, del quale sappiamo fondamentalmente poco – se “preferì restare nell’ombra”, come scrive Indro Montanelli nel novembre del 2000 (cfr: “Il fascino di Arnaldo Mussolini“, “Corriere della Sera”, 09.11.2000)  non per questo deve continuare a restarvi.

ARNALDO MUSSOLINI (1885-1931). Sul lungo lavoro, finalizzato alla Conciliazione tra Regno d’Italia e Vaticano, svolto “nell’ombra” (p.38) da Arnaldo Mussolini e probabilmente, alla luce dei “precedenti”, dalla stessa Maddalena Santoro, una grande traccia è in “una lettera inviata, in data 1 gennaio 1927”, dal marito di Caterina Tanzarella, Piero Delfino Pesce a un suo amico. -In un linguaggio “volutamente criptico”, così scrive: “La gente di corta vista, la maggioranza grandissima, guarda a Roma; io invece guardo a Fiesole, e so che a Roma impera assolutisticamente l’Abate Tacchi Venturi. (sic.) Questo il filo per intendere molte cose” (p. 38). Il riferimento (evidentemente “eco delle confidenze” della moglie Caterina) è alle trattative sul Concordato e agli incontri segreti in un convento di Fiesole, di Arnaldo con il gesuita Pietro Tacchi Venturi (1861 – 1956), presentato proprio da Arnaldo “a suo fratello Benito verso la fine del 1922”.

Il coraggioso e originale lavoro di Nicola Fanizza, sia per la qualità della sua scrittura sia della sua preziosa documentazione sulla “storia d’amore che il duce voleva cancellare“, è una formidabile sollecitazione a riprendere anche una vecchia indicazione di Luisa Passerini (in una sua relazione nel convegno “Il regime fascista. Bilancio e prospettive di studio” Bologna 1993, ora in “Il regime fascista. Storia e storiografia”, a c. di Angelo Del Boca, Massimo Legnani e Mario G. Rossi, Laterza, Bari 1995, pp. 498-506).): “coniugare la tradizione della storiografia antifascista sul fascismo con gli studi storici che adottano le categorie di genere e di generazione” e superare definitivamente la obsoleta prospettiva storiografica che voleva e vuole ancora “le questioni di genere e la storia delle donne come questioni separate e secondarie o come questioni che hanno a che fare più col sociale che col politico”. Riguardare l’intera storia della società (e dell’umanità intera) con due occhi, non con un occhio solo!
Da notare che in quello stesso convegno una sola volta è citato Arnaldo Mussolini (p.133), per il connubio tra affari e politica, e una sola volta è citata Rosa Maltoni (p. 504), la madre del “Grande Fratello” (e Arnaldo ed Edvige), la quale invece durante il fascismo fu oggetto di “un culto molto ampio”.

MARGHERITA SARFATTI (1880-1961) E MADDALENA SANTORO (1884-1944). In tale prospettiva va finalmente portata alla luce nella storia delle donne del Novecento non solo la complessa figura di Margherita Sarfatti, già oggetto (come accennato) di più ricostruzioni non solo come “amante del Duce”, ma anche l’altrettanto complessa figura di Maddalena Santoro, non riducibile affatto a semplice amante del “fratello del Grande Fratello”!

L’UOMO DELLA PROVVIDENZA(1929). C’è da augurarsi allora che il lavoro di Nicola Fanizza cada nelle mani non solo di lettori e lettrici curiosi, ma anche di storici e storiche capaci di ricerche approfondite su queste due figure di grande importanza, specie in rapporto al fatto fondamentale (da ricordare: Margherita Sarfatti, di origini ebraiche, si convertì al cattolicesimo nel 1928) della storia d’Italia che portò Regno, governo fascista e Chiesa cattolico-romana alla firma dei Patti Lateranensi quando, come diceva Papa Pio XI subito dopo ai professori e agli studenti dell’Università cattolica di Milano,
“siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti… E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio”.

“SAPERE AUDE!” (I. KANT, 1784). C’è solo da augurarsi che gli storici e le storiche abbiano il coraggio di servirsi della propria intelligenza e sappiano affrontare “l’attuale crisi di identità della storiografia” (cfr.: Emilio Gentile“Storiografia in crisi di identità”, “Il Sole-24 Ore”,  06.02.2017)!

 

13 pensieri su “Note su De Felice, Margherita Sarfatti e Maddalena Santoro

  1. L’interessante articolo di Federico La Sala mostra come la cultura personale e le relazioni sociali di due donne, Margherita Sarfatti e Maddalena Santoro, amante del duce la prima e di suo fratello Arnaldo la seconda, abbiano prodotto importanti risultati politici durante il fascismo. Mentre quindi la storica Luisa Passerini indica: “coniugare la tradizione della storiografia antifascista sul fascismo con gli studi storici che adottano le categorie di genere e di generazione” e superare “le questioni di genere e la storia delle donne come questioni separate e secondarie o come questioni che hanno a che fare più col sociale che col politico”, La Sala da parte sua nota come De Felice abbia ignorato il senso politico del rapporto tra Sarfatti e Mussolini.
    Aggiungo un paio di riflessioni. La prima riguarda il ruolo protagonista delle donne politiche di cento anni dopo. Per fermarmi solo alle più visibili, Angela Merkel e Hillary Clinton governano e comandano in prima persona. La seconda rilfessione, derivata dalla prima, è che Margherita e Maddalena operavano attivamente, ma attraverso degli uomini, e in un quadro sostanzialmente di uomini. Infatti Margherita Sarfatti a un certo punto fu cancellata dalla vita del duce, e lei stessa si ritirò in buon ordine per proteggere sè e i suoi, quando il contesto politico in cui era oggettivamente un’estranea, non poté più tollerarla.

  2. D’accordo: l’articolo dell’amico Federico La Sala è interessante come lo è il libro di Nicola Fanizza, ma io vorrei porre una questione: qual è il senso culturale e politico che spinge a sottolineare oggi *questo* protagonismo dietro le quinte di *queste* donne?
    Cristiana sottolinea che esse “operavano attivamente, ma attraverso degli uomini, e in un quadro sostanzialmente di uomini”. Sì, ma per quali obiettivi?
    La stessa domanda vale per le protagoniste odierne Merkel, Cilnton ma anche Thatcher ecc…..

    1. “qual è il senso culturale e politico che spinge a sottolineare oggi *questo* protagonismo dietro le quinte di *queste* donne?”
      Temo che consista nel fatto stesso del protagonismo femminile, a cui evidentemente molte donne tengono, e parecchio. Se esistono poi degli obiettivi più ampi, di giustizia e di pace per esempio, in questo emergere del “secondo sesso” alla politica e alla storia, molte, ma soprattutto molti, vogliono attribuirglielo, come esempio si pensi alla campagna in Afganistan contro il burka.
      Il rischio di allargare l’ideologia neoliberista in nome del femminismo è già stato denunciato. E quindi di confermare un mondo ancora maschil-bellico-finanziario, pure.
      Posso aggiungere che le donne al patriarcato non tornerebbero di certo, ma segnalo che nel pensiero femminista si ragiona anche della fine della differenza sessuale, si vedano tre articoli su “il lavoro culturale” di Federico Zappino e Debora Ardilli, l’ultimo pubblicato il 27 luglio col titolo La volontà di negare.
      L’impostazione dei tre articoli intriga le vecchie categorie marxiste, dato che equipara l’idea di lotta di classe con l’idea di dualismo eterosessuale: due equivalenti gabbie mentali che sanciscono per principio la subordinazione e il dominio.
      Segnalo anche l’incontro Fine della differenza sessuale? dell’aprile 2016, su you tube, e l’articolo di Diana Sartori Noi che non siamo indifferenti http://www.diotimafilosofe.it/larivista/noi-che-non-siamo-indifferenti/
      Non ho ancora visto il video ma lo farò presto, dopodiché mi piacerebbe discutere dell’idea di lotta richiamata dall’articolo in tre parti di Ardilli Zappino, intesa non solo come lotta di classe.

  3. Chiarissima Cristiana Fisher
    sul tema più speficifico a cui accenni e tuttavia più ampio del discorso fatto nell’art. su “De Felice, Margherita Sarfatti e Maddalena Santoro” (dedicato all’amico Attilio Mangano e al suo “profetico” libro “Il senso della possibilità”), mi permetto di ricordare a Ennio e di segnalare a Te un mio lavoro intitolato “Della Terra, il brillante colore”.

    Di questo lavoro, puoi leggere una recensione sul sito dell’Unione Femminile Italiana (http://unionefemminile.it/della-terra-il-brillante-colore/) e l’ultimo capitolo, così titolato LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89), a questo link: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3085.

    Federico La Sala

  4. P. S. SULLA FINE DELLA DIFFERENZA SESSUALE ….

    Mi sia lecito precisare, inoltre, che tutta la prima parte del capitolo 5 della III parte del libretto “Della Terra, il brillante colore” (publicato la prima volta nel 1996 – la seconda nel 2013) è tutta dedicata alla critica del lavoro di LUISA MURARO, L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (1991) e del pensiero della differenza (pp. 125-138), molto interconnesso con l’orizzonte teologico-politico del cattolicesimo-costantiniano e dello stesso fascismo!!!

    Federico La Sala

    1. p.s.: a non voler leggere tutto l’articolo di Diana, sulla differenza femminile per i cattolici: le pp. 11 e 12.

  5. …di questo scritto di Federico La Sala intorno a due protagoniste occulte del fascismo storico mi ha colpito come all’epoca le donne potessero veicolare le loro idee solo attraverso gli uomini, meglio se potenti, per poi convenientemente nascondersi…Il rischio per le donne “di pensiero” era il proprio personale “riconoscimento” affettivo, il che significava vitale, esistenziale, sociale, globale…Sotto il profilo politico e professionale la presenza femminile era considerata disdicevole e quindi negata. Per quanto il loro pensiero fosse il linea o comunque funzionale all’affermazione del potere fascista, conferendogli “splendore”, in riferimento alla eredità dell’impero romano, e maggiore solidità attraverso la riconciliazione con la chiesa dei patti lateranensi, Margherita Sarfatti e Maddalena Santoro furono in certo qual modo trattate come nemiche del regime alla stregua dei dissidenti antifascisti destinati al confino, così appare la loro effettiva scomparsa dalla scena pubblica…Molto interessante

  6. CHIARISSIMA ANNAMARIA LOCATELLI …. una formidabile annotazione da liberare dal registro delle impressioni e collocarla in quello di un agire strategico di lunghissima durata (connesso all’ordine economico della proprietà) che, se vogliamo, è ben espressa dalla espressione “L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE”, che dice (a ben vedere!) della vecchia ALLEANZA MADRE-FIGLIO ( Figlio elevato a Dio Padre, Imperatore, Dux!!!), del “gioco” appunto, tutto all’interno di un orizzonte come quello del cattolicesimo costantiniano, del fascismo, e del concordato (trasferito e “occultato” all’interno della nostra stessa Costituzione!!!).
    Margherita Sarfatti (di religione ebraica!!!) e Maddalena Santoro (di religione cattolica!!!) sono figure-chiave di questa “preistoria”: hanno sognato l’impossibile, ma (come tutte) hanno dovuto fare proprio solo il sogno delle Madri che attraverso il Figlio potevano trovare riconoscimento e, alla fine, hanno finito per avere la loro “ricompensa” dal Papa, del Duce, e dal Re!!! I MIEI COMPLIMENTI.
    Grazie!!!

    Federico La Sala

      1. STORIA D’ITALA, RISORGIMENTO, EBRAISMO, FASCISMO, ANTISEMITISMO, RAZZISMO….

        PER NON (CONTINUARE A) RIDURRE IL CONTRIBUTO DI MARGHERITA SARFATTI ALLA “RIVOLUZIONE FASCISTA” E, SUL PIANO STORIOGRAFICO, ALL’INTERPRETAZIONE DELLA STORIA D’ITALIA, CREDO SIA FRUTTUOSO RIFLETTERE SULLA NOTA ALLA REC. DI ARNALDO MOMIGLIANO DI ANTONIO GRAMSCI:

        “In una recensione («Nuova Italia» del 20 aprile 1933) del libro di Cecil Roth (Gli ebrei in Venezia, Trad. di Dante Lattes, Ed. Cremonese, Roma, 1933, pp. VII-446, L. 20) Arnaldo Momigliano fa alcune giuste osservazioni sull’ebraismo in Italia.

        «La storia degli Ebrei di Venezia, come la storia degli Ebrei di qualsiasi città italiana in genere, è essenzialmente appunto la storia della formazione della loro coscienza nazionale italiana. Né, si badi, questa formazione è posteriore alla formazione della coscienza nazionale italiana in genere, in modo che gli Ebrei si sarebbero venuti a inserire in una coscienza nazionale già precostituita. La formazione della coscienza nazionale italiana negli Ebrei è parallela alla formazione della coscienza nazionale nei Piemontesi o nei Napoletani o nei Siciliani: è un momento dello stesso processo e vale a caratterizzarlo. Come dal XVII al XIX secolo, a prescindere dalle tracce anteriori, i Piemontesi o i Napoletani si sono fatti italiani, così nel medesimo tempo gli Ebrei abitanti in Italia si sono fatti Italiani. Il che naturalmente non ha impedito che essi nella loro fondamentale italianità conservassero in misura maggiore o minore peculiarità ebraiche, come ai Piemontesi o ai Napoletani il diventare Italiani non ha impedito di conservare caratteristiche regionali».

        Questa tesi, storicamente esatta nella sua essenza, è da confrontare con quella di un altro ebreo, Giacomo Lumbroso nel libro I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII, 1796-1800, Firenze, Le Monnier, 1932, in 8°, pp. VIII-228 (e in proposito vedi «Critica» del 20 marzo 1933, pp. 140 sgg.). Che nei moti popolari registrati dal Lumbroso ci fosse qualsiasi traccia di spirito nazionale è un’allegra trovata, anche se tali mori siano degni di studio e di interpretazione. In realtà essi furono popolari per modo di dire e solo per un aspetto molto secondario e meschino: il misoneismo e la passività conservatrice delle masse contadine arretrate e imbarbarite. Presero significato dalle forze consapevoli che li istigavano e li guidavano più o meno apertamente e queste forze erano apertamente reazionarie e antinazionali o anazionali. Solo recentemente i gesuiti hanno preso a sostenere la tesi dell’italianismo dei sanfedisti che solo «volevano unificare l’Italia a modo loro». […]

        In Italia non esiste antisemitismo proprio per le ragioni accennate dal Momigliano, che la coscienza nazionale si costituì e doveva costituirsi dal superamento di due forme culturali: il particolarismo municipale e il cosmopolitismo cattolico, che erano in stretta connessione fra loro e costituivano la forma italiana più caratteristica di residuo medioevale e feudale. Che il superamento del cosmopolitismo cattolico e in realtà quindi la nascita di uno spirito laico, non solo distinto ma in lotta col cattolicismo, dovesse negli ebrei avere come manifestazione una loro nazionalizzazione, un loro disebreizzarsi, pare chiaro e pacifico. Ecco perché può esser giusto ciò che scrive il Momigliano, che la formazione della coscienza nazionale italiana vale a caratterizzare l’intero processo di formazione della coscienza nazionale italiana, sia come dissoluzione del cosmopolitismo religioso che del particolarismo, perché negli ebrei il cosmopolitismo religioso diventa particolarismo nella cerchia degli Stati nazionali “.

        * A. Gramsci, Quaderni del carcere, Quaderno 15 (II) § (41): https://quadernidelcarcere.wordpress.com/2015/01/04/risorgimento-italiano-5/.

        Federico La Sala

Rispondi a Federico La Sala Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *