Sbratto 1: gennaio-agosto 2017

 Tabea Nineo, Olio al 19 settembre 2017

Appunti  (di  solito mattutini) raccolti al volo da gennaio ad agosto 2017

di Ennio Abate

Che rapporto c’è fra l’io e il noi? Quali interferenze? Quando e perché si distanziano o si avvicinano? Cosa alimenta gli estremi a cui tendono: il solipsismo o la fusione/confusione (mistica, gregaria) nel noi ( massa o élite)? Invece di un saggio, provo a  offrire spunti per  risposte e riflessioni a tali domande selezionando  alcuni miei appunti. ‘Sbratto’ sta per ‘stanza  da sbratto’ [ = che riceve tutti gli oggetti ingombranti o di cui ci si serve di rado]. Spero che altri poliscrittori   ne propongano di  propri e così  si vedrà meglio se sia possibile o no quell’ io/noi capace di reggere la contraddizione fra le due facce. [E. A.]

26 gennaio

1.

Sulla “critica progressista” I., più giovane di me (ha quasi l’eta del mio primo figlio) dice le cose che diceva Fortini, che sono anche le mie, ma non c’è stata mai possibilità di intesa e di collaborazione. Perché?

2.

Brahms, Ein deutches requiem 1869

3.

A mio cugino A.  che mi ha chiesto l'”amicizia” su FB

Antò, chistu Facebook è nu presepie chiù complicate e chille ca faceve zi Vicienz’e!
Cà facimme a fine re pastur’e ca sbagliene presepie!

25 febbraio

1.

Mia madre. Ricordo  che cantava: “Il general Badoglio ha detto [ha scritto] alla regina…”
Ma il ricordo è errato:
http://www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=1165

Strofe varie, nate in occasione della prima guerra mondiale; dallo spettacolo “La opposizione” del Nuovo Canzoniere Italiano, 1966. (Da: “La musica dell’Altraitalia”). Le parole della canzone sono invece queste:

 Il general Cadorna ha scritto alla regina
 «Se vuoi veder Trieste te la mando in cartolina»

Bom bom bom
 al rombo del cannon

Il general Cadorna si mangia le bistecche
 ai poveri soldati ci dà castagne secche

Bom bom bom
 al rombo del cannon

Il general Cadorna è diventato matto
 chiamà il '99 che l'è ancor ragazzo

Bom bom bom
 al rombo del cannon

Il general Cadorna ha perso l'intelletto
 chiamà il '99 che fa ancor pipì nel letto

Bom bom bom
 al rombo del cannon

Il general Cadorna ha scritto la sentenza:
 «Pigliatemi Gorizia, vi manderò in licenza»

Bom bom bom
 al rombo del cannon

Il general Cadorna 'l mangia 'l beve 'l dorma
 e il povero soldato va in guerra e non ritorna

Bom bom bom
 al rombo del cannon.

2.
In visita con F. a casa di R. vedova di A.

Tristezza. C’è la casa, ci sono i mobili, ma c’è l’assenza della persona viva, con cui avresti parlato  di altre cose.  Mi sento in imbarazzo  a mettere mano agli scritti a cui A. teneva tanto e che conservava gelosamente, anche se – come quasi tutti noi – non aveva facilità a pubblicarli. Alla fine dico a F.:  accadrà così anche quando creperò io. Verranno due amici. E mia moglie dirà:  ecco queste sono le cartelle dove conservava i suoi  carteggi.

Tutti  gli scritti di A.  sono in ordine. Quasi come in una biblioteca pubblica. Io prendo la cartella A-B e  F. quella contenente il carteggio con D. Ce le portiamo a casa e faremo un primo esame del contenuto. Poi torneremo altre volte e vedremo le altre cartelle. Contengono lettere che A. ha scambiato con numerosi amici. Ipotesi  di lavoro: cogliere attraverso il carteggio gli effetti degli eventi storici su A. Titolo possibile: A. UNO DI NOI.  Tanti i filoni: il militante, l’aspirante poeta, l’insegnante, lo storico, … Ritorneremo con una chiavetta per prendere anche i file depositati nel suo  Mac.

C’è la figlia di A.  Impressionante la somiglianza  del suo volto con quello del padre. Sta riparando e rilegando un vecchio libro di fisica sulla relatività generale. Poi si ritira in un’altra stanza.
F. è  più loquace di me. Ti chiede qualcosa, ma non aspetta neppure la risposta e attacca con un suo ricordo o con notizie su quello che sta scrivendo. Ora lavora a dei racconti. Una svolta. Ha conosciuto dei vecchi. Gli  hanno narrato delle storie e le sta ricostruendo per farne dei ritratti.  Parte da qualche documento e poi ci lavora con libertà.

3 marzo

A R.
Se “non esiste un percorso possibile per tutti” ( il comunismo possibile di Fortini…), come si fa ad essere certi, invece, che c’è un “percorso possibile” per ciascuno?

10 marzo

Rita
E ie mo m’avess’a ricurdà e  chelle ca faciett’e quanne m’innamiruaie e Rite (A. si chiamave a famiglia) e mette tutte scritte? Pe chi? Ca oggi chillu munn’e è scumparse…
Epperò, quanne tiempe passai  semp’e chu chillu pensiere e ce parlà.  Quann’i vote a spiave appene s’affaciave a fineste o scenneva pa vie.  Cumme survegliave tutte chelle ca steve attuorne a esse: o padre ca asceva pe purtà o cane a spasse; e sore (une malate e core,  ca  doppe nge scriviette pure na poesie); G. ca pare s’ere fidanzate cu R. E ie nunn’o sapeve. E che fatiche pe pensà a cumm’aveva fa pa ncrucià  a nu punte  e vie Sichegaite, addò niscune nge puteve verè. Pe fa a “dichiarazzione”.  E chiss’arricorde chiù  che parole nge riciette, cumme  e diciette e che me rispunnette. Me ven’a ment’e chelle ca Attilie ha scritte ra primma n’ammurata soie e cumm’aggia lette chell’e poesie cumme se fossere fesserie…

2 marzo

Parole. Quali sento mie e quali invece sento che appartengono  ad ambienti di cui diffido e mi sento strano ad usarle.

2 aprile

1.

Resisti. Non metterti addosso  l’abito del poeta. Sii poeta mentre leggi o studi cose che ti prendono. ( In questo momento il saggio di Balibar su estrema violenza).

2.

Sottrarsi all’abitudine di leggere ogni giorni solo i post di C. o quasi. Quest’attenzione a lui ha inibito  letture più varie che andavo facendo prima. Di N. , B.  e tanti altri.

3 aprile

F. Riprendo in mano le sue poesie. A caso. Rileggo. Le ho trascurate per ostilità ai poeti viventi di successo e ai poetastri e critici e letterati a cui ancora do troppo  credito.

15 aprile

1.

Dopo visita a M. per preparare serata del 20 su F. Scegliere brani che smontino o contraddicano la sua avversione (politica ed estetica) a F. Importanza del come si dice una cosa, non importanza che  la cosa di cui si parla ha  in certi ambiti sociali.

2.
Poco libero F.? Inceppato dall’ideologia o dal marxismo? Dipende. Valutare i testi. E definire qual è il   punto di vista da cui li si legge. Rispetto ai letterati ermetici, che evitavano politica e storia, è liberissimo. Perché in questi campi s’inoltra, mentre  loro si trattengono o li evitano.  E’  liberissimo ancora  per il suo esistenzialismo (ad es. “Giovanni e le mani”) rispetto agli zdanovisti o agli intellettuali impegnati al seguito del Principe- Partito,   più togliattiano  che gramsciano. E liberissimo altrettanto lo è anche rispetto all’ondata neoavanguardista (al nuovo non tanto nuovo, al nuovo tutto giocato sull’innovazione formale e linguistica iperletteraria). Il suo marxismo critico vede quello che Sanguineti non vide nella sua fase ascendente; e recuperò poi, ma da vecchio e a babbo PCI morto,  accontentandosi di un marxismo rigido e astrattamente classista.

3.
Ranchetti: non c’è più religione. Aggiunta mia: non c’è più comunismo.
Spiegare perché e a cosa sono rimasto “fedele” delle due esperienze fatte a Sa e a MI: Azione cattolica e Avanguardia Operaia.

4.

Franz Schubert 1797-1828)

27 aprile

A Franco T.

Siamo due vecchi.
Ci raccontiamo la forma delle pietre
In cui siamo inciampati
la loro resistenza ai mutamenti
sperati.

@ F.

Che cosa amara
segnalare Valditara
e nemmeno far la tara
a una filosofia giuridica mannara
che vuole i migranti in tonnara.

28 aprile

1.
Ascoltando su RAI3  la voce di una cantante portoghese.

Quante belle voci, quanti scrittori, quanti artisti morirono ignoti anche sotto i bombardamenti di Dresda e a Hiroshima.

2.
La A., condomina sopra di noi: “ Sono un po’ depressa. Ho paura e sono sola. La sera metto la scala dietro la porta. Se qualcuno cerca di entrare, la scala cade. Tu che hai il sonno leggero, se la senti….”

10 maggio

1.
Ricordo

Di quel convegno dei comitati civici a Pallanza
dove mi fecero anche una foto poi smarrita
nella quale pensoso nascondevo la bocca
con la mano destra accartocciata.

Ricordo solo quel pugliese
che raccontò ispirato e combattivo
come aveva contrastato
i  rossi durante un comizio
sulla piazza del suo assolato sconosciuto paesino.

2.

P.

Si dibatte nella gabbia  con la sua unica figlia.
E legge romanzi soprattutto.

11 maggio

1.
In solitudine amara
sto.
Son sempre stato.

Passerò solitario.
Son già passato.

E invecchiato
deluse a voi
invecchiati o morti o lontani o silenziosi
le palme tendo.

Comune è solo l’affanno.
Tenui, fastidiose le invidie
per tanto fervore in viziate
ripetizioni.

Evidente la povertà dei mezzi
in questa stanza buia.
…..

il conflitto sconfitto
smarrita la vocazione
….

2.
Il noi è poi tutto qua
In una manica di comitato
che a notte tardi
finita la riunione
distrattamente si saluta.

Il noi. Tutto qua
nel dubbio
nella nostalgia

3.

G.

Non invidio
te e i tuoi amici
che ombreggiate le Parole.

Parlate, parlate.
Ma il Vuoto adorate.

4.
La preghiera
l’ascesi
il castigo
è nel fare la spesa.

13 maggio

1.
Non ho imitato F. Mi sono soltanto ritrovato in condizioni simili alle sue e ad affrontare problemi simili ai suoi.  E con una soggettività abbastanza simile (cristiano-marxista).

9 giugno

1.
Frequentava i non poeti per rimanere poeta.

2.

Leopardi non aveva da fare la spesa, lavare il pavimento, preparare da cucinare, noi moltinpoesia sì.

3.

Ma il sentimento di ostilità che ho verso amici e conoscenti anche vicini, con cui pur dialogo, perché dovrei tacermelo o trascurarlo? La voglia di stare addosso a tutti i fatti politici mi è passata.  Anche per questa mancata costruzione del “noi”. Non posso dibatterne da solo.

12 giugno

Mi vedranno morto.  Le mie cosce bianche e senza peli, come di gesso. Come nel sogno che ho raccontato in Unio.

23 giugno

1.

Voglia di mollare Poliscritture. O almeno di occuparmene senza assillo, senza stare sempre a sollecitare gli altri. Seguendo gli impulsi miei.  Quando vengono.

2.

Un crescente distacco dai poeti e poetanti o dalla poesia? Andarmene alla ricerca della poesia perduta?

3.

Casa in movimento

Ci vado alla fine. Indeciso. Che ci faccio, da 76enne, con questi giovanotti? Mi divide una storia più lunga e da essi ignorata. Fanno quello che facevo io sui trentanni. Con la stessa storditaggine e sicurezza? Il discorso su profughi e accoglienza tenuto da due giovani che lavorano in qualche struttura di volontariato è tutto informativo, quasi neutro, depoliticizzato.
Le testimonianze dei due giovani (uno afgano e l’altro del Mali) mi fanno tenerezza e rabbia. Sotto la loro voglia di essere simpatici e lodare l’aiuto che ricevono dai volontari italiani intravvedo la solitudine, lo spreco di vita. Passano la giornata senza poter far niente di quel che desiderano. L’afgano disegna. Ha una mano un po’ pesante. L’altro vuole fare il calciatore, prendersi il diploma di media, la patente.

4.

Essere sempre più selettivo nel proporre citazioni e testi su FB. Fatti colpire, incuriosire, ma poi non proporre agli altri, se non sulla base di qualche spunto o affinità evidente con eventi o discussioni in corso. Tornare al periodo in cui il diario lo tenevo per me e non avevo nessuno spazio dove pubblicare.

5.
Io che ho avuto modo di leggere, sia pur convulsamente, Fortini, Foucault, Luperini, Timpanaro, etc dovrei rileggerli invece di inseguire le letture che fanno i più giovani e in vista.  Stare sui i temi affrontati dalla mia generazione.

24 giugno

1.

Che serve raccogliere citazioni e stralci? Che differenza tra gli stralci buoni da segnalare e stralci da meditare o da rielaborare (magari  poeticamente)?

27 giugno

1.

A ogni annuncio di morte di coetanei o quasi:  Azz! Qua fra poco dobbiamo morire, uffà…

3 luglio

1.

Sono stato più che sfiorato dalle teorie politiche degli anni Settanta, ma l’essere in periferia mi ha fatto da filtro e da impedimento. La mia tendenza è stata sempre quella di accumulare stralci di articoli (dai giornali prima, dal Web oggi) ma, oltre alla forma antologica dello scrap-book  da proporre sul sito di Poliscritture nella speranza di trovare interlocutori che rilancino a loro volta  quei temi, non vado.  Puntare a organizzare in libro i miei tanti appunti rimasti quasi sempre inediti? Ma per chi? Ho avuto l’esperienza dei miei vari libretti di poesia.  Oltre la schiera degli amici o di una diffusione, di poco più ampia grazie a qualche premio, non sono andati. E, dopo la morte di G., mi sono  persino stufato di proporli a qualche editore.  L’elaborazione a frammenti nel mio caso  non è una scelta “di poetica” (come alcuni ex amici hanno teorizzato) ma è forma imposta dalle circostanze esistenziali e dall’isolamento. Questo s’è accresciuto con la sconfitta politica che conta per la mia generazione:  quella alla fine degli anni Settanta. E che mi ha definitivamente inchiodato a questa *perifericità*. Da vecchio, poi, le mie possono essere solo memorie di un periferico, appunto. E da questa collocazione il cercare prevale su altre possibili funzioni.  Ad esempio,  maestro non sono. Né mi sento di esserlo. Per nessuno.

9 luglio

L’aria fresca sulla pelle.
Al mattino presto
assieme a versi d’uccelli.
Che non conosca di che specie siano
non importa più.

Hai l’aria e quei suoni. Da pensare.

10 luglio

M. su Facebook

Gli lascio un augurio per il suo compleanno: “ E persino da me!”  e l’accompagno con disegnino.  E me lo cancella!

23 luglio

Mi viene in mente John Vigna. Da sedicenne comprai un libro con esercizi per rafforzare la muscolatura . Cerco su Web  e trovo:

Italo Martella

A metà anni 50 comprai il primo libro di John Vigna, ricordo che recitava “DAMMI MEZZ’ORA AL GIORNO E FARO’ DI TE UN MAGNIFICO UOMO”. Poi comprai il secondo libro “Culturismo per Campioni” . Che tempi…qualcuno si ricorda di Tullio Ricciardi? Potrei parlare per anni di Culturismo.

1 agosto

Quando potevo osservare la gente (del dopoguerra) con lo sguardo calmo e contemplativo con cui guardavo le statuine dei pastori nel presepe.

2 agosto

1.

Etsi deus non daretur è una espressione latina, coniata nel 1625 dal filosofo olandese Ugo Grozio e spesso tradotta erroneamente con: Come se dio non esistesse. In realtà la traduzione esatta è: Anche se dio non fosse dato; perché serve ad affermare che il diritto naturale è valido di per sé, che Dio esista o meno. (da wikipedia)

39 pensieri su “Sbratto 1: gennaio-agosto 2017

  1. *Sull’io alle prese con il noi pare che Philip Roth ne sappia parecchio. [E. A.]

    SEGNALAZIONE

    PIANETA ROTH #3: LA MACCHIA UMANA
    di Luca Alvino pubblicato lunedì, 13 maggio 2013
    http://www.minimaetmoralia.it/wp/pianeta-roth-3-la-macchia-umana/

    Stralcio:

    Il conflitto tra fragilità dell’«io» – ovvero il distillato degli impulsi emotivi con cui l’essere umano lotta per affermare la propria specifica irripetibilità – e solidità del «noi» – la forza coercitiva e intirizzita con cui la società impone al soggetto di conformarsi a una volontà plurale, che ne condiziona prepotentemente il comportamento – è una tematica che attraversa tutta la narrativa di Philip Roth, a partire da Lamento di Portnoy (1969) fino a Indignazione (2008), passando per Il teatro di Sabbath (1995) e i romanzi dell’American Trilogy (1997-2000). Ma in fondo, un po’ tutta l’opera rothiana è caratterizzata dal dualismo esistente fra tradizione e tradimento, fra il radicamento in una cultura solida – che garantisce protezione tramite la rassicurante salvaguardia della ripetizione e della ritualità – e la necessità di venir meno all’influenza troppo costrittiva di tale condizionamento.

    2.

    n realtà, se esiste una lezione che è possibile apprendere dalla lettura di questo romanzo (che nega la possibilità stessa di imparare lezioni), è proprio il fatto che nessuno sa nulla; che anche soltanto ritenere di sapere qualcosa è sciocco e pretenzioso: «Tutti sanno… Cosa? Perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane? Nessuno sa, professoressa Roux. “Tutti sanno” è l’invocazione del cliché e l’inizio della banalizzazione dell’esperienza, e sono proprio la solennità e la presunta autorevolezza con cui la gente formula il cliché a riuscire così insopportabili. Ciò che noi sappiamo è che, in un modo non stereotipato, nessuno sa nulla. Le cose che sai… non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente». La realtà è irriducibile a qualsiasi tipo di categorizzazione. L’ontologia è una monumentale illusione della civiltà occidentale, che – come ogni monumento – è destinato prima o poi a crollare. Niente è come sembra. Tra verità e apparenza si erge l’ostacolo insormontabile della complessità, che rende impervio qualunque tentativo di imporre una tassonomia all’esperienza.

    3.
    olo proseguendo nella lettura, veniamo a sapere che Coleman, dopo aver subito alcuni episodi di discriminazione, spinto da una naturale insofferenza verso tutto ciò che gli impedisce di realizzare fino in fondo il proprio io, approfitta dell’estrema chiarezza del proprio incarnato per inventarsi un’identità nuova: abbandona Howard (il college di Washington, D.C. riservato ai neri) e si iscrive come bianco alla NYU; si sposa con una donna ebrea e rinuncia per sempre alle proprie origini, non rivelando mai a nessuno – nemmeno ai propri figli – la verità su ciò che realmente è.
    «Nessuno sa, professoressa Roux». Nessuno sa nulla, come suggerisce la stupefacente deviazione nell’intreccio, e come indicheranno ulteriori rivelazioni inaspettate nel finale del romanzo. Coleman Silk, colui che è stato accusato di razzismo, ovvero di subordinare l’eccezionalità e la specificità dell’individuo a categorie insensate e vessatorie come il concetto di razza, si rivela essere in realtà «il più grande dei pionieri dell’io»; un uomo che, piuttosto che rimanere imbrigliato negli odiosi vincoli del pregiudizio, ha preferito sopportare una dolorosa e definitiva rinuncia alla propria identità e ai propri affetti.
    Il pregiudizio (così come il moralismo) è una forma semplificata di conoscenza, che ha la pretesa di ridurre a categorie statiche e inefficaci una realtà che, per sua natura, è complessa e in incessante trasformazione. Tentare di comprendere qualcosa tramite strumenti che non vengano messi continuamente in discussione da un’esperienza delle cose sempre rinnovata non consente di conoscere nient’altro che se stessi, o ciò che si conosce già. Coleman, con la sua decisione di sottrarsi alla logica del pregiudizio e di rinunciare alla propria identità, enfatizza l’irriducibilità dell’individuo a categorie astratte che non riescono a coglierne la sottile specificità. Intitolando il romanzo La macchia umana, Philip Roth procede in direzione di un nuovo umanesimo, che non tenta di ricondurre l’uomo a modelli classici stereotipati, ma che muove un passo coraggioso verso la sua precarietà, la sua debolezza, le sue contraddizioni.

  2. …non ho letto questo romanzo di Philip Roth: “la macchia umana”, ma ho visto per caso il film che ne è stato tratto e mi aveva molto colpito il percorso drammatico del protagonista che per affermare la sua identità (parziale) aveva dovuto amputarne una parte (essenziale), vittima di pregiudizi sino alla fine…
    Quando il senso della contraddizione, la precarietà e la fragilità ci fanno scivolare in una sorta di corto circuito devastante, trovo che possa essere d’ aiuto il bosco ( G. Lucini) o il parco, come dice Ennio il 9 Luglio:
    L’aria fresca sulla pelle.
    Al mattino presto
    assieme a versi d’uccelli.
    Che non conosca di che specie siano non importa più.

    Hai l’aria e questi versi. Da pensare.

    grazie

  3. Rispondo al post di Ennio su un altro piano, non quello di riflessioni e osservazioni che si svolgono in un percorso temporale in vista di un senso unitario e progettuale. Piuttosto rifletto, ora, su percorsi passati compiuti, con un’intenzione ugualmente significativa e unitaria. Ho partecipato attivamente a due imprese collettive e ideali che trascendevano la quotidianità della mia vita personale, ambedue realizzanti un ambito di realtà di non  indifferente rilievo pubblico e valoriale: la Libreria delle donne​ di Milano e Diotima, la comunità filosofica giunta al 13mo volume pubblicato, una rivista online, convegni annuali. Poiché partecipo ora a Poliscritture, rivista e gruppo di riflessione politica e letteraria, credo di poter raccogliere in sintesi alcuni tratti fondamentali del lavoro che si svolge tra io e noi, il lavoro che si compie quando ci si riferisce a un gruppo collegato dal lavoro stesso e da quelle motivazioni che lo fanno esistere.

    Il noi è una comunità legata da uno *scopo*. Lo scopo è un oggetto da realizzare e una *attività in comune*, minima per quanto è obbligatorio, massima e massimamente varia per quanto riguarda le attività dei singoli, che può impegnare quasi tutta la vita per alcuni, e spingersi in spazi anche lontani da quello in cui poi si converge come gruppo abitualmente. Non solo, può anche implicare per alcuni relazioni che non fanno strettamente parte della comunità. Per altri del “noi” attività e relazioni possono invece essere più ridotte.
    Questo comporta che il noi è formato di singolari individualità riconosciute.

    Lo *scopo* è precisato in oggetti che testimoniano l’esistenza del noi: scrivere un libro, un giornale, un film, tenere in vita una associazione. Ma lo *scopo* è insieme qualcosa di più, sta nel registro delle idee, è una condivisione generale, imprecisa nei bordi e anche nella figura, eppure nella sua vaghezza sicuramente condivisa da tutti, a cui si decide di appartenere. Tradurre in immagini precise e atti concreti l’ideale comune significa dargli esistenza, consistenza, definitezza, portata, verità.

    A proposito di verità soggettiva, che scopo e oggetto siano comuni è verificato dall’accordo, in ognuno dei partecipanti al noi, delle varie parti della sua vita con l’impegno comune. È importante che nessuna contraddizione soggettiva di qualcuno sia tale da intervenire a indebolire la verità condivisa del comune disegno.

    La *attività in comune* è tuttavia collegata alla contraddittorietà interna propria di ognuno. Non tutti condividono tutto l’insieme degli atti prodotti sotto l’ispirazione dell’idea, con la stessa intensità. Aspetti parziali di ciò che è patrimonio comune possono essere anche non fatti propri. La compatibilità delle differenze personali deve essere calibrata su ciò che è condiviso, la cui rilevanza deve essere assoluta, rispetto alle parti meno condivise.
    Tuttavia la rilevanza di ciò che vale non è identificabile interamente, non è oggettivabile come cosa data, dato che questo farebbe cessare istantaneamente il noi, in quanto ci si troverebbe davanti a un processo realizzato e quindi finito. Perchè invece il noi continui a esistere per realizzare l’idea comune, occorre che questa idea sia ancora da esplicitare e perfezionare.

    La parte dell’io singolo è un’interfaccia: collegata alla vita privata dei bisogni e degli affetti, si connette –senza perdere quella prima parte- con i progetti collettivi di cui fa parte. Di questi progetti alcuni, lavoro, vita pubblica, sono necessari e non scelti. Altri sono invece intenzionali, appartengono a un regno della libertà, cioè a fini da perseguire. E’ l’identificazione di fini – che non siano solo pensieri desideranti, aspirazioni velleitarie- che costituisce l’effettività del noi, in cui la “insondabile” singolarità può diventare comunità, storia, deposito.
    Io non vedo nel legame io/noi né una correzione o freno dell’intrattabile “proprio”, né una medicina per le contraddizioni, materiali o esistenziali, di cui ognuno è preda. Vedo invece la conversione di ciò che è proprio in opere, in azioni, in oggettivazioni, che dal noi può passare anche ad altri, persino a tutti.
    La conversione è resa possibile, per l’esperienza di noi-comunità che ho avuto, solo quando il confronto è aperto e radicale, sì che in esso confluiscono, quasi naturalmente, anche le contraddizioni interne ed esterne, che in realtà sono solo freni e impedimenti alla libera esplicazione di sé nel comune rapporto.

    Aggiungo un’altra citazione da Minima moralia su Roth:
    “Tentare di comprendere qualcosa tramite strumenti che non vengano messi continuamente in discussione da un’esperienza delle cose sempre rinnovata non consente di conoscere nient’altro che se stessi, o ciò che si conosce già. Coleman, con la sua decisione di sottrarsi alla logica del pregiudizio e di rinunciare alla propria identità, enfatizza l’irriducibilità dell’individuo a categorie astratte che non riescono a coglierne la sottile specificità. Intitolando il romanzo La macchia umana, Philip Roth procede in direzione di un nuovo umanesimo, che non tenta di ricondurre l’uomo a modelli classici stereotipati, ma che muove un passo coraggioso verso la sua precarietà, la sua debolezza, le sue contraddizioni.”
    Un percorso che Coleman non ha fatto in solitudine, ma in relazioni profonde, di avversità e di coinvolgimento.

  4. @ Fischer ma non solo

    Se possibile, chi ritiene di partecipare al “noi” ( o comunità) di Poliscritture cerchi di riflettere e dare la propria opinione su questi punti che estraggo dal tuo commento:

    1.
    qual è o dovrebbe essere lo *scopo* di questo “noi” (=di Poliscritture);
    2.
    in che consiste l’«attività in comune» che attorno a Poliscritture si svolge o potrebbe svolgersi ;( o «l’idea comune» da «perfezionare»);
    3.
    in quali «oggetti» che potrebbero «passare anche ad altri, persino a tutti» viene testimoniata l’esistenza di questo “noi”;
    4.
    In che consiste la parte condivisa di Poliscritture e quali sono invece le «parti meno condivise».

    1. Lo *scopo* si concretizza in a) oggetti (la rivista, il sito) e b) in attività comuni (di confronto, gli incontri, gli scambi), scrivevo. Ma credo che tu ti riferisca a “lo *scopo* è insieme qualcosa di più”…
      Quel qualcosa di più -non voglio sfuggire o eludere il problema- lo ho anche descritto come impreciso, per la ragione che, se fosse precisato, sarebbe anche compiuto, e non richiederebbe più che un gruppo lo realizzi.
      (A meno che non si tratti di “applicare” qualcosa a qualcos’altro.)
      A questo punto il problema si mette nei termini di 2) l’idea comune da perfezionare (etimologicamente, perficere, completare in modo ottimo), 3) comunicabile ad altri/tutti, 4) per il suo valore intrinseco.
      Certo, qui ognuno deve parlare per sé. Per me, io credo che il confronto, come spesso avviene ed è avvenuto tra noi, costituisca gran parte dell’”idea comune”: il fatto stesso che una comunità si ponga dice molto sul senso della comunità, sul suo valore esemplare, sulla possibilità che essa esista.
      Capisco che è un ragionamento a specchio, che rimanda sempre a se stesso. Ma non sono sicura che un “valore” esterno preso come tema attorno a cui raggrupparsi abbia il potere di far funzionare un convenire di spiriti liberi.
      Il mio essere una donna e una donna pensante sono state le ragioni delle comunità cui ho partecipato in precedenza. Il mio interesse per la fondamentalità e non la strumentalità della politica, e il lavoro della lingua pensante mi hanno legato a Poliscritture.

  5. Ritrovo qui l’Ennio Abate che ho sempre amato, il poeta ragionante ma con l’indole più birichina del suo stimato, e spesso referente, Franco Fortini, anch’egli poeta ragionante.
    Per lungo tempo, se si può dire così – prima seguendo Moltinpoesia e poi con Poliscritture – ho tentato di apprendere e mi interrogavo su quale potesse essere il compito del poeta, dove la sua coerenza e quali la forma e le parole più adatte al tempo che stavamo vivendo. Ma dal 2013, credo, ad oggi, molte cose sono già cambiate.
    Per fare scambio di esperienza, e non il “solito” dibattito che secondo me alla fine con il NOI ha poco a che vedere, il NOI l’avevo lasciato alle spalle nei primi anni ’80 e fu un fatto inevitabile perché entrai in analisi; non quella ortodossa ma quella che considero rivoluzionaria per i tempi brevi del suo percorso ( da Lowen in poi). Avevo questa esperienza sulle spalle quando arrivai a Moltinpoesia. Nuovo di pacca, come si dice. E con l’esperienza del collettivo (militante) definitivamente chiusa, anche se aperta come adesso nei contenuti e nella voglia di cambiare le cose. Ma bastava? C’erano per me alcuni punti irrisolti in quel lavoro ai Moltinpoesia: non si riusciva a parlare di estetica e di linguaggio, e Zeus sa di quanto ne sentivo il bisogno!
    Il percorso dell’io, lo sai anche tu, Ennio, proprio perché di percorso si tratta, non può essere ingessato in una piatta definizione– tipo questa di porlo in relazione al NOI. E’ una cosa a sé. Non andrebbe discusso in alternativa a qualcos’altro. Te lo ritrovi sempre lì, che tu sia sulle barricate oppure chiuso dentro casa.
    E’ procedendo nel percorso dentro l’io che si ritrova il “nulla”, perché è logico almeno chiedersi cosa ci potrebbe essere se l’io non ci fosse. Però, una domanda: chi gliel’impedisce a chi ha interesse nel filosofico nulla, che so, di occupare una casa, di manifestare o perfino di discutere di marxismo? Basta che non ne parli o ne scriva? Ma allora saremmo daccapo…

    1. @ Mayoor

      Tu chiami «scambio d’esperienza, e non il “solito” dibattito» – (proprio nei giorni scorsi ho criticato il “parlare per parlare” e auspicato un parlare collegato o che ci si deve sforzare a collegare al fare)- quello che io chiamo cooperazione piena ad un progetto “a tutto tondo” (per usare il gergo interno in questo momento della redazione di Poliscritture).

      Ripeto: ho deciso di pubblicare questo post ,intitolandolo ‘Sbratto’ e attingendo a pensieri e esperienze di un “io/noi” (tale mi ritengo o così mi rappresento) quasi latenti o “smozzicati” e “troppo sintetici”, di quelli cioè che di solito scartiamo da un discorso ragionato (o che al codice del ragionamento sottostanno) ; e che comunque un lettore attento riesce a cogliere.

      Tu hai accolto in pieno il mio invito a intervenire; e sollevi tre problemi, che a me sembrano collegati tra loro e a cui però do soluzioni diverse e contrarie alle tue.
      Quali sono?

      1. Il compito del poeta.
      Ho detto credo a sufficienza qui:https://www.poliscritture.it/2017/02/22/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano-abbastanza/. E da tempo ho dovuto prendere atto che non trovo concordanze chiare su questi tre punti:
      – a. il conflitto che traversa il linguaggio, qualsiasi linguaggio, anche il poetico;
      – b. il rifiuto del poeta come “specialista” o sacerdote della Parola;
      – c. l’esigenza – oggi più impellente per me – di dialogare (e studiare) più i poeti morti che i viventi.

      2. L’esperienza dei«Moltinpoesia».
      Scrivi di un suo limite: «non si riusciva a parlare di estetica e di linguaggio, e Zeus sa di quanto ne sentivo il bisogno!». Devo correggerti. Di estetica e di linguaggio si parlava (e potrei documentare…), ma rifiutando – almeno da parte mia – un discorso specialistico staccato dal “resto” (storia, politica, società) e, quindi, dal “noi” ( non«NOI»!), oggi sempre più problematico. Quindi, per schematizzare: sul solco di Fortini e non di Heiddegger. Aggiungo che, quando affermi che « dal 2013, credo, ad oggi, molte cose sono già cambiate», non so bene a cosa ti riferisca; e tuttavia, se restiamo al possibile discorso sulla poesia, l’unica cosa evidentemente cambiata per me è questa: abbastanza ostili al modo in cui avevo impostato quel discorso nel «Laboratorio Moltinpoesia», amici e amiche hanno preferito continuarlo con altro taglio nel gruppo «Oggi in poesia»; e tu hai sempre più diradato il tuoi interventi su questo tema in Poliscritture, intensificando la collaborarazione con« L’Ombra delle Parole», dove il taglio heideggeriano è prevalente.

      3. L’io come « cosa a sé».
      Il discorso sarebbe lungo e non ho tempo per dirne a sufficienza qui. La tua visione, corroborata dalla psicanalisi del discepolo reichiano Lowen, resta secondo me una visione monadica. Apparentemente non impedisce « a chi ha interesse nel filosofico nulla […] di occupare una casa, di manifestare o perfino di discutere di marxismo»; e tu, credo, ne sia la dimostrazione. E tuttavia è il primato implicito in questo io (astorico, inteso appunto come «cosa in sé», in un certo modo inattaccabile, intrasformabile, tutto concentrato sul «”nulla”») a rendere occasionale, marginale o comunque secondaria l’attenzione agli “altri” impegnati socialmente e conflittualmente a vivere o a sopravvivere; rischiando ancor più – temo – a parlarne “tanto per parlarne”. Perché è respinta o considerata impossibile una relazione non meramente emotiva con il “noi” (non il «NOI»!) inteso come costruzione razionale possibile e rischiosa. Da un “noi”, che non si limiti ad essere gruppo amicale o “di poeti” o di “spiriti affini”, si teme di essere per forza – e le esperienze storiche in tal senso non nego che siano scoraggianti – “ingessati”.

      1. Grazie per avermi risposto, e per la correzione del Noi – vedi, perfino m’imbroglio nello scriverlo – . Quel “parlare per parlare” non è esattamente quel che intendo io, diciamo che non amo i discorsi impersonali dove chi scrive generalizza anche quando è evidente che parla per sé – es. chi è solo parla di solitudine, chi arrabbiato parla di rabbia, ecc. – penso quindi che mettersi in gioco non sia deprecabile ma solo è fuori luogo perché non corrispondente alle regole della dialettica, per me ostiche da sempre e che comunque non mi corrispondono più: non separo poesia da vita, poesia da ragionamento, laddove poesia sta per espressione del privato, in senso lato e non strettamente dell’Io.
        – a. Penso che non esista un linguaggio fermo, quella sarebbe la langue, ma esiste un linguaggio in continua trasformazione; e questa non la decidono i poeti perché anch’essi, al pari di chiunque altro, ne sono influenzati, sempre se poeti non ostinatamente devoti alla tradizione. Ma non è il nostro caso: tu forse con più coscienza storica ( vedi il mantenimento del dialetto), appunto perché poeta-ragionante, io perché cerco di dare forma al linguaggio sempre più striminzito di questi tempi che arrivando alle orecchie mi va nel pensiero. Tutto questo è lavoro per poeti, anche se ovviamente non solo per loro.
        b – Dicendo “lavoro” credo di rispondere al quel poeta-sacerdote, sulla qual cosa sono perfettamente d’accordo con te.
        c – Io sceglierei tra i poeti morti quelli che maggiormente offrono spunti di riflessione inerenti al linguaggio più attuale, fermo restando che per attuale io intendo il linguaggio corrente, più che nelle università, nelle strade. Ma queste sono scelte, diciamo così, di parte, perché non mi sento un’eccezione e quel che mi frulla in testa frullerà pure anche nella testa dei più (piaccia o non piaccia); proprio perché non sacerdote della parola (non ne avrei nemmeno i mezzi) preferisco così. Però ad esempio, e mi sforzo a scriverla, io la parola Trendy per dire “alla moda”, proprio non riuscirei. E qui faccio appello alla langue.
        Heidegger: vuoi sapere cosa ne penso? “Essere e tempo” per me lo si potrebbe pubblicare in dispense e distribuire nei beauty center, così mentre ci si fa i capelli si può ragionare su come funziona l’esser-ci, che è qualcosa che abbiamo sotto la cute, dentro le meningi e ci aiuta a comprendere il meccanismo del nostro stare al mondo. Ma l’Essere, Heidegger non l’ha individuato, dimostrando che l’ente è solo un procedimento filosofico, che però non può arrivare dappertutto in quanto volto alla metafisica e solo di sguincio alla storicità. Ma va bene, non porterà a nulla ma perché trascurare questa indagine? Allora si trascuri anche la psicanalisi…
        La mia adesione a L’ombra delle parole è adesione alla ricerca nel linguaggio; lì ho trovato poeti che si smarcano dalla tradizione italiana, non per supponenza ma perché si ritiene che questa si sia arenata nella piccola discorsività del secondo Montale. Quindi, andando alle radici di questo fenomeno, si sta lavorando su l’interruzione del pensiero lineare (in poesia), cosa che per altro mi sembra di intravvedere in questi tuoi frammenti, o refrain, dove estrapoli l’essenziale da altri discorsi fatti, a modo tuo, da poeta appunto ragionante. Questo essere a-modo-tuo preserva dal pericolo di possibile uniformità. Da qui parte l’indagine ontologica. Nulla vieta che qualcuno possa scrivere frammenti calati nella storicità: come dicevo poc’anzi si tratta di questioni estetiche. Nuova ontologia estetica, appunto, per indicare l’area dove poter indirizzare a nostro avviso un processo di rinnovamento, se non di rifondazione, della poesia italiana. Cosa presuntuosissima, ne convengo, che io però trovo avvincente; non solo, ma trovo che mi corrisponda naturalmente per come sono, e da sempre, s-combinato mentalmente. Paradossalmente è proprio il disordine a farsi guida del riordino (estetico). Se consideri che il linguaggio odierno – ma per poterlo considerare bisogna smetterla di giudicarlo negativamente o positivamente, ma semplicemente prenderne atto ( proprio perché non siamo poeti-sacerdote) – va in velocità e verso procedimenti di sintesi sbrigativa, puntando più all’efficacia che all’approfondimento (segno evidente degli effetti della meccanicità produttiva), è con questi”scarti”, questi che la NOE chiama anche stracci, fusioni mal riuscite, ecc. che si vorrebbe operare, da poeti.
        Io e Nulla – Il taglio ontologico della ricerca porta inevitabilmente al nulla (non a nulla) ma è qui inteso come non risaputo, non ancora esperito, come niente su cui si va scrivendo. L’azzeramento non è una scelta ma un portato dell’ultimo novecento, particolarmente dello sperimentalismo, il quale risentì dello spirito rivoluzionario degli anni ’60. Come fu per il Futurismo che ruppe con la tradizione Dante-Petrarca così, certo in misura meno epocale, una qualche rivoluzione anche linguistica venne prodotta sul finire del secolo passato. Ma anche qui non restò nulla, o macerie. Quelle che appunto stiamo adoperando, se vuoi guardando in avanti piuttosto che balzare all’indietro, verso il classicismo, come è stato per alcuni del post-moderno. Il Nulla è quel che abbiamo davanti. Traducilo pure in mancanza di futuro ma non sbaglieresti. Il fattore tempo diventa quindi determinante, scientificamente e socialmente.
        Tutto questo per dire che non si vuole, e non voglio, riaffermare o riprodurre schemi, al di là che li si considerino giusti o sbagliati…
        Scusa se ho risposto solo ora, e di getto come al mio solito, ma ancora non ricevo l’avviso ai commenti che arrivano di volta in volta, malgrado la spunta di Avvertimi via email.

  6. Ho letto l’interessantissima testimonianza di Cristiana Fischer e, sperando di non essere inopportuno, vorrei provare a fare altrettanto dicendo della comunità nella quale mi sono inserito a partire dal 1990, quella dei sannyasin di Osho. In caso lo riteneste fuorviante fermate qui la vostra lettura.
    Vista da fuori una comunità appare sempre come chiusa in sé, facente parte di qualche ideologia o fede che, se non la si conosce, non può in nessun modo attrarre. Affinché questo non accada bisogna che la comunità dia dei segnali, o come dice Cristiana, offra degli oggetti.
    Il primo “oggetto” che notai tra i sannyasin, lo dico senza remore, furono gli abbracci in mezzo al pubblico: abbracci veri e prolungati, tra uomini e donne, donne e donne, uomini e uomini; giovani e vecchi, sani e malati, ecc. Quando dico prolungati intendo dire che gli abbracci duravano fino ad esaurimento, non come strette di mano che dopo pochi secondi metterebbero in imbarazzo. Si aveva come l’impressione che fossero come nutrimento. Spesso, finito l’abbraccio, i due di separavano appena con un cenno di ringraziamento, e via.
    Il secondo oggetto fu una risposta che mi venne data allorché volli confessare che già ero stato in collegio, e che quindi la sola idea di comunità mi spaventava. La risposta fu questa: può sembrare, ma guarda che qui siamo tutti soli.
    Non sto a dirvi altro sulla comunità per non fare confusione, prima che pensiate che voglia fare proselitismo o altro. Sta di fatto che la comunità sannyasin il rapporto tra Noi ed Io è invertito, nel senso che il Noi pare un’anomalia. Eppure c’è. A volerlo tradurre si potrebbe parlare di fratellanza, la qual cosa non comporterebbe necessariamente una unità di intenti, e nemmeno lo si fa per uno scopo. Eppure tutto viene messo in discussione: politica, sessualità, cibo, risorse energetiche, ricerca interiore (psicanalisi) sono temi ricorrenti, con in più lo svuotamento degli stessi, di ogni discussione, perché è predominante la solitudine; reciproca se in coppia, se sposati con figli, ecc. Questo rispetto verso la solitudine, la libertà e l’esistenza stessa di ogni individuo è palpabile. Se dovessi immaginare la realizzazione dell’idea che avevo del comunismo direi che qui l’ho trovata. Oltre tutto non ho ancora incontrato un sannyasin che sia credente. Vero è che fuori dalla comunità l’esistenza delle persone è quella che sappiamo, ma corrisponde a come sono le persone stesse, sia che stiano in alto nella scala sociale che in basso. Forse i sannyasin hanno voluto semplicemente venirne fuori; e così anch’io, se volete per andare in avanscoperta.
    Ora non so se l’idea in discussione sia quella di voler iniziare dal Noi per tentare una sorta di comunità, anche piccola, magari anche a prescindere dalle differenze – invero non sostanziali – con cui s’interpretano le faccende del mondo, credo però che, uno: ciascuno dovrebbe sentirsi libero e responsabile di se’. Due, che si abbia una pratica condivisa da svolgere ( che andrebbe individuata, per Moltinpoesia era principalmente la letteratura, per Poliscritture una miscellanea di cose indistinte: discussioni di politica, poesia, ma senza che tra queste vi fosse una precisa correlazione… almeno così mi è sembrato). Questo secondo aspetto conduce necessariamente al terzo, che è preliminare, ma qui mi riallaccio alla comunità sannyasin: nella comunità non si entra se non si è consapevoli; se matti o disturbati si sta fuori. Allo stesso modo, penso, qualsiasi comunità dovrebbe chiarire quali devono essere le condizioni per potervi fare parte. E qui lascio la parola.

  7. …la stessa solitudine, da te Mayoor così decantata, se estrema può generare follia…Detto questo, mi sembra difficile definire se venga prima, per importanza, l’io o il noi, come tentare di rispondere alla domanda se è nato prima l’uovo o la gallina…C’è una interconnessione tra le due forze, che lo si voglia o no, per inclusione o esclusione reciproca. Allora anche chiedersi: quale io? Quale noi? Lo scopo di un gruppo può essere o diventare comune, ad es. per Poliscritture potrebbe essere un punto di vista teorico e pratico “rivoluzionario” sulla realtà (lo ha già dimostrato), ma questo non potrà mai escludere scopi collaterali che attengono alla diversità dei soggetti pensanti presenti nel gruppo…Anche Ogginpoesia potrebbe aver svolto un suo ruolo rivolto a scopi sfrangiati, ma non trascurabili: mantenere i contatti con alcune persone amiche, leggere e approfondire autori e temi culturali, sociali ed ecologici..Non si escludono a vicenda queste esperienze.

    1. Cara Annamaria, voglio soffermarmi su la “follia”, la qual cosa a mio avviso non andrebbe immediatamente collegata alla proverbiale mancanza di ragione che genera mostri. Follia è per me significante del sacro, come ho letto che l’intendevano gli antichi greci. Facciamo così: che la follia se la prendono tutta i poeti, così non c’è pericolo. Ma senza questa follia, senza questo ignoto, come pensi che si possa esplorare e andare avanti nell’arte? O vogliamo affiancarci ai ricercatori e scrivere poesia-analisi, poesia che solo sa leggere nel risaputo, nel quotidiano, quindi poesia facilmente comprensibile perché la si sa già; e quindi giù! che arrivano complimenti… ?
      Io e Noi ho voluto prenderli in considerazione come separati, non collegati. Quindi per me non c’è un prima l’uno oppure l’altro. Comunque per la mia poca esperienza preferisco partire dall’io. Senza Io non saremmo neppure qui a discutere, saremmo al più delle pedine, traduttori simultanei delle varie istanze.
      Dire che gli scopi dell’individuo siano”collaterali” lo trovo a dir poco tragico. L’elemento nuovo, e per me interessante, più che il noi è dato da l’interattività (tra le monadi), processo che si è innescato con internet attraverso i social. Sarà deprecabile quanto vuoi ma è indicativo di un cambiamento, di un bisogno di partecipazione che internet ha, forse involontariamente, posto allo scoperto. Ti chiedo quindi se possa mai esistere un Noi virtuale. Quale concretezza potrebbe mai avere? Secondo me quella puramente delle idee, che è poi quello che stiamo facendo anche qui, in questo momento.
      L’Io ha una complessità ben differente; e il Noi, che per me resta scollegato dall’Io (ragioniamoci, come direbbe Ennio…) è quel che preferisco chiamare “popolo” o “comunità”: usi e costumi, come si suol dire, ora alienanti per l’individuo, ma che all’occorrenza possono produrre solidarietà, scambio culturale, impegno e dare senso in quel che si fa. Se non va così è perché l’Io viene condotto a mo’ di gregge da una parte all’altra. Mi spiace, credo si debba collaborare per la demolizione del pensiero unico e dare valore all’individuo. So che questo è lo scoglio più duro per un marxista perché è uso a leggere, non individuo ma individualismo, che è dell’arrampicata crudele del capitalismo; poi perché l’individuo è corruttibile, controllabile e manovrabile, oltre che impotente se posto davanti alla complessità. Ma questo è per me pensiero cristiano! Serve secondo me un sano nichilismo, una sorta di riconosciuta e rispettata cittadinanza, con tutto quel che ne conseguirebbe sul piano del riordino dell’organizzazione sociale in termini di cessazione dei privilegi, delle scelte comuni da fare, nell’interesse di tutti e bla bla. Ma qui mi accorgo che sto per andare per la tangente, da ormai iscritto al Movimento cinque stelle. Quindi vi risparmio.

  8. Prendo a preambolo l’introduzione di Ennio – che riporto qui sotto – non solo per fare delle riflessioni sul rapporto tra l’io e il noi (così come Ennio chiede) ma per cercare di uscire dagli stereotipi (che rappresentano, come risaputo, delle ‘fissazioni’).
    Infatti credo sia utile cogliere le differenze che ci sono nelle relazioni intese come “io-noi” rispetto alle altre, intese come “io/noi”; differenze che non sono statuite una volta per tutte, ma che oscillano passando dall’una all’altra.

    *Che rapporto c’è fra l’io e il noi? Quali interferenze? Quando e perché si distanziano o si avvicinano? Cosa alimenta gli estremi a cui tendono: il solipsismo o la fusione/confusione (mistica, gregaria) nel noi ( massa o élite)? Invece di un saggio, provo a offrire spunti per risposte e riflessioni a tali domande selezionando alcuni miei appunti. ‘Sbratto’ sta per ‘stanza da sbratto’ [ = che riceve tutti gli oggetti ingombranti o di cui ci si serve di rado]. Spero che altri poliscrittori ne propongano di propri e così si vedrà meglio se sia possibile o no quell’ io/noi capace di reggere la contraddizione fra le due facce. [E. A.]*

    Parto da lontano.
    Nella vecchia casa dei miei avi materni – prima che lo spirito modernizzatore di mio zio vi portasse delle modifiche strutturali e che il tutto venisse poi, comunque, raso al suolo dal terremoto del 1976 – c’era, nel sottotetto, un grande solaio che aveva le funzioni di ‘sbratto’ dove si mettevano le cose che non servivano più (ma che potevano tornare ancora utili), o anche pezzi di storia e di memoria dai quali non ci si poteva separare. Vi si accedeva attraverso una botola a soffitto. La scala a pioli per potervi arrivare era rigorosamente custodita nella sottostante camera matrimoniale dei nonni, onde impedire ai bambini piccoli di arrampicarsi perigliosamente.
    Ma ci fu una volta in cui, smaniose di scoprire che cosa si nascondesse lassù, le mie cugine ed io organizzammo una spedizione, con tanto di sentinelle di guardia, per sottrarre la fatidica scala, aprire la botola ed entrare in quella specie di sancta sanctorum.
    Sono più che certa che quel momento rappresentò, nella mia esperienza interiore, un evento straordinario nel senso che mi mise in un intenso contatto con un ‘noi’, ben diverso da quello che, fino ad allora, mi era stato imposto istituzionalmente, sia attraverso la scuola elementare dalle suore, sia con le recite teatrali di beneficenza o la partecipazione al coro della chiesa: ero infatti in presenza di una scelta che mi metteva a confronto con l’ignoto.
    Mi trovavo contemporaneamente di fronte ad un ‘noi’ costituito da un passato – che era lì, anche se disordinato e pieno di ragnatele e polvere – e un presente dissonante, nel senso che ognuna delle cugine, pur attonite di fronte a tanto mistero, esprimeva una dimensione emotiva diversa (ludica o seria) a seconda delle personali inclinazioni.
    Ripeto che era comunque un ‘noi’ per scelta, un orientamento che aveva implicato una lotta per la sua conquista, ma anche uno smarrimento.
    Perché così mi ero sentita di fronte a tutto quel passato sconosciuto di uomini e di cose, e che giaceva lì, alla rinfusa, ricco però di significati dai quali mi sentivo estraniata eppur desiderosa di parteciparvi. E mentre le mie cugine avanzavano ardite tra “ragnatele e polvere”, toccando ora questo ora quel cimelio (ricordo vagamente, tra libri, trine di abiti vecchi e arcolai dalle stecche cadenti, sciabole, coltelli di varia grandezza ed elmetti militari tedeschi – quella casa infatti venne occupata dal comando germanico, alla fine della II GM -, e quindi, seppur stridendo, lì convivevano la bellezza e l’orrore!), io mi sentivo inebetita, come lo si è di fronte alla vastità di un cielo stellato. Il mio ‘io’ stava barcollando travolto dalla entità di quel ‘noi’, quel mondo complesso e indescrivibile – i punti luce e i buchi neri – che si stava palesando davanti ai miei occhi e che mi faceva perdere ogni voce. La mia voce. Sarebbe stata questa udita e intesa? Come avrei potuto sentirmi meno sola, meno spaesata nella complessità dell’universo-mondo?
    Potevo negare la solitudine immaginandomi con l’aureola sul capo, levitante sopra quelle assi di legno su cui nessuno da tempo aveva posto né piede nè sguardo… ma non era quello che facevano continuamente le suore con me, mettendosi loro in alto, ad operare quella seduzione che portava a credere che l’’io’ sarebbe stato ascoltato a condizione che non si fosse isolato, ma che avesse accettato di fondersi con l’ecclesia? Ma, pur cogliendo confusamente quel nesso carico di menzogne, era decisamente troppo complicato da approfondire per i miei poveri undici anni!
    Preferii ridiscendere i pioli che così arditamente e impazientemente avevo scalato.

    Ma quella non fu la sola ‘scala’ a pioli che mi portò ad avvicinarmi ad un ‘noi’ in modo esperienziale significativo, vale a dire mettendomi in conflitto tra quello che era il mio sentire e quello che era il sentire dell’altro, il mio presente contingente e la storia passata, nonchè la speranza che nel ‘noi’ si quietassero le solitudini dell’ ‘io’.
    Infatti poi mi sono trovata di fronte alla ‘scala’ del “comunismo”, vale a dire – a differenza della pura speculazione filosofica – alla possibilità di ‘realizzare in terra’ (cioè trasformare il mondo, ovvero il modo di produzione capitalistico – giochetto da ragazzi!), ciò che è stato promesso in un qualche ‘al di là’ (cioè uguaglianza; o, per dirla in modo più raffinato: “ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, K. Marx). Ma anche qui, l’ ‘io’ solitario – che percepiva i cambiamenti del mondo reale e che rendevano non realizzabile quel progetto, almeno non nei termini in cui era stato formulato e quindi ciò implicava un ripensamento non da poco – doveva fare sempre i conti con la ‘irriducibilità’ dell’altro, che non è plasmabile a seconda dei nostri intendimenti. E il ‘noi’ non può riguardare una omologazione accettata acriticamente!
    Però questa (del comunismo) è un’altra, lunga, dolorosa e perigliosa storia!

    Perché mi sono dilungata nel raccontare tutto questo?
    Perché – riandando alla mia infantile esperienza – un analogo sentire di sconcerto di fronte a ciò che può essere percepito come qualcosa di ricco e denso e, nello stesso tempo, come una ‘realtà altra’, l’ho sperimentato leggendo gli (utilissimi!) spunti dello ‘sbratto’ di Ennio.
    Da un lato, l’esperienza di essere messa di fronte ad un ‘troppo’, quella ridondanza che oggi ci accompagna e che, in quel contesto, si era espressa in estensione (il susseguirsi di una calendarizzazione soggettiva), e in profondità (le riflessioni sul senso della vita e della morte – *In visita con F. a casa di R. vedova di A*. Oppure: *Mi vedranno morto. Le mie cosce bianche e senza peli, come di gesso*. O anche: *A ogni annuncio di morte di coetanei o quasi: Azz! Qua fra poco dobbiamo morire, uffà…*).
    Dall’altro, il colpo traditore del sentirmi coinvolta in quelle trame intime che attraversano i tempi, veicolate da uno strumento così potente qual’è la poesia: vedi le analogie sotto riportate, molto pregnanti nelle loro similitudini, anche se *Leopardi non aveva da fare la spesa, lavare il pavimento, preparare da cucinare, noi moltinpoesia sì.*.

    Passerò solitario.
    Son già passato.
    E invecchiato
    deluse a voi
    invecchiati o morti o lontani o silenziosi
    le palme tendo.
    (E. Abate)

    A me, se di vecchiezza
    La detestata soglia
    Evitar non impetro,
    Quando muti questi occhi all’altrui core,
    E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
    Del dì presente più noioso e tetro,
    Che parrà di tal voglia?
    Che di quest’anni miei? Che di me stesso?
    (G. Leopardi, Passero Solitario)

    Ma, a questa esperienza di un ‘noi’ che si dilata nel tempo – così come l’ho vissuta nel leggere le poesie di Ennio e di Leopardi, in cui l’ ‘io’ si può riconoscere, e a cui approda speranzoso -, come si può aggiungere quella successiva definizione di *soggettività cristiano-marxista*, senza che un brivido di freddo serpeggi lungo la spina dorsale a fronte di questo stridente ossimoro?
    Eppure bisognerà non bloccare la schiena con questo ‘colpo della strega’! Operare delle scelte, altrimenti c’è l’annichilimento che si sperimenta di fronte all’insensatezza delle cose del mondo (o, per dirla meglio, degli umani)!
    Come gestire allora esperienze così ‘dissonanti’?
    A volte arrabbiandosi, a volte astenendosi, a volte rinunciando di brutto e a volte sperando. E confidando… nei fatti a cui si dovrebbe dare ascolto, forse più che alle parole le quali ‘si lasciano dire’. E’ lo stesso interrogativo che si pone Ennio quando scrive, rispetto ad un giovane: *dice le cose che diceva Fortini, che sono anche le mie, ma non c’è stata mai possibilità di intesa e di collaborazione. Perché?*
    Perché se modifichiamo le ipotesi di partenza, o le finalità da raggiungere, si possono anche dire le stesse cose ma il senso e la conseguente pratica cambiano notevolmente!

    Ci vorrebbe una specie di ‘armonizzazione’. Ma quale può essere il ‘luogo’ deputato a svilupparla?
    Sia dentro la propria soggettiva esperienza, il proprio ‘io’, e sia all’interno di un ‘noi’ che, incontrandosi attorno ad un compito condiviso, TEMPORANEAMENTE, mette tra parentesi la propria individualità, salvo riprenderla quando il valore della stessa viene messo in pericolo.
    Ma quali sono i pericoli?
    Equivocare sulla funzione del compito, incorrere nella manipolazione del proprio pensiero, essere avvolti dalla presenza massiccia della ideologia.

    Ritengo dunque che non ci possa essere soltanto un o/o, una ‘contraddizione’, (*se sia possibile o no quell’ io/noi capace di reggere la contraddizione fra le due facce*), così come scrive Ennio. Si dà anche un ‘io’ e un ‘noi’ che possono trarre beneficio reciproco nella loro relazione, pur mantenendo le specifiche peculiarità.

    Un’ultima nota che parte da una associazione legata alla esperienza di ognuno.
    Esiste anche un ‘noi’ costituito dal me pensante e dal mio corpo. In questo non sempre facile sodalizio si incontrano le prime frizioni e frustrazioni: infatti le due ‘realtà’ (quella somatica e quella psichica), pur cercando di incontrarsi e di stabilire un dialogo, hanno nature diverse, utilizzano anche metodiche diverse, funzionamenti diversi che contemplano, da un lato, la modalità “On/off”, dall’altro, quella di accettare la dilazione temporale (=pensiero come azione differita).
    Quindi – a meno che non perseguiamo principi onnipotenti per cui tutto è possibile oppure neghiamo il contatto con la realtà – verrebbe da concludere che il rapporto di un ‘io’ con il ‘noi’ avviene a vari livelli, stratificazioni che sono anche legate ai diversi momenti di maturazione dell’ ‘io’ stesso, il quale tenderà a rapportarsi con l’altro con modalità che possono variare da contesto a contesto.

    R.S.

  9. Due poesie da ByNight:

    Una luce chiara gli entrò, da dietro, negli occhi.
    Subito lui pensò: io sono due che si sono amati.
    Poi anche: Non avrai altro…
    Ma qui s’interruppe.

    La gente intorno cantava
    Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro
    per meee…
    E lei, guardandolo negli occhi:
    – Mi accorgo di non avere più risorse
    (insieme) senza di teee.
    Più tardi lui le sussurrò anche:
    – Sai di Leocrema.

    Uno sciame di neutrini
    stava attraversando le ombre del corridoio.

    *

    Alla gara di memoria vinse l’insegnante
    della scuola media di Vercelli.
    L’anno prima vinsero quelli di Casale.
    L’anno prima ancora, non so.
    – Chi vinse tre anni fa?
    – Per questo è nata la scrittura.
    Ma dove l’hai presa quella camicia rosa?

    Una notte scura e silenziosa serviva ai tavoli.
    Ma fuori già stava piovendo.

    1. …sono molto suggestive, Mayoor, le tue poesie, ma è come se eludessero ( o sorvolassero) una presenza mastodontica…ne percepisci il vuoto

      1. Sì, è vero, cara Annamaria.
        Io faccio vita da paese, fra contadini, trattori, tanti disoccupati e feste alle ricorrenze. Quel vuoto di cui parli lo si sente bene: è spaventoso. Per non sentirlo bisogna almeno saper ballare il liscio ( cosa che, per quanto ami ballare, io non so fare).
        La mia scelta di parte la sto facendo, come poeta; se vuoi è una scelta esistenziale, più che politica: si lavora sulle coscienze e sulla follia del mondo. Prima di ragionare sarebbe meglio rendersi conto di come si sta; il perché arriverà di conseguenza. Altrimenti sarei un prete rosso, che sempre prete è…

  10. Mi spiego: le ho postate per dare esempio della nuova poesia. Balzi di significato e immagini (frammenti) vanno a costruire senso. Al lettore è richiesta una partecipazione visiva; se lette come d’abitudine, con pensiero lineare, neanche so cosa potrebbero provocare.

  11. AL VOLO + APPENDICE

    • «C’è però un’altra ragione, meno spettacolare e più profonda, che mi fa essere sensibile al tema della violenza. Benché i rapporti di forza fra le aree della Terra si stiano ridefinendo, benché l’Europa occidentale e gli Stati Uniti vengano da quasi un decennio di crisi economica irrisolta, l’Occidente è ancora la parte ricca del pianeta. All’interno dell’Occidente, poi, io appartengo alla classe media garantita: sono doppiamente privilegiato. So bene che il mio benessere e le mie garanzie nascono da rapporti di forza che hanno condannato e condannano miliardi di persone allo sfruttamento. Non posso dire di soffrirne sempre (se così fosse non vivrei); posso però dire che una parte di me lo percepisce sempre, per esempio ogni volta che uso gli oggetti e che compro le merci. In questo senso la violenza, la violenza sistemica, è la verità del nostro mondo superficialmente pacifico. Peraltro è sempre stato così: la storia delle società finora esistite è storia di lotta di classe. Vorrei che questo tipo di sguardo transitasse nella mia poesia; non vorrei farne un tema esplicito, ma mi piacerebbe che fosse percepibile in ogni pagina»

    (Essere solo se stessi. Guido Mazzoni incontra gli studenti
    Scritto da Guido Mazzoni – 04 Settembre 2017 – A cura di Daniele Lo Vetere • http://www.laletteraturaenoi.it/)

    APPENDICE

    Mio commento:

    Ecco un esempio di marxismo “addomesticato”. chi parla è «sensibile al tema della violenza», riconosce la sua collocazione di classe: « io appartengo alla classe media garantita: sono doppiamente privilegiato», usa ancora la “parolaccia” sfruttamento: « il mio benessere e le mie garanzie nascono da rapporti di forza che hanno condannato e condannano miliardi di persone allo sfruttamento» (e persino la formula classica del materialismo storico di Marx ed Engels: « la storia delle società finora esistite è storia di lotta di classe»), evita gli “estremismi” troppo passionali: «Non posso dire di soffrirne sempre (se così fosse non vivrei)» .
    E alla fine? Invece di proporsi un qualche «che fare» assieme ad altri, si limita ad esprimere il suo desiderio: « Vorrei che questo tipo di sguardo transitasse nella mia poesia». Ovviamente in modo non esplicito. Non sia mai! Troppo striderebbe una poesia-manifesto nei festival odierni da Pordenone a Canicattì o rischierebbe di finire nel ghetto protestatario. [E. A.]

  12. @ Mayoor

    «Chi è solo parla di solitudine, chi arrabbiato parla di rabbia, ecc […] non amo i discorsi impersonali dove chi scrive generalizza anche quando è evidente che parla per sé ».

    In questa frase hai riassunto lo stato, drammatico e distorto, in cui si trova oggi in questa società (l’unica esistente) il rapporto tra io e noi. Da una parte i vari io-monadi atomizzate e sgangherate, che in preda a passioni e disagi impellenti e poco o niente controllati (e a volte incontrollabili) sono costretti a parlare (io intendo: a sfogarsi; a parlare a vuoto e non in modo mirato o consapevole di quello che dicono, a chi lo dicono e con quali effetti su quelli che ascoltano o fingono di ascoltare o proprio non ascoltano). Dall’altra il noi, che è costretto al discorso impersonale, a generalizzare, a rappresentare un *falso* noi universale o una sua parvenza approssimativa, poiché la molteplicità o la totalità non può mai essere veramente o pienamente riassunta ( in poche parole, in pochi concetti, in pochi leader o in una parola, un’idea, un Capo).

    Ora, in breve, la differenza tra noi due è che tu, ritenendo insuperabile questo stato di cose tra io e noi, punti tutte le tue carte sull’io ( sul “personale”, su te stesso) respingendo o mettendo sullo sfondo il noi, che sarebbe condannato all’impersonalità, sempre e soltanto artificiale e inautentica, o a far baluginare qualcosa del sé privato – l’unico per te autentico – fra i veli dell’impersonale; mentre io mi sforzo di rendere fluido questo rapporto tra io e noi, di ridurre gli intoppi (l’ideologia) o le chiusure reciproche, di costruire un *io/noi*: meno io/io ( narcisista, solipsista, egoista, individualista) e meno noi/noi (autoritario, dogmatico, repressivo).
    Non so dire bene quanto la visione che sostengo sia dialettica e se possa sfociare in quella possibilità di comunismo fortinianamente inteso come « vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante», ma mi pare di vedere che, solo muovendosi anche nell’impersonale ( praticando e lavorando anche sui discorsi impersonali), non si perde di vista o addirittura si cancelli dalla propria coscienza il molteplice, il generale o la totalità. Cose sempre sfuggenti, ma che sappiamo esserci e che non possiamo eludere chiudendo gli occhi o parlando da soli della propria solitudine o della propria rabbia.
    Quello che tu privilegi dell’io nasce per cancellazione e rifiuto di questo noi, che vedi solo e immutabilmente condannato a una gelida impersonalità. E, di conseguenza, ridimensioni la stessa poesia a esclusiva «espressione del privato» sia pur «in senso lato e non strettamente dell’Io».

  13. AL VOLO

    *Poesia e comunismo (l’aggiungo io di soppiatto perché l’autore recensito è per l’equazione poesia=consumismo!) a braccetto: due cose “belle e impossibili”, olé! [E. A.]

    Platone aveva ragione a cacciare i poeti dalla sua repubblica ideale: i poeti sono davvero dei fingitori. Ma non nel senso che intenzionalmente ingannino i propri ascoltatori o lettori, bensì – secondo Lerner – perché nessuna poesia concreta raggiungerà mai la poesia vera e propria, che è certo un impulso primigenio dell’uomo ma anche un sogno mai realizzato: questa o quella poesia è e sempre sarà uno scacco, una copia imperfetta. Per questa ragione noi non possiamo che odiare la poesia – questa o quella poesia, perché essa è l’emblema del nostro fallimento a dire la verità (sulla nostra condizione umana, sull’universo, su tutto quello di cui la poesia si occupa da millenni).

    ( da “Difesa della poesia” di Bed Lerner.
    di Daniele Lo Vetere – 13 Settembre 2017 –
    http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/690-ben-lerner,-odiare-la-poesia,-sellerio,-2017.html)

    1. Oh, poveretto! Non so quale problema abbia per arrivare a dire che ha in odio la poesia. Che la poesia sia un “impulso primigenio” se l’è inventato, perché sì, la poesia nascerà pure dal canto e dalla condivisione orale, ma per come ci è arrivata lo si deve alla scrittura, quindi ad un’epoca di civiltà più avanzata.
      Quanto a un sogno mai realizzato, chiedo: perché, è forse un’esclusiva dei poeti quella di avere sogni mai realizzati? Che vorrebbe dai poeti, che si facciano carpentieri? ma allora si dedichi all’arte visiva… Via, questo individuo è in evidente stato confusionale.
      Strana anche l’idea di verità ( ma ne ha mai letta di poesia, oppure ne ha letta pensando a chissà che altro?): il poeta non pretende altro che di essere autentico, non gliene importa di dire la verità, quella lasciamola alla ricerca dei filosofi o degli ecclesiastici! Il poeta sa quando sta mentendo, sa e subito, se è davvero poeta, se ne vergogna.
      Si chiama Bed Lerner? Meglio saperlo… Egli trascura completamente che poesia è evento, sempre nuovo evento, non una rimasticatura di quel che accade o è accaduto. Perché così è l’arte, altrimenti sarebbe altro: artigianato, esercizio calligrafico, servire ai tavoli, ecc.

  14. Rileggo il commento di Rita (10 settembre 17.08), in cui mette il ‘noi’ sempre tra virgolette come anche l”io’, e ricapitolo con singole frasi quello che colgo come suo ragionamento.

    – Infatti credo sia utile cogliere le differenze che ci sono nelle relazioni intese come “io-noi” rispetto alle altre, intese come “io/noi”;

    – Ma, a questa esperienza di un ‘noi’ che si dilata nel tempo – così come l’ho vissuta nel leggere le poesie di Ennio e di Leopardi, in cui l’ ‘io’ si può riconoscere, e a cui approda speranzoso -, come si può aggiungere quella successiva definizione di *soggettività cristiano-marxista*, senza che un brivido di freddo serpeggi lungo la spina dorsale a fronte di questo stridente ossimoro?

    – Eppure bisognerà […] operare delle scelte […] Come gestire allora esperienze così ‘dissonanti?

    – se modifichiamo le ipotesi di partenza, o le finalità da raggiungere, si possono anche dire le stesse cose ma il senso e la conseguente pratica cambiano notevolmente

    – Ritengo dunque che non ci possa essere soltanto un o/o, una ‘contraddizione’ […] Si dà anche un ‘io’ e un ‘noi’ che possono trarre beneficio reciproco nella loro relazione, pur mantenendo le specifiche peculiarità.

    – verrebbe da concludere che il rapporto di un ‘io’ con il ‘noi’ avviene a vari livelli

    Convengo con la interna mutevolezza del “rapporto” io-noi come lo figura Rita (così ho inteso). Non, invece, con una opposizione tra “io-monadi atomizzate e sgangherate” che parlano per sfogarsi, non consapevoli “di quello che dicono, a chi lo dicono e con quali effetti” da un lato;
    e un noi “costretto al discorso impersonale, a generalizzare, a rappresentare un *falso* noi universale”.
    Anche scommettendo sull’impersonale del noi, che potrebbe conservare “il molteplice, il generale o la totalità”, è da pensare se quell’impersonale sia il “noi tutti” o sia alla fine un “noi” particolare.
    Anche l’altro argomento, che “un *io/noi*: meno io/io ( narcisista, solipsista, egoista, individualista) e meno noi/noi (autoritario, dogmatico, repressivo)” possa sfociare nella possibilità di vivere “una contraddizione diversa da quella oggi dominante” pone analoghi problemi.
    La contraddizione diversa sarà solo una, in simmetria con quella dominante? o saranno alcune? e quali sono le contraddizioni principali per altri io-noi effettivi?

    1. No, solo perché sono silhouette, disegnate in quel modo tuo che già conosco e sono una tua caratteristica. Poi sembra che tu vada a cercare il senso, lo hai chiesto spesso, e sembravi curioso dei responsi. Strano che in pittura ti accada questa… inversione di procedimento ( ammesso che sia così), perché forse in poesia inizi già sapendo quale significato vuoi perseguire…

      1. … comunque tra senso e significato qualche differenza ci dovrebbe essere. Voglio dire che forse le figure seguono un senso, ma non un significato; che poi è quasi sempre quello che faccio io in poesia. Finché il senso rivela il significato, ma c’è anche differenza tra parola e immagine: per quanto l’immagine sembri più semplice da comprendere ( perché mostra) in realtà per essere capita va tradotta in parole. Ne deriva che il significato è più letterario che visivo.

        1. “per quanto l’immagine sembri più semplice da comprendere ( perché mostra) in realtà per essere capita va tradotta in parole.” (Mayoor)

          E’ un problema. Tempo fa avevo previsto una rubrica: Immagine -Parola ( ad es. https://www.poliscritture.it/2016/08/11/donna-e-animale-9-agosto-2016/; https://www.poliscritture.it/2017/02/14/un-esperimento/) ma poi questo tipo di ricerca non ha avuto seguito.
          Ma ho visto che Remo Ceserani aveva indagato in questa direzione:
          Lino, Mirko, “Remo Ceserani, L’occhio della Medusa. Fotografia e letteratura”, Between, II.4 (2012), http://www.Between-journal.it/
          http://ojs.unica.it/index.php/between/article/viewFile/829/515

      2. “perché forse in poesia inizi già sapendo quale significato vuoi perseguire…”
        ( Mayoor)

        Non credo. Il procedimento sia in pittura che in poesia è il medesimo:
        parto da macchie di colori ( o linee, se disegno) come da grumi di larole o di ricordi o di …

        1. Il mio “forse” e il tuo “credo” ci rendono simili 🙂 anch’io quando dipingo non so quel che verrà. So solo quando l’immagine può dirsi finita. Per questo dico che l’opera insegna a chi la fa; poi, facendone tante, vedo che prendo sicurezza sul “finito”. Più difficile è fare critica della pittura, perché bisogna tradurre il vedere in parole. Spesso tra pittori ci si contenta di valutare la stesura di un colore o la qualità del segno. L’imperizia non viene mai perdonata, tanto quanto in poesia l’uso della sintassi. Ma nel dire questo saremmo ai preliminari: l’opera d’arte è un’altra faccenda. Forse è come il vino, non quello di un tipo di vino ma quello che sta in ogni singola bottiglia.

  15. Questa tua immagine, “senza Titolo”, datata 4 settembre, pare senza senso e nemmeno nonsense. Ma le figure arrivano come ricordi, fugaci e interroganti. Poetica del passato e indagine introspettiva; privata però delle cupezze dell’inconscio, quindi dell’inquietudine; che immagino tu voglia affidare alle pennellate; proprio dove mi aspetterei una maggiore pulizia o, al contrario, maggiore disordine o forza espressiva. In effetti son queste pennellate il linguaggio. Proverei a uscire dal colore (giallo) puro e a riconsiderare toni diversi. Non toglierebbero nitidezza alle immagini ma descriverebbero sentimenti.

    1. Come sai, il giallo non è mai coprente; individuata la figura ti tocca qui e là pazientare con un colore intermedio (bianco se suoi ottenere un giallo squillante), da non mettere ovunque perché le diverse sporcature e velature sono importanti, da preservare. Si profila così un aggiustamento nella procedura, che potrebbe consistere nel tratteggiare a mò di disegno le figure e qui e là funzionare da base per il colore sul quale poi rifletterai. Si avrebbero così tre momenti distinti del lavoro: fase caotica iniziale, lettura per fare emergere le figure, e terzo la previsione del lavoro finito ( metodo e pazienza).

        1. Certo, sembra più forte così. A me personalmente piace la pennellata scura in basso a sinistra, sotto il collo dell’uccello, le altre scure meno perché sembrano buttate come segnali stradali; sapendo delle tue qualità di disegnatore un po’ mi sorprendo. Picasso era un pittore di linea, vuol dire che componeva la superficie disegnando, poi faceva le campiture ( a volte le buttava lì, apposta come a dire “eccetera”). Tutto il lavoro di Picasso è basato sul disegno, o sul segno del pennello (zero matite) che lui faceva in diretta, partendo da niente.

  16. “le altre scure meno perché sembrano buttate come segnali stradali” ( Mayoor)

    Certo, sono per me e indicano il “lavoro in corso”. Probabilmente , proseguendo (devono asciugare!) verranno in parte o totalmente coperte…

  17. Riporto qui da NARRATORIO GRAFICO DI TABEA NINEO il commento di
    Annamaria Locatelli su “Padre madre bimbo (al 19 sett. 2017)”

    …le figure si scompongono (o compongono) nei quattro elementi: la madre riveste l’essenza terra-fuoco, il padre e il bambino sono trapassati dal diluvio prorompente di animali acquatici e d’aria…Sembra un presepe popoloso di forme danzanti, volatili, alberi. Potrebbe significare la potenza dell’amore che genera universi. il bambino in metamorfosi occupa uno spazio a cuor protetto, tuttavia sembra animare il dialogo tra i genitori (figura danzante tra le menti) e ha sguardo e atteggiamenti indagatori…Amore non senza conflitto. I colori sono trasparenti di acqua e di cielo o densi di materia….una bella sinfonia

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