Appunti politici (11): io vs noi o io-noi?

Keith Haring, Acrilico su tela, 1988

 

di Ennio Abate

Replico al commento di Rita  Simonitto (qui) e aggiungo in Appendice alcune mie precedenti riflessioni su questo controverso tema  del rapporto  tra io e noi.  Ulteriori approfondimenti mi paiono urgenti e utili per collegare il piano “filosofico” sul quale stiamo conducendo la riflessione alle scelte pratico-politiche che si pongono  o vengono imposte sia ai singoli sia al noi che potrebbe essere Poliscritture.  [E. A.]

1.
Davvero un commento interessante, analitico ma complesso e in alcuni punti enigmatico e tendenzioso (per me). Forse per questo mi sollecita una replica altrettanto analitica per capire meglio dove va a parare.  La conclusione – l’anticipo –  mi pare questa:  Rita ha affrontato la questione del rapporto io-noi privilegiando il punto di vista di un io (non solo autobiografico) e mette in guardia dai rischi che esso corre ogni volta accetta (o si fa sedurre) dal noi.
2.
Ripercorro  il suo commento e confronto  le particolari situazioni che Rita ha estratto da tre suoi mondi diversi (nel tempo e nello spazio) :
– quello dell’infanzia di una bambina o di alcune bambine nel bellissimo episodio dell’esplorazione delsottotetto di una casa di antenati, contadini penso;
– quello di una giovane che sale sulla «scala del “comunismo”» (termine che oggi virgoletta per prenderne le distanze e che richiama la metafora usatissima tra anni ’60 e ’70 dell’«assalto al cielo»);
– quello attuale di lettrice che, con queste precedenti esperienze ormai sedimentate, racconta le sue reazioni al mio scritto, «lo ‘sbratto di Ennio» ( qui ).

3.
Quale il filo comune tra i tre momenti? Indubbiamente lo sconcerto o il barcollamento, dell’io di fronte al noi:

– Nel primo episodio il noi è «ignoto», insolito, proveniente dal «passato»: «un ‘noi’, ben diverso da quello che, fino ad allora, mi era stato imposto istituzionalmente, sia attraverso la scuola elementare dalle suore, sia con le recite teatrali di beneficenza o la partecipazione al coro della chiesa»; « un ‘noi’ costituito da un passato – che era lì, anche se disordinato e pieno di ragnatele e polvere» e che nel momento in cui viene avvicinato procura eccitazione ma anche «smarrimento»: «Il mio ‘io’ stava barcollando travolto dalla entità di quel ‘noi’ ». Come – e qui entra in gioco la memoria letteraria con possibili richiami a Kant o a Leopardi – « di fronte alla vastità di un cielo stellato». In questo primo episodio, il sentimento di «solitudine» (collegabile – perché già pre-esistente? – allo smarrimento provato salendo nel sottotetto?) potrebbe placarsi – parlando dall’oggi, col senno del poi, suppongo – accettando le sollecitazioni delle suore a «fondersi con l’ecclesia» (il noi incombente in quel tempo e in quello spazio). E ridiscendere dalla scala, rimettendo i piedi a terra, sembra simboleggiare un rifiuto di quella prospettiva.

– Nel secondo episodio (solo  pochi accenni), la scala è un’altra, quella del «“comunismo»; e si deve pensare che il noi sia rappresentato dai comunisti del PCI (la “chiesa rossa” per Montale). Ad essa l’io si avvicina per salirla, ma cogliendo in sé stesso un’incertezza, un’oscillazione, un « conflitto» tra il proprio «sentire» e «quello che era il sentire dell’altro, il mio presente contingente e la storia passata». Il bisogno, se non la stesso, è simile  a quello accennato nel primo episodio: l’attesa o l’illusione che, aderendo a quel noi (comunista) «si quietassero le solitudini dell’‘io’». [1]

– Nel terzo caso lo sconcerto è procurato dalla lettura del mio ‘sbratto’, perché ci sarebbe «un ‘troppo’, quella ridondanza che oggi ci accompagna»; e vi si sentirebbe una volontà più o meno decisa a coinvolgere il lettore «in quelle trame intime che attraversano i tempi, veicolate da uno strumento così potente qual’è la poesia» o nell’« esperienza di un ‘noi’ che si dilata nel tempo». Ancora, dunque, l’io sarebbe sottoposto al medesimo doppio moto tra fascinazione e rigetto: in un primo tempo «l’‘io’ si può riconoscere, e […] approda speranzoso» (al testo e al contenuto che il testo evoca); in un secondo tempo si ritrae con «un brivido di freddo», come per un doloroso «colpo della strega», perché si accorge che la proposta del testo è o sarebbe una stridente, ossimorica ed insensata (come le altre cose del mondo o degli umani) adesione ad una «*soggettività cristiano-marxista*».

4.
Da questo errare della mente tra infanzia, giovinezza e presente mi pare che Rita ricavi una morale pragmatica: di fronte alle esperienze contraddittorie e dissonanti in cui l’io comunque viene coinvolto dai vari noi che tenta di accostare/esplorare, il consiglio che dà è – mia interpretazione – di “barcamenarsi”: «a volte arrabbiandosi, a volte astenendosi, a volte rinunciando di brutto e a volte sperando. E confidando… nei fatti a cui si dovrebbe dare ascolto, forse più che alle parole». Anche se, in teoria, non viene esclusa l’esigenza o la possibilità di « una specie di ‘armonizzazione’» tra io e noi e si afferma che  questa possa essere tentata «sia dentro la propria soggettiva esperienza, il proprio ‘io’, e sia all’interno di un ‘noi’», Rita insiste a raccomandare che l’incontro col noi  andrebbe cercato solo «attorno ad un compito condiviso» e solo «TEMPORANEAMENTE».

5.
Solo temporaneamente, insomma, si potrebbe o  dovrebbe accettare di mettere « tra parentesi la propria individualità». Che è – pare – difesa gelosamente ma anche presupposta come un dato originario, e cioè preesistente (non si sa da quando), e presentata come sovrana, quindi in grado (sempre?) di accettare o rifiutare il legame col noi. Tant’è che  il mettere «tra parentesi la propria individualità» sembra essere un atto del tutto volontario e sempre possibile. Lo si può, appunto,  fare solo « TEMPORANEAMENTE» e sembra garantita (da chi?) la possibilità di togliere questa individualità dalle parentesi e «riprenderla quando il valore della stessa viene messo in pericolo».

6.
Secondo me, almeno in questo commento, Rita non si pone la questione di quanto questo io sia solido, autonomo, sovrano già prima dell’incontro/confronto/scontro con il noi. Preesiste forse davvero in forma di monade? E cosa avviene quando si compromette in varia misura con uno dei qualsiasi noi che incontra o accetta d’incontrare o da cui si fa sedurre o che gli si impongono in vari modi (violenti, subdoli, ecc.)? Ad esempio, – ed è problema di non poco conto – com’è cambiato un io  restando anche temporaneamente in un rapporto che avesse  accettato o subìto con un qualsiasi noi? Si è forse conservato inalterato? Si recupera tale e quale a com’era prima?

7.
Sorvolando poi sui rischi di solipsismo o narcisismo o altre insidie dell’io-io, che in non pochi casi può tendere, per mille motivi, a una sorta di autoreclusione (Fachinelli parlava di *claustrofilia*) e rifiutarsi al rapporto con i vari noi che lo assillano o semplicemente stanno lì -accanto o addosso a lui –  ignorandolo, Rita mette in risalto soprattutto i rischi che l’io corre ad aprirsi al noi: «equivocare sulla funzione del compito, incorrere nella manipolazione del proprio pensiero, essere avvolti dalla presenza massiccia della ideologia.».

8.
Infine farei notare un equivoco. Quando Rita scrive: «Ritengo dunque che non ci possa essere soltanto un o/o, una ‘contraddizione’, (*se sia possibile o no quell’ io/noi capace di reggere la contraddizione fra le due facce*), così come scrive Ennio », non tiene conto che l’io/noi, di cui parlo, dovrebbe essere proprio quello che, come lei dice, tenta di «trarre beneficio reciproco» dalla sua relazione complessa e contrastata sia col suo  lato noi  che col suo lato io. Forse in questo processo non verranno conservate intatte «le specifiche peculiarità» né dell’io né del noi, cosa che credo non sia né garantita né programmabile, ma  entrambi questi poli potrebbero trasformarsi in meglio invece di stravolgersi, reprimersi o censurarsi vicendevolmente.

 

APPENDICE

PRECEDENTI DI QUESTA MIA PRESA DI POSIZIONE

1.

4 marzo 2010

Poliscritture/Marx/Virno

Ho riletto il testo di Virno, stralciando  le affermazioni che mi sono parse significative.
Virno si propone una nuova teoria dell’individuo sociale, contraria sia ai classici del pensiero dell’individualismo (borghese-liberale, penso di poter aggiungere) sia allo stesso marxismo o marxismo statalista (quello del PCI, quello del “socialismo reale”).
Il testo è del 2006. Non so se egli sia andato avanti in questa ricerca. Sempre a quell’epoca avevo letto una sua riflessione sul filosofo francese Simondon (potrei trovarla su un numero di DeriveApprodi) che insisteva  sull’ “inesistenza” (o sulla necessità di sciogliere) del contrasto io-società; (e quindi polemizzava, come fa anche qui, anche se qui lo fa su un altro punto, con il marxismo occidentale e la Scuola di Francoforte). A me le affermazioni su Marx teorico di “ciò che c’è di unico e singolare nell’esistenza umana” o di pensatore di un “individuo in quanto individuato” sembrano interessanti, ma vaghe e abbastanza vicine ai tanti passi sulla singolarità, sul singolo-moltitudine che ho letto in Hardt e Negri. E persino alle formule del “singolo di molti” o del “corpo di corpi” di cui parla  G. Majorino. Però l’impressione è di vaghezza e di un discorso tutto sul piano filosofico con scarsi nessi per ora con l’esperienza pratica e politica. Nel ripensamento di Marx vedo  in Preve soprattutto l’esaltazione del filosofo. Per ora mi fermo qui, invitando anche voi a commentare brevemente i testi che proponete in lettura .

2.

3 ottobre 2015

Ennio a Gianmario Lucini

 ” […] se senti dire ‘canone’ sobbalzi anche tu; ma poi proponi ‘regola’ e ti rassereni. Mi chiedo perché. Penso che dipenda dalla tua convinzione che la poesia sia «un fatto individuale, non collettivo» E, quindi, per te, ‘canone’ sta per ‘regola collettiva’, che secondo la vulgata dominante negherebbe l’individualità, mentre ‘regola’, visto che se la darebbe l’individuo (poeta) stesso, starebbe per rispetto dell’individuo. Ora, sì, la poesia è un fatto certamente *anche* individuale, ma è *uno strano fatto individuale*, perché non separabile dalla lingua, che è un fatto al contempo individuale e collettivo. Dici ancora: «Posso anche scrivere cose di spessore ma senza una ricerca sul linguaggio più appropriato per rendere la mia poesia come dovrebbe essere resa». Chiedo: in che cosa questa ricerca *individuale* sul linguaggio più appropriato, che sfocerà prima o poi anche in una certa regola, questo scegliere l’appropriato al posto dell’inappropriato, si distingue da una ricerca collettiva che pure regola finisce per darsi? Non sono due processi da non contrapporre? Se partiamo da io-monadi, arriviamo alle tue conclusioni.
Ma possiamo anche partire da un ‘io/noi’, non monade né massificato o inerte, un ‘io-noi’che vive in tensione tra se stesso e gli altri, con un se stesso-non chiuso e il mondo in trasformazione. A quanto mi risulta diversi hanno cominciato a pensare e a praticare anche in poesia questa direzione di ricerca. E penso che i poeti farebbero bene, per uscire dai loro luoghi comuni, a leggere di più certi filosofi contemporanei. Io tempo fa fui particolarmente colpito di quello che scrisse Paolo Virno sulle idee di Gilbert Simondon su «Derive Approdi» (N.21 primavera 2002).  Ne riporto un brano:

“Di solito si reputa che l’individuo, non appena partecipi a un collettivo, debba dimettere almeno alcune delle sue caratteristiche propriamente individuali, rinunciando a certi variopinti e imperscrutabili segni distintivi. Nel collettivo, così sembra, la singolarità si stempera, è menomata, regredisce. Ebbene, a giudizio di Simondon, questa è una superstizione: epistemologicamente ottusa, eticamente sospetta. Una superstizione alimentata da coloro che trascurando con disinvoltura la questione del processo di individuazione, presumono che il singolo sia un immediato punto di partenza. Se invece si ammette che l’individuo proviene dal suo opposto, cioè dall’universale indifferenziato, il problema prende tutt’altro aspetto. Per Simondon, contrariamente a quanto asserisce un senso comune deforme, la vita di gruppo è l’occasione di una ulteriore e più complessa individuazione. Lungi dal regredire, la singolarità si affina e tocca il suo acme nell’agire di concerto, nella pluralità delle voci, insomma nella sfera pubblica» ( pag. 54)”

 

3.

25 feb 2016

@ de Robertis

“Ennio sa che per me parlare di queste cose è un fatto molto doloroso e pericoloso (per la mia salute)”.

E se, al contrario e paradossalmente, ti giovassero? Non è che, scacciandole nel fondo oscuro, certe cose rischiano diventano più dolorose e pericolose, perché appunto continuano a lavorarci nell’oscurità? Rita Simonitto, in uno dei suoi commenti nel post su Regeni (Rita Simonitto 22 febbraio 2016 alle 23:59 ) ci ha ricordato che «il fine della psicoanalisi [è] permettere di rendere pensabile e comunicabile ciò che al momento non lo è». Condivido. E penso che anche la scrittura che s’è alimentata almeno un po’ della lezione della psicanalisi abbia funzione simile. Anche se non voglio farla facile. Rovistare nel passato non è facile. Avevo già avuto occasione di citare questi versi guardinghi della Dickinson:

Quando spolveri il sacro ripostiglio
che chiamiamo “memoria”
scegli una scopa molto rispettosa
e fallo in gran silenzio.
Sarà un lavoro pieno di sorprese –
oltre all’identità
potrebbe darsi
che altri interlocutori si presentino –
Di quel regno la polvere è silente –
sfidarla non conviene –
tu non puoi sopraffarla – invece lei
può ammutolire te.

4.

6 sett. 2016

A Nanni Cagnone su Facebook

Ennio Abate . Ho imparato a pensare a me e agli altri (poeti e non) come “io/noi”. Fosse pure il noi ridotto oggi a qualche occasionale scambio con “figurine virtuali FB” come questo o a qualche incontro catacombale in libreria. La solitudine – mi dico – è sempre qui, ineludibile; ma poi contiene – anche nella Dickinson – il “noi” (almeno come aspirazione rischiosa ma altrettanto ineludibile). Certo è che il “noi”, se non lo intendiamo come bruto dato sociale (che pre-esiste in una sua ostilità che voglio ancora pensare come storica e non naturale, è una costruzione problematica e ardua. (Forse quanto l'”io”, in fin dei conti). Avevo tempo fa trovato, su stimoli di Paolo Virno e di un vecchio numero di “DeriveApprodi, una conferma a questi pensieri nel filosofo Gilbert Simondon (file:///C:/Users/windows/Documents/documenti%20residui%20dopo%20errore%206%20gen%202013/LETTURE%20POLITICHE%20E%20FILOSOFICHE/LETTURE%20MARX%20E%20FILOSOFIA/Simondon%20Sito%20Web%20Italiano%20per%20la%20Filosofia-Avvenire-17%20APRILE%202002.htm). Grazie dello scambio.

5.

@ Mayoor

«Chi è solo parla di solitudine, chi arrabbiato parla di rabbia, ecc […] non amo i discorsi impersonali dove chi scrive generalizza anche quando è evidente che parla per sé ».

In questa frase hai riassunto lo stato, drammatico e distorto, in cui si trova oggi in questa società (l’unica esistente) il rapporto tra io e noi. Da una parte i vari io-monadi , che in preda a passioni e disagi impellenti e da essi poco o niente controllati (e a volte incontrollabili) sono costretti a parlare (io intendo: a sfogarsi; a parlare a vuoto e non in modo mirato o consapevole di quello che dicono, a chi lo dicono e con quali effetti su quelli che ascoltano o fingono di ascoltare o proprio non ascoltano). Dall’altra il noi che è costretto al discorso impersonale, a generalizzare, a rappresentare un falso noi universale o una sua parvenza approssimativa, poiché la molteplicità o la totalità non può mai essere veramente o pienamente riassunta ( in poche parole, in pochi concetti, in pochi leader o in una parola, un’idea, un Capo).
Ora, in breve, la differenza tra noi due è che tu, ritenendo insuperabile questo stato di cose tra io e noi, punti tutte le tue carte sull’io ( sul “personale”, su te stesso) respingendo o mettendo sullo sfondo il noi, che sarebbe condannato all’impersonalità sempre e soltanto artificiale e inautentica o a far baluginare qualcosa del sé – l’unico autentico – fra i veli dell’impersonale; mentre io mi sforzo di rendere fluido questo rapporto tra io e noi, di ridurre gli intoppi ( l’ideologia) o le chiusure che reciprocamente vengono posti (per difesa), di costruire un *io/noi* meno io/io ( narcisista, solipsista, egoista, individualista) e meno noi/noi (autoritario, dogmatico, repressivo).
Non so dire bene quanto la visione che sostengo sia dialettica e se possa sfociare in quella possibilità di comunismo fortinianamente inteso come « vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante» , ma mi pare di vedere che, solo muovendosi anche nell’impersonale ( praticando e lavorando anche sui discorsi impersonali), non si perde di vista o addirittura si cancelli dalla propria coscienza il molteplice, il generale o la totalità, cose sempre sfuggenti, ma che sappiamo esserci e che non possiamo eludere chiudendo gli occhi o parlando da soli della propria solitudine o della propria rabbia.
Quello che tu privilegi dell’io nasce per cancellazione e rifiuto di questo noi, che vedi solo e immutabilmente condannato a una gelida impersonalità. E, di conseguenza, ridimensioni la stessa poesia a esclusiva «espressione del privato» sia pur «in senso lato e non strettamente dell’Io».

 

[1] I temi dei primi due punti – ribellione  all’educazione cattolica, sconfitta delle speranze politiche – del commento di Rita Simonitto sono presenti e  trattati ampiamente nel suo romanzo «Senza terra»: https://www.poliscritture.it/2017/02/03/senza-terra/

3 pensieri su “Appunti politici (11): io vs noi o io-noi?

  1. Dopo entrerò nel merito delle osservazioni espresse da Ennio il quale, con un buon metodo intuitivo, ha evidenziato – a partire dal mio intervento del 10.09 su “Sbratto” – la presenza di tre fasi (la bambina, la giovane donna e la lettrice attuale), e con ciò già istituendo lo scenario metaforico di un ‘io’ che si costituisce nel tempo e pertanto non è una monade chiusa o una figura solipsistica autoreferente.
    E, nello stesso tempo, questa costituzione avviene attraverso varie esperienze con il mondo esterno (un ‘noi’ che pure si modifica nelle diverse fasi epocali e nelle sue rappresentazioni).

    Ma intanto ne approfitto per dare qui una risposta a Cristiana (suo intervento del 13.9 h. 11.46, “Sbratto”), risposta che ritengo pertinente con quanto stiamo vedendo:
    *Rileggo il commento di Rita (10 settembre 17.08), in cui mette il ‘noi’ sempre tra virgolette come anche l”io’*

    Mi fa piacere che Cristiana abbia notato la virgolettatura che intende significare che siamo in presenza non di ‘datità’, ma di concetti implicanti un certo dinamismo interno e le cui oscillazioni sono da tenere sotto osservazione poichè legate sia al contesto storico che a quello relazionale.
    Andrebbe da sé il sostenere che in ognuno di quel “noi” c’è un “io”, e che in ogni “io” c’è la condensazione di una molteplicità, i cui dettagli non sono ancora portati alla cognizione. Ma si sa che la teoria è una cosa e l’esperienza è un’altra.
    Ci sono senza dubbio delle differenze in queste ‘costituzioni’: i processi di “condensazione” che intervengono nell’ “io” sono diversi (per struttura e finalità) da quelli che operano nel “noi”: il (supposto, perché stiamo parlando di un processo ‘normale’) dinamismo dell’ “io” sarebbe più di tipo trasformativo interno (raggiungere consapevolezza), mentre quello del “noi” è, tendenzialmente, più condizionato da situazioni esterne, il bisogno di stringersi assieme per affrontare le avversità; la presenza di un compito (o di un ideale comune, ideologizzato o meno che sia); oppure di un capo che si fa carico sia della ‘promessa’ e sia della gestione per raggiungerla.
    L’ “io” cerca di costruirsi una identità – sempre in evoluzione e quindi in conflitto – mentre il “noi” tenderebbe ad una coesione per lo più stabile tra i partecipanti, attorno ad un progetto o ad un capo, nonostante ci si possa trovare comunque in situazioni di aleatorietà dipendenti dall’eccessiva eterogeneità del gruppo, da particolari tipologie del capo oppure del progetto.
    Tralascio per il momento, anche se non è da sottovalutare come importanza in questo panorama di relazioni, il considerare che esiste anche un “loro”, riferito a quella frazione del “noi” e/o dell’ “io” che viene espulsa in quanto non riconosciuta e accettata dall’altra frazione: i fascisti (o i comunisti); i reazionari (o i progressisti); i capitalisti (o i rivoluzionari). Spesse volte il “noi” e il “loro” si confondono e si sovrappongono.

    Cristiana sottolinea altri due miei passaggi tra loro interrelati:
    a) – *Infatti credo sia utile cogliere le differenze che ci sono nelle relazioni intese come “io-noi” rispetto alle altre, intese come “io/noi”*;
    b) – *se modifichiamo le ipotesi di partenza, o le finalità da raggiungere, si possono anche dire le stesse cose, ma il senso e la conseguente pratica cambiano notevolmente*.

    Infatti, se si parte dall’idea di dare preminenza all’ “io”, oppure dare preminenza al “noi”, come concetti a se stanti e avulsi dalle relazioni, è più facile che in questo o/o abbiamo una contrapposizione io/noi. Vedi appunto il commento di Ennio: *Rita ha affrontato la questione del rapporto io-noi privilegiando il punto di vista di un io (non solo autobiografico) e mette in guardia dai rischi che esso corre ogni volta accetta (o si fa sedurre) dal noi.*
    Nello stesso tempo, Ennio, cercando nel mio intervento un filo che possa legare questi due campi, l’individuale e il collettivo e avendolo trovato nello sconcerto (*Quale il filo comune tra i tre momenti? Indubbiamente lo sconcerto o il barcollamento, dell’io di fronte al noi*), oppure nell’articolarsi di vissuti di *eccitazione* e *smarrimento*, si fa convinto, automaticamente, che ci sia una antitesi – o una pregiudiziale ostilità – verso il “noi” e pertanto *la propria individualità [viene] difesa gelosamente, ma anche presupposta come un dato originario, e cioè preesistente (non si sa da quando), e presentata come sovrana, quindi in grado (sempre?) di accettare o rifiutare il legame col noi*. (Ennio)
    Mi sembra tutto il contrario di quanto sto affermando.

    Il cucciolo dell’uomo ha livelli di crescita e di sviluppo non solo lenti ma anche differenziati tra il motorio e il mentale. E’ più facile scaricare le frustrazioni attraverso l’agire che attraverso il pensare, e ciò non può non avere effetti anche nel rapporto con l’altro, con gli altri. Lo vediamo benissimo oggi, in una fase storica emotivamente e culturalmente molto regredita, che ha abbandonato l’uso del pensiero e dove l’altro è contemplato come oggetto di possesso e di soddisfacimento anzichè di dialogo.
    Per tutto ciò non posso ritrovarmi nella osservazione di Ennio quando afferma: *Secondo me, almeno in questo commento, Rita non si pone la questione di quanto questo “io” sia solido, autonomo, sovrano già prima dell’incontro/confronto/scontro con il noi*.
    Oltretutto, è come se Ennio non avesse tenuto conto della sua stessa illuminazione che l’ha portato a pensare ad una tripartizione – nel mio commento – collocando l’esperienza dell’ “io” svolgersi nel tempo e nello spazio.

    Certo, esiste anche una ‘mente’ del gruppo, del “noi”, nonché una ‘cultura del gruppo’: ma per raccontarsi ha sempre bisogno di un momento individuale che la riassuma, ne condensi le esperienze e le trasmetta (vedi Omero, ad esempio).
    L’osservazione di Ennio invece continua su questa base di ‘contrasto’ affermando che *Rita mette in risalto soprattutto i rischi che l’io corre ad aprirsi al noi: “equivocare sulla funzione del compito, incorrere nella manipolazione del proprio pensiero, essere avvolti dalla presenza massiccia della ideologia.”*
    Ebbene, rispondo di sì, e mi sembra giusto farlo quando l’aprirsi al “noi” viene mosso da arcaici bisogni a-conflittuali, demagogicamente poi guidati da un falso principio di uguaglianza: io sono te e tu sei me. La pensiamo allo stesso identico modo! Il nostro desiderio è univoco! Il nostro fine è lo stesso!
    Mettere invece in risalto i rischi legati ad un aprirsi senza tutele mi sembra doveroso: non ci insegnavano da piccoli a non accettare caramelle da sconosciuti? Ma ciò non significa né stigmatizzare le esperienze ricorrendo a etichette sdoganate dalla presunzione di essere sempre dalla parte della ragione, e nemmeno *barcamenarsi* (non mi appartiene questo stile), bensì mettere in funzione il senso critico (tanto osannato e ricercato, però quando lo si attua pare che non vada bene perché pesta sempre i calli a qualcuno).
    Per questi motivi utilizzo il TEMPORANEAMENTE, e non nella accezione ‘utilitaristica’ come traspare nella interpretazione di Ennio: *Anche se, in teoria, non viene esclusa l’esigenza o la possibilità di “una specie di ‘armonizzazione’” tra io e noi e si afferma che questa possa essere tentata “sia dentro la propria soggettiva esperienza, il proprio ‘io’, e sia all’interno di un ‘noi’”, Rita insiste a raccomandare che l’incontro col noi andrebbe cercato solo “attorno ad un compito condiviso” e solo “TEMPORANEAMENTE”.
    Perché la ricerca dovrebbe muoversi ‘SOLO’ in quella direzione? Non è questo il senso. Ciò che mi premeva sottolineare è che l’incontro con il ‘noi’ – perché sia proficuo – sia l’esito di una scelta, anche all’interno di una condivisione di compiti.
    Preciso che il ‘compito condiviso’ è ciò che permette di ridurre l’impatto delle differenze che pur sono presenti sia all’interno dell’ “io” che all’interno del “noi”.
    Emblematica l’esperienza di come era costituita la Resistenza Italiana. Ma dobbiamo considerare emblematico anche il suo esito quanto a rapporti di forza interni!
    Anche per questi motivi, il TEMPORANEAMENTE intendeva esprimere il tentativo di sottrarsi alle assolutizzazioni; di storicizzare evitando i fantasmi delle ‘repliche’; di differenziare tra un qui ed ora ed un là e allora. E ‘differenziare’ non significa ‘respingere’.

    Da tutto questo discorso si evince che i due poli, ognuno con le sue specificazioni, sono necessari l’uno all’altro e ne trarrebbero beneficio reciproco, nonostante a volte si guardino in cagnesco: l’individuo teme di essere fagocitato dal gruppo – poi dipende anche dalla tipologia del gruppo, dalla sua ‘patologizzazione’, vale a dire qual è il suo grado di remissione e sottomissione all’idea del capo in pectore –, e viceversa il “noi” teme di essere schiacciato dal potere del singolo (nonché da suoi aspetti patologici), e che viene percepito ambivalentemente come salvatore ma anche come tiranno, amato e odiato.

    Un ultimo appunto (e chiarimento) a fronte di questo passaggio .
    *… e vi si sentirebbe una volontà più o meno decisa a coinvolgere il lettore “in quelle trame intime che attraversano i tempi, veicolate da uno strumento così potente qual’è la poesia” o nell’ “esperienza di un ‘noi’ che si dilata nel tempo”.

    Ennio continua ribadendo che *Ancora, dunque, l’io sarebbe sottoposto al medesimo doppio moto tra fascinazione e rigetto: in un primo tempo “l’‘io’ si può riconoscere, e […] approda speranzoso” (al testo e al contenuto che il testo evoca); in un secondo tempo si ritrae con “un brivido di freddo”, come per un doloroso “colpo della strega», perché si accorge che la proposta del testo è o sarebbe una stridente, ossimorica ed insensata (come le altre cose del mondo o degli umani) adesione ad una “*soggettività cristiano-marxista*”.

    Nel passaggio di cui sopra ho cercato di illustrare la dinamica che interviene tra il coinvolgimento emotivo (io-noi) legato alla bellezza (che porta con sé il fascinans et tremendum) e il successivo contatto con la realtà fattuale.
    E ho inteso far notare come la presa emozionale – che non rinnego affatto, e ci mancherebbe: non voglio affermare “non più poesia”! -, non mi deve distogliere dalla percezione critica relativamente a certe forzature che mi fanno accapponare la pelle quando stravolgono o la storia o il pensiero altrui (del povero Marx, in questo caso).
    Non ho titoli per affermare né l’intenzionalità di questi travisamenti, né quanto siano in mala o buona fede: rimane il mio ritrarmi nauseata.
    Se queste commistioni (*soggettività cristiano-marxista*, ad esempio) abbiano a che fare con suggestioni ‘innovative’ sul genere della ‘nouvelle cuisine’, oppure siano espressione di tensioni ‘futuriste’ di cambiamento, capovolgimenti tipici del processo artistico, allora posso anche chiudere un occhio a fronte di certe sovrapposizioni oniroidi, certi potpourri.
    Ma in altri ambiti, quando rischiano di coinvolgere la fiducia e le speranze di vite umane, no.

    R.S.

  2. @ Simonitto

    D’accordo, dopo le tue precisazioni, su storicità e dinamicità dell’io e del noi e sulla loro reciproca interferenza («in ognuno di quel “noi” c’è un “io”, e che in ogni “io” c’è la condensazione di una molteplicità»), restano vari punti di dissenso o da capire meglio. E ci tengo a presentare le mie affermazioni – le precedenti e quelle che ora seguono – come interpretazioni da sottoporre alla discussione. Vediamo:

    1.
    Mi pare troppo marcata la sottolineatura delle differenti «costituzioni» dell’io e del noi: « L’ “io” cerca di costruirsi una identità – sempre in evoluzione e quindi in conflitto – mentre il “noi” tenderebbe ad una coesione per lo più stabile tra i partecipanti, attorno ad un progetto o ad un capo, nonostante ci si possa trovare comunque in situazioni di aleatorietà dipendenti dall’eccessiva eterogeneità del gruppo, da particolari tipologie del capo oppure del progetto».

    Io, invece, non vedo nessun io perennemente « in evoluzione e quindi in conflitto» e nessun noi che sempre « tenderebbe ad una coesione per lo più stabile tra i partecipanti, attorno ad un progetto o ad un capo». Mi sembra più probabile che spinte al conflitto e spinte alla quiete (o “pace”) agiscano sia nell’ io che nel noi.

    2.
    Condivido abbastanza la necessità di un progetto per caratterizzare un gruppo (che sia una rivista o altro), meno la tua insistenza sulla funzione del capo o della «mente del gruppo».

    Dicendo questo, non semplifico le cose o trascuro i dati che ci vengono dagli studiosi delle dinamiche di gruppo e dalle stesse esperienze storiche; ma, se io e noi si condizionano reciprocamente in positivo o in negativo (come sottolinei in questa frase: «Da tutto questo discorso si evince che i due poli, ognuno con le sue specificazioni, sono necessari l’uno all’altro e ne trarrebbero beneficio reciproco, nonostante a volte si guardino in cagnesco»), perché non considerare entrambi – io e noi – protagonisti della medesima importanza?
    Affermando, invece, che, «per raccontarsi», la cultura del gruppo « ha sempre bisogno di un momento individuale», a me pare nuovamente che l’accento gerarchico venga posto unilateralmente sull’io, trascurando il ruolo *altrettanto* costruttivo del noi.

    3.
    Sempre in questa logica di pari importanza da attribuire all’io e al noi, se è giusto indicare i rischi innegabili che comporta per l’io l’apertura al noi, altrettanto giusto mi pare indicare i rischi che derivano dai comportamenti “anarchici” o assolutizzanti dell’io : narcisismo , solipsismo, egoismo, individualismo. O, come tu precisi, quelli in cui l’io può cadere quando si apre al noi in modi sbagliati:« sì, e mi sembra giusto farlo quando l’aprirsi al “noi” viene mosso da arcaici bisogni a-conflittuali, demagogicamente poi guidati da un falso principio di uguaglianza: io sono te e tu sei me. La pensiamo allo stesso identico modo! Il nostro desiderio è univoco! Il nostro fine è lo stesso!»

    (Quanto all’esempio delle caramelle – ««Mettere invece in risalto i rischi legati ad un aprirsi senza tutele mi sembra doveroso: non ci insegnavano da piccoli a non accettare caramelle da sconosciuti?» – che evoca la biblica mela di Eva complice del demonio tentatore, non vorrei che si rafforzasse o nobilitasse un pregiudizio, sicuramente popolare e che in molti casi può avere anche fondamento reale, facendolo diventare norma razionale assoluta. Insomma, perché escludere che a volte anche le caramelle offerte da sconosciuti possano essere buone e non sempre velenose?).

    4.
    Compito del gruppo e funzione del capo. Temo che questi due apparenti capisaldi possano diventare dei feticci paralizzanti. Il compito condiviso dal gruppo è solo – diciamocelo – una *promessa* più o meno solenne e sincera fatta dai suoi aderenti . Non può garantire, di per sé, un risultato positivo o il risultato sperato. Per la semplice ragione che nessuno può penetrare nella mente di ogni singolo partecipante ad un gruppo (o del capo riconosciuto) per accertarsi che il compito sia davvero condiviso o che le indicazioni del capo siano davvero approvate e praticate. *Solo fino ad un certo punto* il compito che un gruppo riesce a darsi « permette di ridurre l’impatto delle differenze» o di riequilibrare i « rapporti di forza interni». E lo stesso vale anche per la funzione svolta dal capo o dai capi in genere. Com’è provato dall’esito della Resistenza, dalla Rivoluzione Francese o russa. Perciò, ogni « tentativo di sottrarsi alle assolutizzazioni; di storicizzare evitando i fantasmi delle ‘repliche’; di differenziare tra un qui ed ora ed un là e allora» resta, secondo me, nei casi migliori un auspicio, al peggio un esorcisma. Non esiste una soluzione soddisfacente del rapporto tra io e noi. E perciò, secondo me, si tratta di accettare o rifiutare una scommessa. ( È in fondo quanto avevo già sostenuto su questo tema in un commento dell’aprile scorso sotto il post «Trump e i trumpini italiani qui: https://www.poliscritture.it/2017/03/02/trump-e-i-trumpini-italiani/#comment-69534 ).

    5.
    Parli di «forzature che[ti] fanno accapponare la pelle quando stravolgono o la storia o il pensiero altrui (del povero Marx, in questo caso)». E ti riferisci alla mia espressione, per te scandalosa, di «soggettività cristiano-marxista» attribuita al marxismo critico di Fortini. Bene, allora ti chiedo: del pensiero del «povero Marx », dopo la sua morte, chi è l’interprete giusto e autorevole? Per me tutti e nessuno. Intendo dire che ciascuno può pretendere di avere l’interpretazione giusta o vera o unica di Marx liquidando tutte le altre come forzature o, come tu dici, « suggestioni ‘innovative’ sul genere della ‘nouvelle cuisine’», «espressione di tensioni ‘futuriste’ di cambiamento, capovolgimenti tipici del processo artistico», «sovrapposizioni oniroidi», ma per me il discorso resta aperto. Le voglio esaminare tutte queste interpretazioni e scegliere – come io e come noi – quale condividere. Quella di Fortini personalmente la sento più vicina e punto di partenza per confrontarmi con le altre, tutte le altre.

    6.
    Sul considerare oltre all’io e al noi anche il “loro” sono d’accordo. Però non mettiamoci solo «: i fascisti (o i comunisti); i reazionari (o i progressisti); i capitalisti (o i rivoluzionari)». O Minniti & C. Mettiamoci – come ho fatto –anche i migranti (https://www.poliscritture.it/2016/12/28/noi-e-loro-nello-specchio-di-facebook-verso-la-fine-del-2016/)!

    7.
    Questo nostro discorrere su un piano vagamente filosofico di io, noi, loro non è una perdita di tempo, ma ritengo indispensabile farlo scendere su un piano più pratico politico. Possibilmente nominando io, noi, loro coi nomi quotidiani,riferendoci a contesti precisi nel tempo e nello spazio e vedendo dove ci collochiamo e cosa facciamo o potremmo fare.

  3. SEGNALAZIONE

    * Forse è qui, nel ’68, l’origine del tentativo, certamente fallito, di porre il rapporto io/noi in modi diversi . [E.A.]

    Splendore e miseria dell’antiautoritarismo
    di Robert Kurz
    https://sinistrainrete.info/teoria/10612-robert-kurz-splendore-e-miseria-dell-antiautoritarismo.html

    Stralcio:

    l movimento del 1968 – così Kurz – racchiudeva effettivamente al suo interno un nocciolo autenticamente sovversivo e insofferente nei confronti degli abusi della società capitalistica. La questione è dunque: perché questo elemento critico non sfociò in una trasformazione sociale realmente anticapitalistica ma si incurvò rapidamente verso i due esiti (per Kurz due facce della stessa medaglia) dell’individualizzazione, alias monadizzazione sociale, da una parte, e della «democratizzazione» intesa come generalizzazione della logica della merce dall’altra? La risposta sta nella comprensione peculiare sviluppata dal movimento circa il rapporto tra individuo e società, che si tradusse nella sua ideologia antiautoritaria. Non a caso Kurz fa risalire i primordi di questa ideologia nell’anarchismo filosofico di Stirner, strettamente legato allo sviluppo ottocentesco della società della merce. Il problema consiste nel fatto che il conflitto tra l’individuo (moderno, capitalistico) e la società (moderna, capitalistica) non è un conflitto meramente esteriore tra due realtà autonome e prive di presupposti ma un’opposizione dialettica tra due poli generati nel corso della modernità. Fu precisamente l’avanzata della moderna forma capitalistica che, distruggendo le vecchie forme di produzione e di vita, assieme alle relative forme di pensiero e mentalità, finì col generare l’individuo come soggettività giuridica e politica astrattamente libera, svincolata dai rapporti tradizionali delle società premoderne, modellata sulla circolazione della merce e del denaro, cui si contrappongono le istituzioni di una società corrispondentemente astratta, che è il presupposto necessario della medesima individualità. La modernizzazione fordista del secondo dopoguerra fu una tappa ulteriore della formazione di questo soggetto monadico; di conseguenza il legame tra il processo della trasformazione sociale e la contestazione sessantottesca non fu certo contingente. Tuttavia i movimenti di ribellione sociale, incapaci di decifrare le condizioni della loro genesi storica, finirono presto o tardi con l’addomesticare il rapporto di tensione con la società che li aveva generati; nell’antagonismo individuo-società essi non seppero riconoscere il problema fondamentale della soggettività capitalistica ma lo interpretarono come il confronto tra l’assolutezza delle pretese individuali, in ultima analisi compatibili con il capitalismo, e la repressione delle istituzioni sociali, giudicate non secondo la loro logica funzionale, ma in un’ottica quasi precapitalistica, come apparati al servizio di gerarchie e particolarismi.

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