Da «I luoghi i tempi le parole»

 

di Eugenio Grandinetti

Premessa

Potrei dare a questa raccolta il titolo “Ultime”, non perché essa comprenda le ultime poesie da me composte, ma perché è l’ultima che intendo pubblicare per adempiere a quello che io ritengo un mio dovere verso la società. Infatti io ritengo che tutti siamo debitori verso la società in cui viviamo perché il nostro modo di essere è determinato anche dai rapporti sociali in cui siamo implicati e quel che ognuno pensa o scrive non è solo opera sua ma è anche espressione dei desideri, dei comportamenti, delle aspirazioni e delle preoccupazioni della società in cui vive.
E’ ben vero che la società attuale non è tanto attenta ai valori letterari, e se – come dicono le statistiche – il 60% degli italiani non legge più di un libro all’anno, credo che i lettori dei libri di poesia si possano contare sulle dita di una sola mano,anche considerando quelli che si sentono obbligati a comprare i libri dei loro amici poeti.
Comunque quello che io penso o scrivo potrebbe in qualche modo aiutare i posteri a capire le caratteristiche della società in cui io vivo, ed è perciò che mi sento obbligato a lasciar traccia dei miei pensieri.
La pubblicazione di un libro ha però un costo ed io non posso permettermi di pubblicare tutto quello che scrivo, e gli editori, che nella nostra società non sono più mecenati ma imprenditori, sono restii a produrre libri che probabilmente resteranno invenduti, perciò nella migliore delle ipotesi sono costretti a chiedere agli autori un contributo a copertura delle spese di stampa e di diffusione.
Perciò io mi limito a pubblicare a mie spese solo una parte delle mie opere, lasciando comunque a quelli che verranno una traccia che se vorranno potranno seguire per ritrovare il resto dei miei pensieri.

 

 

*
Mi sono immerso in questo mare, attento
al gonfiarsi dell’onda che sommerge
isole e sole, e cade;
ed ora sono come il mare
rappreso di richiami e già stremato
di rifiuti, e roco
di un ansimare stanco
e bianco di spuma sparsa che si disfa
come memoria al volgere del tempo.
Gli occhi d’acqua si sciolgono e gli sguardi
per ciglia d’alghe scrutano orizzonti
dove non ha presenze d’ombra il sole
e non di vele o nuvole o di voli
che veloci s’attuffino e ridestino
per riverberi brevi sogni
e vanno.

 

*
Prato d’autunno

Nel verde marcio dura ancora un giallo
residuo di tarassaco, un dianto
schizopetalo sgualcito,
ed un rossore quasi inavvertito
di sanguinaria.
Nella guazza rosseggiano limacce
viscide, si nascondono
tra le foglie umide cadute dagli alberi.
E tra le foglie pare di vedere
fiori effimeri aprirsi ad un riverbero
di sole, e sterili disfiorire,
e pare udire
voci sussurrare, se il vento alita,
ma presto ammutolire esauste
in un silenzio di nebbia.

 

*
I semi della memoria

Tra questi rami nudi, questi nidi
ch’erano vivi d’ali un tempo ed ora
sono tornati sterpi, inerti, muti,
lacera il vento nuvole e le sparge
nel cielo inquieto, e intorbida orizzonti
che non hanno più voli.
Passano radi passeri, si posano
timorosi tra l’erba secca e frugano
cercando forse briciole disperse
della buona stagione ormai trascorsa.
E tu mi appari ancora e ancora un poco
t’attardi
in questa luce incerta che scolora
le immagini e gli sguardi,
e poi scompari, in qualche luogo oscuro
della memoria,
come seme sepolto.

Ho chiuso il grano nei cassoni e ho messo
sotto la sabbia le castagne
perché non germoglino. L’inverno
che ci pare uniforme ha desideri
sotterranei,
ha radici sommerse che si muovono
come spire e tentacoli e che cercano
nel buio umori occulti e marcescenze
d’erbe sepolte.
E forse ora nel cuore i desideri
cercano tra memorie spente un sogno
che diventi germoglio e che riporti
alla luce del giorno una speranza
come erba al sole e all’alito del vento
nel tempo breve della primavera,
e cadrà poi com’erba al caldo afato,
resterà stoppia che sarà sepolta
al tempo delle piogge e della nebbia.

Chiuderò nel cassone tra la sabbia
sterile ogni memoria
che non torni nel cuore a farsi sogno
il desiderio,
e non torni l’attesa a farsi pena,
e ogni speranza a farsi erba che secca.

 

*

Come a un paese lontano

Ora ritorno a te come al ricordo
di un paese lontano,
che forse non c’è più, che forse è un crollo
di case diroccate e di memorie
logorate dal passo dei ritorni
e degli addii.
Ed anche tu non sei che nostalgia
ora, e maceria.
Il tempo ha sgretolato
ad uno ad uno i passi e ha logorato
nel cuore attese e desideri.
Dietro la veste lisa della vita
ora non resta che un’angoscia muta,
un’assenza di attese e un’ansia vuota
di passi che s’affrettano a una meta
senza ritorni.

 

*
Lungo tutta la notte

Lungo tutta la notte ha già cantato
un uccello di luna alla sua ombra,
s ‘è illuso di sussurri ed ha aspettato
che l’ombra si facesse uccello, e voce
il mormorio indistinto tra le fronde.
Ma impietoso ora è giunto il giorno. Un’eco
del suo canto era il canto, ed era l’ombra
il riflesso di sé nel lume ambiguo
della luna notturna. E anche la luna
ora è un riflesso, un’eco che sbiadisce
perchè più chiara già una luce nasce
all’orizzonte.
E non resta che chiudersi nel vuoto
di un tronco cavo e tessere silenzi
che ricoprano il suono d’altre voci,
estranee e incomprensibili, e aspettare
che si rabbui il sole e che ritorni
per ombre ambigue ancora il desiderio
di farsi voce e immagine.

 

*
Il fiato

La nostra vita è questa stanza chiusa
dove il tempo ci logora. Si sfanno
i nostri giorni, inavvertitamente.
La polvere sospesa si rapprende
col fiato e rende opaco
il vetro.
E la finestra è fatta già parete
e più nulla entrerà. Resterà solo
la polvere di cose che si logorano
ed i segni sbiaditi, e le ombre e il vuoto.

 

*
Velo

Un velo opaco ora ci appanna gli occhi,
sfuma i contorni delle cose, rende
il mondo incomprensibile.
Guardarsi nello speccio e riconoscersi
Diventa ogni giorno più difficile.

 

*

Vivere

Questa che noi chiamiamo vita è invece solo
come un respiro prenatale, chiuso,
una speranza cieca, un desiderio
inconcluso, una vicenda subita,
non una vita.
Vivere è lasciar dietro i propri passi
una fila di giorni memorabili,
che il cammino non sia una traccia labile
che si copra ogni volta d’erba e polvere.
Vivere è costruire una piramide
di giorni che non si sgretolino
che non si debba sempre ricostruire
una base cedevole e alla fine
trovarsi sempre in basso a riguardare
con occhi insoddisfatti
un deserto di giorni informi e un cumulo
di sogni non vissuti e presto sfatti.

 

*
Ceralacca

Tutti gli eventi lasciano un’impronta
come il sigillo sulla ceralacca,
che indurisce e che dura
fino a che si frantuma e si distacca
da noi la nostra vita a groppo a groppo.
Ma allora i segni perderanno il senso,
le parole la voce, i giorni il sole
e l’ansia dell’attesa. E le cose
saranno mute e immote
in una quiete senza più vicende.

 

*

Inverno

Vanno e tornano e un poco si soffermano
a memoria di foglie rari passeri.
Poi passa il vento e ancora li sparpaglia
in un cielo di cenere.

 

*

Il conto

Conviviamo con giorni forestieri
e siamo forestieri ai nostri giorni,
non ospiti graditi, ma clienti
a cui si chiede di pagare il conto
di tutti i giorni
con tutti i giorni della nostra vita.
E la sola uguaglianza è il prezzo uguale
per chi ha avuto per sorte una locanda
sordida e stonacata, e per chi invece
una stanza accogliente con terrazza
con la vista sul mare e con la pergola
di gelsomino.
E alla fine del giorno non sapremo
quanta luce vien tolta e quanto odore
di mare e quanta gioia d’ozio
a noi cui il caso riserbò se mai
soltanto oziose attese dietro il vetro
di una finestra stretta,
dietro i battenti di una porta chiusa
per un’ombra sfuggente o per un’eco
di passi attesi che si allontanavano.

 

*
La fine della favola

Stretta la foglia, lunga la via
poche certezze, tanta follia.

Breve il cammino, larga la fossa,
tante speranze ed un mucchio d’ossa.

 

*
Giocare con le parole

Gioco con le parole come fossero
soldatini di piombo:
le dispongo
in fila fitte ad una ad una tutte
contro di me.
Ed io sono colui che regge il campo
da solo contro tutti, che s’esalta
nella lotta ed atterra
con un cenno chiunque gli resista.

E perdono la voce le parole
ora abbattute e inerti, e mostrano
dietro le loro forme ferme il vero
di un pensiero ingannevole che finse
sensi e mete alla lotta.
E la vittoria allora
diventa amara più che una disfatta.

Appunto suoni e immagini su fogli
provvisori. Scrivo
parole che domani estranee
ritroverò.
Ricostruisco sentieri, segno tracce
che l’erba ricrescente coprirà.
E ancora avrò pensieri provvisori
come acqua che rapida trascorre
inutilmente lungo rive sterili,
e ancora avrò parole
che scorreranno liquide e incolori
per fondali di sabbia.

 

*
Parole provvisorie

Non chiederò per me nulla che resti:
sono solo un albergo provvisorio
di desideri effimeri, di sogni
che si fermano solo a pernottare,
di pensieri che passano, di parole
che durano lo spazio di un respiro
e poi svaniscono, come alito nell’aria
ove s’esalano
senza lasciare traccia.
Non amo
più parole indiscusse, ridondanze
che s’assommano inutili, che accumulano
pensieri inerti, s’ispessiscono
come scotomi agli occhi, come tracce
dure di cicatrici che ci rendono
insensibile il tatto.
Non amo
lo spessore del nulla, la spirale
del suono che s’arrotola e si svolge
per sinonimi e anafore e ricopre
la vita di memorie che ristagnano.

Ora il cielo si sbianca. Una lanuggine
di nuvole va, che incerto il vento,
ora ancora ora remo, arresta o sperde.
Resta nell’aria, breve, un turbamento
che poi s’acqueta quando l’aria resta
vuota di vento. E noi restiamo attenti
a quest’ala che passa, alle parole
come se avessero peso, se non fossero
soffi effimeri d’aria che sfiorano
soltanto per un attimo i pensieri
e li turbano un poco e dopo tornano
aria inerte nell’aria.

Ma tu dici che ancora ci saranno
parole per me, come in un gioco
in cui parole alterne si rimandano
dall’uno all’altro. E però passano
le tue parole sul mio capo e vanno
lontane da me. Mi affanno
a rincorrerle, e inciampo a volte e cado
ma poi mi rialzo ancora e ancora vado
avanti, a fatica, finchè trovo
parole che mi sfuggono, parole
sferiche e senza appiglio,
parole pneumatiche che al tocco
hanno rimbalzi ambigui ed hanno cupe
risonanze di vuoto.
E forse è meglio che abbandoni il gioco
io che non so giocare, io che non so
che hanno perduto il senso le parole
e sono rimaste solo
una spuma di voce che s’esala
come nebbia nell’aria e la fa opaca.

 

*
Medusa

So che Medusa c’è : mi celo dietro
la pelle di una capra
che un giorno mi allattò, che mi protesse
dal mondo ostile e che s’ostina
ad illudersi ancora di difendermi.
Ma già medusa è in me, non serve a niente
più lo scudo di capra:
E’ in me che guata
e rende i miei pensieri
aridi e inerti, come pietre.E io resto
come una statua che non può fuggire
e vedo il giorno esausto impallidire
e spegnersi, e so che le parole
che un giorno m’illudevano non erano
che belati di capra e non avevano
altro senso che quello dei miei sogni.
Ed invece è vero solo il volto informe
che mi aspetta, e l’occhio del serpente
che mi guarda impassibile, m’attira
a sé,e m’avvolge, mi stringe tra le spire
fino a quando il respiro
diventi solo un rantolo e la vita
resti soltanto il passo che attraversa
la linea del confine.

 

*
Erboristica

Cerco
lungo i cigli dei fossi la consolida
dal caule chino,
negli incolti l’erisimo
scompigliato e tra i ruderi
la parietaria.
Nei boschi trovo asperule nascoste
tra foglie secche, ed arida,
tra le pietraie riarse, la canutola
amara ed il camedrio.
Ma il male, che mi toglie il desiderio
di vivere, queste erbe non curano:
umili, miti e non amate
come i miei giorni portano
fiori chini e nascosti
e nella solitudine consumano
breve una vita inavvertita.
I fiori devo cogliere che gli occhi
chiamano a sé con voce di corolle
ampie e vistose:
l’effimera d’autunno dalle dita
rosee e sinuose
o l’erba aralda che agli sguardi porge
lunghi calici gialli
o il napello guerriero dal ricurvo
elmo turchino che risplende
fatale al sole.

 

*

La luna

Eccola là la luna che si leva
dalla cima dei colli all’orizzonte
silenziosa, leggera e sola,e sale
e si stacca da un velo d’alberi,
lenta come un aerostato, e resta
sospesa a mezzo cielo in un germoglio
di luci ch’erano dimenticate.
Si è fermato
come un ingorgo alla memoria
il canto di un usignuolo ed ora stagna
nell’aria come nebbia, e lento evapora
leggero come un alito, una piuma,
una spuma sull’acqua.

 

*
Sera

Il giorno è giunto al termine e ora resta
soltanto come una memoria sparsa
tra le nuvole e un rantolo di luce
che diventa più fievole. Le immagini
si dissolvono, si disfano i contorni
e non rimane attorno a noi che un vuoto
dove i passi e i fruscii non hanno moto
ma solo un suono che si fa timore
diffuso.
In qualche luogo della notte vagano
falene timorose e voli
rapidi di pipistrelli che ci dicono
che qualcosa di fatale accadrà.
Richiamiamo i pensieri e teniamoli
nel chiuso della mente, che non volino
come falene al buio.

 

*
I poeti

I poeti
sono esseri inutili
ma, se si limitano
a fare i poeti, almeno non opprimono,
non rubano, non uccidono.
I poeti scrivano
parole a loro dire
essenziali, ma che restano spesso
inascoltate e vane
come un seme che cada sul terreno
sterile e rinsecchisca
senza neanche riuscire a germogliare.

 

*
Deriva

Si disancora la parola e torna
suono che si desillaba in un mare
di mormorii o forse di silenzi.

 

*
Presente

Presente è questo istante inafferrabile
che più non è, e mentre parli
è già passata la parola
labile e la lieve
vibrazione dell’aria.
La vita non è che un divenire
incessante di cellule, un dividersi
e ricomporsi ancora in nuove cellule
nel corso dei giorni, fino a giungere
alla stanchezza genitale
estrema, al progressivo
appannamento d’occhi e desideri.
E dopo non più sguardi ma soltanto
illusioni che tornano allo sguardo
e mani che nel vuoto invano cercano
un contatto pur lieve,
e voci che si perdono
per vallate di assenza e non ritornano
se non per una vana
vibrazione dell’aria.

9 pensieri su “Da «I luoghi i tempi le parole»

  1. Voglio ringraziare Eugenio Grandinetti
    per essere passato anche qui, su questa terra virtuale, con queste sue nuove poesie che a me sembra vadano a compimento del suo percorso, mesto in apparenza, quasi rassegnato, in realtà vivo e oggi attualissimo: vi si trovano il Vuoto e il Nulla, parole che come ombre s’allungano sul finire del tempo dell’illusione consumistica; che diventano esistenziali ma allo stesso tempo scientifiche, come a voler cercare il senso della vita anche nella materia.
    Questa ricerca di senso o di scopo non può non condurci a Leopardi: il suo ” a che vale” non suona come il “solo” e “soltanto” spesso ripetuto in queste poesie di Grandinetti? E la rassegnazione, non trova nel vigore e nella tenacia con le quali, malgrado il tutto irrisolto, i nostri poeti vivono la poesia fino in fondo, fino all’ultimo istante che gli resterà, un degno contraltare? E la natura, la scomparsa natura, non è ancora il nostro principale referente, quel che ci dà la misura di dove siamo e dove stiamo andando?

  2. Quest’ ultima raccolta, di cui – per ora – leggo solo l’estratto qui pubblicato, è – come scrive Grandinetti – ultima pubblicata, ma non ultima scritta. Non ci sono date di scrittura, come in tutte le sue raccolte – edite e inedite – perché il loro tessuto narrativo è in qualche modo fuori dal tempo, per due ragioni. La prima perché i motivi di fondo non variano, ma variano solo le singole pagine in cui sono espressi. Le foglie di un albero non hanno bisogno d’essere datate perché tutte appartengono allo stesso albero e alla stessa stagione, sebbene sia poi, ognuna, individualmente, in qualche cosa diversa da tutte le altre. La seconda ragione è perché il racconto autobiografico di Grandinetti vuole essere – anche – una metafora di valore universale, il racconto della biografia dell’universo. E in questa biografia cosmica il tempo non conta perché è un eterno ritorno sui propri passi, in un perpetuo disfarsi e rifarsi delle forme della natura.
    La natura però, in queste “ultime” poesie, non appare più maligna, ma solo indifferente, estranea alla vita dei singoli uomini. La poesia di Grandinetti sembra più distesa, non meno disperata ma più rassegnata; in attesa dell’inevitabile fine.
    Emerge il ricordo della vita vissuta e dei suoi momenti essenziali.
    Riprende e parafrasa un detto popolare: «Stretta la foglia, lunga la via / dite la vostra che ho detto la mia» e lo trasforma, col titolo «La fine della favola», in «Stretta la foglia, lunga la via / poche certezze, tanta follia». Ecco dunque che il poeta, sottintendendo «ho detto la mia», afferma: «poche certezze, tanta follia». E questa è la conclusione della “favola”. Ma la “favola” ha un contenuto, uno svolgimento, che passa attraverso vari momenti.
    Il primo è una qualche nostalgia di una vita in un certo senso non vissuta, perché priva di azione e di imprese memorabili («Vivere»: «Vivere è lasciar dietro i propri passi / una fila di giorni memorabili»). Torna qui l’eterno problema di chi lavora con la scrittura: vive direttamente il montaliano 5%, il restante 95% lo vive indirettamente, con le forme dell’immaginazione letteraria, dentro la tradizione, con il lavoro sulla parola, sulla lingua, sullo stile. Insomma, la vita diventa letteratura e cessa di essere vita intesa come azione e diretta esperienza. Salvo, però, quella particolare esperienza esistenziale delle idee e dei sentimenti, della vita interiore, che l’introspezione lirica tende a restituire. Perché in fondo il racconto autobiografico di un poeta è sempre un’indagine sulla vita, sugli uomini, sul mondo, sulla verità contrapposta alle apparenze.
    Però Eugenio non è poi così perduto nella letteratura da prenderla per vero e da non accorgersi della labilità delle parole. Il termine “parola”, in questo estratto, ricorre 25 volte, ed è davvero un termine chiave del racconto. Eugenio confessa: «Gioco con le parole come fossero / soldatini di piombo». In questo gioco può vincere, può barare, può esercitare un potere che non ha nella vita vera. Ma è un potere illusorio.
    Ne conclude che «I poeti / sono esseri inutili / ma, se si limitano / a fare i poeti, / almeno non opprimono, / non rubano, non uccidono. / I poeti scrivono / parole a loro dire / essenziali, ma che restano spesso / inascoltate e vane / come un seme che cada sul terreno / sterile e rinsecchisca / senza neanche riuscire a germogliare».
    Vi è qui una qualche consolazione in negativo, come dire: se non sono riuscito ad agire in modo da lasciare un segno benefico, almeno non lascio un segno malefico. Se non ho potuto fare il bene, non ho fatto il male.
    Ma in questo c’è già molto bene.
    L’inefficacia della poesia sulla vita concreta, che non è un assoluto perché in qualche raro caso la poesia riesce a trasformarsi in azione, in impresa memorabile e a determinare concrete conseguenze nella storia sociale e non solo letteraria, questa inefficienza mi ricorda i dibattiti degli anni 1968-1975 circa sul romanzo trasgressivo e sulla possibilità di una letteratura rivoluzionaria, e la tesi di alcuni critici (ad esempio Giuseppe Bonura) che sostenevano che la letteratura non riesce mai a diventare omologa dell’azione rivoluzionaria perché il letterato vive fuori dalla prassi (operaia, di fabbrica, di militanza concreta) e soprattutto perché la brutta letteratura è negativa, dannosa e inefficacie comunque, ai fini della rivoluzione, mentre la bella letteratura è marchiata dall’«effetto Leopardi». Che voleva dire: puoi anche scrivere che il mondo fa schifo, cercando di stimolare una reazione di contestazione di questo schifo, ma se lo scrivi suscitando emozioni, sentimenti di bellezza, spinte alla sublimazione letteraria, dolcezza e calore per il bello scrivere e commozione per il sentimento umano, di angoscia e di pietà, finisci per dare al lettore, con tutto questo, una forma di consolazione e, quindi, un motivo di riconciliazione con il mondo.
    Mi sembra che l’«effetto Leopardi» sia applicabile in pieno alla poesia di Grandinetti: sembra dirci che la vita, tutto sommato, non vale la pena d’essere vissuta, ma ce lo dice in un modo che ci fa desiderare di vivere e di colmarci, e consolarci, con le infinite variazioni liriche del suo racconto di sentimenti, di ricordi, di nostalgie, di attese, di speranze perdute, di amare e crudeli constatazioni e via e via immergendoci in questa meravigliosa vita che è la letteratura, racconto e metafora di tutte le vite possibili.

  3. La domanda di L. Mayoor “dove stiamo andando” (*E la natura, la scomparsa natura, non è ancora il nostro principale referente, quel che ci dà la misura di dove siamo e dove stiamo andando?*, non è riferibile soltanto alla natura, ma anche e soprattutto ad una cultura – deficitaria come quella attuale – che impedisce la ‘parola’ ad un poeta come Eugenio Grandinetti, quella ‘parola’ che, come acutamente nota L. Aguzzi nel suo commento, ha una incidenza non solo numerica (25 volte) ma *è davvero un termine chiave del racconto*.
    Termine chiave per una comunicazione che può tradurre l’emozione in un pensiero, bypassando la trasposizione automatica dell’emotività in azione. Come vediamo sta accadendo oggi, dove ogni ‘emergente’ capace di suscitare i più svariati sentimenti, diventa l’ago della bilancia che pesa parole su parole e si discute e si discute… mentre, come suggerisce il poeta in “Parole provvisorie”, *E forse è meglio che abbandoni il gioco/ io che non so giocare, io che non so/ che hanno perduto il senso le parole/ e sono rimaste solo/ una spuma di voce che s’esala/ come nebbia nell’aria e la fa opaca*. Abbandonare il gioco non significa invitare alla indifferenza bensì, in un gioco che *non si sa giocare* perché non si conoscono bene le sue regole, ad evitare di assumere il ruolo della ‘mosca cocchiera’.
    Così succede che tutto un lavorio frenetico sembra dare il senso alle esistenze, mentre rischiano di passare in secondo piano altre realtà che sarebbero – se non di più – altrettanto meritevoli di attenzione.
    Ecco dunque il poeta, da un lato ‘costretto’ dalla sua sensibilità ad una testimonianza ricchissima – come lui stesso scrive *Comunque quello che io penso o scrivo potrebbe in qualche modo aiutare i posteri a capire le caratteristiche della società in cui io vivo, ed è perciò che mi sento obbligato a lasciar traccia dei miei pensieri* – , dall’altro sperimenta il dolore perché la trasmissione di un lascito viene tacitata: *La pubblicazione di un libro ha però un costo ed io non posso permettermi di pubblicare tutto quello che scrivo, e gli editori, che nella nostra società non sono più mecenati ma imprenditori, sono restii a produrre libri che probabilmente resteranno invenduti, perciò nella migliore delle ipotesi sono costretti a chiedere agli autori un contributo a copertura delle spese di stampa e di diffusione*.
    Questa è una vergogna culturale perché ci priva di una esperienza non legata soltanto ad un racconto poetico autobiografico bensì di * un’indagine sulla vita, sugli uomini, sul mondo, sulla verità contrapposta alle apparenze.* (L. Aguzzi)
    Sono d’accordo con il passaggio (sempre di L. Aguzzi) in cui si afferma che c’è una certa inefficacia *della poesia sulla vita concreta, che non è un assoluto perché in qualche raro caso la poesia riesce a trasformarsi in azione, in impresa memorabile e a determinare concrete conseguenze nella storia sociale e non solo letteraria*.
    Pur tuttavia, nella misura in cui veniamo messi in contatto *con le infinite variazioni liriche del […] racconto di sentimenti, di ricordi, di nostalgie, di attese, di speranze perdute, di amare e crudeli constatazioni*, apprendiamo tutta una serie di sfaccettature le quali, attraverso la poliedridicità della parola, ci fanno accedere ad esperienze di vita e di pensiero non assoluti e/o monolitici, ma relativi (nel senso di storici) e complessi.
    Per questi motivi E. Grandinetti ci mette in guardia quando affidiamo alle parole un potere enorme *Gioco con le parole come fossero/soldatini di piombo* (da “Giocare con le parole”), perché poi si corre il rischio della disillusione: *E perdono la voce le parole/ora abbattute e inerti, e mostrano/ dietro le loro forme ferme il vero/ di un pensiero ingannevole che finse/sensi e mete alla lotta.* (da “Giocare con le parole”).
    Una disillusione che il poeta conosce bene: *I poeti scrivano/parole a loro dire/essenziali, ma che restano spesso/inascoltate e vane/ come un seme che cada sul terreno/ sterile e rinsecchisca/ senza neanche riuscire a germogliare* (da “I poeti”).
    La conosce, la patisce, ma anche la trasfigura cercando di dominarla, questa delusione, facendola passare da momento subìto a momento agito: *Chiuderò nel cassone tra la sabbia/ sterile ogni memoria/ che non torni nel cuore a farsi sogno/ il desiderio,/ e non torni l’attesa a farsi pena,/ e ogni speranza a farsi erba che secca. (da “I semi della memoria”).
    Ma, come segnalato più sopra, il racconto di E. Grandinetti non è soltanto autobiografico ma è anche *una metafora di valore universale, il racconto della biografia dell’universo* (L. Aguzzi) e dei suoi miti.
    E quindi ci mette in guardia dall’onnipotenza, dalle illusioni (e/o ideologie) affinchè lo sguardo di Medusa – la più bella che nemmeno le dee e per questa sua superbia fu punita – non ci pietrifichi poi del tutto: *So che Medusa c’è: mi celo dietro/la pelle di una capra/che un giorno mi allattò, che mi protesse/ dal mondo ostile e che si ostina/ ad illudermi ancora di difendermi./ Ma già Medusa è in me, non serve a niente/più lo scudo di capra:/E’ in me che guata/ e frende i miei pensieri/aridi e inerti, come pietre* (da “Medusa”).

    Un grazie dunque a Eugenio Grandinetti per la generosità con la quale ci ha messo a disposizione il suo ricco patrimonio poetico, con l’augurio che questo possa trovare ben più ampia accoglienza.
    Va da sé, un grazie anche a Ennio per averci dato la possibilità di aggiungere questi versi agli altri che Poliscritture ha pubblicato di questo poeta.

    R.S.

    1. ringrazio mayor,aguzzi e simonitto per le appassionate interpretazioni dei miei versi.non so se merito tanta benevolenza,ma certo mi fa piacere.luciano conosce bene i miei versi,anche quelli inediti e sa che se non sono buoni sono però sinceri e credo non banali comunque non sono solo “spontanei” ma sono frutto anche di un’elaborazione letteraria.d’altra parte io non credo che si possa far letteratura senza far uso degli strumenti letterari.quanto al fatto della pubblicazione,io personalmente credo che la poesia non debba avere un prezzo in termini economici:la poesia è una manifestazione del pensiero e come tale dovrebbe esser parte dello scambio di pensieri,di informazioni,di emozioni che c’è tra gli esseri umani.ma purtroppo nella vita odierna tutto viene commisurato in termini monetari.

  4. …le composizioni di Eugenio Grandinetti mi sembrano espressioni di confine, dove la morte viene inscenata in ogni poesia ma dalla parte della vita che prima si nutre del fiore delle illusioni e delle apparenze poi inesorabilmente sbiadisce, scolora, sbianca, finisce e il sipario così si chiude negli ultimi versi…Il poeta sembra corteggiare la morte tuttavia tenendola a distanza perchè corteggia anche la vita che è come un respiro che ogni volta si riprende la scena…Per il poeta, il linguaggio che ci esprime non può essere che ingannevole e provvisorio, anzi “Si disancora la parola e torna/ suono che si desillaba in un mare/ di mormorii o forse silenzi”( Deriva), ma poi ricorre ad esso per cercare di svelare quanto sia effimera l’esistenza…Si dichiara “La fine della favola”, ma l’averla nominata ( anche in “Medusa” il richiamo alla “pelle di una capra”, elemento presente in alcune fiabe e miti, come la pelle d’asino…) ci può dire molto sulla natura calda e animale delle origini in cui il poeta aveva molto confidato e, di rimando, l’estrema delusione seguita agli eventi di una vita personale e cosmica…Mi ritrovo con la considerazione di Luciano Aguzzi sull’ “effetto Leopardi” che suscita la lettura dei versi di E. Grandinetti, capaci di aprire le menti e gli animi ad un respiro universale di bellezza e di solidarietà anche nella sofferenza…Grazie

    1. il riferimento alla pelle di capra si riferisce all’egida,lo scudo fatto con la pelle della capra che aveva nutrito giove fanciullo

      1. …sì, il riferimento al mito lo avevo capito, ma, forse divagando troppo come a volte mi capita, ho introdotto la similitudine con alcuni modi di sentire delle origini all’interno della favola, un componimento più popolare e meno eroico, dove pelli d’asino o di orso possono svolgere un ruolo protettivo non meno dell’egida di pelle di capra appartenuta a giove fanciullo…Nelle sue poesie, Eugenio Grandinetti, ritrovo spesso un’apertura -risveglio- alle origini o meglio una capacità poetica di restituire l’incanto ma anche il terrore della”prima volta che…” l’essere umano si è affacciato alla natura… anche dell'”ultima volta che…”. Sono certo interpretazioni soggettive…grazie ancora

  5. Vorrei sommessamente far notare che:

    1. è un bel guaio che la «bella letteratura» abbia avuto la possibilità di neutralizzare il messaggio di Leopardi e anche di Eugenio, forse in questi versi meno esplicito, in altri esplicito («il mondo fa schifo» e ci vorrebbe « una reazione di contestazione di questo schifo») inventandosi un «effetto Leopardi» di ascendenza desanctisiana, per cui la sua opera «suscitando emozioni, sentimenti di bellezza, spinte alla sublimazione letteraria, dolcezza e calore per il bello scrivere e commozione per il sentimento umano, di angoscia e di pietà, finisci per dare al lettore, con tutto questo, una forma di consolazione e, quindi, un motivo di riconciliazione con il mondo». Cioè col suo *schifo*;

    2. è altrettanto un bel guaio abbandonare « un gioco che *non si sa giocare* perché non si conoscono bene le sue regole»; e soltanto per evitare le illusioni ( tra l’altro per Leopardi fondamentali) o di passare per «mosca cocchiera», mentre è sempre l’ora di apprendere bene e più presto possibile quelle regole e tentare di cambiarle.

  6. Ho trovato interessante la poesia Lungo tutta la notte, diversa da altre: non c’è il poeta che guarda e si muove in un paesaggio scrivendo le osservazioni e le riflessioni. Leggo invece Lungo tutta la notte come una figurazione del lavoro solitario dello scrivere. È notte, cioè imprecisi sono i confini tra sé e il mondo creato dallo scrivere

    Lungo tutta la notte ha già cantato
    un uccello di luna alla sua ombra,
    s‘è illuso di sussurri ed ha aspettato
    che l’ombra si facesse uccello, e voce
    il mormorio indistinto tra le fronde.

    Anzi quei due territori sono con-fusi, perché è proprio sé che la scrittura crea

    … Un’eco
    del suo canto era il canto, ed era l’ombra
    il riflesso di sé nel lume ambiguo
    della luna notturna.

    Ombre sono gli aspetti del mondo che la scrittura delinea e le parole scritte chiamano solo l’eco della voce “Si disancora la parola e torna/suono che si desillaba in un mare/di mormorii o forse di silenzi.” (Deriva)
    Ma già il giorno reale copre l’attività immaginativa e sostitutiva dello scrivere, e il poeta si cela, si maschera nel mutismo come un albero

    E non resta che chiudersi nel vuoto
    di un tronco cavo e tessere silenzi
    che ricoprano il suono d’altre voci

    in attesa del prossimo momento, la notte, in cui l’indefinito e l’impreciso, che è davvero il senso che ha vivere, riprenderanno la loro realtà nella scrittura

    che ritorni
    per ombre ambigue ancora il desiderio
    di farsi voce e immagine.

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