Il Tonto e il comunismo … di Fortini

Dialogando con il Tonto (16)

di Giulio Toffoli

Il mio commento a “Comunismo di F. Fortini” (qui, qui e qui) ha avviato una discussione non facile all’interno della attuale redazione di Poliscritture. Le obiezioni riguardano sia il senso di proporre oggi un tema che agli occhi dei più appare  inattuale, irrilevante  per la comprensione  del nostro presente o  persino  dannoso per le illusioni e le tragedie che evocherebbe; e sia la formulazione “hegelo-marxista” che ne diede Fortini in questo articolo apparentemente secondario che ho esaminato. Dopo le critiche di Cristiana Fischer e di Luciano Aguzzi, che si  possono leggere  nei commenti ai link  sopra indicati, ecco quelle molto dettagliate di Giulio Toffoli. Come al solito egli le affida alla maschera sardonica del suo Tonto. La lunghezza di questi articoli  potrebbe scoraggiare quanti si  sono assuefatti alla comunicazione sul Web e ai suoi modi di  trattare in breve e troppo semplificando anche questioni complesse. Ma il Web  noi lo vogliamo usare non esserne usati; e spero perciò che la discussione continui e  venga approfondita prendendosi tutto lo spazio e il tempo necessari. [E. A.]

Carissimo Ennio, ho letto un numero difficile da dire di volte lo scritto di Fortini sul Comunismo. L’ho letto attraverso il tuo commento, poi insoddisfatto sono andato a rivederlo su Extrema ratio, pensando che la lettura in originale fosse più utile, avendo eliminando ogni filtro, ho inoltre fermato la mia attenzione sulle righe di introduzione,  che mi paiono di non poco conto. Infine ho cercato di pensare a quale è stata la mia reazione quando l’ho letto la prima volta … Insomma dopo questo calvario devo dirti che, fatta la tara dell’importanza di una testimonianza, “l’aver avuto il coraggio di parlare del comunismo in quel lontano 1989”, il discorso di Fortini non mi convince e allora ho pensato che solo il mio amico, il Tonto, potesse aiutarmi a rendere meglio manifesti i miei dubbi. Se Fortini ci ha messo due giorni per scrivere le sue 80 righe noi ci abbiamo messo una settimana di tempeste e incertezze … e un’intera notte di sofferenze. L’esito, naturalmente provvisorio, è quello che leggerai.

***

“Quando mai ti viene la buona idea di darmi da leggere qualche cosa di facile?” – mi dice il Tonto che è seduto accanto a me nello studiolo, dove mi ritiro la sera quando voglio restare solo, e sembra quasi schiumare di rabbia.

“Che posso farci questo è quello che ha scritto Fortini e non ho altri che te con cui parlarne … Lo hai letto?”

“Sì – mi risponde – mi è costata una fatica improba, sai quando si dice: aver “sudato sette camicie”? Ecco questo è stato il mio caso. Anzi mi son chiesto più volte chi fosse il pubblico a cui Fortini si voleva rivolgere.

Dice lui stesso: «Le quaranta righe erano quasi una scommessa metrica»…

Forse un gesto a metà strada fra saggistica e poesia?

Poi il pezzo è uscito su un inserto satirico.

Alla fine mi è parso quasi di trovarmi in una pagina dell’Ariosto, dove committente, autore e lettore si trovano di fronte a degli specchi deformanti. In una specie di castello di Atlante in cui tutti dicono qualche cosa ma l’esito non può che essere sostanzialmente un dialogo fra sordi. Non riuscendo a districarmi in questa foresta ho deciso, per non arrendermi, di prendere alla lettera il discorso di Fortini e di eliminare ogni ragionamento di stampo storico-filologico sull’importanza di quelle parole nel processo di evoluzione della sua ricerca. Si tratterebbe sicuramente di un’indagine degna di molta attenzione, visto il complesso percorso di Fortini all’interno e ai margini della sinistra storia e di quella extra-istituzionale dopo il ’68, ma è lavoro che richiede tempo e forza superiori a quello che possiamo mettere in campo durante una nostra discussione.

Allora I’unica strada percorribile mi è sembrata leggere quello che c’è scritto come se fossi, più o meno, quel lettore, non necessariamente introdotto nell’intricato dibattito delle idee della sinistra, che nel 1989 era alla ricerca di una risposta semplice e chiara alla domanda: «Cos’è il comunismo?»”

“Va bene – gli ho risposto – è una strategia come un’altra. Forse un poco riduttiva ma che consente di muoversi senza perdersi nel tuo castello di Atlante delle infinite interpretazioni …”.

  1. “Allora se sei d’accordo iniziamo.

A mio vedere l’intero discorso di Fortini gira intorno alla frase iniziale e si potrebbe quasi dire che si conclude lì: «Il combattimento per il comunismo è già il comunismo».

Visto che chi scrive queste parole è Fortini ho pensato che l’uso stesso dei singoli lemmi fosse ben calibrato. E allora mi sono chiesto perché «combattimento»? Se vai sul dizionario della lingua italiana della Treccani, non sono andato oltre nella ricerca, la parola «combattimento» presenta una accezione chiaramente cruenta: «l’azione del combattere» con esplicito significato militare o per lo sport legato a particolari attività, come la scherma o il pugilato, chiaramente violente o almeno teoricamente tali. Solo come ultima ed estrema accezione si parla di: «lotta interiore, contrasto interiore, travaglio spirituale» citando Manzoni.

Ora perché «combattimento» al posto della più tradizionale lotta?

Mi si dice che tale termine è parte della tradizione di certo dibattito etico-politico marxista. Non ne sono certo ma può benissimo essere probabile. Certo la scelta del termine «combattimento» sottende l’idea di una conflittualità radicale difficile da comprendere in un contesto come quello della fine degli anni ’80 quando di fatto la tendenza generale era a una scomparsa della stessa idea di opposizione sociale sostituita quasi ovunque da una logica di pacificazione nel compromesso fra classi e nella subordinazione dell’individuo alla legge del mercato.

Allora mi sono chiesto: una provocazione?

Oppure la permanenza di una idea di una forte conflittualità, quale era stata quella che aveva interessato il nostro paese negli anni settanta e a cui si faceva idealmente riferimento?

Non so …

Ma quello che maggiormente mi ha colpito è l’intera frase quasi che in essa l’esito e azione fossero meccanicamente la medesima cosa.

Ho avuto insomma l’impressione che si potesse verificare una perversa circolarità, una specie di loop, infatti se “Il combattimento per il comunismo è già il comunismo ne segue che il comunismo altro non è se non il combattimento per il comunismo”.

E mi sono trovato a ripensare a un tormentone giovanile come la canzone di De Andrè: Girotondo.

La ricordi …

Se verrà la guerra, Marcondiro’ndero
Se verrà la guerra: marcondiro’nda
Sul mare e sulla terra: Marcondiro’ndera
Sul mare e sulla terra chi ci salverà?

Son convinto che non si possa dare una risposta alla pressante domanda «Cos’è il comunismo» con la semplice e facile scorciatoia rappresentata dalla affermazione che lottando, anzi combattendo per il comunismo, già si introducono elementi che preannunciano quell’esito.

Può anche darsi che in ciò vi sia un pizzico di verità. Nel modo in cui si istituiscono i rapporti fra coloro che cercano di lottare per una società migliore vi possono essere dei segni di come essa potrebbe configurarsi.

Ma ciò certamente non basta.

Chi è disposto a mettere a repentaglio la propria esistenza per un qualche cosa di così nebuloso?

Gli individui quando agiscono lo fanno certamente reagendo a forme più o meno radicali di disagio ma tale stimolo non è quasi mai sufficiente. Vi è in ciascuno di noi una potente capacità di adattamento, sarei quasi portato a dire un istinto di sopravvivenza, che spinge ad adeguarsi al ruolo che la vita, il potere, l’economia, le stesse norme della convivenza ci  hanno imposto.

La risoluzione di romperle deve nascere da qualche cosa di molto forte che, accanto a un fattore di rifiuto, deve necessariamente presentare una polarità positiva ovvero almeno il segno di ciò che accadrà, una prospettiva per cui valga la pena impegnarsi. Vi deve essere una qualche motivazione potente per accettare di infrangere le regole, le abitudini, le piccole certezze su cui si è edificata la propria esistenza e decidere di trasformare la propria vita impegnandosi a lottare, accanto ad altri, per un progetto di società diversa.

L’incapacità o se si vuole perfino l’impossibilità, nella realtà data, di proporre un ragionevole modello a cui far riferimento costituisce forse la maggior causa per cui oggi è tanto difficile pensare di poter «combattere per il comunismo»”.

“Va bene – mi sono permesso di sottolineare – allora si tratta di cercare di definire, almeno in modo aurorale, cosa sia questo comunismo … Marx era stato chiaro si trattava dello spettro che si aggirava per l’Europa … ”

  1. “Si – ha continuato il Tonto – e Fortini, se ben capisco, cerca di dircelo nelle righe successive. Sinteticamente, poi vedrai che ci sono degli importanti elementi su cui è necessario ulteriormente ragionare, la sua risposta è che il comunismo si configura come: « la possibilità … che il maggior numero di esseri umani … pervenga a vivere in una contraddizione diversa da quella dominante».

Fermo la tua attenzione su due punti: «E’ la possibilità …» e «pervenga a vivere in una contraddizione diversa da quella dominante».

Per ciò che riguarda il primo che dire? In una età di relativismo quale è quella in cui viviamo come si può pensare a un disegno politico, qualsiasi esso sia, che non si presenti come una «possibilità». D’altronde qualsiasi agire politico, dacché l’uomo è diventato un “animale politico”, si è sempre costruito sul terreno della possibilità e non su quello della certezza e/o della necessità.  Ennio, che è il nostro compagno di riferimento in questa analisi, aggiunge: “contro ogni determinismo e rifiutando qualsiasi “legge della storia” o finalismo”. Come non dargli ragione? Ma attenzione, con la tendenza alla “rottamazione” in questi ultimi decenni si è spesso corso il rischio di gettar via, tanto per usare una immagine popolare, con l’acqua sporca anche il bambino.

Forse non vi saranno “leggi della storia” ma come negare che vi siano “tendenze della storia”, di cui la ricerca ha dimostrato oggettivamente l’esistenza e che tali tendenze abbiano una qualche loro razionalità?

Si tratta di una cosa che non possiamo negare pena il cadere nel puro irrazionalismo.

Certo questo non vuol dire accettare le formulazioni di una vuota retorica che hanno, per nostra sfortuna e forse in parte anche per nostra colpa, segnato in qualche misura il XX secolo. Ma ridurre la storia a una serie di “scommesse” è davvero piegarsi alla logica del nostro avversario, di quella borghesia che dice alle masse:

“Avrete anche poco ma panem e circenses nel complesso non ve li nega nessuno, perché metterli in discussione per una scommessa che, secondo la logica del calcolo delle probabilità, è a vostro sfavore?”

Non si tratta insomma, a mio modo di vedere, di parlare del comunismo facendo appello a quelli che sarebbero “valori per gli uni o disvalori e follie per gli altri” ma di ritornare sul piano della greve materialità.

La domanda giusta è: cosa offrono concretamente alle masse subordinate coloro che parlano di comunismo?

Ed è qui che la prospettiva di Fortini appare debole, di una tragica debolezza. Forse intellettualmente stimolante, invitante per chi ama giocare con i concetti, ma tragicamente debole per chi vuole risposte più pragmatiche: «perve(nire) a vivere in una contraddizione diversa da quella dominante».

Non c’è chi non veda che al posto di una proposta positiva viene offerta semplicemente l’idea che la storia dell’umanità altro non sia se non un angoscioso susseguirsi di infinite contraddizioni.

Mi domando e ti domando: “Chi è disposto a mettere in gioco la propria vita per risolvere una contraddizione e trovarsi subito a sbrogliarne una nuova, certo non meno ardua da sciogliere della precedente?”

Ennio aggiunge, ma ti faccio notare non Fortini, che si tratta di “uscire dal sistema capitalistico di produzione e riproduzione della propria vita”. Erano proprio queste, o altre più alate ma sempre di questo tenore, le parole che mi aspettavo da Fortini e aggiungo che non mi sarebbero risultate neppure pienamente soddisfacenti perché quel “uscire” andrebbe meglio definito altrimenti si corre il rischio ancora una volta di cadere nell’ideologia.

Nelle parole di Fortini c’è qualche cosa di ben più preoccupante quando definisce la «possibilità» come: «scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili».

La domanda che mi viene naturale è: “Chi è quel folle che si muove per qualche cosa che non sia dimostrabile?” Poi ti aggiungo: il comunismo è semplicemente un “sistema di valori”?

Come non provare una strana sensazione di trovarsi in un gioco di specchi fa idealismo e esistenzialismo, fra una qualche etica del dovere e una riverniciata di Kierkegaard.

A me avevano detto che il comunismo era il superamento dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Son forse obsoleto?

Invero Fortini una qualche descrizione della finalità del combattimento per il comunismo la offre con parole che perfino Ennio riconosce possono “meravigliare”: «Unico progresso, ma reale, è e sarà il raggiungimento di un luogo più alto, visibile e veggente, dove sia possibile promuovere i poteri e le qualità di ogni singola persona».

Mi si conceda ma l’uso di un’immagine così barocca: un «luogo più alto … veggente» mi par giustificabile solo come un facile esercizio poetico. Ennio nel tentativo di sbrogliarsi dall’inghippo cita “Rimbaud, il romanticismo, lo spirito delle metafore …”e allora perché non chiamare in causa Bernardo di Chartres, Guglielmo di Conches, Gilberto Porretano e soci?

La domanda che io mi pongo è più semplice: “un lettore normale ma sia chiaro anche uno di noi, che non abbia voglia di immergesi in una esegesi senza fine, come può reagire di fronte a tanta oscura ambiguità?”

In questo strano «luogo», ove a una contraddizione se ne sostituisce un’altra, dovrebbe essere possibile promuovere «i poteri e le qualità di ogni singola persona».

Forse io son proprio Tonto, ma quali sarebbero i miei poteri? Forse, lo ammetto, ho qualche qualità recondita, che sicuramente resterà tale, ma è proprio questa la finalità di quella lotta per il comunismo che ha avuto inizio con Marx?

O piuttosto in queste parole emergono reminiscenze della polis di Platone o forse anche della Civitas Dei del filosofo di Tagaste?

Ennio sottolinea la preoccupazione di Fortini di schierarsi contro ogni “annullamento omogeneizzante del singolo nel gruppo”. Si tratta certo di una grande lezione, che non si deve dimenticare, ma con due limiti ben precisi. D’un lato bisogna pur accettare il fatto che qualsiasi azione di massa, per quanto possa essere attenta al singolo, lo trasforma necessariamente in un elemento di un disegno più grande.

Inoltre come dimenticare che alla polarità opposta si situa l’Unico, l’egotismo estremo, sia nella forma anarchica sia in quella piccolo borghese, che alla resa dei conti ben poco si distinguono fra loro.

Si sarebbe portati quasi a dire che la storia ha delle sue tragiche leggi a cui non si può, con la rotondità delle parole, sfuggire.

Che poi giunti a questo punto Fortini ci tenga a chiarirci che è necessario rifiutare: «ogni favola di progresso lineare e senza conflitti» è cosa talmente ovvia da apparire superflua anche se mi risulta oscura la chiosa che ne fa Ennio quando aggiunge: “Fortini respinge ogni determinismo o attesa del crollo del capitalismo per un suo esaurimento endogeno”. Infatti, per quel che ne capisco, in un terreno come quello della teoria economica che è sovra ogni altro ostico, l’ipotesi del “crollo del capitalismo” non ha nulla a che fare con l’articolarsi della lotta di classe ma è legato a meccanismi insiti nel modello stesso, su cui almeno teoricamente l’individuo ha ben limitate possibilità di incidere. I due elementi, conflittualità sociale e tendenze insite nella dinamica economica del sistema, sono certo coagenti ma l’uno ampiamente svincolato dall’altro”.

“Facevo fatica a seguire Fortini ma tu mi metti in difficoltà, se si vuole, fin maggiori. L’unica cosa che mi ritorna nella testa, mentre ti ascolto, è la domanda: come avranno reagito il lettori di Cuore, credo fosse quello l’inserto umoristico de l’Unità in cui venne inserito il pezzo di Fortini, di fronte a tanta dottrina …

Ma andiamo avanti …”.

  1. “Se devo essere onesto la frase successiva mi è risultata se possibile ancora più ostica. Dopo averla riletta fin quasi a ricordarla a memoria mi sono chiesto: “Poesia o ovvietà?” e da questo dilemma non sono uscito.

Ecco cosa dice: «Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale, il conflitto è fra classi di individui dotati di diseguali gradi e facoltà di gestione della propria vita».

Ti farà ridere ma mi è parso di trovarmi nella condizione, ahimè lontana, di quando traducevo le prime frasi dal latino.

Chiarito che il soggetto è il conflitto, mi sono detto, sembra che Fortini abbia quasi paura di parlare di classi tout court e si faccia scudo con una formulazione ridondante come «classi di individui» quasi fossero possibili altri tipi di classi nel contesto di un’analisi della società. Non ci trovo, ma sarà certo una mia cecità, un qualche appiglio per poter dire che tale conflitto avvenga “anche nella mente e nei cuori degli individui” come sembra suggerire Ennio.

Piuttosto mi par del tutto ovvio, fino alla ovvietà, che esistono diseguaglianze fra gli uomini. Questa mi appare una constatazione indiscutibile mentre faccio fatica a individuare un qualche accenno al quesito se tali differenze abbiano, come vorrebbe Ennio, origine sociale o naturale, visto che ancora una volta un marxista e un materialista deve necessariamente riconoscere che, nel bene e nel male, ambo i fattori interagiscono fra di loro. Partendo dal presupposto, come ci insegna il maestro di Le Haye en Touraine, che: “la capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso … è per natura uguale fra tutti gli uomini …” come negare che tale facoltà sia presente in modo limitato in alcuni oggetti sfortunati e sia socialmente favorita in altri che hanno condizioni sociali privilegiate?

Invece devo riconoscere che anche qui, mentre sono di fronte a te e la rileggo un’ennesima volta, la prima parte della frase che stiamo analizzando mi risulta particolarmente oscura: «Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale …».

In questo caso come in qualche altro mi è fin venuta l’idea che Fortini si sia lasciato attrarre più dalla bellezza formale della frase che dal suo significato razionale o, forse meglio, dalla sua sensatezza. Infatti il buon senso vorrebbe che quando il conflitto diventa lacerante, tanto lacerante da superare i limiti della tollerabilità, assuma forme che conducono a una superiore consapevolezza quasi in modo naturale. Si verifica l’acquisizione di una coscienza di classe che unisce indistintamente gli individui al di là della loro maggiore o minore condizione di diseguaglianza, dando al conflitto sociale un volto imprevisto.

Sono i tornanti della storia in cui il basso livello di consapevolezza, legato a infiniti fattori fra cui forse la pigrizia o la semplice condizione di autodifesa e sopravvivenza, si trasforma in coscienza rivoluzionaria.

Ciò avviene “coordinandosi positivamente con altre intelligenze”, come vorrebbe Ennio?

O forse più semplicemente coordinando le azioni di coloro che di fronte all’estrema umiliazione e all’ultima offesa rompono il contratto sociale, che mostra il suo volto nascosto di intollerabile strumento di vessazione?

Lo dimostrano in modo palmare il giugno 1378 a Firenze, il luglio 1789 a Parigi, il febbraio 1917 in Russia”.

“Che dire, di fronte a tali prove – mi permetto di sottolineare – si potrebbe rispondere che si tratta di pagine di sangue … tragedie della storia”.

“Vabbè, nulla è più difficile che poter convincere chi è più realista del re, ma ti faccio notare che le prime due sono date della ascesa della borghesia, la storia lastricata di sangue è quella che ha visto la salita al potere di quella classe di individui che ora governa tramite il potere del dio mercato, mentre sì la terza è l’eccezione …

Ma in questo modo mi porti fuori strada.

Piuttosto la solita Fanta? … o siamo anche qui in ristrettezze …”.

Che fare? Son corso in cucina e ho preso due bicchieri e una bottiglia. Arrivato nello studio ho trovato il Tonto che stava rileggendo i suoi appunti e dopo aver bevuto un bel sorso di aranciata ha ripreso

  1. “Sembra un destino … Senza volerlo sto seguendo le orme di Ennio e stiamo cannibalizzando Fortini rigo per rigo. Si tratta di una scelta corretta? Questa è un’altra domanda che mi sono posto più e più volte leggendo e rileggendo questo testo. In fondo si tratta solo di un articolo di giornale. Nella silloge curata da Luca Lenzini per la collana i Meridiani di Mondadori, Saggi ed Epigrammi, non è neppure riportato. Come ben sai i Meridiani sono una specie di riconoscimento della statura dello scrittore a cui il volume è dedicato che viene riconosciuto come autore di riferimento della nostra storia culturale.

Potremmo pensare che quella esclusione abbia un significato. Che il curatore non lo abbia scelto potrebbe forse indicare una specie di giudizio di valore …

Comunque sia continuiamo il nostro cammino.

Dopo questo tentativo di definizione del comunismo Fortini sembra voler fornire una specie di esame della società o forse, meglio ancora, dell’umanità intera. Si tratta di una interpretazione articola in due momenti. Il primo, quello che analizziamo testé, lo divido per maggiore chiarezza in tre punti.

Il primo dice: «Oppressori e sfruttatori (in occidente quasi tutti; differenziati solo per il grado di potere che ne deriviamo) con la non-libertà di altri uomini si pagano l’illusione di poter scegliere la propria individuale esistenza».

Se posso dirti tutta la verità questa parte dello scritto mi è parsa davvero la più debole. Fortini sembra perdere completamente di vista ogni prospettiva storica, sociologica e critica trasformandosi in un facile ideologo manicheo, cosa che certo non lo rappresenta.

Che noi, che abbiamo avuto la ventura di nascere in occidente, si sia più o meno tutti necessariamente «oppressori e sfruttatori» è semplicemente una insensatezza. Vuol dire mandare al macero il pensiero di Marx e riprendere obsolete ideologie di stampo teologico-colpevolistico.

Fino a pochi decenni fa altro non eravamo se non una massa di operai e contadini, “la canaglia pezzente” come recitava una canzone, e oggi siamo schiacciati da una acuta illibertà caratterizzata da una flessibilità che interessa ogni settore della vita, ci strangola e ci impedisce di poter scegliere alcunché della nostra individuale esistenza. Come è possibile che ci dobbiamo assumere, partendo da questi dati di fatto, come una colpa l’altrui “non libertà”?

In questo modo Fortini sembra nascondersi e nasconderci il fatto che la società in cui viviamo qui in occidente è una società di classe come in qualunque altra landa di questo globo!

Accanto alle masse subordinate vi è un settore costituito dai veri privilegiati, loro sì «oppressori e sfruttatori»: la borghesia opulenta, imprenditori e finanzieri, certi settori dell’accademia, del mondo dei media e delle libere professioni che governano e manipolano le nostre vite.

Un mondo che, almeno in alcuni suoi settori, Fortini ben conosceva e di cui ci ha parlato proprio nella sua estrema opera la Lettera all’assemblea “per la libertà di informazione”, in cui lucidamente ci indicava quelli che erano i nostri nemici e i nostri falsi compagni.

Non ci si venga a dire che, avendo goduto per qualche decennio dell’occasione di partecipare alle briciole del banchetto della borghesia, usufruendo di un certo diritto al consumo, siamo necessariamente diventati partecipi a pieno titolo del suo disegno di dominio. Né mi sembra sensato colpevolizzare coloro che questo pur relativo benessere cercano di conservare e difendere.

Che facciamo: in nome del comunismo proponiamo il ritorno a una originaria condizione di universale penuria?

Ma se non bastasse continuiamo a leggere il successivo momento: «Quel che sta oltre la frontiera di tale loro libertà non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero nulla divoratore».

Secondo Ennio questo «nero nulla divoratore»  è la nostra pena da addebitarsi alla condizione a cui “riduciamo gli “altri”, i nemici … identificabile anche con l’Angoscia e la Morte”.

Che vuoi che ti dica a me sembra un frammento di un’opera di Bergman.

Quale sia quell’«oltre», su cui pone l’accento Fortini, mi pare davvero arduo dire e l’interpretazione di Ennio in certi momenti mi sembra d’occasione, fuorviante, legata più alle contingenze politiche del momento che alla oggettività del testo.

Il «nero nulla divoratore» mi farebbe piuttosto pensare al non-essere parmenideo, o se si vuole alla Grande Divoratrice del Libro dei Morti egizio o a un’altra, più o meno oscura, premonizione apocalittica di una qualche scuola fra quelle che si affaticano in questi settori di fantasticheria ideologica.

Invece sono convinto che anche di fronte all’estrema frontiera, quella della Morte, vi sia una qualche differenza, di una qualità tutt’altro che disprezzabile, fra il mondo in cui la affronta chi gode di una reale opulenza e coloro che diversamente fanno parte della grande massa.

La terza mossa è invece costituita dalle seguenti parole: «Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, della propria».

Ogni passo che vado compiendo nella rilettura di questo testo mi sembra tale da generare crescenti dubbi. Che qui giungono quasi al loro punto estremo.

Certo fra le persone che conosco e che ho conosciuto nessuna sacrifica la sua vita perché teme il «nero nulla divoratore». I più lo fanno perché devono rispondere a una serie di lacci e lacciuoli che segnano l’esistenza di ogni giorno, perché debbono far fronte a una serie di impegni a cui, volontariamente o per necessità, sono costretti a sottostare. Perché il vivere sociale impone, razionalmente o irrazionalmente che sia, le sue leggi e non sempre infrangerle è indolore.

Insomma nulla di superumano ma piuttosto di “umano, troppo umano”!

Certo vi è un altro settore della società, costituito da quelli che detengono ricchezza e potere, nei confronti del quale, per conclamata ignoranza, non mi permetto di esprimere giudizi, visto che correrebbero il rischio di essere poco fondati. Ciò nonostante mi rimane il dubbio che perfino lì, dove massimo è l’egoismo, dove gli animals spirits giungono al loro acme, i meccanismi che governano la vita siano più prosaici e semplicemente più banali di quel timore del «nero nulla divoratore» evocato da Fortini”.

“Il «nero nulla divoratore» mi stava per un attimo quasi inghiottendo … – gli dico sempre più sprofondato nella poltroncina – spero che il prossimo passo sia verso una maggiore luce”.

  1. “Non so se potrò accontentarti.

Tirerai tu le somme alla fine …

Se nella parte precedente eravamo tutti in qualche modo «Oppressori e sfruttatori» in questa saremmo tutti, secondo una qualche arcana formula che sembra fare il verso alla legge del contrappasso, «Oppressi e sfruttati».

Infatti Fortini, e anche in questo caso per rendere più chiaro il percorso lo articolerò in tre momenti, scrive: «Oppressi e sfruttati (e tutti in qualche misura lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e nella non-libertà della produzione dei consumi».

Ma è poi vero che siamo tutti: «Oppressi e sfruttati»? Consentimi di non crederci.

Vi sono sfruttati e sfruttatori e i nostri ruoli nel teatro della vita sono ben diversi.

Solo all’interno di una metafisica esistenzialista che tutto pialla, escludendo perfino quella parvenza di dialettica che in qualche misura è presente in Enten-Eller, è possibile affermare che le differenze fra noi sono solo legate al «grado di impotenza» e non alle forme di concreto sfruttamento e di alienazione indotti dal sistema di produzione di cui siamo strumenti.

Fortini sembra aver abbandonato, almeno per un momento, Marx per Leopardi e si arrovella intorno ad  una poetica della «inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile» dove elementi religiosi, di una religiosità quasi superstiziosa, in particolare la precarietà dell’esistere e la paura della morte, si congiungono con elementi economici e sociali, l’insensatezza della produzione di consumo. Principio quest’ultimo che se d’un lato appare non  privo di una sua profonda ragionevolezza da un altro sembra essere pericolosamente carico di un accento ideologico, quello di chi non ha mai conosciuto fino in fondo i morsi della povertà e della penuria. Esperienza questa che non riguarda purtroppo solo le grandi masse del sud del mondo ma, sia pure in forma limitata, anche quelle del nord e più in generale la memoria di tutti coloro che hanno vissuto e vivono nella condizione di servitù nei confronti del mondo dei padroni.

Non ci si venga a dire che “anche i ricchi piangono”. Può anche darsi, ma il loro pianto è diverso dal nostro. Nello sfruttamento del lavoro essi ricavano le possibilità di una condizione di privilegio che oggi più che mai sembra non conoscere confini.

In questa condizione per cui saremmo tutti ugualmente oppressi e sfruttati ad un certo punto sembra che Fortini si sia reso conto che qualche cosa di diverso può ben accadere. Innanzitutto si tratta di prender atto, secondo momento di questa triade, che: «Né gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con al loro speranza di trasformarsi, a loro volta, in oppressi e sfruttatori di altri uomini».

Fortini sembra dirci che, da un certo punto di vista, la condizione di quelli che potremmo chiamare gli oppressi-oppressi non è granché diversa da quella di tutti gli altri.

Tutti fanno parte di quella infinita messa in scena che è la vita. Un incastro di coazioni reciproche da cui è difficile uscire. E dove è forte la tentazione, anche da parte degli ultimi, di trovare una via d’uscita individuale cercando di affermarsi, costi quel che costi, nella “struggle of life” che tutti ci coinvolge.

La storia, in questa prospettiva potrebbe venire davvero rappresentata come una grande macina che tutto unifica nel suo continuo girare, per cui all’antico signore si sostituisce uno nuovo non meno rapace del precedente ed anzi spesso “col novo signore rimane l’antico” come ci ricorda Ennio rifacendosi a Manzoni .

Quale è però la causa di questo fenomeno? Questa è la domanda cui bisogna dar risposta.

E’ forse ontologica, antropologica, o storico-economica.

Evidentemente l’individuazione di una di queste come la causa determinante del farsi della storia porta a esiti ben diversi.

Ennio arriva a dire che: “nelle due vittoriose rivoluzioni socialiste del Novecento, non solo le élite degli oppressi ma gli stessi oppressi hanno accettato di opprimere e sfruttare”. Mi sembra di intravvedere in queste parole quello che, a livello della ideologia venduta alle plebi, è definito il fallimento del comunismo.

Mi chiedo se questo discorso non andrebbe ripreso liberandosi da orpelli ideologici prodotti dal discettare degli accademici occidentali e da una irrefrenabile autofagia di una sinistra che si è  nutrita troppo a lungo di miti e poi dal momento in cui si è rotto il giocattolo che a lungo ha adorato non fa che struggersi, strappandosi le vesti.

Ad esempio potrebbe forse essere utile prendere atto che la pianificazione tentata in URSS, come in ogni società industriale, si basava sul principio della crescita e dei mutamenti tecnologici, solo che “gli operai che gestivano in proprio il processo produttivo erano ostili a qualsiasi innovazione che potesse togliere loro l’iniziativa … divenuti responsabili del proprio lavoro nelle fabbriche erano destinati a fare meglio di Taylor e di Ford. In realtà gli operai hanno identificato il socialismo con il lavorare poco, rimanendo lavoratori esecutivi e non imprenditori di se stessi”. Non solo: “In teoria i quadri ex-operai, alfine divenuti responsabili del governo del paese, erano destinati a fare meglio di Roosevelt. In realtà il buon governo, desiderato dal popolo stava nella soddisfazione dei bisogni minuti del popolo” (R. di Leo) ma fra questi diversi elementi si è venuta nel tempo generando una tensione insuperabile.

I lavoratori divenuti in qualche misura padroni di se stessi si rifiutavano di farsi sfruttare pur scontando il fatto che in questo modo la produzione restava non all’altezza dei desideri di possesso di beni materiali secondo il modello consumistico dell’occidente. I popolo per contro voleva partecipare alla festa del consumismo ma non aveva sentore del prezzo che avrebbe dovuto pagare.

Forse iniziando a ragionare con parametri di stampo storico materiale di questo tipo si potrà uscire dalla trappola ideologica che rende impossibile anche a Fortini comprendere quello che è successo nel mondo degli oppressi senza fare di ogni erba un fascio.

Come fanno gli oppressi-oppressi a uscire dalla loro condizione? Fortini cerca di spiegarlo nel terzo momento del suo ragionamento: «Migliori cominciano ad esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori gli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze; ma anche flessibilità e amore per tutto quel che la promuove e la fa fiorire»

Qui l’argomentazione si fa finalmente più piana anche se non priva di qualche asprezza. Infatti Fortini ci ricorda che chi lotta per un mondo migliore deve avere una certa capacità di affrontare senza remore le difficoltà che si trova di fronte: «durezza e odio» nei confronti di ciò che si oppone al mutamento.

Certo la cosa non dovrebbe spaventare, basti pensare, tanto per fare un esempio, che perfino il “buonista” per eccellenza del nostro Risorgimento, il Mazzini intravvedeva come necessario esito del rinnovamento politico e sociale una fase di “dittatura rivoluzionaria” contro le inevitabili spinte conservatrici che si sarebbero fatte sentire dopo la realizzazione del processo unitario.

Come ben sappiamo la storia ha preso un’altra via e l’esito è stato quello che conosciamo …

Anche in queste righe però non manca un elemento che avrebbe richiesto necessariamente di essere meglio chiarito, infatti vien naturale domandarsi cosa si intenda per: «gestione sovraindividuale delle esistenze».

Detta così, come negarlo, è una formulazione anodina, valida per tutte le stagioni.

Come dovrebbe concretamente articolarsi una simile gestione? Chi si dovrebbe fare responsabile di questa attività se non altro coordinandola? Come mediare fra i diversi livelli e le diverse realtà locali e globali? Come non cadere in una inedita formula, certo fra gruppi piuttosto che fra individui, dell’eterno “bellum omnium contra omnes”?

Queste non sono che alcune fra le infinite domande che sorgono spontanee e a cui si dovrebbe cercare di dare una risposta pena il rischio che la «lotta per il comunismo» altro non sia che una vuota formula.

Evidentemente Fortini non ha, d’altronde chi potrebbe fargliene una colpa, le risposte a queste domande. Certo c’è un’esperienza, quella del socialismo reale del XX secolo, che con i suoi esiti ampiamente controversi rimane sullo sfondo della sua meditazione.

Le rivoluzioni del XX secolo infatti non sono riuscite a dare corpo alle speranze che avevano suscitato ed è questo il problema a cui Fortini cerca di rispondere nelle righe successive”.

  1. Mi permetto di interromperlo e dirgli: “Tonto e se questo punto lo vedessimo domani. E’ già mezzanotte suonata da un po’ e la mia testa è congestionata di pensieri tanto che faccio fatica a seguirti …”.

“No – dice con tono che non ammette repliche – chi pensa, anche solo pensa, di combattere per il comunismo deve saper resistere fino alla fine. E’ un imperativo categorico …”.

“Se così deve essere …” – aggiungo con un filo di voce.

“Fortini scrive queste sue righe nel 1989, questo non possiamo scordarlo. E’ il momento in cui si conclude di fatto l’avventura della rivoluzione bolscevica e la parabola dell’URSS. Il momento in cui la pubblicistica occidentale borghese enfatizzava al massimo le “infinite colpe” di quello che veniva definito l’Impero del Male. Una polemica che non si è mai sostanzialmente conclusa e che anche oggi, pur esprimendosi in forme meno radicali, non è certo esaurita, fruendo di una serie di topoi della retorica politica ammantata di scientificità accademica da quella dell’identificazione di tutte le esperienze storiche non liberal-borghesi con il Totalitarismo fino all’equiparazione fra fascismo e comunismo, visti come “Mali assoluti”.

Fa notare giustamente Ennio che in questo modo vengono facilmente omologati e condannati tutti coloro che: “hanno osato mettere in discussione i limiti oligarchici dello stato liberale (e) più tardi di quello socialdemocratico … gli unici movimenti che hanno tentato la rivoluzione e usato apertamente la violenza che i loro avversari democratici (e i loro eredi odierni) usavano e usano in modi soltanto più velati”.

Sarei portato a rafforzare il ragionamento di Ennio rammentando come l’imperialismo, il colonialismo e ora il neocolonialismo abbiano nel XIX e nel XX secolo lasciato una scia di sangue che non ha paragoni con la pur discutibile serie di violenze ed errori che hanno segnato la storia del socialismo realizzato. Mi vien naturale tornare con il pensiero a Gore Vidal, che certo non può essere accusato di simpatie comuniste, quando in un suo lavoro dopo aver enumerato centinaia di azioni belliche compiute dagli USA dopo il 1945 affermava: “In queste svariate centinaia di guerra contro il comunismo, il terrorismo, il narcotraffico e a volte contro niente di speciale … siamo sempre stati noi a sferrare il primo colpo”.

Io aggiungerei che in questi primi due decenni del XXI secolo, se possibile, la situazione è anche peggiorata, ne sono testimoni le guerre che un poco dappertutto fioriscono e vedono, incredibile a dirsi, perfino la rinascita di mire neocoloniali da parte di vecchie potenze decadute come la Francia e l’Inghilterra.

Ciò nonostante non si deve in nessun modo sottovalutare, sminuire o nascondere i gravissimi errori che hanno segnato i comportamenti di coloro che hanno cercato di opporsi, in nome di una prospettiva di radicalmente nuova, libera dalla servitù del mercato e rispettosa degli uomini, al capitale. Fortini proprio nel 1989 esprimeva chiaramente la sua condanna di quelle nefandezze però senza cadere in quei grotteschi ripudi che hanno visto tanti politici e intellettuali, colpiti sulla via di Damasco dalla luce del capitale, disconoscere e rinnegare ciò che fino a pochi giorni prima affermavano quasi come dato di fede. Le parole di Fortini sono, anche oggi, a quasi trent’anni da quella data, chiare e inequivocabili: «Il comunismo in cammino … è dunque un percorso che passa anche attraverso errori e violenze, tanto più avvertiti come intollerabili quanto più chiara si faccia la consapevolezza di cosa siano gli altri, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisce anche gli altri e viceversa».

C’è chi facendosi scudo di questi errori e di queste violenze ha trovato il modo di trovare un facile rifugio affermando di provare disgusto e orrore per la storia umana. Sarei portato a chiosare: “un facile rifugio, per chi è ben protetto dalla condizione di relativo privilegio da cui può pontificare”.

Quando mai la storia umana, per quel che ci è dato di sapere, non è stata costellata da violenze più o meno inenarrabili. Ma nel contempo quando mai la storia umana ha offerto tante potenzialità per liberarsi da queste violenze. Abbiamo gli strumenti per superare definitivamente quella che è stata la più grande remora allo sviluppo di una società migliore: la povertà, la penuria, la fame.

Non solo. Con la strumentazione di cui ci siamo dotati anche le malattie appaiono un naturale quanto controllabile vincolo della nostra vita a cui si può almeno in parte porre rimedio.

Ciò nonostante siamo sempre più oggetti di una realtà economica e sociale che ci usa e nei confronti della quale sembriamo ciechi. Incapaci di assumere la stazione eretta e di liberarci dal controllo di coloro che ci manipolano.

Fortini aggiunge: «Il comunismo in cammino comporta che gli uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita. Usati, ma sempre meno, come mezzi per un fine, un fine che sempre più dovrà coincidere con loro stessi».

Insomma non si tratta di pretendere che attraverso una palingenesi la megamacchina del potere, che ci schiaccia e ci governa, possa essere debellata. E’ invece necessario che ci si impegni per intraprendere una strada che ci porti ad essere soggetti e non oggetti della nostra esistenza. Non appendici incoscienti della struttura del potere ma uomini e donne che governano liberamente la propria esistenza.

Coloro che lottano per il comunismo non offrono facili certezze ma sono gli unici che cercano di porre lo sguardo oltre i limiti della schiavitù tecnologica a cui sembriamo destinati.

Non vi sono garanzie – ci tiene a sottolineare Fortini – infatti infrangere la macchina della politica tradizionale non è cosa che si possa realizzare da un giorno all’altro. L’ipotesi leniniana che la gestione dalla cosa pubblica si potesse con rapidità trasformare in un puro esercizio tecnico si è dimostrata infondata. Troppe sono le difficoltà, della più varia natura, che si oppongono al mutamento della politica in una attività da poter demandare a una “cuoca” mentre invece si palesa di fronte a noi il pericolo che decisioni di grande momento possano essere delegate a strumenti tecnologici, ad algoritmi che nella loro presunta oggettiva precisione sono privi di garanzie di minima responsabilità e umanità. Fortini, forte della tradizione umanistica di cui è stato portavoce per tutta la vita, ribadisce la centralità dell’uomo e della sua personale responsabilità. Siamo tutti coinvolti, nello stesso tempo soggetti e insieme oggetti di ciò che avviene intorno a noi. L’ignoranza, l’obbedienza cieca e l’acquiescenza irresponsabile non sono più tollerabili. Ciò è ancora più vero se pensiamo ai nuovi scenari che la storia pone di fronte a noi in questo tragico inizio del XXI secolo. Fortini ne era ben cosciente: «Ma chi dalla lotta sia costretto ad usare gli altri uomini come mezzi (e anche che accetti volontariamente di essere usato così) mai potrà concedersi buona coscienza o scarico di responsabilità sulle spalle della necessità o della storia».

  1. “L’esperienza della lotta politica richiede che chi si impegna in questa lotta abbia davvero caratteri speciali. Nulla di superumano ma una personalità temprata dalla misura dell’impegno. Si tratta di un identikit complesso e che richiede una indiscutibile forza d’animo. Infatti afferma: «Chi quella lotta accetta si fa dunque, e nel medesimo tempo, amico e nemico degli uomini. Non solo amico di quelli in cui si riconosce e ai quali, come a se stesso, indirizza la propria azione; e non solo nemico di quanti riconosce di quel fine nemici. Ma anche nemico, sebbene in altro modo e misura, anche dei propri fratelli e compagni e di se stesso, perché non darà requie né a sé medesimo né a loro, per strappare essi e se stesso agli inganni della dimenticanza, delle apparenze e del sempre uguale».

La prima parte del ragionamento è nel complesso assai lineare e ovvia: si tratta di essere vicini a chi si è liberamente e lealmente assunto l’impegno di lottare per un più alto disegno e riconoscere e combattere senza requie gli avversari.

La cosa diventa più ardua quando aggiunge che tratto decisivo del combattente per il comunismo è anche  il possedere una particolare forma di intransigenza che non conosce confini e che si deve rivolgere, ove se ne individui la necessità, anche contro coloro che combattono per la stessa causa del comunismo. Infatti, Fortini sottolinea come troppe volte i principi della lealtà, della disciplina, del rispetto dei compagni e della promessa fatta siano stati usati come un grimaldello per ingannare coloro che onestamente riponevano fiducia nei compagni e impedire che la verità si potesse affermare.

Di qui la giusta e ragionevole, ma nel contempo incredibilmente ardua, richiesta di essere vigili e non tollerare che le dimenticanze, i feticci delle apparenze, l’abitudine ad adagiarsi, adeguandosi supinamente a modelli e stili di pensiero sperimentati, possano pietrificarsi fino a diventare stilemi che in nome del rispetto del sempre uguale schiacciano la ricerca di una più compiuta verità.

Si tratta di rischi che inevitabilmente segnano la vita di coloro che lotta per una società migliore e si muovono nel teatro che il capitale ogni giorno confeziona, pieno di trappole e miraggi, per produrre un sempre crescente profitto e per mantenere inalterato il proprio dominio”.

“Questo mi par essere – mi sono permesso di intervenire visto che il Tonto si era improvvisamente fermato – un punto particolarmente difficile e che può generare dolorose memorie. Quante volte abbiamo visto e non solo nel teatrino della politica, dove si sa l’opportunismo, il trasformismo e il cinismo dominano incontrastati, ma anche nella vita della gente come noi compagni che fino al giorno prima avevano dei rapporti fraterni diventare improvvisamente spietati nemici.

Non guardarsi più in faccia, rifiutare il dialogo, parlare dell’altro come del maggior nemico …

Si tratta di pagine molto tristi che abbiamo in qualche misura sperimentato …”

“Basandosi sulla sua lunga esperienza storica Fortini offre alcune importanti indicazioni su quella che potrebbe essere la via che deve percorrere chi si impegna in un progetto politico comunista. Eccole: «Dovrà evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia che l’uomo possa uscire da propri limiti biologici e temporali. Questo errore, con le più varie manipolazioni, ha già prodotto e può produrre, dei sottouomini o dei sovra uomini; egualmente negatori degli uomini in cui ci riconosciamo. Ereditato dall’illuminismo e dallo scientismo, depositato dalla cultura faustiana della borghesia vittoriosa dell’ottocento, quell’errore ottimistico fu presente anche in Marx e in Lenin e oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale».

Sono parole per la grandissima parte anche oggi del tutto condivisibili. E’ indubitabile, e probabilmente non poteva essere diversamente, che Marx e Lenin fossero, sia pure in modi diversi, fiduciosi nello sviluppo delle tecniche come strumento necessario e imprescindibile di una liberazione dell’uomo dallo sfruttamento. Inutile qui indugiare nel tentativo di individuare le differenze che ci sono fra di loro e d’altronde certamente non potevano prevedere che il dominio della tecnologia si realizzasse nelle forme che noi oggi conosciamo. Forme che vanno perfino oltre quelle stesse che Fortini ha conosciuto nell’ultimo scorcio della sua vita e che delineano un inedito trionfo della maschera tecnologica del capitale capace di dominare le vite di tutti noi e manipolarle secondo i suoi disegni.

Forse ancora più di quello faustiano è il volto del dottor Jekyll, il dottore-scienziato prototipo di Stranamore, e del suo doppio mr. Hyde, il mutante espressione di una forza primigenia distruttiva e autodistruttiva, che meglio rappresentano la duplice natura del fianzcapitalismo. Sono essi che meglio incarnano il tentativo di «credere in un perfezionamento illimitato; ossia che l’uomo possa uscire da propri limiti biologici e temporali».

Giustamente Fortini conclude questa parte del suo discorso aggiungendo: «Quando si parla di al di là dell’uomo, è dunque necessario intendere al di là dell’uomo presente, non al di là della specie. Comunismo è rifiutare anche ogni sorta di mutanti per preservare la capacità di riconoscersi nei passati e nei futuri»”.

  1. “Resistere è parte delle caratteristiche che si richiedono a chi combatte per il comunismo – mi permetto di dire con voce sempre più flebile e le palpebre che tendono viepiù drammaticamente a chiudersi – ma, carissimo Tonto, qui si è fatta l’alba, abbiamo esaurito la mia riserva di Fanta e fra poco mi addormento fra le tua braccia. Che fare?”

“Dai, un ultimo sforzo, siamo ormai come Dorando Petri a pochi passi dal traguardo, non mi cederai come lui di schianto in questi ultimi attimi …”.

“Se avessi la speranza di ricevere una medaglia speciale dalla regina Alessandra forse lo farei … ma Alessandra è morta da più di un secolo e la nostra maratona non avrà certo la fama di quella di Londra, targata 1908, per cui mi apparecchio a seguirti per quest’ultimo miglio”.

“Bene, cercherò di essere breve per quanto il nostro autore lo permetta.

Oltre la dimensione costituita dalla materialità dell’umano, potremmo dire che per Fortini, giunti a questo punto e “disdegnando gli argomenti umani”, il comunismo non si risolve più in un semplice disegno politico, neppure in una weltanschauung, una visione complessiva del mondo, ma tende a diventare una vera e propria sintesi cosmica, dove l’ analisi critica lascia lo spazio a una pura dimensione intuitiva, non priva di una sua epicità.

E’ il poeta Fortini che prende decisamente il sopravvento.

Sentiamo le sue parole: «Il comunismo in cammino adempie all’unità tendenziale tanto di eguaglianza, fraternità e condivisione quanto quella di sapere scientifico e sapienza etico-religiosa. La gestione individuale, di gruppo e internazionale dell’esistenza (con i suoi insuperabili nessi di libertà e necessità, di certezza e rischio) implica la conoscenza delle frontiere della specie umana e quindi della sua infermità radicale (anche nel senso leopardiano). Quella umana è una specie che si definisce dalla capacità (o dalla speranza) di conoscere se stessa e di avere pietà di sé. In essa, identificandosi con le miriadi scomparse e con quelle non ancora nate è un atto di rivolgimento amoroso verso i vicini e i prossimi; ed è allegoria e figura di coloro che saranno. Il comunismo è il processo materiale che vuole rendere sensibile e intellettuale la materialità delle cose dette spirituali. Fino al punto di sapere leggere nel libro del nostro medesimo corpo tutto quello che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo; e interpretarvi le tracce del passaggio della specie umana sopra una terra che non lascerà traccia».

Che dire di fronte all’idea che nel comunismo, per altro un comunismo che si affatica in un inesausto cammino, si possa realizzare una tendenziale sintesi fra: «sapere scientifico e sapienza etico-religiosa»? Inutile chiedersi quale sarebbe stata la reazione di Marx di fronte a tale ardita ipotesi. Certo il passaggio dall’idea che la religione altro non sia se non l’“oppio dei popoli” al riconoscimento della «sapienza etico-religiosa» come costitutiva del comunismo il passo è davvero lungo.

Similmente l’idea che per la gestione della nostra esistenza sia necessaria la «conoscenza delle frontiere della specie umana» appare almeno ardita di fronte alla serie impressionante di scoperte scientifiche che mettono quasi ogni giorno in discussione le mappe della nostra conoscenza, dalla dimensione dell’infinitamente piccolo a quella dell’infinito.

Ciò sarebbe necessario perché, afferma Fortini, bisognerebbe riconoscere una cosiddetta, ma non meglio definita, «infermità radicale» del soggetto umano. Quale essa sia mi risulta oscuro, ma certo ciò è da addebitasi alla mia limitata capacità intuitiva.

Comunque sia, continua il poeta, la specie umana si definisce «dalla capacità (o dalla speranza) di conoscere se stessa e di avere pietà di sé». Se sul primo dei due aspetti è difficile avere dei dubbi, visti i lampanti risultati del lavoro umano, ben più problematico è comprendere come la specie umana possa avere pietà di sé. Qualche indizio potrebbe venirci se ci si ricorda che questo è un tema caro anche a W. Benjamin. Uno dei punti centrali delle sue Tesi sulla storia è proprio l’idea di una necessaria identificazione degli uomini con ciò che hanno alle loro spalle, le generazioni passate, e con il loro futuro. Ma mentre nel filosofo tedesco questo argomento non è privo di un accento tragico, la storia è un drammatico incedere fra cumuli di macerie che sembrano poter schiacciare perfino l’Angelo della storia, tutto ciò sembra essere scomparso dalla visione pacificata di cui si fa portavoce Fortini. Tanto che il comunismo tende a configurarsi, nella sua dimensione ultima, come: «il processo materiale che vuole rendere sensibile e intellettuale la materialità delle cose dette spirituali».

Come negarlo, a questo punto siamo davvero giunti a un altro livello rispetto alla modesta proposta rappresentata dal materialismo storico, siamo con il Divino Poeta: “puri e disposti a salire alle stelle” che in questo caso si identificano con la capacità di «sapere leggere nel libro del nostro medesimo corpo tutto quello che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo».

L’uomo fortinano si presenta come una specie di Andreas van Wesel impegnato nel titanico sforzo di comprendere quale sia l’essenza di una inedita simbiosi fra metafisica e antropologia che si presenta come l’essenza prima dell’umano.

Nonostante questo immenso impegno, materializzare l’immateriale e leggere il corpo in una sua dimensione meta-storica, l’uso dei verbi al passato, «fecero e furono», sembra indicare che questa estrema pacificazione non possa essere nelle nostre potenzialità. Noi non possiamo neppure con il comunismo, che giunto a questo punto dovrebbe aver finito di consumare i suoi stivali delle sette leghe, come il Divino Poeta disporci a cercare di penetrare in quel primo amore “che move il sole e l’altre stelle”, infatti è destino dell’umanità scomparire senza lasciar un segno del suo passaggio.

Non manca che un ultimo passo, infatti l’intero processo, ci vien detto, giungerà a una sua conclusione poiché la stessa: «terra non lascerà traccia».

Giunto a questo punto che dirti?

Tanta operare, tanto combattere per non lasciare traccia.

Pensandoci bene quest’esito una qualche punta di amaro la lascia nella bocca di chi si è apparecchiato per raggiungere il comunismo come Assoluto.

Infatti come non chiedersi perché tanto «combattere» se l’esito finale è il nulla?

Vanitas vanitatum.

Visto che già la luce dell’alba ci bacia la fronte, mi chiedo e ti chiedo perché non accettare una versione molto più dimessa del comunismo, almeno quello di Marx, che propone la ben più modesta prospettiva di liberare gli uomini dalla schiavitù dello sfruttamento del lavoro cercando di edificare una società più giusta o se si vuole almeno meno ingiusta?

Salvador Allende l’11 settembre del 1973 concluse il suo ultimo discorso, prima della morte, con queste parole: “mucho más temprano que tarde, se abrirán la grandes alamedas por donde pasa el hombre libre para construir una sociedad mejor”.

Come meglio definire il comunismo di queste semplici parole?”

“Mi risulta arduo cercare di fare una sintesi di quello che ci siamo detti questa sera. – inizio a dire visto che mi sento improvvisamente ritemprato e il Tonto sembra giunto davvero alla fine della sua fatica – Ci proverò con una battuta.

Tu affermi che il comunismo non è la panacea di tutti i mali. Non si tratta di costruire Platonopoli, la polis perfetta, la Città del Sole o un’altre mirabolante macchina del genere.

Il comunismo non rappresenta la soluzione di tutte le contraddizioni e le angosce, vere o fittizie, che segnano il lento incedere dell’avventura umana. Si tratta solo di scegliere se continuare a vivere nello stato di cose presenti o lottare per realizzare una “sociedad mejor”.

Il comunismo non è altro che uno strumento per liberarci da quell’impressionante macigno, rappresentato dal capitale e dalla sua logica del mercato, che blocca il nostro cammino e ci impedisce di vivere in una condizione di più alta libertà.

Cosa succederà dopo – mi sembra di aver inteso – è tema che a te poco interessa.

Una umanità pacificata potrebbe perfino cercare di realizzare quello che le poetiche immagini di Fortini ci tratteggiano nelle ultime righe del suo scritto.

Ciò sarà però un tema per un’altra pagina della storia dell’umanità.

Credo davvero che ci si possa fermare qui!

Alla faccia di quelli che ci ricordano che gli uomini sono impotenti, che la storia non è altro che una narrazione più o meno scritta per i gonzi, che tutto si ripete secondo una inesorabile necessità, visto che ho trovato ben riposta nel frigorifero un’ultima bottiglia di champagne ed è già mattina, ti invito caro Tonto a brindare alla memoria di Allende e a tutti gli Allende senza nome della storia e al comunismo come umana e fragile ma necessaria edificazione di una società migliore che, tanto per fare un esempio fra mille, nel 1973 i sicari del capitale impedirono di portare avanti in Cile attraverso massacri e violenze di ogni genere.

Certo mentre posso riconoscere il valore di molte delle tue critiche al saggio di Fortini resto convinto che le sue pagine più acuminate, quelle in cui la vena polemica poteva esprimersi liberamente, sono fra le cose migliori che la letteratura e la saggistica italiana della seconda metà del novecento abbiano prodotto.

Forse non siamo del tutto d’accordo sull’idea di comunismo che qui ci ha presentato, ma mi vien il dubbio che lui stesso se oggi potesse rileggere queste 80 righe non lesinerebbe accenti critici.

Manca nel panorama culturale di oggi una autorevole voce eretica come la sua …

Noi che sopravviviamo ai margini di questa morta gora, dove eccelle e domina solo la mediocrità, brindiamo alla memoria di Franco Fortini …”.

 

20 pensieri su “Il Tonto e il comunismo … di Fortini

  1. Non voglio commentare questo lungo testo, che fa seguito ad altri di uguale o anche maggiore lunghezza, in una discussione in cui si dimostra la capacità di analisi fino al classico pelo spaccato in quattro. Capacità che apprezzo, che spesso condivido, ma che però alla fine mi lascia del tutto insoddisfatto perché i temi concreti sono stati appena toccati, visto che il testo di Fortini non è molto adatto a discussioni concrete.
    Riprendo però i due cenni fatti su Allende e il Cile. Di Allende si cita un passo di uno dei suoi quattro ultimi interventi brevi a braccio, dal Palazzo della Moneda, prima che il golpe lo costringesse a tacere: «mucho más temprano que tarde, se abrirán la grandes alamedas por donde pasa el hombre libre para construir una sociedad mejor».
    Ma l’obiettivo di costruire una società migliore, almeno a parole, è di tutti. E certamente in Cile era di Allende come dei suoi avversari. Quindi, da un punto di vista analitico non ci dice nulla sul comunismo né su che cosa fare per arrivarci. È una bella frase retorica che, a parte la drammaticità del momento in cui è stata pronunciata, un oratore abile come Allende, esperimentato in tutte le battaglie politiche e parlamentari, ne ha pronunciate a migliaia nel corso della sua carriera politica durata oltre quarant’anni.
    E qui casca in campo il secondo richiamo ad Allende, nel brano: «necessaria edificazione di una società migliore che, tanto per fare un esempio fra mille, nel 1973 i sicari del capitale impedirono di portare avanti in Cile attraverso massacri e violenze di ogni genere».
    La frase ripete vecchi slogan degli anni Settanta ma non contiene la verità storica. Mi si permetta di rimandare al mio libro: Luciano Aguzzi, «Salvador Allende. L’uomo, il leader, il mito», Roma, Ediesse, 2003, che, a quel che mi risulta, è ancora oggi l’unica analisi storiografica del Cile di Allende che si basa sui documenti e non sulle passioni sui desideri e sulla propaganda degli anni Settanta.
    MI piacerebbe che Toffoli indicasse in modo meno generico «i sicari del capitale [che] impedirono di portare avanti in Cile attraverso massacri e violenze di ogni genere» un programma socialista.
    A me risulta (e risulta anche a diversi dirigendi allendisti che nelle loro memorie hanno discusso degli errori fatti nei tre anni di governo) che c’è stato un tentativo, in cui si può davvero parlare di killer, da parte della Cia e della ITT, di impedire ad Allende l’ascesa al potere, tentando di convincere la DC cilena a votare contro (cosa possibile in base alla Costituzione cilena perché Allende non aveva la maggioranza assoluta ma solo un 36,3% di voti – il candidato liberale ne ebbe il 34,9 e quello democristiano il 27,4 – e quindi la elezione era demandata al Congreso Pleno, cioè alla Camera e al Senato in seduta congiunta). Allende ottenne i voti della DC stringendo un accordo che poi non mantenette. Superata questa fase, non ci sono killer, ma solo legittima opposizione. Allende iniziò il suo periodo di governo non rispettando la Costituzione e via via si alienò gli appoggi delle forze politiche che avevano permesso la sua parziale vittoria e il suo governo rimase isolato e nell’impossibilità di agire perché non aveva la maggioranza in nessuno dei rami del Parlamento. Andò avanti tre anni con decreti presidenziali respinti dall’organo costituzionale di controllo, per cui, di fatto, governò extra-legem, e tutti i tentativi fatti dal Parlamento per convincerlo a tornare all’interno della Costituzione furono vani. Intanto la situazione economica, per i troppi errori, precipitò, dopo un anno in cui si consumarono le riserve ereditate, in una carenza di beni di ogni tipo e in un’inflazione alle stelle. I blocchi sociali che avevano appoggiato Allende cominciano a sgretolarsi e aumentano gli scioperi contro Allende, anche di settori operai tradizionalmente fedeli alla Ctch (Confederazione dei lavoratori cileni, a maggioranza comunista e socialista). Il governo di Allende, dilaniato dalla volontà di Allende stesso di evitare la guerra civile e da quella della maggioranza interna alle forze del governo che volevano lo scontro armato e il passaggio – secondo lo schema leninista – alla rivoluzione e alla dittatura del proletariato, non seppe perseguire una politica coerente né di tipo democratico né di tipo rivoluzionario. Ci fu il trionfo dell’esaltazione parolaia. A leggere oggi i molti discorsi dei capi più estremisti dei socialisti e del Mir i quali, a pochi giorni dal golpe, sfidavano i militare a scendere in campo perché così il governo avrebbe avuto l’occasione di fare piazza pulita di tutti i suoi avversari, come se fossero sicuri di vincere, mentre non avevano né armi né organizzazione né coraggio (dopo il golpe tipi come Carlos Altamirano si affrettarono a scappare e a combattere rimasero solo poche decine di militanti del Mir).
    A partire dalla fine del 1971, dopo un anno di governo, la situazione cilena era catastrofica, e non per colpa di inesistenti killer (un secondo intervento americano nel 1972 fu solo di appoggio diplomatico e di finanziamento parziale dello sciopero dei camionisti, ma non ci fu nessun intervento armato in nessuna forma. Finanziamento, per altro, inferiore di gran lunga a quelli ricevuta da Allende dai russi e dai cubani, i quali avevano una rappresentanza diplomatica di ben 1500 persone, quasi tutti guerriglieri armati).
    Come in tanti altri Paesi prima e dopo Allende (si veda la situazione del Venezuela, ad esempio), il governo socialista, minoritario elettoralmente (e al suo interno Allende era minoritario sia fra le forze di Unidad Popular sia nel partito socialista, cioè nel suo stesso partito la cui maggioranza era in mano all’ala leninista di Carlos Altamirano), non seppe risolvere né il problema di assicurare le riforme nella legalità – come aveva promesso – né assicurare un aumento della produzione industriale e agricola. Gli scaffali dei negozi divennero presto vuoti, si creò un fluente mercato nero spesso alimentato dagli stessi socialisti e sindacalisti, visto che la corruzione era diffusa; nelle fabbriche e nelle aziende agricole abusivamente occupate come in quelle legalmente requisite si passava più tempo in assemblee, scioperi e feste che a lavorare, per cui presto il Cile dovette cominciare a importare anche beni alimentari ed elettrodomestici che prima esportava. Si creò il caos economico. Ciononostante Allende non seppe scegliere e temporeggiò mentre la situazione si logorava giorno per giorno. Anche il suo uso strumentale dei militari cooptati nel governo fu una pessima manovra perché in circa otto mesi servì a bruciare e costringere alle dimissioni i militari più fedeli e a nominare al loro posto altri ufficiali via via più lontani dalle posizioni di Allende. Errori tattici e strategici di ogni tipo a cui Allende non volle far fronte perché incapace di prendere una decisione, la quale avrebbe significato allearsi con qualcuno per combattere qualcun altro. Ma Allende non volle combattere con nessuno né allearsi con la DC (o meglio, visto che un’alleanza c’era stata, rispettare l’alleanza già contratta) né con le posizioni più estreme conoscendo l’assoluta mancanza di forze necessarie per conquistare il potere con un colpo di Stato di sinistra. Intanto, mentre Allende è di fatto paralizzato dalla sua mancanza di scelta e dall’avere la maggioranza del suo governo contro, tutte le istituzioni del Paese, richiamandosi alla Costituzione, chiedono l’intervento delle forze armate per ripristinare la legalità. Lo chiedono i due rami del parlamento, gli organi di controllo come la Controleria del Estado (una specie di Corte dei conti con competenze anche di tipo costituzionale), tutti i partiti che non fanno parte del governo di Allende, le associazioni professionali (docenti, avvocati, architetti, ingegneri, industriali ecc.), una parte dei sindacati, associazioni di vario tipo e così via. La maggioranza del Paese chiede, per iscritto e con documenti ufficiale, che le forze armate intervengano a ripristinare la legalità, cacciando Allende, le cui mire dittatoriali erano ormai sotto gli occhi di tutti. Il bello è che – a mio parere – Allende non aveva, soggettivamente, questa intenzione, ma di fatto si comportava come se l’avesse perché spinto dalla sinistra del partito e del governo.
    In Cile la notizia del golpe circolava e i giornali lo avevano annunciato diversi giorni prima, addirittura prima che Pinochet, generale in capo dell’Esercito nominato da Allende e ritenuto a lui fedele, ne sapesse qualcosa. Erano l’Aviazione e la Marina le due forze armate trainanti. I generali che preparavano il golpe coinvolsero Pinochet solo due giorni prima. Questi, forte della superiore forza dell’Esercito, assunse presto il comando di tutta l’operazione.
    Ma anche di fronte a tutto questo e all’imminenza del golpe Allende non volle seguire i consigli del generale Prats, ex capo di Stato Maggiore, ex ministro e suo amico e consigliere personale, limitandosi ad annunciare, in termini non chiari, un discorso. Pensava, con un ennesimo discorso, di disinnescare la mina che stava esplodendo.
    Tutta la cronaca in tutti i suoi dettagli e l’analisi della situazione cilena ci dicono che le cause del golpe non furono esterne ma interne, le cause sono il fallimento della politica di Allende e la situazione caotica in cui era precipitato il Cile.
    Allende fallisce sia sul piano della promessa di un socialismo nella legalità, sia su quello di un maggiore benessere economico e maggiore uguaglianza. La situazione gli sfugge di mano, non riesce nemmeno a limitare la corruzione e i privilegi della casta, per la quale le carenze dei prodotti contingentati non valeva.
    Non i killer capitalisti hanno ucciso il socialismo in Cile, ma l’incapacità di dimostrare che il socialismo era quella società migliore voluta dai cileni. Fra i firmatari degli appelli per l’intervento militare non è raro incontrare nomi di persone, politici, sindacalisti ecc. che avevano appoggiato Allende distaccandosene poi delusi dalla sua politica confusa.
    L’analisi dettagliata e concreta della politica di Allende non è mai stata fatta dalla sinistra italiana, che è passata subito, come se si trattasse di uno stesso capitolo, alla condanna del regime di Pinochet.
    Certamente Pinochet non ha attenuanti negli anni in cui ha governato. Non ha rispettato la richiesta di rimuovere Allende per convocare nuove elezioni presidenziali, ma ha approfittato della situazione per instaurare un potere personale. Non ha ripristinato la legalità ma ha avuto ambizioni più ampie e profonde: contrastare non solo Allende ma tutta la politica che, nei vent’anni precedenti, aveva maturato una spinta che gli storici cileni chiamano utopistica includendo fra i governi protagonisti di questa spinta anche i predecessori di Allende, il liberale Jorge Alessandri e il democristiano Eduardo Frei Montalva. Quello di Pinochet, a torto considerato una specie di gorilla sciocco, come usa fare la sinistra italiana che anziché studiare le ragioni del nemico preferisce demonizzarlo e metterlo in ridicolo, è stato un programma politico con forti radici culturali nella tradizione cilena, portato avanti con intelligenza e polso fermo, che ha avuto effetti positivi (dal punto di vista della metà e più della popolazione cilena), in due direzioni: la prima è quella delle riforme economiche e istituzionali, la seconda è quella della creazione di un fondamento ideologico di tipo autoritario e antidemocratico. Nella prima direzione ha ottenuto diversi successi e l’appoggio della popolazione: in pochi anni il Cile ha superato la situazione lasciata da Allende ed è tornato ad avere una delle economie più forti del continente latinoamericano. Successi dimostrati, fra l’altro, anche dal fatto che le riforme di Pinochet sono state quasi tutte conservate anche nei successivi governi democratici di unione fra democristiani e socialisti e anche a direzione socialista, che si sono susseguiti dal 1990 in poi. Nella direzione dell’autoritarismo antidemocratico Pinochet ha invece suscitato una graduale opposizione che alla fine, col plebiscito del 1988, lo ha costretto a farsi da parte.
    Ma anche sul perché Pinochet abbia potuto resistere per quindici anni e sul perché ancora oggi una percentuale consistente dei cileni, certamente superiore al 35%, considerino il periodo di Pinochet un periodo di benessere per il Cile, in Europa non è mai stata fatta un’analisi adeguata, preferendo tagliare gli argomenti con i vecchi slogan.
    Il caso cileno è emblematico anche ai fini della discussione sul comunismo qui in corso. Secondo le promesse di Allende e dei programmi di Unidad Popular il comunismo significava: più uguaglianza, salari più alti, maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro, migliore previdenza e assistenza, più libertà politica, sindacale e culturale, scuola per tutti, case per tutti e così via. E il tutto da realizzare gradualmente rispettando la legalità. In una prospettiva più lontana si prevedevano profonde riforme istituzionali (parlamento, sistema elettorale ecc.) e la creazione del Potere popolare. Una sorta di previsione di scioglimento dello Stato i cui poteri passavano alle assemblee popolari costituzionalizzate.
    Ma le divisioni interne, le tattiche e le strategie confuse e contraddittorie, l’illegalità, il rifiuto della prudenza e della gradualità, la demagogia alle stelle di troppi dirigenti, la perdita di controllo sull’economia e le misure d’emergenza per far fronte ai problemi urgenti che creavano altri problemi ancora più gravi per l’indomani, l’incapacità di troppi dirigenti, dimostrata sul campo, di dirigere aziende e imprese con efficacia e di gestire i processi complessi a tutti i livelli, provocando danni irreparabili, il deteriorarsi della situazione in tutti i suoi aspetti, hanno portato al fallimento.
    Se dobbiamo parlare di killer del socialismo cileno, dobbiamo dire che il killer numero uno, per quanto involontario, è stato Allende, che ha sottovalutato i problemi, le difficoltà e le conseguenze delle sue azioni.
    Cuba ha resistito alle pressioni Usa, ben più forti di quelle rivolte al Cile, ma ora si avvia al suo 1989 perché è al collasso, e anche in questo caso il collasso è determinato dalle deficienze interne, soprattutto dal problema della libertà e legalità democratica e da quello di un efficiente sistema economico.
    È di questi problemi, a mio parere, che dovrebbe discutere chi vuole discutere di comunismo. Di come arrivarci senza togliere la libertà ai cittadini e producendo condizioni di vita migliori e non peggiori di quelle che garantisce il capitalismo.

  2. @ Aguzzi. Faccio alcune domande, ingenue, e alcune osservazioni, ingenue altrettanto.
    Come si concilia un Pinochet che si decide al colpo militare due giorni prima con un Pinochet che reprime poi il popolo cileno nel modo orrendamente sistematico e continuativo che sappiamo? Golpista occasionale ma dittatore feroce e sistematico: quadra?
    Cuba è arrivata poverissima agli ultimi anni, tuttavia con un sistema sanitario e scolastico eccellenti. Per essere stato un inefficiente sistema economico ha fatto delle buone scelte!

    1. @ Cristiana Fischer. In Cile c’era una tradizione consolidata (sebbene vi furono delle eccezioni) di fedeltà costituzionale da parte delle Forze Armate. Il Cile, considerato «la Svizzera latinoamericana», non ha avuto la tradizione di caudillos e colpi di Stato di pressoché tutti gli altri paesi del continente latinoamericano. Da ciò il fatto che le Forze armate furono restie ad un intervento contro Allende e che solo l’appello generalizzato di oltre metà del Paese e, negli ultimi mesi, imponenti manifestazioni di massa contro Allende, le spinsero ad agire. Ovviamente Pinochet non era, a differenza del suo predecessore Carlos Prats a capo dell’Esercito, un allendista. Ma si atteneva alla legalità. Per questo i golpisti più radicali lo tennero all’oscuro fino all’ultimo, ma poi coinvolgerlo divenne obbligatorio perché la Marina e l’Aviazione, senza l’appoggio dell’Esercito, non avrebbero concluso nulla. Inoltre la quarta forza armata cilena, i carabinieri, era una forza considerata fedele ad Allende. Pinochet, messo di fronte ad un golpe già in gran parte preparato, si prese alcune ore per riflettere, consultò altri generali dell’Esercito e visto che vi era un orientamento anti-Allende abbastanza vasto, decise di porsi a capo della faccenda. Non farlo, avrebbe per lui significato entrare ugualmente in politica, ma come allendista cominciando ad arrestare i complottisti. Lui, come tanti altri capi delle diverse forze armate, costretti a scegliere fra appoggiare il governo Allende ormai screditato o aderire al golpe, presentato però come ritorno alla Costituzione, preferirono questa seconda scelta più consona alla tradizione costituzionalista delle forze armate stesse. A questo punto della cronaca, cioè a pochi giorni dal golpe dell’11 settembre 1973, tutta la classe politica democristiana, radicale e liberale (oltre le destre più estreme) era per l’intervento militare contro Allende. Furono a favore dell’intervento anche personaggi poi schieratisi contro Pinochet, fra i quali lo stesso giudice che più tardi lo processò. Sono centinaia le testimonianze di persone che hanno poi rischiato la vita contro Pinochet che hanno dichiarato che, nel settembre 1973 hanno appoggiato il golpe perché gli era sembrata l’unica strada per ripristinare la legalità costituzionale.
      Ciò che cambiò completamente la prospettiva dopo l’11 settembre è il fatto che Pinochet prese in mano la situazione, trasformò il potere della giunta provvisoria di governo in una dittatura personale e attuò un vasto e radicale piano di riforma del sistema cileno secondo le linee di una corrente di pensiero già presente in Cile da decenni e che vedeva in Allende solo la deriva, più estrema ma conseguente, di un processo politico iniziato dagli anni Cinquanta. Questa corrente accusava i liberali di Jorge Alessandri, i democristiani, i socialisti e i comunisti di trasformare il Cile da Stato costituzionale di tipo occidentale tradizionalista a Stato comunista e di portarlo nella sfera dell’Urss. Dal loro punto di vista non avevano torto, basti pensare che molte riforme di Allende si basavano su leggi dei precedenti governi democristiani e liberali.
      Pinochet, in sostanza, attuò un programma che mirava a riportare il Cile indietro di oltre vent’anni. Indietro ideologicamente, ma non dal punto economico e tecnologico, perché in questi settori fu abbastanza intelligente da chiamare in Cile grossi nomi, economisti e altri studiosi di primo piano, che lo aiutarono ad attuare giuridicamente e tecnicamente le riforme che riportarono il Cile, in pochi anni, fra i Paesi latinoamericani con maggiore sviluppo.
      Anche sul piano della repressione Pinochet si dimostrò intelligente. Temendo che la capacità rivoluzionaria vantata dagli estremisti socialisti avesse qualcosa di vero (mentre si rivelò del tutto inesistente), fu estremamente rapida e violenta nei primi tempi, tanto che, di fatto, non ci fu la minima reazione armata al golpe, salvo da parte di poche decine di militanti del Mir. Ma assai blanda in seguito. Orrenda e sistematica sì, la repressione lo fu, ma in nulla paragonabile a ciò che avvenne in Argentina e in altri Paesi vicini. In tutto il periodo del governo Pinochet (settembre 1973 – 1988) ci furono in totale 3.192 morti per motivi politici (dati ufficiale della commissione d’inchiesta dei governi socialisti e democristiani successivi), compresi i morti di parte governativa (militari, carabinieri, poliziotti) uccisi in attentati contro Pinochet. Si tratta appena del 10% dei morti ammazzati in Argentina. Pinochet partecipò agli accordi internazionali di repressione (il Piano Condor e altro) ma nello stesso tempo cercò di non spaventare, all’interno del Cile, le forze borghesi che lo appoggiavano. È per questo che ancora oggi molti cileni non considerano il periodo di Pinochet come un periodo di terrore, ma piuttosto come un periodo di rigido ritorno all’ordine. Tuttavia il desiderio di ritornare alle elezione aumentò col passare degli anni e nel 1988 i cileni, a maggioranza, ritennero che il governo di Pinochet, con le sue caratteristiche di provvisorietà e di emergenza, non aveva più senso.
      In quanto a Cuba, lasciando perdere ogni altra considerazione perché non è il caso di dilungarsi qui, ora, basti solo dire che le sue condizioni economiche, sanitarie e scolastiche nel 1959 erano fra le migliori del continente latinoamericano. Disastrose, sì, per gli standard europei, ma nulla di paragonabile alle condizioni del Guatemala o, che so io, della Colombia o di altri Paesi simili.
      È significativo che i due tentativi più avanzati di costruzione di una società socialista siano avvenuti proprio nei due Paesi latinoamericani più sviluppati e più vicini, per tradizione, usi e costumi ed anche per presenza di sindacati e partiti operai, ai Paesi occidentali borghesi. Mentre nei Paesi molto più segnati dalla miseria i tentativi rivoluzionari non ci furono, o se ci furono abortirono presto o degenerarono in forme di banditismo e narco-traffico con un contenuto politico e sociale sempre più debole.
      In quanto alle buone scelte di Cuba, sulla loro esistenza ed efficacia bisognerebbe chiederlo ai cubani ridando loro la libertà di parola e di voto.

  3. Carissimo Aguzzi

    Ho letto con grande interesse la sua argomentazione.
    Ovviamente la prima cosa da notare è che la citazione dell’ultimo discorso di Allende era semplicemente un ulteriore espediente per dimostrare la difficoltà di prospettare anche un ancora parziale mutamento dei rapporti di forza in una società liberal-borghese.
    Mi dispiace che anche a lei come ad altri venga l’orticaria quando si parla di capitale. Onestamente non so come aiutarla a liberarsi da questa insofferenza.
    La sua ricostruzione degli ultimi mesi di Unitad Popolar è ampiamente accettabile. Come non ricordare il conflitto fra coloro che puntavano sull’ “avanzar sin transir” e la destra che manifestava lungo le piazze di Santiago. Allora c’eravamo e i media italiani, nella più parte, televisione compresa, erano a favore della reazione.
    Non mi soffermo ulteriormente sulla sua ricostruzione, ma mi vien quasi naturale pensare a un ennesimo esempio di “revisionismo storico” simile a quello di un giovane e rampante storico che qualche anno fa ha impegnato centinaia di pagine per dimostrare che la Guerra civile in Spagna era tutta colpa dei comunisti.
    Un po’ come Fiano che finalmente ci ha detto che nazismo e comunismo sono se non identici abbastanza simili.
    Quello che mi preoccupa nella sua ricostruzione è che, visto che lei parla di democrazia, mi sembra di notare che sul tavolo, su cui si giocò la partita in quel tragico 1973, c’era qualche cosa di stonato.
    Se si tratta di democrazia il gioco è politico e riguarda i partiti politici. Forse ha ragione quando dice che Allende cercava di forzare le regole del gioco, ma forse anche quello fa parte della partita politica in una società che si vorrebbe democratica. Come ben sappiamo sul tavolo c’erano, oltre al Allende e al suo avversario la Democrazia Cristiana (per pietà non facciamo battute su quella democrazia) un terzo giocatore con tanto di pistola (aerei, navi, carabineros e soci) che, forse mi sbaglio, ma in un gioco democratico non ci dovrebbe stare. La cosa grave è che lei sembra dimenticare che in quella partita c’era un quarto giocatore, una specie di spettro. Non credo sia difficile intuire a chi penso : se le dico CIA. Se le dico Kissinger …
    Credo che lei sollevi un problema vero e sia pure sinteticamente è necessario dire due cose.
    Probabilmente le nostre divergenze hanno una origine antica. Risalgono al 1789. Lei pone l’accento sul concetto di Libertà, io su quello di Uguaglianza. Probabilmente qui è arduo trovare una qualche forma di mediazione. La sua idea di libertà è certamente carica di una grande idealità che rispetto, ma la libertà che vedo nelle società che si autodefiniscono democratiche è la libertà di imbrogliare, di evadere, di corrompere e di farsi corrompere, di usare per fini privati soldi della comunità, di tradire il mandato dei propri elettori e di combattere guerre a destra e a manca, di ordire colpi di stato e violare senza pietà ogni regola pur di mantenere il primato dell’Occidente. Ciò mi appare la forma più alta di barbarie e perciò alla sua Libertà oppongo la parola d’ordine: Socialismo o Barbarie. Il primo è un disegno che bisogna insieme cercare di costruire, come alla fine diceva anche il Fortini, la seconda è la tragica realtà in cui viviamo.
    Con immutata stima

    Giulio Toffoli

    1. Nel passato ho militato in un gruppo che aveva per motto proprio «Socialismo o Barbarie». Sono convinto, e l’ho scritto più volte anche in qualche commento in questo blog, che la democrazia è solo una variante del totalitarismo, quindi posso concordare con le sue osservazioni sui limiti della democrazia occidentale (o di qualunque altro segno della rosa dei venti). Credo però che senza libertà non c’è nemmeno uguaglianza, almeno quella possibile e costruibile con la politica. E soprattutto credo che se una proposta politica, la si chiami socialismo o comunismo o in qualsiasi altro modo, non mi dà qualcosa di più, in termini di libertà e qualità della vita, di ciò che già ho, non fa per me.
      In quanto al capitalismo, il termine non mi dà l’orticaria. Ma l’orticaria mi viene quanto sento parlare di anti capitalismo senza dirmi quale alternativa si proponga. Di solito i nemici del capitalismo si limitano, di fatto, a proporre un tipo di capitalismo meno efficiente e meno egualitario: il capitalismo di Stato in mano a ristrette e corrotte élite politiche. Grazie, preferisco un menù diverso.
      Infine, sul ruolo della Cia, di Kissinger e altri nella vicenda cilena, ho scritto molte pagine nel mio libro che citavo ieri ed è qui impossibile ripetermi. Comunque, il nocciolo della questione è questo: Allende cadde per le sue contraddizioni interne, non per l’intervento della Cia, qualunque peso si voglia dare alla Cia.

  4. APPUNTO 1

    *Mia mail a Giulio Toffoli in risposta alla prima bozza de « Il Tonto e il comunismo … di Fortini»

    Caro Giulio,
    ho fatto una lettura veloce ma non sono stupito da questo tuo prossimo Dialogo con il Tonto. Avevo intuito nel prolungato silenzio dopo le mie pubblicazioni ( e non solo da parte tua) che esse erano accolte da una forma di scetticismo o opposizione silenziosa che faticava a venir fuori (escluso il caso della Fischer e di Aguzzi).
    Ora anche tu smonti lo scritto di Fortini e, in parte, il mio commento. Con obiezioni rispettose ma che in alcuni punti trovo, nella sostanza, simili a quelle della Fischer, di Aguzzi e di Partesana.
    In fondo però mi va bene che tu lo faccia. Questo modo chiaro di smitizzare la figura di Fortini e di spazzar via un certo ossequio di facciata nei suoi confronti, tirando fuori critiche latenti nel retropensiero di molti, è preferibile alla ripetizione scolastica del suo lascito. D’altra parte lancia una bella sfida a me. Che non manco di dubbi e non voglio essere inchiodato nel ruolo di suo difensore d’ufficio.
    Rifletterò a fondo su tutte le tue obiezioni e replicherò, per quel che posso, dopo la pubblicazione del pezzo appena mi manderai la versione definitiva. É importante che il discorso critico si approfondisca e vada fino in fondo.
    Tra l’altro, proprio ieri avevo ripreso in mano la bozza di un mio “quasi libro” – qualcosa che sta tra diario, cronaca e riflessione – intitolato «Nei dintorni di F.F.», che non so se riuscirò a finire per quest’anno, in cui cade il centenario della sua nascita. Vorrebbe essere, se ci riesco, un rendiconto del mio rapporto con lui e le sue opere.

    Non entro nel dettaglio adesso dei singoli passaggi del tuo articolo. Su alcuni mi pare che ci siano delle incomprensioni da parte tua dovute, secondo me, ad un materialismo molto rigido e al rifiuto o indifferenza verso la psicanalisi e il pensiero religioso. Credo poi che questo articolo, proprio perché apparentemente secondario (anche per Partesana e per Lenzini, che l’ha espunto, come tu hai notato, dal “Meridiano”), è magari più rivelatore sia di debolezze ( vere o presunte) di Fortini sia dei suoi meriti. E che possa avere – come sta avendo mi pare – la funzione di cartina di tornasole per chiarire anche le nostre idee. Fosse pure per la cerchia di Poliscritture.
    Aggiungo che gioverebbe un confronto tra questo e altri scritti sul comunismo di Fortini per valutarne il peso, ma è uno studio che non ho tempo di fare.
    Quindi il mio invito è a completare la revisione della bozza appena possibile, poi pubblichiamo e si vedrà.
    Un caro saluto
    Ennio

  5. APPUNTO 2

    • Mail di Pia Mondelli, che fu amica di F. Fortini e coautrice con Carlo Fini e Luca Lenzini di «Indici per Fortini», Le Monnier, Firenze 1989

    Caro Ennio,

    vorrei rassicurarti. Il Fortini ridotto a reliquia di un tempo antichissimo senza alcuna relazione con il presente; il Fortini oggetto di culto acritico da parte di imbecilli che pretendono di custodire le sue verità; il Fortini disperato e nichilista senza saperlo, ostinatamente aggrappato a idee da lungo tempo sconfitte e insostenibili; il Fortini profeta impotente, contemplatore di paesaggi di rovine; il Fortini oracolo di una fede ormai incomprensibile; questo Fortini esiste solo nella fantasia limitata di persone che non sanno guardare al di là del proprio ristretto orizzonte, che non hanno alcuna curiosità per i conflitti aperti nel nostro presente. Rassicurati, si tratta di persone che non contano niente al di là del loro asfittico ambiente familiare e lavorativo (spesso è quello dell’accademia), influenzano solo il pubblico che ama trovare conferme della propria incapacità di vedere le resistenze che attraversano il presente, incapacità contrabbandata per disperazione storica e drappeggiata della sua solennità.
    Sia chiaro: che una bella schiera di giovani universitari dedichi la sua scienza a esplorare e mettere in valore la formidabile letteratura fortiniana, io lo trovo indispensabile e meritorio.
    Ma sono d’accordo con te quando dici che è necessario rendere giustizia all’artista-filosofo-militante Fortini nei luoghi e nelle maniere che lui avrebbe gradito: per esempio collocandolo nella genealogia del pensiero comunista più attuale, come è stato fatto in questo recente convegno tenutosi a Parigi sulla cosiddetta Italian Theory, convegno che è stato una delle numerosissime occasioni di dibattito e confronto fra intellettuali e militanti al centro dei grandi movimenti che oggi agitano i continenti. ( http://www.euronomade.info/?p=1670).

    Ti manderò appena posso qualche pagina in cui Jacques Rancière, secondo me una delle migliori menti del nostro panorama (molto seguito, molto influente), riprende e attualizza alcune pagine dei Cani del Sinai.

    Insomma Franco Fortini è ben vivo e riconosciuto dove lui ha sempre voluto stare: i luoghi del conflitto, della resistenza, della speranza.

  6. APPUNTO 3

    Quest’è il commento che avrei desiderato – che presuntuoso, eh! – sotto la mia riflessione su ‘Comunismo di F. Fortini’. L’ho trovato grazie agli stimoli sprovincializzanti venutimi da un’amica di vecchia data, Pia Mondelli.
    Faccio notare che l’articolo è apparso nel 2011 su ‘alfabeta2’ ma, da allora, non ha ricevuto alcun commento. [E.A.]

    Comunisti senza comunismo?
    Pubblicato il 17 aprile 2011
    di Jacques Rancière
    https://www.alfabeta2.it/2011/04/17/comunisti-senza-comunismo/

    Stralcio:

    Quando dunque diciamo che l’ipotesi comunista è quella dell’emancipazione, non dobbiamo dimenticare la tensione storica tra le due ipotesi. L’ipotesi comunista non è altrimenti possibile se non sulla base dell’ipotesi dell’emancipazione. È possibile unicamente come collettivizzazione del potere di chiunque. Ma, fin dalle sue origini, il movimento comunista – con questo intendo il movimento che si è dato per fine la creazione di una società comunista – è stato impregnato dal presupposto contrario, il presupposto inegalitario nelle sue diverse forme: ipotesi pedagogico-progressista della differenza delle intelligenze; analisi contro-rivoluzionaria della Rivoluzione francese come schiusura dell’individualismo che distrugge le forme tradizionali di comunità e di solidarietà; denuncia borghese della selvaggia appropriazione delle grandi parole, delle immagini, delle idee e delle aspirazioni da parte dei figli del popolo, ecc. L’ipotesi dell’emancipazione è un’ipotesi di fiducia. Ma lo sviluppo della scienza marxista e dei partiti comunisti l’ha mischiata al suo contrario, una cultura della sfiducia fondata sul presupposto dell’incapacità della maggior parte di vedere e di capire.
    Molto logicamente, questa cultura della sfiducia ha fatto propria la vecchia opposizione comunista tra il comunista e l’operaio. Lo ha fatto nella forma di un double bind, squalificando l’entusiasmo dei comunisti in nome dell’esperienza dei lavoratori e l’esperienza dei lavoratori in nome del sapere dell’avanguardia comunista. Di volta in volta il lavoratore vi ha svolto il ruolo dell’individuo egoista, incapace di vedere oltre i propri interessi economici immediati, e quello dell’esperto formato dalla lunga e insostituibile esperienza del lavoro e dello sfruttamento. Il comunista, da parte sua, ha svolto il ruolo dell’anarchico piccolo-borghese, impaziente di vedere le proprie aspirazioni realizzarsi, pronto a mettere in pericolo la marcia lenta e necessaria del processo, o il ruolo dell’istruito militante interamente votato alla causa collettiva. […]
    Non vale la pena consacrare molto tempo a questa argomentazione. E nemmeno rianimare le discussioni sulla buona organizzazione e gli strumenti della «presa del potere». La storia dei partiti e degli Stati comunisti può insegnarci come gettare le basi di solide organizzazioni che prendano e conservino il potere di Stato. È molto meno adatta a dirci a cosa assomigli il comunismo inteso come potere di chiunque. Dunque concordo con Alain Badiou quando pensa che la storia del comunismo, come storia dell’emancipazione, sia anzitutto quella dei momenti comunisti, che in genere sono stati momenti di evanescenza delle istituzioni statuali e di indebolimento dell’influenza dei partiti tradizionali. La parola non deve prestarsi a equivoci. Un momento non è semplicemente un punto evanescente nel corso del tempo. È anche un momentum, uno spostamento degli equilibri e l’introduzione di un altro corso del tempo. Un momento comunista è una nuova configurazione di ciò che significa «comune», una riconfigurazione dell’universo dei possibili. Non è solo un tempo di libera circolazione di particelle svincolate. I momenti comunisti hanno dimostrato una maggiore capacità organizzatrice della routine burocratica. Ma è vero che questa organizzazione è sempre stata quella del disordine, nei confronti della «normale» distribuzione dei posti, delle funzioni e delle identità. Se possiamo pensare il comunismo, è come la tradizione prodotta da quei momenti, celebri o rimasti nell’ombra, in cui dei semplici lavoratori, degli uomini e delle donne normali, hanno mostrato la loro capacità di battersi per i propri diritti e per i diritti di tutti, di far funzionare le fabbriche, le società, le amministrazioni, le scuole o gli eserciti collettivizzando il potere dell’uguaglianza di chiunque con chiunque. Se c’è qualcosa che merita di essere ricostruito sotto questa etichetta, è una forma di temporalità che singolarizzi la connessione tra questi momenti. Questa ricostruzione comporta la riaffermazione dell’ipotesi di fiducia, un’ipotesi indebolita o distrutta dalla cultura della sfiducia in vigore negli Stati, nei partiti e nei discorsi comunisti.
    Questo legame tra l’affermazione di una soggettività specifica e la ricostruzione di una temporalità autonoma è cruciale per qualunque riflessione sull’ipotesi comunista oggi. Adesso, mi sembra che la discussione su questo punto si ritrovi paralizzata da alcune «evidenze» problematiche relative alla logica del processo capitalistico. […] Ci viene detto che oggi il capitalismo produce, in vece di beni appropriabili, una rete di comunicazione intellettuale nella quale produzione, consumo e scambio diventano un solo e medesimo processo. In questo modo, il contenuto della produzione capitalistica farebbe esplodere la propria forma, identificandosi sempre di più con il potere comunista del lavoro immateriale collettivo. […] Nel libro Goodbye Mr. Socialism, Toni Negri cita l’affermazione di un teorico contemporaneo secondo il quale l’istituzione finanziaria, nella fattispecie attraverso i fondi pensione, è oggi la sola istituzione in grado di fornirci la misura del lavoro accumulato e unificato, la sola dunque in grado di incarnare la realtà di questo lavoro collettivo. Avremmo dunque così un capitalismo del Capitale che si tratterebbe «semplicemente» di trasformare in un capitalismo delle moltitudini. Nel suo intervento a questo seminario, Toni Negri ha chiaramente sottolineato che questo «comunismo del Capitale» è di fatto un’appropriazione del comune da parte del Capitale, dunque un’espropriazione delle moltitudini. Ma è troppo chiamarlo «comunismo». È troppo consacrare in questo modo una razionalità storica di questo processo. Ciò che l’attuale «crisi» finanziaria ha messo in questione è appunto la razionalità di questa razionalità. La «crisi» attuale è difatti la botta d’arresto dell’utopia capitalistica che ha regnato incontrastata per gli oltre vent’anni seguiti alla caduta dell’Impero sovietico: l’utopia dell’autoregolazione del mercato e della possibilità di riorganizzare l’insieme delle istituzioni e delle relazioni sociali, di riorganizzare tutte le forme di vita umana secondo la logica del libero mercato. Un riesame dell’ipotesi comunista oggi deve prendere in considerazione l’evento inedito costituito dal fallimento della grande utopia capitalistica.
    Questo legame tra l’affermazione di una soggettività specifica e la ricostruzione di una temporalità autonoma è cruciale per qualunque riflessione sull’ipotesi comunista oggi. Adesso, mi sembra che la discussione su questo punto si ritrovi paralizzata da alcune «evidenze» problematiche relative alla logica del processo capitalistico. […] Ci viene detto che oggi il capitalismo produce, in vece di beni appropriabili, una rete di comunicazione intellettuale nella quale produzione, consumo e scambio diventano un solo e medesimo processo. In questo modo, il contenuto della produzione capitalistica farebbe esplodere la propria forma, identificandosi sempre di più con il potere comunista del lavoro immateriale collettivo. […] Nel libro Goodbye Mr. Socialism, Toni Negri cita l’affermazione di un teorico contemporaneo secondo il quale l’istituzione finanziaria, nella fattispecie attraverso i fondi pensione, è oggi la sola istituzione in grado di fornirci la misura del lavoro accumulato e unificato, la sola dunque in grado di incarnare la realtà di questo lavoro collettivo. Avremmo dunque così un capitalismo del Capitale che si tratterebbe «semplicemente» di trasformare in un capitalismo delle moltitudini. Nel suo intervento a questo seminario, Toni Negri ha chiaramente sottolineato che questo «comunismo del Capitale» è di fatto un’appropriazione del comune da parte del Capitale, dunque un’espropriazione delle moltitudini. Ma è troppo chiamarlo «comunismo». È troppo consacrare in questo modo una razionalità storica di questo processo. Ciò che l’attuale «crisi» finanziaria ha messo in questione è appunto la razionalità di questa razionalità. La «crisi» attuale è difatti la botta d’arresto dell’utopia capitalistica che ha regnato incontrastata per gli oltre vent’anni seguiti alla caduta dell’Impero sovietico: l’utopia dell’autoregolazione del mercato e della possibilità di riorganizzare l’insieme delle istituzioni e delle relazioni sociali, di riorganizzare tutte le forme di vita umana secondo la logica del libero mercato. Un riesame dell’ipotesi comunista oggi deve prendere in considerazione l’evento inedito costituito dal fallimento della grande utopia capitalistica.
    Questa stessa situazione dovrebbe anche portarci a rimettere in discussione un’altra forma contemporanea del discorso marxista: quella che ci descrive uno stadio finale del capitalismo sfociato in una piccola borghesia mondiale che incarna la profezia nietzschiana del regno dell’«ultimo uomo»: un mondo interamente votato al servizio dei beni, al culto della merce e dello spettacolo, all’ingiunzione superegoica ai godimenti e alle forme narcisistiche di auto-sperimentazione generalizzata. Coloro che ci descrivono questo trionfo globale dell’«individualismo di massa» concordano nell’attribuirgli il nome di democrazia. La democrazia appare così come il mondo vissuto prodotto dal dominio del Capitale e dalla distruzione galoppante di tutte le forme di comunità e di universalità che lo accompagnano. Questa descrizione dispone allora una semplice alternativa: o la democrazia – ovvero lo spregevole regno dell’«ultimo uomo» – o un «al di là della democrazia» che a quel punto assume del tutto naturalmente la forma del comunismo.
    Il problema è che oggi un bel po’ di persone condividono questa descrizione traendone conclusioni del tutto opposte: intellettuali di destra che deplorano la distruzione del legame sociale e dell’ordine simbolico operata dalla democrazia; sociologi all’antica che oppongono la buona vecchia critica sociale alla perniciosa «critica d’artista» delle rivolte del ’68; sociologi postmoderni che se la ridono della nostra incapacità ad accettare il regno dell’abbondanza universale; filosofi che ci convitano all’incombenza rivoluzionaria del presente, che sarebbe quella di salvare il capitalismo insufflandogli un nuovo contenuto spirituale, ecc. All’interno di questa costellazione, la semplice alternativa (pantano democratico o sussulto comunista) pare ben presto problematica. Quando si è descritto il regno infame del narcisismo democratico universale, si può certamente concluderne: solo il comunismo ci tirerà fuori da questa palude. Ma a quel punto si pone la domanda: con chi, con quali forze soggettive si pretende di costruire questo comunismo? Il richiamo al comunismo a venire assomiglia ancor di più a una profezia heideggeriana, un appello a voltarsi sull’orlo dell’abisso, a meno che non determini forme di azione che hanno come unico obiettivo di colpire il nemico e bloccare la macchina capitalistica. Il problema è che nel bloccare la macchina economica i trader americani e i pirati somali si sono rivelati più efficaci dei militanti rivoluzionari. Sfortunatamente l’efficacia del loro sabotaggio non crea spazio per alcun comunismo.
    Così, un riesame dell’ipotesi comunista oggi presuppone un lavoro per districare le sue forme di possibilità dagli scenari temporali che fanno del comunismo o la conseguenza di un processo immanente al capitalismo, o l’ultima chance da cogliere sull’orlo dell’abisso. Questi due scenari temporali restano dipendenti da due grandi forme di contaminazione della logica comunista dell’emancipazione da parte della logica della disuguaglianza: la logica pedagogica progressista dell’Illuminismo – che fa del Capitale il maestro ignorante che introduce i lavoratori ignoranti e li prepara a un’uguaglianza sempre da venire – e la logica reattiva antiprogressista che identifica le forme moderne dell’esperienza vissuta col trionfo dell’individualismo sulla comunità. Il progetto di rianimare l’ipotesi comunista ha senso solo se rimette in discussione queste due forme di contaminazione e il modo in cui esse dominano ancora oggi le analisi presuntamente critiche del nostro presente. Ha senso solo se rimette in discussione le descrizioni dominanti del cosiddetto mondo postmoderno. Le forme contemporanee del capitalismo, l’esplosione del mercato del lavoro, la nuova precarietà e la distruzione dei sistemi di solidarietà sociale creano oggi forme di vita e di esperienze del lavoro spesso più vicine a quelle dei proletari del XIX secolo che all’universo dei tecnici hi-tech o al regno mondiale di una piccola borghesia consacrata al culto frenetico del consumo descritti da tanti sociologi. Ma non si tratta solo di contestare l’esattezza di queste descrizioni. Più radicalmente, si tratta di chiamare in causa un certo tipo di nesso tra le analisi dei processi storici globali e la determinazione delle mappe del possibile. Ormai dovremmo aver capito quanto siano problematiche le grandi strategie fondate sull’analisi dell’evoluzione sociale. L’emancipazione, invece, non sarà mai né il compimento di una necessità storica né l’eroico rovesciamento di questa necessità. Occorre pensarla a partire dalla sua intempestività, che significa due cose: in primo luogo, l’assenza di necessità storica a fondamento della sua esistenza; in secondo luogo, la sua eterogeneità rispetto alle forme di esperienza strutturate dal tempo del dominio. L’unica eredità comunista che valga la pena di esaminare è quella che ci viene offerta dalla molteplicità di forme di sperimentazione della capacità di chiunque, oggi come ieri. L’unica intelligenza comunista è l’intelligenza collettiva costruita attraverso queste sperimentazioni. […]

    1. Sì, si può intendere l’articolo di Alfabeta2 “Comunisti senza comunismo?” in cui parla Rancière, come un desiderabile commento a Comunismo di Fortini. Condividono parecchio sul tema. Prendo in considerazione l’argomento tempo. Il comunismo è del futuro (“sarà il raggiungimento di un luogo più alto, visibile e veggente” Fortini), in particolare per Rancière il comunismo entra nella categoria del *possibile*, mentre l’aver organizzato il comunismo secondo la categoria di necessità (“compimento di una necessità storica” o “eroico rovesciamento di questa necessità”) ha fallito.
      Il futuro però si proietta dal presente, in cui sono al lavoro le categorie di contraddizione, di uguaglianza, di volontà.
      Per Rancière uguaglianza​/disuguaglianza è il binomio intorno a cui riorganizzare storia e politica per l’emancipazione (che è il comunismo). Per Fortini consapevolezza della fragilità umana (psicologica, morale, fisica, la mortalità, infine) e pietà per se stessi e per la specie sono la condizione psicoantropologica per procedere a costruirlo.
      Un tempo una grave consapevolezza e una temperata progettualità (che può comportare anche il ricorso alla forza e all’imprevedibilità) facevano parte del patrimonio di saggezza dei popoli, sullo sfondo di una visione globale, religiosa o filosofica.
      Nei due testi di Rancière e di Fortini, sono ancora le virtù di giustizia, prudenza e fortezza, che si riassumono nel termine comunismo.

      1. p.s. Voglio aggiungere che il richiamo che ho fatto alle virtù cardinali NON è derisorio. Cerco una piattaforma più larga, temporalmente e culturalmente, di quella secolare e moderna con cui abbiamo creduto di civilizzare il mondo. Le culture antiche hanno forse un carattere di generalità -non coinvolto dal potere e dal dominio- che ci consente di comunicare con altri popoli della terra. Non solo. Trovo giusto (degno e salvifico, si usava dire…) che anche pensieri moderni si possano ricondurre a pensieri di lunga portata che l’umanità ha elaborato nei millenni e millenni del suo lavorio.

  7. Vorrei fare una considerazione sugli scritti politici, e in particolare quelli sul comunismo, di Fortini, dal punto di vista della storiografia sul pensiero, sulle dottrine e sulle teorie politiche. È noto che a livello accademico (e di classificazione scientifica) il complesso dei fenomeni che interessano la sfera politica è studiato da varie discipline. Di queste alcune si occupano della dimensione storica del pensiero politico e in genere, nelle diverse organizzazioni accademiche che mutano da Paese a Paese secondo le rispettive tradizioni, le discipline storiografiche relative al pensiero politico si possono riassumere in tre: la prima è la storia del pensiero politico come settore, o branca, specialistica della storia in senso lato. La seconda è la storia delle dottrine politiche che si concentra sul pensiero politico come pensiero organizzato in sistema e diretto a guidare l’azione politica. Il terzo è la storia delle teorie politiche (o anche storia della filosofia della politica) che si concentra sugli aspetti teoretici del pensiero politico come studio dei valori e dei fondamenti della politica senza però nessuna pretesa di guidare direttamente e immediatamente l’azione politica. Mentre nelle dottrine politiche l’aspetto precettistico (pratico) è forte, nelle teorie è invece prevalente l’aspetto conoscitivo (teoretico).
    Fatta questa premessa, osservo che il nome di Fortini non si incontra mai nella letteratura specialistica degli storici del pensiero politico o delle dottrine politiche o delle teorie politiche. Insomma, il rapporto di Fortini con la politica non interessa la storiografia in senso lato e quello con il pensiero politico non interessa la storiografia specialistica delle tre discipline sopra definite.
    Si tratta, in sostanza, di qualcosa di radicalmente diverso dall’interesse che i vari settori storiografici hanno, per esempio, per il pensiero di Antonio Labriola o per quello di Antonio Gramsci (per limitarci a due tappe fondamentali del pensiero politico comunista di orientamento marxista in Italia). E non si tratta di diversità di valore, ma di diversità di tipologia.
    Il pensiero politico di Fortini interessa invece, ovviamente, agli studiosi di Fortini come uomo di cultura, letterato, protagonista della vita culturale italiana per alcuni decenni e interessa gli storici della letteratura. Rientra, pertanto, interamente, nell’ambito della storia dei rapporti fra cultura, letteratura e politica. Lo storico specialista del pensiero politico può, al massimo, citare Fortini (o Vittorini o Pasolini o altri) come esempio della diffusione e della operatività culturale di certe idee politiche nell’ambito del dibattito culturale e in rapporto alla vita civile.
    Con ciò voglio dire che, dal punto di vista delle dottrine e delle teorie, il comunismo di Fortini non presenta elementi originali interessanti. L’originalità, quando c’è, è di carattere biografico, innanzitutto, poi di carattere letterario ed esistenziale.
    Il dibattito sull’articolo di Fortini sul comunismo promosso da Ennio Abate mi sembra invece voler accreditare una qualche originalità anche dottrinaria e/o teoretica e quindi discutere il pensiero di Fortini fuori dagli ambiti letterario, esistenziale e di dibattito culturale in genere. In questa operazione c’è, da un lato, una sopravvalutazione dell’importanza del pensiero di Fortini sul comunismo, dall’altro una sua collocazione in un ambito improprio che tende a fare di Fortini non solo un exemplum letterario (exemplum anche in senso tecnico, di storia esemplare in cui il protagonista arriva a un risultato morale di salvezza o comunque di valore universale), come sarebbe ovvio dato il rilievo letterario e culturale della persona e dell’opera di Fortini, ma anche un exemplum teorico e pratico che assume rilievo sia conoscitivo sia dottrinario nell’ambito della storia del pensiero comunista.
    Il pensiero politico di Fortini non incide, non ha influenza pratica, sull’azione dei partiti politici, delle istituzioni politiche, della classe politica. Per questo l’autore di una ipotetica «Storia del pensiero comunista in Italia» non potrebbe dedicargli un capitolo e nemmeno un paragrafo, ma semmai solo una rapida citazione. Incide, o può incidere, però, quel pensiero, nella formazione culturale del lettore nelle forme tipiche in cui può incidere la letteratura, cioè più nella sfera esistenziale / emotiva / sentimentale che in quella della riflessione politica, e di conseguenza, ma solo come conseguenza e in seconda battuta, anche nella riflessione politica, in quanto veicolo e stimolo per altre letture e riflessioni che possono partire da lì, ma che lì non trovano un esauriente e nemmeno autonomo alimento. Stimolo a cercare, non risposte.
    Credo che ogni valutazione del pensiero di Fortini debba tenere conto dei limiti propri del suo approccio letterario. E non parlo di limiti in senso negativo, ma nel senso di confini, di diversità di punti di vista. Chi scrive un libro dal punto di vista di un pensatore politico (che propone dottrine e/o teorie) tende a dare risposte, a indicare strade da percorrere, valori da perseguire, modalità con cui operare. E lo fa in modo innovativo, aggiungendo qualcosa di nuovo a ciò che altri hanno già detto, ed elimina o comunque mette in secondo piano gli aspetti esistenziali e sentimentali perché sono gli aspetti operativi e conoscitivi che gli interessano.
    L’approccio di Fortini è diverso, ed anche rimescolando il tutto in una visione interdisciplinare e unitaria, non troviamo nel suo pensiero, o almeno non ci trovo io, un rilievo dottrinario e teoretico, ma un rilievo letterario ed esistenziale.
    In conclusione, se voglio sapere che cos’è il comunismo e qual è stato il suo ruolo nella storia politica, non leggo Fortini ma altri autori. Se invece voglio sapere che cosa pensava Fortini sul comunismo, leggo Fortini. O se voglio sapere in che forme e con che ampiezza e importanza le idee comuniste hanno circolato nella cultura italiana, leggo anche Fortini.

    1. Trovo qualche difficoltà a seguire la logica del suo commento. Non per quanto riguarda la storiografia e i tre settori in cui divide le discipline storiografiche relative al pensiero politico. In questo caso devo probabilmente solo riconoscere che Fortini non compare né nella storia del pensiero politico, né nella storia delle dottrine politiche, né in quella delle teorie. O meglio, mi fido di quanto lei scrive perchè delle tre discipline non ho competenza specifica.
      Trovo però che il suo ragionamento giunge a una conclusione contraddittoria, come spiegherò.
      Prima di tutto voglio dire che la partizione che lei stabilisce tra le discipline storiche (relative al pensiero politico) è rigida, come in corpore vili, somiglia più alla sistematizzazione di un corso di studi che a un approccio alla storia contemporanea, che è vivamente intrecciata alla politica e anche alla memoria. Fortini infatti, in questo post e nella serie di Poliscritture dedicata allo scritto sul comunismo, è carne viva per chi lo apprezza e per chi lo critica, fra cui lei e io stessa.
      Dal punto di vista logico la sua argomentazione sul pensiero di Fortini sul comunismo si fonda su 1) non è presente negli studi storici; 2) è una riflessione di tipo emotivo e sentimentale quindi letterario; 3) Fortini -però- va letto se si vuole sapere in che forme e con che ampiezza e importanza le idee comuniste hanno circolato nella cultura italiana.
      Ma allora la sua presenza non è stata solo sentimentale ed emotiva, relegata all’ambito letterario, se è importante riferirsi a lui per comprendere con che “forme e con che ampiezza e importanza le idee comuniste hanno circolato nella cultura italiana”!
      Infatti: basta ritornare a quegli anni con la memoria (si parla di Storia vivente: “il metodo, la pratica, è quello di andare a fondo dentro di sé fino ad individuare il nucleo, il nodo profondo che ha fatto di ciascuna di noi quello che è diventata: il narrarlo e lo scriverlo ne è la storiografia”, e qui http://www.libreriadelledonne.it/i-semi-di-un-metodo-vivente/ notizie della Comunità di storia vivente) l’articolo è del gennaio 1989, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino e occorre qualche tempo in più per il disfacimento dell’Urss e lo scioglimento del PCI, e compare su un inserto satirico, molto divertente, dell’Unità. Lo leggevo, e sicuramente mi sarà capitato sotto gli occhi quell’articolo, che ho cacciato nel dimenticatoio. Allora il comunismo era rappresentato dal tristissimo Breznev e l’Unità pubblicava Cuore con Vincino, e Andrea Pazienza era appena morto.
      Che significato voleva avere salvare l’idea del comunismo, allora?
      Ed era appropriato all’opera di salvataggio quel volare in cieli “nebulosi” di cui ha fatto puntuale e puntuta analisi il Tonto? (Salvo restando che ognuno dovrebbe “scegliere se continuare a vivere nello stato di cose presenti o lottare per realizzare una “sociedad mejor”.)
      Per questo io metterei questo testo Comunismo di Fortini sia in una “storia del pensiero politico”, criticandolo per la sua “imprendibilità”, va da sé cioè da me; sia, e forse soprattutto, in una “storia delle teorie politiche”, come testimonianza delle contaminazioni con cui il “comunismo” è stato nutrito (e ancora lo è).
      Questo richiede una analisi teorica ad ampio raggio e approfondita, che del resto oggi si sta facendo (da Toni Negri, da Roberto Esposito, da Carlo Galli, da Carlo Formenti, per dire quelli che leggo…)

  8. Fischer: « la partizione che lei stabilisce tra le discipline storiche (relative al pensiero politico) è rigida, come in corpore vili, somiglia più alla sistematizzazione di un corso di studi che a un approccio alla storia contemporanea, che è vivamente intrecciata alla politica e anche alla memoria».
    Aguzzi: ciò che è oggetto di studio, nel momento che è assunto come oggetto, cessa di essere soggetto. Pertanto l’analisi è obbligatoriamente anche una sistematizzazione, sia metodologica sia, di riflesso e secondo circostanze che possono variare nelle diverse tradizioni culturali, di discipline e di corsi di studio (intesi anche come ripartizione di cattedre universitarie).
    Se non si vuole questa “riduzione a corpo vile” – che è la condizione su cui si basano tutti i metodi che in qualche modo aspirano a una conoscenza scientifica – è necessario assumere il testo non come oggetto di studio ma come pretesto di dialogo creativo. Pretesto per creare qualcosa di nuovo e di personale. Ma con questo, appunto, non siamo più nell’ambito delle discipline di studio, ma in un campo tutto diverso. Magari anche più interessante (per alcuni, se non per tutti), ma diverso. La necessità di sviluppare discipline specialistiche nasce sia dalla vastità degli oggetti di studio, sia dalla necessità di affinare metodi e categorie analitiche per poter giungere a risultati il più possibile oggettivi e condivisi da tutti gli studiosi. E di conseguenza anche strumenti didattici meno arbitrari e personali, come, ad esempio, i piani di studio, i programmi scolastici ecc.
    Fischer: «Fortini -però- va letto se si vuole sapere in che forme e con che ampiezza e importanza le idee comuniste hanno circolato nella cultura italiana. […] Per questo io metterei questo testo Comunismo di Fortini sia in una “storia del pensiero politico”, criticandolo per la sua “imprendibilità”, va da sé cioè da me; sia, e forse soprattutto, in una “storia delle teorie politiche”, come testimonianza delle contaminazioni con cui il “comunismo” è stato nutrito (e ancora lo è)».
    Aguzzi: Certo, puoi farlo. Ma se metti Fortini allora metterai anche Vittorini, anche Volponi, anche Cassola e tanti altri che, rispetto a questo o quel problema politico hanno scritto e hanno dato “testimonianza”. In questo modo la tua “storia del pensiero politico” diventerebbe in gran parte una sovrapposizione con le storie della cultura e con quelle della letteratura, perdendo di vista i problemi specifici dei diversi approcci disciplinari. Tu stessa parli di “testimonianza”. Ma le testimonianze sono interessanti da due punti di vista: uno è quello della storia personale del testimone, l’altro è quello della diffusione del fenomeno di cui si testimonia. Sono molto meno interessanti, e spesso del tutto irrilevanti, dal punto di vista della comprensione del fenomeno nei suoi aspetti di costruzione dottrinaria e/o teoretica.
    Il lettore – a sua volta mosso dalla sua storia personale – può immedesimarsi, per analogia ed empatia, con l’esperienza del testimone e trarne stimoli per una maggiore conoscenza. Stimoli che però resterebbero sterili se non facessero ricorso ad altri strumenti, come la storia in senso lato e le storie specialistiche, all’interno delle quali la testimonianza ci dice qualcosa che non resta chiuso nella sfera del personale.
    Facciamo un esempio lontano dal caso Fortini. Francesco De Sanctis è stato un grande storico e critico della letteratura e nel suo lavoro ha usato anche molte idee filosofiche. Ad esempio, la sua opera costituisce indubbiamente un capitolo della diffusione dell’hegelismo in Italia. Ma, rispetto all’hegelismo, è solo un testimone e uno che usa alcune idee e suggestioni tratte da quel sistema filosofico, al quale, però, non apporta nulla di nuovo e di significativo.
    Chi volesse studiare l’hegelismo nei suoi aspetti filosofici in senso stretto non legge De Sanctis, ma, ovviamente, legge Hegel e poi quelli che, studiando analiticamente la filosofia di Hegel hanno dato un contributo, contro o a favore, alla sua comprensione, al suo sviluppo, alla sua “riforma” e così via. Per esempio leggerebbe Bertrando Spaventa, amico e contemporaneo di De Sanctis. L’opera di Spaventa costituisce non solo un capitolo della storia della diffusione dell’hegelismo, ma un capitolo della storia della filosofia, come attività specifica. Ciò fa sì che nei manuali di storia della filosofia Spaventa c’è e De Sanctis no. Spaventa è un filosofo originale, creativo; De Sanctis è uno storico e critico della letteratura che ha utilizzato alcune idee filosofiche, è un creativo come studioso di letteratura ma non come filosofo.
    La distinzione è fondamentale, sebbene i confini fra le aree disciplinari non siano mai netti ed è sempre consigliabile un approccio interdisciplinare. Ma la stessa interdisciplinarità è a sua volta una forma di specializzazione, perché è ogni volta diversa. Diversa è l’interdisciplinarità del filosofo da quella del matematico o del letterato, diversa quella del medico da quella dell’ingegnere meccanico, diversa quella del politologo da quella del biologo eccetera.
    Chi cerca di sfuggire alla “riduzione a corpo vile” di un argomento di studio, finisce poi quasi sempre per “ridurlo a corpo vile” ugualmente, ma da un punto di vista del tutto soggettivo e personale e con risultati meno interessanti di quelli a cui giungono le discipline specialistiche.
    A meno che non sia un ottimo creativo che usa l’argomento di studio non a scopo di studio ma come punto di partenza per la sua creatività. Ciò darebbe origine a un nuovo capitolo ma ci direbbe poco sul capitolo che avevamo assunto come argomento di studio. Sicuramente i due aspetti, studio oggettivo e creatività, possono mescolarsi, come nell’opera di Nietzsche «La Nascita della Tragedia», ma restano comunque distinguibili e valutabili separatamente. Nietzsche filologo e Nietzsche filosofo sono intrecciati, operano uniti in due discipline diverse, ma è comunque facile distinguerli ed è utile separarli quando vogliamo studiare da un lato la “storia della filologia greca” e dall’altro la “storia della filosofia europea dell’Ottocento”.

  9. SEGNALAZIONE

    • « Siamo tutti così comunisti, più comunisti che mai, benché sia ancora troppo difficile da dimostrare»? Dai, non scherziamo! “Il Consenso [non] si è liberato dal Comunismo semplicemente realizzandolo”. Questo lo può sostenere soltanto uno che vede la storia alla luce di uno scontro mitico tra Bene e Male e ha tra i suoi modelli « Baudelaire, Bernanos, Flaubert, Céline, Rabelais, Marcel Aymé, Rubens, Balzac, Léon Bloy, Molière, Soutine, Nietzsche, Sade, Houdini, Pierre Desproges, Orwell» (come sostiene Lorandini nell’introduzione pubblicata su LPLC) ma non conosce Marx. Gli è facile così prendere per il culo i “coccocomunisti”. E, secondo me, conferma, standosene in un’altra sponda, quel che diceva Fortini; che solo ” la lotta per il comunismo è il comunismo” (Fortini). Tutto il resto contribuisce solo ad onorare un feticcio: l'”impero del Bene”. [E. A]

    L’impero del bene
    di Philippe Muray
    http://www.leparoleelecose.it/?p=29213#more-29213

    Stralcio:

    Sia detto dunque Cordicopolis il pianeta in cui viviamo noi occidentali, noi che abbiamo l’immensa fortuna di godere di democrazia e di diritti dell’uomo in tutte le case. A Cordicopolis vivono cittadini di diverse categorie: i cordicolesi, i cordicolastri e i cordicocrati. Volenti o nolenti, siamo tutti, per forza, cordicolesi, come si può essere newyorchesi o albanesi. Cordicocrati, invece, si diventa: serve un po’ di fortuna, gli appoggi giusti e tanta, tanta ambizione. Ma la specie più diffusa è senza dubbio quella dei cordicolastri o cordicofili, cioè l’ampia maggioranza dei servitori anonimi. Tizio Caio Sempronio uniti in preghiera, l’intero genere umano, la comunità degli spettatori creduloni, fiduciosi onniconsumatori, pazienti, digerenti, acclamanti, consenzienti.
    Passione. Non c’è parola più ripetuta, più rimasticata, spaventosamente vomitata centomila volte al giorno. Passione. Ogni volta che la sento qualcosa dentro di me muore. Avvicinatevi al televisore, accendete la radio, leggete. Tutti hanno la passione di tutto. Della musica pop, della lettura, delle mostre, delle sfilate di alta moda, dei vernissage, dei concerti, della pubblicità, delle performance, dei personaggi famosi. Il cuore ha le sue ragioni che la ragione bancaria conosce bene. Gli Arconti della Comunicazione e tutti i collaboratori domestici dello Show passano la vita a cavalcare passioni, saltellano dall’una all’altra, come di sasso in sasso nello stagno assente dell’adrenalina che non scaricheranno mai. No che non la scaricheranno, a meno che non gli si dica che bisogna avere la passione dell’adrenalina scaricata.
    Magic Kingdom satanico! In questa enorme casa delle bambole che è Cordicopolis si vuole fabbricare una bandiera della Terra. Niente male. Non sanno più cosa inventarsi. Una bandiera per la Terra! Ecco! Finalmente qualcosa che vi piacerà! Il pianeta è in pericolo! Battiamoci per salvarlo! Siamo tutti cittadini del mondo! Tutti mobilitati! Tutti coinvolti! Non faremo mai abbastanza per la nostra vecchia Madre Sfera! Ma cosa ci potranno mai metter su? E per appenderla a che asta? E con quale emblema? Un cuore? Sì, un cuore, non ci vedrei proprio altro. Un grande cuore fosforescente, un bel cuore matto. Decalcomania di cuore. Oh, sì, me lo immagino benissimo! Orifiamma scintillante che mira diritto al firmamento, conquistando universi, portando lontano, ancora più lontano di tutte le stelle, la testimonianza palpitante della genialità creativa dei cittadini di Cordicopolis. Facendo crepare di invidia, nei dischi volanti interstellari, sui belvedere dell’Infinito, i PuTh di tutte le galassie.
    Mi pare che la tirannia cordicola abbia molto convenientemente preso il posto delle vecchie dittature decrepite e delle loro ideologie deturpate. Il Consenso si è liberato dal Comunismo semplicemente realizzandolo. Non è un’ironia della sorte che l’ignobile concetto americano di Politically Correct venga abbreviato PC dai media. La collettivizzazione si è infine compiuta, tra musica e colori. Siamo tutti così comunisti, più comunisti che mai, benché sia ancora troppo difficile da dimostrare. Non certo comunisti chiari e netti, non certo orrendi gulagosi d’antan, non certo GPUisti sanguinari. Coccomunisti, piuttosto. Non sarò certo io, che non ci ho infilato mai neanche un dito, a dispiacermi della penosa fine dei marxisti, sebbene tutta questa storia delirante abbia avuto, va ammesso, dei retroscena non completamente spiacevoli, se non addirittura divertenti. Un crogiuolo di pura esecrazione da cui talvolta fuoriuscirono rancorose nuvolette di vera ostilità nei confronti dei «possidenti», dei «borghesi», dei «ricchi», degli «abbienti». Io però non ho mai fatto parte della «famiglia». Ma alla fine neanche loro ce l’hanno fatta a resistere all’ascesa dei cordicoli. Cordicoli che hanno dimostrato che si possono raggiungere gli stessi scopi solidaristici e gregari, che si può eliminare l’idea di un qualsiasi tipo di proprietà privata (non solo su beni produttivi o di consumo), ma a costi ben più bassi e in completa allegria, senza sconvolgimenti, senza la minaccia del sangue. Il telecollettivismo filantropico è l’erede perfetto e pacifico del dispotismo comunista, tutto un dispiegamento virtuoso di letteratura edificante, con tanto di pastorali alla Aragon e di idilli alla Éluard.

  10. [@ Luciano Aguzzi 3 ottobre 2017 alle 5:47]

    In realtà il discorso su cosa è *oggettivo* (oppure in realtà solo *condiviso*) nel diverso contenuto delle discipline scientifiche è forse un argomento poco interessante, forse addirittura rientra nel campo delle opinioni personali.
    Ma a me sembra che di *oggettivo* ci sia solo la partimentazione che risponde a interessi di altro tipo: accademici, o editoriali. O forse direttamente politici, in modo da non collegare idee che si rinforzano reciprocamente, per cui è meglio tenerle *scientificamente* separate, per indebolirle?
    In Pensiero vivente il filosofo Roberto Esposito dedica ben 12 pagine a Luigi De Sanctis. Farò solo questa lunga citazione:
    “Della prolusione di De Sanctis si è detto molto, e in maniera non sempre adeguata. Liquidata da Spaventa come una tirata ad effetto paragonabile alla ‘notte di Natale, quando sparano le botte e accendono i fuochi di Bengala’, essa non poteva, certo, suscitare l’entusiasmo di Croce, perché troppo lontana, per motivi di merito e di tono, dalla sua prospettiva. Gentile l’aveva maggiormente apprezzata, ma anche sforzata strumentalmente in senso attivistico. A darle il posto che merita nell’opera di De Sanctis – ma, più in generale, dell’intero hegelismo meridionale – era stato Luigi Russo, secondo un giudizio implicitamente condiviso anche da Gramsci. Tutt’altro che espressione gridata di irrazionalismo vitalistico, il testo desanctisiano non contrappone meccanicamente la scienza alla vita, ma, semmai, tende a integrarla in questa come ‘produzione attiva, continua di quel cervello collettivo che dicesi popolo, produzione impregnata di tutti gli elementi e le forze e gl’interessi della vita […] Più si addentra nella vita, più imita la storia ne’ suoi procedimenti , più dissimula se stessa in quelle forze e in quegl’interessi, e più efficace e più espansiva sarà la sua azione’ (F. De Sanctis, La scienza e la vita). Soltanto in quanto serva alla vita, insomma, piuttosto che tentare inutilmente di emanciparsene, o anche di governarla dall’alto dei suoi principi, la scienza trova la sua misura e il suo ruolo. Si è detto della presenza di Vico, che informa queste pagine secondo un tratto tipico del pensiero italiano della prima metà del diciannovesimo secolo. Ma non deve sfuggire un’affinità più elettiva, anche se filologicamente meno accertabile, a un altro autore che sembra spingerle, oltre il loro spazio e il loro tempo, in un orizzonte più diverso e più estremo. A due anni di distanza dalla conferenza di De Sanctis, la seconda Considerazione Inattuale di Nietzsche sembra ripercorrerne, senza saperlo, il tragitto argomentativo” eccetera… (Pensiero vivente, pp. 132-133)
    Evidente che Esposito, filosofo teorico e non storico della filosofia o della cultura o della storia letteraria, riconosce a De Sanctis una autonoma voce filosofica, e non che “rispetto all’hegelismo, è solo un testimone e uno che usa alcune idee e suggestioni tratte da quel sistema filosofico, al quale, però, non apporta nulla di nuovo e di significativo”.
    Ciò che “fa sì che nei manuali di storia della filosofia Spaventa c’è e De Sanctis no”, non è che “Spaventa è un filosofo originale, creativo; De Sanctis è uno storico e critico della letteratura che ha utilizzato alcune idee filosofiche, è un creativo come studioso di letteratura ma non come filosofo”. E’ invece una divisione ricevuta tra discipline, e una assegnazione, ricevuta anch’essa, di personaggi alle diverse parti.
    (A proposito di Nietzsche filologo e Nietzsche filosofo che, scrivi, “sono intrecciati, operano uniti in due discipline diverse, ma è comunque facile distinguerli ed è utile separarli quando vogliamo studiare da un lato la ‘storia della filologia greca’ e dall’altro la ‘storia della filosofia europea dell’Ottocento’” mi viene alla fine da chiedermi se anche l’uomo Nietzsche fosse così divisibile a fette… vero che era diventato pazzo…)

    1. @Fischer
      E dunque? Il dibattito sul De Sanctis a cui ti riferisci verte su alcuni aspetti della cultura filosofica, e non sulla filosofia nei suoi fondamenti teorici. Certo che il De Sanctis rientra in un discorso culturale, ma non come filosofo, bensì, come critico letterario che usa anche concetti filosofici, il che mi pare ovvio e ho detto e ripetuto. Fra l’altro il De Sanctis è stato anche un uomo politico.
      Citazione per citazione: Eugenio Garin, grande storico della cultura filosofica in Italia, personalità per molti aspetti vicina al filone culturale al quale appartenne anche De Sanctis e studioso non solo di filosofia ma di tutto ciò che rientra nella cultura filosofica, compresi gli aspetti letterari, nella sua «Storia della filosofia italiana» pubblicata in tre volumi per un complesso di 1400 pagine, al De Sanctis dedica 22 righe (meno che ad altri hegeliani minori oggi del tutto dimenticati se non da pochi specialisti) a proposito del concetto di «forma», in cui, citando Croce, dice che vi è implicita una filosofia, ma: «Che fosse già filosofia, che fosse unica via a quella filosofia, il Croce stesso l’ha negato». Il Croce, appunto, ci vede una filosofia implicita, non una filosofia elaborata concettualmente. Scrive in proposito: «Paragonato ai pochi estetici filosofi, il De Sanctis appare manchevole nell’analisi, nell’ordine, nel sistema; impreciso nelle definizioni». Ciò non toglie nulla alla grandezza di De Sanctis, ma alla sua dimensione filosofica sì. Garin conclude il breve paragrafo scrivendo: «Eppure si trattava indubbiamente di una grande esperienza, di una finezza profonda di critico, su cui poteva bene impiantarsi, come s’impiantò, una ricca elaborazione filosofica». Ricca, ma di altri, ai quali De Sanctis, come critico letterario, servì da stimolo anche sollevando problemi che lui, però, non affrontò da filosofo.
      In quanto alla domanda: «mi viene alla fine da chiedermi se anche l’uomo Nietzsche fosse così divisibile a fette… vero che era diventato pazzo…», posso rispondere che la domanda stessa riflette un approccio esistenziale e non disciplinare. Un uomo non si taglia a fette, ma la sua opera si può, e spesso si deve, studiare per parti e settori, salvo che non se ne voglia scrivere la biografia, che è oggi uno dei pochi generi letterari e storiografici che permette di tenere insieme tutti gli aspetti.
      E dopo De Sanctis, posso fare un altro esempio ancora più lontano da Fortini ma estremamente significativo. Chi voglia studiare la storia della fisica e in particolare della fisica applicata all’astronomia e alla cosmologia non può prescindere dallo studio dell’opera di Newton. Ma ciò non vuol dire che deve studiare tutto quello che Newton ha scritto, le migliaia di pagine (molte più pagine di quelle dedicate alla fisica e alla matematica) dedicate all’alchimia, all’astrologia, alla religione, al commento della Bibbia, all’escatologia e a tante altre cose che fanno parte, inscindibile, non tagliabile a fette, della sua personalità e della sua cultura, ma che non interessano lo studioso di fisica. Pertanto, l’uomo non è tagliabile a fette, ma la sua opera sì, perché l’uomo ha la possibilità e spesso la capacità di operare in più campi, sia tenendoli uniti culturalmente, sia tenendoli separati.
      Il processo di specializzazione della cultura e divisione in discipline ognuna con una propria fisionomia metodologica e di contenuti non risponde solo ad una esigenza accademica, ma è iniziato oltre 2.500 anni fa e risponde ad una esigenza propria della progressione degli studi. Il potere accademico, qualche volta, opera delle separazioni assurde per creare nuove cattedre, ma questi sono dettagli contingenti che non inficiano la necessità della specializzazione.
      Ma a proposito di Fortini posso riformulare quanto ho già scritto anche in altro modo. Se voglio studiare la storia del marxismo in Italia (e già questo è un progetto che si pone dei confini), avendo a che fare con una bibliografia di migliaia di titoli, sono di fatto obbligato a limitarmi ai titoli più importanti, a quelli che posso ragionevolmente leggere e utilizzare davvero. Fra questi titoli Fortini non figura, perché non potrei inserirlo fra i cinquanta o cento titoli più significativi. Anche volendo includere giornalisti, politici, letterati e scrittori di vario genere e non solo teorici, dovrei prendere in considerazione, prima di Fortini, altri autori, meno noti e meno importanti come scrittori, ma con una bibliografia più pertinente al tema. Perché, se il progetto è di studiare il marxismo o il comunismo e non la biografia e l’opera di Fortini, non prevale il rilievo dello scrittore ma quello della bibliografia. Ed ecco che si ritorna anche per questa via a una necessaria considerazione disciplinare e di specializzazione e quindi di valutazione del rilievo e della pertinenza dei contributi bibliografici.

  11. @ Aguzzi. Garin è appunto storico della filosofia, Esposito insegna filosofia teoretica, ed è come filosofo (non storico della f., o della cultura) che legge nel pensiero di Francesco De Santis il tema -filosofico- della dialettica tra filosofia e vita. Lo stesso lavoro hanno fatto Aristotele con i “presocratici” e Platone con Socrate, i sofisti e Parmenide.
    Del resto che Garin abbia scritto di De Sanctis “manchevole nell’analisi, nell’ordine, nel sistema; impreciso nelle definizioni” dice di che natura *filosofica* sia questa argomentazione.
    Riguardo a Newton vale il contrario di quanto scrivi: è proprio la parte esoterica della sua cultura che spiega *a noi* come arrivò a una idea dello spazio e del tempo contenitori vuoti e assoluti del fiat creatore divino. Così come il calcolo infinitesimale di Leibniz noi comprendiamo essere adattissimo a raggiungere idealmente le infinite e invisibili monadi-anime. No davvero, non si può dividere a fette il pensiero, questo non è un approccio esistenziale ma profondamente culturale.
    Le discipline sono separate e compartimentate secondo una visione positivistica. Hai visto per caso l’ultimo libretto di Rovelli, in cui stanno insieme la gravità quantistica a loop, il Qohelet, poesie e una filosofia del tempo? E’ un lavoro divulgativo, non strettamente scientifico, ma in esso esplicita i presupposti materalistici del discontinuo e probabilistici della sua teoria scientifica. Fisica e filosofia sono dunque dichiaratamente connesse, e lo saranno anche nel guidare il lavoro in laboratorio. Probabilmente è proprio questo che connette unità e evoluzione nella nostra tradizione culturale.

    1. @ Fischer
      Vedo che il nostro sembra un dialogo fra sordi, evidentemente abbiamo approcci e sensibilità differenti che ci portano a valutare diversamente i rapporti fra i vari punti di vista possibili. Ognuno dei quali ha un suo valore, una sua giustificazione e anche una sua necessità, ma in ambiti diversi, con funzioni diverse.
      1) Si possono mescolare fin che si vuole in uno sforzo di interdisciplinarità o in una romantica o religiosa o pseudo-ecologica visione olistica, traendone anche suggestivi spunti, ma poi la conoscenza (scientifica in senso stretto e scientifica in senso metodologico) fa passi avanti solo seguendo i percorsi più stretti della specializzazione e distinguendo, anche nell’approccio interdisciplinare, ciò che è pertinente e ciò che è fuorviante o inutile o comunque meno pertinente.
      2) Un esempio di fraintendimento di ciò che io ho scritto e ripetuto (che è poi anche un esempio di diversità di approccio e di sensibilità) lo trovo nelle tue risposte. Fra le altre, a proposito di Newton e dei suoi scritti: « è proprio la parte esoterica della sua cultura che spiega *a noi* come arrivò a una idea dello spazio e del tempo contenitori vuoti e assoluti del fiat creatore divino». Sarà anche vero, questo, ma, come scrivevo, questo è un retroterra culturale che interessa lo studioso della biografia di Newton, lo studioso della circolazione delle idee, lo studioso della storia della cultura, ma che non dice nulla, e non interessa, lo studioso di fisica teoretica e di fisica sperimentale. A questi interessano i risultati, in ciò che hanno di nuovo rispetto alla fisica precedente, e del percorso di Newton per arrivare a quei risultati interessano gli aspetti metodologici e contenutistici strettamente relativi ai risultati stessi. Non il più lontano pensiero religioso o metafisico e le opere in cui è trattato (non scritti esoterici, perché – sebbene quasi tutti rimasti inediti alla morte dell’autore – non erano programmaticamente segreti né destinati ad iniziati, ma semplicemente scritti non dedicati alla fisica e alla matematica).
      La dimostrazione di quanto dico sta anche nel fatto che la pubblicazione di quegli scritti, avvenuta per la maggior parte nel corso del Novecento e quindi a due secoli o più dalla morte di Newton, ha portato cambiamenti, revisioni e aggiornamenti nella conoscenza della biografia dell’autore, ma nessun cambiamento nella valutazione e nell’importanza teorica e pratica dei suoi contributi originali alla fisica e alla matematica.
      3) Scrivi poi:
      3.1. «Le discipline sono separate e compartimentate secondo una visione positivistica». Non è vero, se per positivismo intendi il movimento filosofico dell’Ottocento e inizi del Novecento. È vero se per positivismo intendi l’approccio naturalistico e scientifico il cui inizio si è soliti far risalire a Talete. Lo sviluppo della conoscenza scientifica nasce infatti dalla separazione dalla conoscenza religiosa e poi via via dalla separazione specialistica fra le diverse discipline. Solo le radici e il tronco sono in comune, ma poi l’insieme della nostra conoscenza si ramifica e questa ramificazione corrisponde a un’intrinseca necessità metodologica (e anche di economia di tempo e di risorse)e non è un capriccio o un abuso contingente.
      3.2. «Hai visto per caso l’ultimo libretto di Rovelli, in cui stanno insieme la gravità quantistica a loop, il Qohelet, poesie e una filosofia del tempo? E’ un lavoro divulgativo, non strettamente scientifico». Anch’io in una mia conferenza sul «Problema di Dio nella religione, nella filosofia e nella scienza» ho tenuto insieme queste e altre cose, ma distinguendo bene ciò che differenzia i diversi ambiti. Ad esempio è molto suggestivo accostare il concetto di «nulla» che troviamo in molti testi religiosi, con quello di testi sul Big Bang e con quello di testi di matematica. Ma al di là della suggestione non ne possiamo ricavare dimostrazioni e prove e tantomeno certezze. Le teorie sul Big Bang non dimostrano che l’universo è stato creato da Dio, né la trattazione matematica del nulla ci dice qualcosa sul concetto di creazione (o origine) dell’universo da un nulla / tutto (matrice indeterminata, indefinibile, inimmaginabile dell’essere ecc.) che troviamo nei testi religiosi. Gli accostamenti sono molto interessanti e possono alimentare e arricchire la cultura personale e fornire anche, spesso, quella specie di “religione personale” che è un misto di esperienze, di cultura, di credenze e di rielaborazione personale di una qualche forma di escatologia. Che rientri poi o no in una “religione” non personale, ma di tipo più tradizionale, si tratta comunque di una dimensione esistenziale, non scientifica. Rovelli come divulgatore ha ottenuto molto successo, ma di tanto in tanto da divulgatore scientifico si trasforma in interprete filosofico e allora cessa di essere un buon divulgatore. Ed è dubbio che diventi un buon filosofo. Come è dubbio che, forse spinto dal successo come divulgatore, si sia trasformato in un buon politologo o sociologo o economista negli articoli per il «Corriere della Sera» e per altri giornali in cui ha trattato questioni lontane dalla sua specializzazione, rimediando, da parte dei veri esperti, qualche benevole ma tagliente richiamo a non cadere nella banalità del dilettante.
      3.3. «ma in esso esplicita i presupposti materialistici del discontinuo e probabilistici della sua teoria scientifica». Più che sua, di Rovelli, direi di tutta la meccanica quantistica, prima e dopo il concetto di “indeterminazione” di Heisenberg . In alcuni risultati sperimentali il risultato non ha più il valore di descrizione dei comportamenti delle particelle, ma solo valore statistico del comportamento complessivo, mentre il comportamento reale delle singole particelle non può essere determinato.
      3.4. «Fisica e filosofia sono dunque dichiaratamente connesse, e lo saranno anche nel guidare il lavoro in laboratorio». Connesse, ma distinte. La fisica presuppone comunque delle idee di fondo che può derivare solo dalla filosofia, ma queste non tracciano le vie della sperimentazione di laboratorio, che segue una metodologia propria, ma danno solo un orientamento generico, una direzione generica, direi quasi una specie di ispirazione, la cui influenza e importanza diminuisce man mano che la ricerca scientifica entra nelle sue e più specifiche strade. Due scienziati, anche di idee filosofiche molto diverse, possono collaborare e percorrere la stessa strada e giungere allo stesso risultato, il che testimonia che le idee filosofiche iniziali non sono poi determinanti. Anzi, a volte sono un ostacolo. Ad esempio la resistenza di Einstein alle nuove scoperte sull’universo in espansione e quelle sulla quantistica nascono da idee filosofiche che lo trattengono su strade che l’evidenza sperimentale dimostra errate. La sua celebre frase «Dio non gioca a dadi» è un esempio di preconcetto filosofico dannoso nel campo della ricerca scientifica che deve basarsi solo sulle evidenze sperimentali (e sulle possibilità matematiche). Giustamente altri scienziati gli hanno obiettato: «E tu che ne sai? magari Dio si diverte a giocare a dadi».

      1. @ Aguzzi. Ovviamente concordo sugli “approcci e sensibilità differenti che ci portano a valutare diversamente i rapporti fra i vari punti di vista possibili”, e potrei anche smettere qui di interloquire, ma tratto ancora un punto che può chiarire precisamente la diversità, non di approccio o di sensibilità, ma direi di impostazione.
        La fisica di Newton è “storicamente determinata”, migliore interpretazione delle distanze e delle forze, delle matematiche e del sapere sperimentale, rispetto all’impetus per esempio, ma inadeguata rispetto a una visione complessiva delle nuove esperienze sociali e nuove teorie fisiche (nuove distanze, nuove potenze, nuova tecnologia, la teoria dell’elettromagnetismo) del presente di Einstein.
        E’ nel rapporto tra condizioni reali del vivere umano, e sviluppo del sapere scientifico, che leggo quest’ultimo. Perché non è teoricamente pensabile uno sviluppo del sapere scientifico-tecnologico che procede da solo per i fatti suoi, con le sue contraddizioni interne e i suoi superamenti verso una maggiore verità. Un altro cervello? Una parte disincarnata dello scienziato che vive e si riproduce in accademia?
        Qui occorre proprio discutere della “verità” scientifica. Per esempio: che il sole giri intorno alla terra o viceversa, dipende da dove, che so, nella Via Lattea, ci mettiamo a osservare il fatto.
        Per positivismo intendo anche il neopositivismo, quei signori che negli anni 20-30 del novecento si separarono con forza dalle scienze dello spirito asserragliandosi nelle scienze della natura. Per ottimi e pessimi motivi: la paura del nazismo e del comunismo, e infatti si trasferirono in America, soi disant terzo escluso dalle due barbarie. Una via propria.
        Quanto a Rovelli, il materialismo discontinuo e la probabilità applicata al tempo, non sono solo “di tutta la meccanica quantistica”. Il suo discorso sul tempo è “scientificamente” originale, e concludendo con il capitolo intitolato Mistero il suo libro La realtà non è come appare, scrive: Accettare la sostanziale incertezza del nostro sapere vuol dire accettare di vivere immersi nell’ignoranza, e quindi nel mistero. Vivere con domande a cui non sappiamo (forse non sappiamo ancora, oppure, chissà, non sapremo mai) dare risposta.” Il che, detto da un fisico teorico che dirige un gruppo di ricerca in gravità quantistica, non è male. Dividere le discipline scientifiche dal resto del sapere umano – ciò che non sappiamo e magari, chissà, ciò che non sapremo mai- è ipostatizzare un sapere scientifico in una parte in qualche modo pura, che invece, in sé, non esiste neppure.

  12. DA POLISCRITTURE FB A POLISCRITTURE SITO

    SEGNALAZIONE
    (dalla bacheca di Franco Senia​)

    * Questo articolo di Anselme Jappe del 2014 mi pare importante. Per tre motivi: 1. si pone ancora una domanda che anche a me sta ancora a cuore:(«cosa rimane allora della rivoluzione, del cambiamento radicale, della rottura profonda?», offrendo, per dare una possibile risposta, un’ipotesi precisa su cui misurarsi: «non si tratta tanto di “vincere” il capitalismo quanto di evitare che la sua disintegrazione, già in corso, non sfoci altro che nella barbarie e nelle rovine»; 2. per la chiarezza dell’esposizione dei vari punti del suo ragionamento: rilettura non scolastica di Marx; limiti del “marxismo del movimento operaio” (Kurz) o del “marxismo tradizionale” (Postone); ruolo della “finanziarizzazione” nel « rimandare la grande crisi» del capitalismo; impossibilità di tornare alla piena occupazione o a Keynes o al «welfare di una volta»; critica al « vecchio stereotipo degli “onesti” lavoratori sfruttati da dei “parassiti”»; la necessità di «una vera e propria «rivoluzione antropologica» [che] deve opporsi alla rivoluzione antropologica portata avanti dal capitale»; 3. mi permette di contestualizzare meglio, indipendentemente dalla condivisione delle sue tesi, alcune delle discussioni che stiamo facendo su POLISCRITTURE (migrazioni, comunismo di F. Fortini, «buone rovine» di Marx o del marxismo). [E. A.]

    Rivoluzione contro il lavoro
    – La critica del valore ed il superamento del capitalismo –
    di Anselm Jappe
    http://francosenia.blogspot.it/2017/10/la-rottura-e-luscita.html?spref=fb

    Stralci:
    1.
    Laddove la produzione non serve alla soddisfazione dei bisogni, ma ha come unico fine quello di trasformare cento euro in centodieci euro, e poi in centoventi, ecc., si può dire che il processo è “tautologico”: serve solo ad andare dalla stessa cosa alla stessa cosa, ma su una scala sempre più grande (passare da denaro a sempre più denaro). Si tratta quindi di una dinamica cieca, che consuma le energie umane e le risorse naturali. La valorizzazione del valore si impone sugli attori sociali e sui capitalisti stessi. Credere nell’esistenza di una «grande regia» occulta da parte dei capitalisti, è piuttosto un modo per rassicurarsi. La verità è assai più tragica: nessuno controlla questo meccanismo autoreferenziale che sacrifica il mondo concreto ad una astrazione feticizzata. Per la stessa ragione, una critica moralizzante del capitalismo è inutile – anche se nessuno è obbligato a trovare simpatici i piccoli e grandi «ufficiali e sottoufficiali del capitale» (Marx).
    2.
    La distinzione capitale fra ricchezza concreta (quella che soddisfa effettivamente un bisogno e di cui quindi ci si può realmente impadronire) e valore astratto non viene presa in considerazione. Non si potrà abolire il valore senza abolire il lavoro che l’ha creato – ecco perché una contestazione del capitalismo fatta in nome del lavoro non ha alcun senso. Allo stesso modo, ci si sbaglia opponendo il “buon” lavoro concreto al “cattivo” lavoro astratto: se si abolisce la riduzione di tutti i lavori a quello che essi hanno in comune – il dispendio di energia – quel che rimarrebbe non sarebbe il lavoro “concreto” (questa categoria è a sua volta essa stessa un’astrazione), bensì una molteplicità di attività che sono legate ogni volta ad un fine specifico – come avveniva nelle società pre-capitaliste, le quali infatti non conoscevano il termine “lavoro” nel senso moderno.
    3.
    Il movimento operaio traeva una certa giustificazione dal fatto che il capitalismo, durante la sua lunga fase di espansione, permetteva effettivamente delle forme di redistribuzione, con dei risultati perfino notevoli per le classi lavoratrici. I critici “immanenti”, anche se il loro orizzonte non è mai stato il superamento del capitalismo, potevano perciò affermare di avere ottenuto dei successi importanti che facevano credere che il capitalismo poteva essere “addomesticato” in una «democrazia di mercato». Tuttavia, i progressi tecnologici, e soprattutto l’applicazione della microelettronica alla produzione, hanno costantemente ridotto il ruolo del lavoro vivente, soprattutto a partire dagli anni 1960. Alcune particolari imprese possono ancora ottenere dei grandi profitti, ma il sistema nel suo insieme ha cominciato a perdere la sua “sostanza”.
    4.
    Per molto tempo, la diminuzione del valore (e perciò la porzione di plusvalore e di profitto) contenuto in ciascuna merce particolare è stato compensato (perfino sovracompensato) attraverso l’estensione assoluta della produzione – quindi, riempendo il mondo di merci, con tutte le conseguenze che ciò ha comportato. Ma con la fine della fase fordista si è esaurito l’ultimo modello di accumulazione basato sull’utilizzo massiccio del lavoro vivente. Da allora, le tecnologie – che non creano nessun valore – assicurano l’essenziale della produzione, in quasi tutte le sfere. La massa assoluta di valore, e quindi il plusvalore, è caduta a picco. Ciò mette in crisi tutta la società basata sul valore – ma anche gli stessi lavoratori. Non è più lo sfruttamento ad essere il problema principale creato dal capitalismo, ma sono le crescenti masse di esseri umani “superflui”, vale a dire non necessari per la produzione, e quindi anche incapaci di consumare. Dopo la sua lunga fase di espansione, dopo decenni il capitalismo comincia a restringersi, malgrado la “globalizzazione”: le persone, i settori, le ragioni in grado di partecipare ad un ciclo “normale” di produzione e di consumo di valore assumono sempre più l’aspetto di “isole” in un mare crescente di scarti che ormai non servono più nemmeno ad essere sfruttati. Non serve ed è vano chiedere del “lavoro” per loro, dal momento che la produzione non ne ha bisogno e che sarebbe assurdo obbligare le persone ad eseguire dei lavori inutili come condizione preliminare della loro propria sopravvivenza. Bisognerebbe piuttosto rivendicare il diritto a vivere bene per tutti, indipendentemente dal sapere se si è riusciti, o meno, a vendere una forza lavoro che spesso nessuno più vuole.
    5.
    Il capitalismo quindi non inciamperà (o quanto meno non solo) sull’opposizione degli sfruttati, ma sulla difficoltà di soddisfare le sue proprie esigenze in materia di creazione di nuovo valore. Ha superato sé stesso per mezzo della crescita delle forze produttive, e soprattutto attraverso l’enorme aumento della produttività ottenuto grazie alla microelettronica a partire dagli anni 1970, che ha fatto sciogliere la massa del valore riducendolo all’osso. Ma non c’è niente che possa garantire che questo collasso darà luogo ad una forma di emancipazione. Non c’è nessun gruppo sociale definito dal proprio ruolo nella produzione del valore che vada, “in sé”, al di là della logica capitalistica; non c’è un gruppo sociale che è predestinato a compiere il superamento del capitalismo. Non possiamo più convocare nessun soggetto rivoluzionario del passato, né il proletariato classico, né i suoi successori, come i lavoratori precari, le popolazioni del Sud del mondo, le donne, i “subalterni”. ecc.. Ognuno e ciascuno partecipa al sistema, anche se lo fa svolgendo ruoli assai differenti, ed allo stesso tempo ognuno e ciascuno avrebbe un oggettivo interesse alla soppressione di questo sistema: basta pensare alla questione ecologica.
    6.
    Perché il sistema capitalista non è ancora crollato completamente? Soprattutto a causa della “finanziarizzazione”, cioè per mezzo della fuga nel «capitale fittizio» (Marx). Dopo che si è quasi fermata l’accumulazione reale, è stato il ricorso sempre più massiccio al credito, cosa che gli ha permesso di simulare la continuazione dell’accumulazione. Nel 1971, l’abbandono della convertibilità del dollaro in oro è stata una sorta di data simbolica. Questa atmosfera di simulazione – si potrebbe dire, di virtualizzazione – da allora si è diffusa a tutta la società. Questo spiega l’ampio diffondersi in tutti i campi di approcci cosiddetti “postmoderni”. Con il credito, i profitti futuri sperati – ma che non arriveranno mai – vengono consumati in anticipo e servono a mantenere in vita l’economia. Com’è noto, questi crediti e le altre forme di denaro fittizio (titoli azionari, prezzi degli immobili) hanno raggiunto delle dimensioni astronomiche ed alimentano una speculazione gigantesca che può avere delle ripercussioni terribili sull’economia “reale”, come è accaduto nel 2008. Ma la speculazione, lungi dall’essere la causa delle crisi del capitalismo e della povertà sempre più crescente, per decenni è servita piuttosto ad aiutare a rimandare la grande crisi. La causa sta nel fatto che tutte le merci e tutti i servizi supplementari rappresentano, sebbene il loro numero cresca, una quantità sempre minore di valore. Ciò implica anche il fatto che una gran parte del denaro in circolazione a livello globale è “fittizio”, dal momento che non rappresenta lavoro effettivamente speso in maniera “produttiva” (produttiva per la riproduzione del capitale). Le «misure di stimolo» messe in atto dai governi dopo la crisi del 2008 sono solo delle acrobazie contabili, in cui si aggiunge ancora uno zero a delle cifre che sono già del tutto fantastiche. Non ci potrà essere una nuova prosperità capitalista, poiché le tecnologie che sostituiscono il lavoro non potranno essere rimosse dalla produzione capitalistica. Sarebbe altrettanto vano aspettare che la Cina o altri “paesi emergenti” salvino il capitalismo: i loro presunti successi si basano in parte su delle esportazioni unilaterali verso i paesi ricchi che dureranno solo per il tempo in cui questi stessi paesi riusciranno a rimandare ancora la vera e propria irruzione della crisi. Non si tratta perciò di profetizzare un futuro crollo del capitalismo, ma di riconoscere la crisi che è già in atto, e che si aggrava, al di là di quelle che sono delle breve ripresi congiunturali. Non si tratta affatto di una crisi solamente economica e comprende ogni genere di convulsione: da guerre di nuovo genere fino alle devastazioni in atto nelle psicologie individuali.
    Occorre quindi una critica radicale del capitalismo tout court, e non solo della sua fase neoliberista. Un ritorno alla piena occupazione e alle ricette keynesiane, un ruolo di primo piano dello Stato ed il welfare di una volta non sono possibili: il loro abbandono non è stata la conseguenza di una cospirazione portata avanti dagli economisti neoliberisti e dai capitalisti più rapaci, ma è il risultato dell’esaurimento della dinamica capitalista nel suo complesso. D’altra parte un simile ritorno non sarebbe per niente auspicabile: il capitalismo deve essere superato abolendo i suoi fondamenti, non ritornando a delle forme di schiavitù e di alienazione apparentemente un po’ più sopportabili. Le vecchie concezioni di emancipazione sono entrate in crisi insieme al capitale, dimostrando in tal modo la loro natura di «fratelli nemici».
    7.
    Di fronte ad una simile constatazione, cosa rimane allora della rivoluzione, del cambiamento radicale, della rottura profonda? La sua necessità appare ancora come un’esigenza importante, e la sua realizzazione si presenta ancora più difficile di quanto lo fosse prima. Per un tempo durato più di due secoli si sono affrontati i “riformisti” ed i “rivoluzionari”. Retrospettivamente, sembra che il loro divario verta più sui mezzi che sul contenuto, più sulla strada da percorrere che sulle finalità. Tranne alcune rare eccezioni, che sono rimaste incoerenti, la totalità dei socialdemocratici e dei socialisti, dei comunisti e perfino degli anarchici non ha mai immaginato veramente un’uscita dalla società basata sul valore, sulla merce e sul denaro – oppure l’ha immaginata soltanto in un avvenire assai lontano. Ovunque il lavoro è stato santificato ed è stato considerato come una forza da “liberare” (tranne che da alcune avanguardie artistiche e letterarie), senza che sia mai stata fatta una distinzione fra attività concreta e lavoro astratto. Anziché di una critica della produzione di valore, allora si trattava di una critica della sola distribuzione. Essa aveva come fine, esplicito o implicito, quello di includere nella società strati sempre più larghi della popolazione nella società di mercato. Alcuni volevano arrivarci per mezzo di elezioni oppure di cooperative, altri erigendo delle barricate oppure fucilando gli avversari. Ma il loro orizzonte comune restava quello di una migliore gestione della società del lavoro. Abolire il mercato e la proprietà privata dei mezzi di produzione veniva considerato come l’intervento più radicale possibile – senza però mettere in discussione ciò che il mercato distribuiva. La sinistra radicale e “rivoluzionaria”, in tutte le sue varianti, arrivava ad una critica delle categorie di base del capitalismo altrettanto poco di quanto facevano i “moderati” o gli “stalinisti”. La sostituiva con una sociologia del dominio. Ciò era assai evidente in quello che è durato molto tempo ed è stato un vero e proprio culto della «autogestione operaia» (del genere della Lip): il principale male veniva individuato nella distribuzione ineguale di potere e di reddito all’interno dell’unità di produzione. Ma se tale unità di produzione ha come compito quello di creare una quantità di valore che dev’essere scambiato contro altre quantità su un mercato – sia che esso sia anonimo o che sia “pianificato” – ciò comporta inevitabilmente la subordinazione degli operai alla logica della redditività. La fabbrica autogestita potrà quindi decidere liberamente in maniera democratica chi dev’essere licenziato di modo che l’impresa rimanga “competitiva”…
    8.
    Se per “rivoluzione” si intende una vera e propria rottura con il lavoro inteso come espressione feticizzata e autonomizzata della vita sociale, allora si deve concludere che nel corso di tutta la storia del capitalismo non è mai avvenuta una rivoluzione. Una simile uscita dalla “civiltà” capitalista non è mai nemmeno stata presa seriamente in considerazione. Essa si è solo vista qualche volta, occasionalmente, come un lampo di possibilità all’orizzonte. Nella storia dei movimenti di contestazione, la critica dell’apparato tecnologico, che è l’indispensabile supporto del lavoro astratto, è stata anch’essa largamente evitata. Tuttavia, una rottura di questo genere non si può considerate come puramente “utopica o “irrealista”: il capitalismo – o il lavoro astratto, ed il valore e il denaro che ne costituiscono le istanze di mediazione sociale – è un fenomeno storico. Non fa semplicemente parte della vita umana tout court. La maggioranza dell’umanità l’ha visto arrivare solo negli ultimi decenni.
    Se una simile rottura è possibile – e allo stesso tempo necessaria – questo non significa affatto che avvenga di per sé. Non c’è nessuna «legge storica» che possa garantire che le contraddizioni del modo di produzione capitalista facciano nascere una società migliore (qualunque sia il suo nome). La crisi della società di mercato è in pieno corso ed è irreversibile. Tutte le soluzioni che si basano sui margini di manovra ancora esistenti all’interno della produzione di mercato (come il rilancio delle misure keynesiane) si esauriscono prima o poi con la desustanzializzazione del valore, conseguenza della continua sostituzione del lavoro con le tecnologie.
    9.
    Perciò non si tratta tanto di “vincere” il capitalismo quanto di evitare che la sua disintegrazione, già in corso, non sfoci altro che nella barbarie e nelle rovine. I movimenti sociali che si rivolgono contro le sole banche o contro la classe politica “corrotta” costituiscono una risposta del tutto inadeguata, dal momento che scambiano il sintomo per la causa, riattivando il vecchio stereotipo degli “onesti” lavoratori sfruttati da dei “parassiti”, e rischiano di degenerare nel populismo e nell’antisemitismo. In generale, ogni ricorso alla “politica” (e a maggior ragione allo Stato) è impossibile, dal momento che la fine dell’accumulazione, e quindi del denaro “reale”, priverebbe i poteri pubblici di ogni mezzo di intervento. Lo Stato non è ma stato l’avversario del capitale o del mercato, ma ha sempre preparato per essi le basi e le infrastrutture. Non è una struttura “neutra” che potrebbe essere messo al servizio dell’emancipazione. Sarà inevitabile uscire tanto del mercato quanto dallo Stato – i due poli ugualmente feticisti della socializzazione attraverso il valore – se si vuole arrivare un giorno a stabilire un reale accordo diretto fra i membri della società. Pur mantenendo ovviamente delle istanze di mediazione, una società post-capitalista non dipenderà più per il suo destino dagli automatismi incontrollati di una mediazione feticista autonomizzata, come il lavoro astratto.
    10.
    Non basta sommare le rivolte ed il malcontento che oggi stanno scuotendo tutto il mondo per arrivare a concludere che la rivoluzione è alle porte. In quanto tale, la decomposizione del capitalismo porta solo all’anomia. La “barbarizzazione” che genera a volte non risparmia nemmeno i movimenti di opposizione. Ormai da molto tempo, “il capitalismo” non è più solamente una parte della società (i capitalisti, la borghesia) che si oppone ad un’altra parte (il popolo, il proletariato) che rimarrebbe al di fuori del capitalismo e che sarebbe esteriormente solo “sottomesso”. La società di mercato, soprattutto nella sua forma di società dei consumi, ha preso ampiamente possesso degli individui. fino a dentro le loro fibre più intime. Da tempo gli sfruttati si erano organizzati per difendere i loro interessi, anche restando nel quadro del sistema: di contro, la rabbia dei “superflui”, la disperazione di coloro di cui il sistema non ha più bisogno, rischia di diventare cieca. Non dobbiamo ingannarci: diventa sempre più difficile trovare dei contenuti emancipatori nelle contestazioni che hanno luogo nel mondo.
    11.
    Tuttavia, questa difficoltà ad esprimere un’opposizione coerente non comporta affatto la «fine della storia» o la «vittoria del capitalismo». Nello stesso momento in cui il capitalismo ha trasformato l’essere umano in Homo oeconomicus, l’economia crolla. Nel momento in cui è riuscito a trasformare potenzialmente tutti gli abitanti del pianeta in degli esseri del lavoro e del denaro, li priva in larga misura della possibilità di lavorare e trasforma il denaro in una finzione. Dietro questo sviluppo non c’è nessuna strategia: la nave continua a navigare ancora un po’ bruciando nella caldaia pezzi di sé stessa.
    Perciò, la questione “politica” non è più quella di sapere come demolire, o modificare, un capitalismo in piena forza che, in mancanza di un avversario alla sua altezza, può continuare all’infinito nella sua espansione. Ora la questione è quella di sapere come reagire alla generale rovina prodotta dal crollo della produzione di valore. Come fare a proteggere le iniziative ed i tentativi che emergono un po’ dappertutto e che si propongono di costruire dei rapporti sociali che non siano più basati sulla merce e sul lavoro? Come difenderli contro la feroce volontà, così frequente, di aggrapparsi a tutto pur di sopravvivere ancora un po’ in mezzo ai disastri che avvengono, anche al prezzo di commettere i peggiori crimini? Bisogna andare oltre un approccio “politico” in senso tradizionale: una vera e propria «rivoluzione antropologica» deve opporsi alla rivoluzione antropologica portata avanti dal capitale. Quest’ultima comporta il rischio, soprattutto per ciò che riguarda la sua alleanza con le tecnologie, di svendere ogni futuro dell’umanità, e del pianeta stesso, pur di prolungare ancora per qualche anno l’accumulazione del valore.
    La teoria da sé sola non basta, ma il militantismo privo di concetti serve ancora meno. Per trovare un’alternativa al capitalismo, bisogna innanzi tutto comprendere la natura del denaro e del denaro, del lavoro e del valore. Queste categorie sembrano decisamente “teoriche”, ma le loro conseguenze alla fine determinano ciascuna delle nostre azioni quotidiane. Oggi, una parte dell’opera di Marx può sembrare superata. Ma anche se della sua opera si volesse mantenere nient’altro che la critica dell’economia politica in senso stretto, questa costituirebbe ancora la miglior fonte possibili per poter comprendere la situazione attuale, e per evitare di impegnarsi – come hanno fatto nel corso di più di un secolo i diversi movimenti di contestazione – su delle strade che rimangono, anche senza rendersene conto, nell’ambito della società di mercato.

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