Segnalazione. Poesia e Rivoluzione

 

Per sfuggire ad ogni apologetica, per cogliere la *tragedia*, per non temere i denigratori della Rivoluzione russa pronti ad azzannarci con il loro “avete visto cosa hanno combinato i vostri rivoluzionari?” (qui), per non edulcorare la coppia «poesia e comunismo» cui ha accennato Massimo Raffaeli parlando di Fortini (qui)…Sì, dobbiamo saperlo le rivoluzioni *fanno male*. Ai poeti e non solo ai poeti. Ma anche a voler badare soltanto alla poesia, ci sarebbero stati questi grandissimi poeti senza la Rivoluzione russa?[E. A.]

Poesia e Rivoluzione
Ricordando Mandel’stam, Achmatova, Pasternak e gli altri: un’intervista a Serena Vitale in occasione del centenario.
A cura Nicolò Porcelluzzi
http://www.iltascabile.com/letterature/poesia-e-rivoluzione/

Stralci:

1.
Majakovskij, per esempio, aderì al bolscevismo, certo, ma per il resto il governo bolscevico fece strame di questi poeti, di questi letterati. Dopo la presa del potere, quando il nuovo soviet chiamò a raccolta gli intellettuali al Palazzo Smol’nyj si presentò solo Majakovskij. Per il resto fu un’ecatombe.
Quello che bisogna capire è che non fu l’oligarchia bolscevica al potere a perseguitare le avanguardie che ci affascinano tanto, il cubo-futurismo, l’acmeismo, e tutta quella fioritura straordinaria che la poesia europea forse non ha mai conosciuto, futurismo e surrealismo compresi; furono soprattutto i rappresentanti delle Associazioni Proletarie che si ergevano a comandanti e persecutori di questi intellettuali. Tentavano di insegnare a scrivere a Majakovskij, a Chlebnikov. Dobbiamo meravigliarci che siano sopravvissuti fino al Trenta. Considero la data della morte di Majakovskij come la fine simbolica dell’Avanguardia, una fine violenta. Non conosco nessuna grande letteratura che in dieci anni – questi favolosi anni Venti che sono figli degli anni Dieci – abbia prodotto questa dozzina di geni, e di questi geni quasi nessuno è morto nel proprio letto. In Russia allo scrittore viene delegato un ruolo di guida, di maestro del pensiero, di espressione popolare che non ha pari nel mondo.
2.
Vuole che le dica come sono morti? Blok di quello che chiamo suicidio bianco, tentò di aderire alla rivoluzione ma non gli venne permesso di andare all’estero per curarsi, e morì così, inerte. Majakovskij, l’abbiamo detto, suicida [L’ultimo libro di Serena Vitale per Adelphi è Il defunto odiava i pettegolezzi]

3.
Esenin. Grandissimo poeta contadino, melodioso come solo la campagna russa poteva produrre, anche se non è il mio preferito. Anche lui inizialmente aderisce alla rivoluzione, per poi accorgersi che la campagna russa da lui idolatrata si trovava ancora peggio di prima. Un altro suicidio, da parte di un alcolizzato, un uomo che non riusciva a trovare il suo spazio. Mosca non lo capiva, Esenin dava scandalo, però la campagna di cui cantava era distrutta, la civiltà del treno lo ossessionava – la figura del teppista urbano nasce con lui.
4.
Pasternak. Pasternak è morto nel suo letto, ma tutti conoscono le persecuzioni che subì nell’ultima fase della sua vita. Durante gli anni immediatamente successivi alla rivoluzione per un po’ tacque, scrisse le cose meravigliose di Mia sorella la vita, dove c’è una poesia in cui si affaccia dall’abbaino e chiede, “Compagni ditemi, che secolo c’è fuori?” e da qui si capisce il suo estraniarsi, il suo prendere le distanze. Aderì a un gruppo minore del cubo-futurismo, e fino agli anni Trenta lo lasciarono in pace. Stalin gli telefonò per chiedergli “ma Mandel’štam secondo lei è bravo?”, una di quelle telefonatine che faceva ogni tanto, l’orrore del potere. Però poi tacque, e sappiamo la storia di Zivago, le persecuzioni, più che personali rivolte verso le persone amate, come la seconda moglie finita in un lager. Gli resero la vita impossibile.
5.
Mandel’štam. Su Mandel’štam non so neanche cosa dire. Bastano le date, 1891 – 1938. Fu vittima prima dell’apartheid, una persecuzione, una negazione della sua esistenza che lo portò quasi alla pazzia, e… [sospira] Secondo me è stato il più grande poeta del secolo. Prima condannato, poi esiliato, poi morto in un lager. Veniva dall’acmeismo, un movimento nato nel 1912… Anzi già che ci siamo nominiamo Anna Achmatova. La più grande insieme a Mandel’štam, diventa grandissima quando il potere perseguita i suoi cari. Non l’hanno mai toccata personalmente –anche se aveva sempre il KGB praticamente in casa – però avevano toccato quello che le era più caro, gli uomini che amava, soprattutto il figlio. Requiem è un cantico meraviglioso dove lei da poetessa da camera si trasforma in voce eroica ed epica di tutta la Russia al femminile, quella che faceva le code davanti alle carceri per i figli, i mariti.

6.
Il Requiem è una cantata tragica come solo una madre poteva scrivere, anzi, come solo una donna poteva scrivere, sugli orrori delle repressioni.
7.
Gumilëv. Gumilëv, ucciso nel ’21. A quanti siamo arrivati, otto? Grande poeta acmeista che non ebbe il tempo di svilupparsi perché morì giovanissimo: venne accusato ingiustamente di un complotto monarchico. Il suo era un acmeismo in versione vitalistica, una poesia in cerca del primo giorno della Creazione. Cosa sarebbe diventato se non fosse morto a trent’anni, non è dato sapere.
8.
Chodasevic. Un grande, vede, lo sto ripetendo in continuazione. [ridiamo] Costretto a emigrare, c’è anche da tenere presente questa enorme emorragia di forze che causò l’avanzare del bolscevismo. Se emigravano, emigravano a volte anche per caso, pensando di potere tornare, la prima ondata migratoria degli anni Venti era ancora incerta, non si capiva ancora cosa sarebbe successo. Però rimase lì, in Francia, e scrisse una poesia molto europea, La notte europea infatti, di un pessimismo assoluto ma di una fattura meravigliosa, classica. E siamo a nove. Ah, c’è la Cvetaeva.
9.
La Cvetaeva, è inutile parlarne, cosa dire ancora di lei? Il suo rapporto con la rivoluzione è molto complesso perché passa attraverso la figura del marito, controrivoluzionario.
Lo segue poi in Unione Sovietica dove morirà, non sappiamo come, probabilmente suicida. Appena era tornata in patria le avevano portato via la figlia, il marito. Ho una certezza che mi deriva da una lunga conoscenza di Marina Cvetaeva, che lei si sia uccisa il giorno in cui ha saputo che anche il marito non c’era più. Quando si trovava in condizioni terribili, durante l’evacuazione bellica, sono quasi sicura che venne a sapere della morte del marito; il rapporto di Cvetaeva con il regime bolscevico insomma è attraversato da questo amore enorme per il marito, un amore difficile da comprendere per noi, sapendo delle sue avventure amorose – Pasternak incluso. La persecuzione che ha subito è ormai di dominio pubblico.
10.
Credo di avere dimenticato un poeta poco conosciuto in Italia che è Zabolockij, di cui è stato tradotto – non impeccabilmente… – solo Colonne di piombo, poeta eccezionale. Fu colpito da una specie di nevrosi ossessiva, un uomo profondamente segnato nella psiche dalla repressione, distrutto dalla paranoia. Purtroppo non posso ancora dimostrarlo in italiano, ma un gigante.
11.
Charms e Vvedensky furono i creatori di questa versione russa dell’assurdo, del dada russo. Figura unica nel panorama letterario, Charms dopo il secondo arresto si finse pazzo per essere ricoverato e morì in un letto di fame, in un ospedale psichiatrico durante l’assedio di Leningrado. Lui e Vvedensky condividono un destino tragico, terribile. Bisognerebbe tradurre tutto quello che hanno scritto. C’è un unico problema: per vivere erano costretti a scrivere poesie per l’infanzia. La poesia per l’infanzia – che visse una tradizione meravigliosa in Russia – ha sfamato molti poeti, il problema è che le poesie per l’infanzia di Mandel’stam, Pasternak, Majakovskij eccetera non si possono tradurre perché come tutte queste poesie sono sempre al limite del limerick, del gioco di parole, si tratta di un patrimonio inaccessibile per l’Occidente.
12.
Klujev. Un altro poeta contadino. Poeta contadino, all’inizio blandito dal potere bolscevico che pensava di poterne sfruttare la naturale carica eretica, un’energia che c’era nella religione popolare, nelle sette eretiche russe, le sette rappresentate da Belyj ne Il colombo d’argento, per dire. La religione russa è sempre in odore di eresia e Lenin pensò addirittura di sfruttare questa energia, ma fu un idillio che durò pochissimo – le sette vennero castigate come la religione ufficiale, e Klujev muore in un lager nel 1937. Il suo russo è intraducibile, le sue radici antichissime.
13.
Pensi che abbiamo parlato solo di poeti; si immagini che galassia di scrittori, pensatori, fisici, matematici, quante le idee che scorrevano… è un’idea di geni, non possiamo farci niente.
14.
Oggi è il 7 novembre, considerato convenzionalmente come anniversario. Ho ripreso in mano una poesia di Majakovskij, si chiama 150.000.000, dove il poeta si immagina il centenario della rivoluzione, e scrive: “forse è il centesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, forse è semplicemente un meraviglioso stato d’animo”. Cosa possono significare, per un russo, queste parole?
Niente. Non gli interessa niente. Tranne qualche superstite leninista magari… 150.000.000 fu giudicato da Lenin un libro per pazzi. Disse, non stampatene più di millecinquecento copie (o giù di lì), questo è un libro per pazzi. Un libro che in realtà glorificava l’evoluzione, e riflette un giovane Majakovskij che ancora non ha subito il verme della delusione.

42 pensieri su “Segnalazione. Poesia e Rivoluzione

  1. Articolo molto interessante, che mi ha anche commosso per quel “libro per pazzi” riferito alle poesie di Vladimir Majakovskij. Che tristezza! E’ proprio vero che le vicende tramandate subiscono molte alterazioni. Mi chiedo cosa sia la Storia, se siano attendibili i fatti oppure solo quel che se ne pensa. Intanto, uno dopo l’altro, quei poeti, o sono stati uccisi oppure si nono suicidati. A potere seguì altro potere. Dunque, a che vale essere poeti della rivoluzione?

    1. Ms scusa non sai che Marina Ivanovna Svetaeva si è suicidata impiccandosi la domenica del 32 agosto a Elabuga nella repubblica della Tataria dove era stata sfollata per i bombardamenti nazisti su Mosca, e che è stata sepolta in un fossa comune? Stessa ignominiosa sepoltura toccata a Mozart che lei da dotata pianista adorava? Oltre a qualche biografia di Marina Svetaeva, leggi -Prima della morte- di Lidia Ciukovskaia, che le fu vicina nei giorni prima del suicidio.

  2. ” A potere seguì altro potere. Dunque, a che vale essere poeti della rivoluzione?” (Mayoor)

    Come se il potere di dopo (la Russia sovietica; e quale poi: dei tempi di Lenin, di Stalin, di Kruscev, di Gorbaciov?) fosse tale e quale a quello di prima (la Russia zarista).Ci sono sempre somiglianze e persino invarianze ma anche cambiamenti. Che, a scanso di illusioni ( e perciò ho scritto: “dobbiamo saperlo le rivoluzioni *fanno male*”; ma avrei potuto dire: non sono una passeggiata, un pranzo di gala, ecc.) non hanno impatti indiscutibilmente positivi o negativi per i vari gruppi sociali e soprattutto per gli individui. E i poeti in questione ne sono una dimostrazione, sia quando hanno accolto la rivoluzione con entusiasmo sia quando sono stati tiepidi o ostili. I poeti sono stati dilaniati quanto i politici. E la domanda: “a che vale essere poeti della rivoluzione?” equivale forse a quella quasi gemella: ” a che vale vivere?”.
    Tanto più che andò male sia agli entusiasti che agli ostili. Un terremoto sociale investe tutti: non è che gli ostili o quelli che scelsero l’esilio se la passarono meglio, credo. Tranne eccezioni, credo.

  3. Dall’intervista sul Tascabile emerge che la maggior parte dei poeti nominati si erano formati in precedenza, “Le avanguardie si svilupparono dalla crisi del simbolismo in un’epoca che *poi* visse il trauma della rivoluzione”, dice Serena Vitale (c.vo mio). La domanda che fa Ennio “ci sarebbero stati questi grandissimi poeti senza la Rivoluzione russa?” ha qualcosa di fuorviante, i poeti c’erano già, non è la rivoluzione russa che li ha fatti nascere, anzi, “Dobbiamo meravigliarci che siano sopravvissuti fino al Trenta”, dichiara Vitale.
    Forse si deve pensare che “grandissimi” lo divennero per la contraddizione in cui si sforzarono di continuare a vivere. Quindi la domanda potrebbe essere riformulata così: “come avrebbero scritto questi grandissimi poeti senza la Rivoluzione russa?”. E questa è sia una domanda oziosa, si scrive e si vive come ci si trova a esistere, sia una domanda lancinante, si scrive nonostante, si scrive contro, si scrive malgrado, si scrivono favole per bambini invece che poesie per gli adulti. Lo spazio di mediazione era incredibilmente esiguo, “furono soprattutto i rappresentanti delle Associazioni Proletarie che si ergevano a comandanti e persecutori di questi intellettuali. Tentavano di insegnare a scrivere a Majakovskij, a Chlebnikov”, Blok “morì così, inerte”. E’ questa tragedia -la rivoluzione non è un pranzo di gala- che li ha fatti grandi?
    Non solo, non è finita con la fine dell’Urss, chiede l’intervistatore: possono interessare a un russo oggi le parole di Majakovskij “forse è il centesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, forse è semplicemente un meraviglioso stato d’animo”?
    “Niente. Non gli interessa niente”, risponde Vitale.
    E quello che scriviamo noi oggi? Scriviamo libri per pazzi? (ma averne, 1500 copie!) E’ che non siamo, almeno non io, grandissimi? Solo per questo siamo (io sono) innocui?

  4. …penso che la rivoluzione giusta debba agire per il riconoscimento dei diritti, là dove calpestati, di tutti, come di ognuno…E’ anche il pensiero di Franco Fortini, credo…Ora la rivoluzione russa ha certo rovesciato positivamente le sorti di una società, che all’inizio del novecento conservava ancora dei connotati medioevali: i nobili ricchi e privilegiati e la popolazione povera nelle città e schiava nelle campagne…La guerra in corso aveva sicuramente peggiorato la situazione generale ma creò l’occasione di un cambio di rotta: l’abbattimento della monarchia zarista e l’avvio alla realizzazione del comunismo, secondo le idee tracciate da Marx per una società più giusta…Non fu indolore, tuttavia la direzione era quella…La violenza gratuita e criminale iniziò dopo, finita la rivoluzione, quando le persone – come pensiero che si esprime, come voce, come realtà specifica di ogni soggetto vivente e pensante- vennero sacrificate in nome di un “progresso” massificato…I poeti non furono risparmiati, anzi subirono trattamenti “esemplari”, in quanto voci autorevoli e dissidenti…un massacro

  5. Figuriamoci se la mia domanda ( “ci sarebbero stati questi grandissimi poeti senza la Rivoluzione russa?” ) non avrebbe dato l’avvio al tira e molla tra (per abbreviare) platonismo e materialismo/marxismo!
    Certo, “i poeti c’erano già, non è la rivoluzione russa che li ha fatti nascere” (Fischer). E forse bastava che lo zarismo fosse riuscito a continuare per la sua strada (“riformista, magari!) o fosse restato in sella con Kerenskij e chissà che raccolte poetiche eccezionali sarebbero maturate (per i salotti letterari).
    Quei poeti che c’erano già stavano, però,incapsulati “anema e core” dentro un processo storico che maturava in tutta la società russa e anzi a livello internazionale visto che aveva già prodotto una orrenda Prima guerra mondiale. E direi che la Rivoluzione russa un po’ di problemi glieli pose; e gli aprì gli occhi (e poi glieli spense pure, certo; perciò ho parlato di *tragedia*). Forse “grandissimi” lo divennero per la contraddizione in cui si sforzarono di continuare a vivere” o per come,costruitisi fino ad allora in un certo modo, reagirono ad eventi eccezionali e imprevisti.
    Ma qui bisognerebbe avere informazioni più precise e confrontare nel tempo le varie opere prodotte.
    Non ho detto che la Rivoluzione russa fosse la Musa che gli suggeriva cosa scrivere. M’interrogherei anche sulla portata di quella pressione brutale o plebea delle “Associazioni Proletarie che si ergevano a comandanti e persecutori di questi intellettuali”. Perché prenderla sottogamba o ridurla solo all’aspetto fastidioso e antintellettualistico?

  6. Acc, quante attribuzioni di cattivi pensieri piccolo borghesi mi fai, Ennio! Platonismo? (e sarebbe per abbreviare…) zarismo riformista?
    Mah! Non l’avevo fatta io l’interrogazione -retorica- che fosse la contraddizione in cui vivevano a farli grandissimi? Piuttosto, collegare un discorso sui poeti di oggi, quelli che non vogliamo… ma come non detto, eh?

  7. Lascia perdere i cattivi pensieri.
    A me pare che ci possiamo accostare alla vicenda tragica dei poeti russi situandoci di fronte a due ipotesi:
    1- Poesia e Rivoluzione ( come dal titolo dell’articolo);
    2- Poesia o Rivoluzione.
    A me pare che i commenti (il tuo, quello di Lucio) pencolassero verso la seconda ipotesi. Da qui la mia precisazione pro prima ipotesi.
    Quanto al discorso sui poeti d’oggi, a me pare che l’abbiamo già affrontato. Qui: https://www.poliscritture.it/2017/02/22/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano-abbastanza/

  8. Serena Vitale, riguardo alla grandezza dei poeti che nomina, collega il rapporto Poesia-e-Rivoluzione (ma chi sensato potrebbe opporre poesia degli anni ’20 a rivoluzione?) a *come è solita fare la Russia*: “Non conosco nessuna grande letteratura che in dieci anni –questi favolosi anni Venti che sono figli degli anni Dieci- abbia prodotto questa dozzina di geni […] In Russia allo scrittore viene delegato un ruolo di guida, di maestro del pensiero, di espressione popolare che non ha pari nel mondo”.
    Il collegamento, per S.V., è tra la Russia, il ruolo degli scrittori, e la Rivoluzione, e quindi tra grandezza della loro poesia e tragicità delle loro vite.
    Andando al nostro presente e ai nostri poeti, vedo anche per noi tragicità, cioè divisione. Viviamo in una contraddizione permanente tra la vita “normale” e l’enorme di più che “vediamo” con gli occhi della mente e quindi conosciamo: l’orrore reale di cui è la nostra vita normale, occidentale, intessuta, orrore fra l’altro che ci lambisce sempre più da vicino.
    Questa tragedia, che non si scioglie mai in una catarsi, come sarebbe una rivoluzione, dà il tono alla nostra poesia.
    Per chi è, più o meno, al sicuro, la tragedia è solo saputa, mentale. Cosa sarebbe “fare” per rompere il quadro di tragedia immobile e irresolubile? Volontariato, impegno politico, terrorismo?
    Il discorso lo abbiamo affrontato in “I poeti in tempo di guerra non pensano abbastanza” ma in un modo che non ha sciolto il problema. Anche “tendere ad una poesia capace di immaginare se stessa come se dovesse parlare di guerra davanti ai generali, ai boia, ai torturatori professionisti, ai soldati addestrati ad ammazzare o ai politici e ai banchieri che di loro impassibili si servono” è un procedimento mentale.
    Allora avevo proposto di approfondire come viviamo la contraddizione nella reale condizione di sussistenza di ciascuno. Operazione del tipo autocoscienza, che rischia la conciliazione con l’esistente.
    Perché c’è un muro tra quello che sappiamo e la realtà che sia possibile cambiare, e non è affatto una questione di impotenza psicologica, è che la poesia scrive entro quel muro, descrive e si macera, o attacca, ma: a) come lo può scavalcare? b) c’è chi lo ha fatto? Esiste una poesia che ha rotto quel muro tra pensare e agire?
    Non direi che in quel post, con le varie discussioni, si sia andati oltre, si sia aperto il muro.

  9. Poesia è in continuità con la vita, vita che si frantuma e riorganizza; pensiero libero e interpretativo degli eventi ed evento essa stessa. E’ sempre fattore di discontinuità perché prodotta dal sensibile umano; quindi non può sottostare a nulla, nemmeno al processo dirompente o deflagrante di una rivoluzione sociale. Non è religione ma religiosità del vivere, che è altra cosa; ed è costante richiamo alla dimensione naturale delle persone: avverte, registra, dà l’allarme quando l’esistere si dà contro natura. In quanto pensiero sensibile, poesia è sempre rivoluzione in atto. Che poi la rivoluzione sia quella di ottobre che rovesciò la dinastia dei Romanov, oppure quella strisciante, inarrestabilmente evolutiva di oggi, dove si tenta di guardare al futuro – dacché il presente, come è sempre stato, tende all’omologazione – per la poesia cambia poco. Ma un vero poeta non è mai disimpegnato, se si appiattisce sul presente non è un vero poeta ma uno che fa spettacolo. Io la penso così.
    Tutto può sempre cambiare, ad esempio se i poeti tornassero utili al commercio delle idee. E’ mia opinione che oggi stiamo troppo chiusi, trincerati nelle riserve del libro. Il libro-merce funziona se interagisce artisticamente con diversi mezzi di comunicazione. Serve una poesia infedele a se stessa perché disposta ad aprirsi. E’ nozione di qualità da calare in un contesto dove conta più l’efficacia che il contenuto, ma dell’efficacia bisogna tenere conto…
    Al solito, sono fuori tema.

  10. @ Mayoor, sono con te, ma salverei la specificità della scrittura, anche se oggi infiltrata insidiosamente dall’immagine. È una conquista la condensazione in idee invece che in miti (i numeri, le logiche, oltre che le favole). Una poesia di idee invece che di sole immagini (che nella loro vivezza colorano i pensieri). Religiosità del vivere e pensiero sensibile.

  11. Religiosità del vivere è la conquista delle idee nel pensiero sensibile corporale. Il platonismo (il latinorum) è un’accusa per addomesticare i pensieri. Scienza alla mano, è difficilmente sostenibile perfino la “morte” fisica”. Maxima libertad…

  12. @ Fischer

    1.
    “ma chi sensato potrebbe opporre poesia degli anni ’20 a rivoluzione?”; « Il collegamento, per S.V., è tra la Russia, il ruolo degli scrittori, e la Rivoluzione, e quindi tra grandezza della loro poesia e tragicità delle loro vite» (Fischer)

    Appunto. Non caschiamo dal pero. A me pare che Lucio, scrivendo «Dunque, a che vale essere poeti della rivoluzione?», in maniera indiretta e ambigua, le ha messe in opposizione. E in maniera ancora più sottile l’hai fatto tu pure scrivendo: « i poeti c’erano già, non è la rivoluzione russa che li ha fatti nascere, anzi, “Dobbiamo meravigliarci che siano sopravvissuti fino al Trenta”, dichiara Vitale.».
    Poi dite pure che sono malpensante, tendenzioso, o che traviso.

    2.
    Se parliamo di «tragedia» per i grandi poeti russi degli anni Venti/Trenta del Novecento, le prove che Serena Vitale porta sembrano più che sufficienti.
    Per i “nostri” poeti (quali poi?) sarei più cauto e scettico. Sia perché per molti dei contemporanei, come dici, « la tragedia è solo saputa, mentale». E per lo più ben rimossa. (A meno di non fare alcuni nomi – mosche bianchissime – o di pensare a poeti a noi sconosciuti; e, perché no, persino ai *potenziali poeti* che, invece che nei lager di Stalin, stanno finendo nei fondali del Mediterraneo o sono bruciati sotto le bombe a Gaza, a Baghdad, in Siria). O che schiattano inosservati e solitari battendo i tasti dei PC e arrovellandosi su domande quasi impossibili (o confusamente provocatorie), come quella che tu fai: « Cosa sarebbe “fare” per rompere il quadro di tragedia immobile e irresolubile? Volontariato, impegno politico, terrorismo?».

    3.
    « Il discorso lo abbiamo affrontato in “I poeti in tempo di guerra non pensano abbastanza” ma in un modo che non ha sciolto il problema».

    Peggio. Ammutolendoci subito dopo aver posto il problema, che negli ambienti della ricerca poetica d’oggi è del tutto eluso o cancellato. (Per ragioni che mi pare affiorino nella posizione di Mayoor, di cui dirò tra poco).
    Forse, non riuscendo ad avanzare né nella prima ipotesi («“tendere ad una poesia capace di immaginare se stessa come se dovesse parlare… eccetera») né nella seconda ( « approfondire come viviamo la contraddizione nella reale condizione di sussistenza di ciascuno»).

    @ Mayoor

    « In quanto pensiero sensibile, poesia è sempre rivoluzione in atto».

    In maniera, qui non più sottintesa come nel tuo primo commento, tessi le lodi di una poesia che sarebbe automaticamente (e per me inspiegabilmente) « in continuità con la vita»; e che come quella (e sempre inspiegabilmente; e per me) « si frantuma e riorganizza».
    Anzi, sarebbe di per sé *già* “rivoluzionaria”: «E’ sempre fattore di discontinuità perché prodotta dal sensibile umano; quindi non può sottostare a nulla, nemmeno al processo dirompente o deflagrante di una rivoluzione sociale».
    Per cui viene da chiedersi: a che servirebbe una rivoluzione (sociale), se quella “vera” la fanno già i poeti. ( Il che a me pare conferma della tentazione di scindere del tutto o il più possibile poesia e rivoluzione ( sociale, politica) o semplicemente poesia e storia, come ho creduto di cogliere nel tuo primo commento).
    Questo vitalismo («religiosità del vivere») e/o naturalismo («costante richiamo alla dimensione naturale delle persone») sarebbe una specie di inarrestabile fiume che scorre per conto suo e nulla avrebbe a che fare con la storia umana e sociale. Né quella di ieri (il rovesciamento della dinastia dei Romanov) né quella di oggi ( « il presente [che], come è sempre stato, tende all’omologazione»).

    Altre volte in passato ho tentato di invitarti a scendere dal pero sul quale i poeti parlano ai soli poeti occupandosi di “poesia”; e convinti che quel che accada ai piedi del pero, per lo più ai non poeti (o persino a se stessi, quando devono agire da non poeti, dovendo pur essi mangiare, cucinare, ecc.) sia irrilevante («per la poesia cambia poco»). Ora neppure ci provo più.
    No, non sei fuori tema. Insisti sul * tuo* tema. (Come del resto faccio io sul *mio*).

    1. Ripeto quanto ho scritto:
      “Tutto può sempre cambiare, ad esempio se i poeti tornassero utili al commercio delle idee. E’ mia opinione che oggi stiamo troppo chiusi, trincerati nelle riserve del libro. Il libro-merce funziona se interagisce artisticamente con diversi mezzi di comunicazione. Serve una poesia infedele a se stessa perché disposta ad aprirsi. E’ nozione di qualità da calare in un contesto dove conta più l’efficacia che il contenuto, ma dell’efficacia bisogna tenere conto…”

      Al poeta basta sapere quale sia l’interlocutore, vero o immaginario che sia. Il quale interlocutore può essere semplicemente un viatico per giungere, come Don Chisciotte, all’agognato pubblico; perché, voglio dirlo chiaro, i poeti, come credo tutti gli artisti, non creano per le élite. Ogni poesia è per il mare aperto.
      Si è detto di certi aspetti da reclame nella poesia di Majakovskij, ebbene è inevitabile se ci si aspetta qualcosa dai poeti, quella cosa e non altro… la rivoluzione russa ha ottenuto dai suoi poeti più di quello che si meritava.

  13. @ Ennio.
    Non so come si possa continuare a discutere così, con uno specialista delle mie sottigliezze e delle mie confuse provocazioni.
    “E in maniera ancora più sottile l’hai fatto tu pure scrivendo: «i poeti c’erano già, non è la rivoluzione russa che li ha fatti nascere, anzi»”. Ecco qui: il *dato* da me riportato, che fossero in precedenza poeti inseriti in un’altra tradizione (Serena Vitale: “i favolosi anni Venti che sono figli degli anni Dieci”), *dato* che ho riportato nei confronti della letteralità della tua frase: “ci sarebbero stati questi grandissimi poeti senza la Rivoluzione russa?” è diventato contrapporre poesia e rivoluzione!
    In “maniera ancora più sottile”, ma il tuo occhio infallibile ha individuato la mia colpevole deviazione controrivoluzionaria!
    La stessa deviazione (piccoloborghese, suppongo) mi fa “arrovella(re) su domande quasi impossibili (o confusamente provocatorie”, la domanda cioè su quale fare (che non sia volontariato, attivismo politico o terrorismo) riuscirebbe a rompere l’immobile tragedia in cui viviamo scissi, io e forse anzi sicuramente altri con me.
    Ma, Ennio, sei sicuro che la mia perfidia si nasconde in quelle sottigliezze e confuse provocazioni? O piuttosto, come credo io, tu la cerchi a tutti i costi e alla fine la trovi, in pieghe e provocazioni (sottili e confuse). E tutto in un gran salire e scendere da peri.
    Davvero, come si può discutere così? Se quasi ogni volta che scrivo mi ritrovo inchiodata a maligne intenzioni pure ben lontane da quello che intendevo sostenere?
    Quando ero piccola mia nonna, superstiziosa cattolica, mi diceva che, se mi guardavo allo specchio, c’era un diavoletto dietro che mi spingeva al peccato di vanità. Qualcosa del genere fai tu: io scrivo, ma compio un peccato di vanità, e tu lo sveli. (Vanità, cioè mascheramento di una oggettiva posizione antirivoluzionaria.)

  14. POESIA E / O RIVOLUZIONE .
    Mi scuso in anticipo per il tono che sto per usare e che non appartiene alle mie corde. Dico subito che trovo largamente privo di senso il dibattito che precede e nel quale intervengo molto brevemente. Di cosa vogliamo parlare? Della poesia o della rivoluzione? Una semplice riflessione mi porta a dire che si può parlare dell’una e dell’altra. Come si può fare poesia e rivoluzione così se ne può parlare congiuntamente. Il problema è dunque dei rapporti tra l’una e l’altra. Così semplificato si ritorna – sotto mentite spoglie – al vecchio e trito interrogativo: si può essere autentici poeti solo a condizione di essere autentici rivoluzionari oppure si può essere autentici poeti anche se reazionari. Poi la discussione prosegue, quasi ovviamente, sui poeti e la rivoluzione russa. E’ nel campo dei rapporti che si incontrano …….i leoni che rendono molto complicata la discussione. Cos’è propriamente la rivoluzione e che cosa è propriamente la poesia autentica? Sono domande cruciali soprattutto in un’epoca come l’attuale in cui le risposte tradizionali sono messe costantemente in discussione perché è in discussione la stessa vitalità della poesia e della rivoluzione.

  15. RIASSUMENDO DAL MIO PUNTO DI VISTA
    (e cercando di personalizzare il meno possibile)

    L’intervista a Serena Vitale sulla tragica esperienza di molti grandissimi poeti investiti dalla Rivoluzione d’ottobre del ’17 poteva non turbare? O non indurci a stabilire alcune analogie tra ieri e oggi (rischiando magari anche qualche corto circuito)?
    Secondo me, in modi allusivi e obliqui, nel riflettere su quel passato (mai del tutto passato), sono emerse simpatie nette per i poeti vittime della repressione; e più o meno sottintese antipatie (il lettore stabilirà di che consistenza) verso i politici rivoluzionari ( in particolare Lenin e più sullo sfondo Stalin). E, nel trarre una qualche lezione per l’oggi, si è delineata una differenza non irrilevante – anche in vista dei nostri discorsi su Poliscritture e sulla poesia – tra chi guarda, sia al passato che al presente, al legame (problematico, drammatico e sempre a rischio di tragedia) tra poesia e rivoluzione (o poesia e storia) e chi le ha ormai separate o dubita fortemente su « cosa sia la Storia, se siano attendibili i fatti oppure solo quel che se ne pensa».

    La discussione non è stata del tutto inutile. L’impressione di dialogare tra sordi deriva dall’avere attese diverse, che ci fanno guardare a quel passato in modi diversi.
    Chi ha trovato «fuorviante» la mia domanda:« “ci sarebbero stati questi grandissimi poeti senza la Rivoluzione russa?”» vi ha contrapposta la sua: « “come avrebbero scritto questi grandissimi poeti senza la Rivoluzione russa?” . O ha sottolineato, sempre in contrasto, che « “i poeti c’erano già, non è la rivoluzione russa che li ha fatti nascere”».
    Sarebbe sciocco, in assenza di situazioni rivoluzionarie ( manco l’ombra di questi tempi) etichettarci – che so – “rivoluzionari” e “controvoluzionari” oppure “proletari” e “piccolo borghes”. Ma le differenze ci sono.

    Personalmente tendo a rifiutare il passo successivo implicito nelle posizioni che ho contrastato. Non accetto le conclusioni implicite che i miei interlocutori sembrano trarre dalla *tragedia* avvenuta in Russia dopo l’innegabile fallimento di quelle speranze (dei poeti e non solo di loro) e di quella ipotesi di costruzione del socialismo (sovietico). E , con qualche forzatura, riassumo *quella che mi pare la loro posizione* in un discorso esplicito di questo genere: É obbligatorio un divorzio tra Poesia e Rivoluzione ( o tra Poesia e Storia). Se è fallito anche l’ultimo tentativo di richiamarsi al modello rivoluzionario marxista/sovietico avvenuto negli anni attorno al ’68-’69, cosa vuoi parlare – a cent’anni dal ‘17 e a cinquant’anni, fra pochissimo, del ’68 e fosse pure *in minuscolo*– di poesia e rivoluzione o, semplicemente, di poesia e storia?
    Omaggiamo i nostri cari antenati che illusi sono finiti suicidi o nei gulag. E, se proprio vogliamo insistere a parlare di rivoluzioni, facciamolo in senso metaforico o specialistico (rivoluzioni nelle scienze, nelle tecnologie, nei costumi sessuali, nei linguaggi, nelle mode). Insomma, voltiamo pagina. Oppure pensiamola ancora, ma a patto che sia «priva di germi di violenza» (come sarebbero state quelle di Gandhi e di Mandela).
    E, essendo impossibile oggi essere politici rivoluzionari o poeti rivoluzionari, impegniamo realisticamente o con un certo disincantoi nostri ultimi anni per sostenere scelte politiche “pragmatiche” e “realistiche” (come quelle di Minniti, ad es., sulle migrazioni). O a costruire una qualche Nuova Ontologia Poetica. O – ricordate Rousseau? – affidiamoci alla tranquilla continuità naturale tra vita e poesia che scorre per conto suo indifferente ad ogni elemento disturbatore esterno. O lavoriamo per una poesia magari «di idee invece che di sole immagini». O, dandoci una calmata – visto che siamo un manipolo di anzianotti e le tragedie dell’oggi (quelle vere e più paragonabili a i tempi della Russia del Primo Novecento) ancora non ci tangono materialmente, ma le conosciamo solo *mentalmente*, coltiviamo i nostri orticelli di «religiosità del vivere» sia pur inquinati.

    1. “É obbligatorio un divorzio tra Poesia e Rivoluzione”.
      No, ho solo detto che per me i poeti sono free: non fanno propaganda, per niente e per nessuno. In Russia, uno come Fortini, per i suoi dubbi l’avrebbero fatto sparire in fretta… e tu ora dovresti inventarti tutto da capo e di sana pianta.

      “’68-’69, cosa vuoi parlare – a cent’anni dal ‘17 e a cinquant’anni, fra pochissimo, del ’68 e fosse pure *in minuscolo*– di poesia e rivoluzione o, semplicemente, di poesia e storia?”
      Per quel che riguarda poesia e storia, poeti come Czesław Miłosz si sono presi anche il Nobel. Quindi, dove starebbe il problema? Poesia e storia si è sempre fatta, è solo dagli anni 90 (tempi di Craxi, ecc.) in poi che in Italia si è voluto dare retta a Montale…

      La Nuova ontologia estetica non è una mascherina per capodanno a Cortina D’Ampezzo, è un modo di scrivere e di concepire immagini e pensieri: quel che ci si mette dentro è affare di ciascuno. Qui viene fuori la tua diffidenza, o disinteresse, verso le questioni di estetica; sempre a volerle mettere in secondo piano. Cosi che anche se volessi cantare la rivoluzione non sapresti cosa inventarti.

      Io disprezzo la violenza. Punto. Quello che è successo ai ragazzi del G8 a Genova non dovrà più accadere ( c’era il governo Berlusconi).

      Con la “religiosità del vivere” – chiamiamola così, è solo per intenderci. Però a me piace separare religiosità da religione – tutti quei poeti, in Russia, non sarebbero morti, uccisi o suicidati. Sospetto che il programma rivoluzionario era a livello peggio che la Lega in Italia, perché queste mattate le fanno solo loro o i fascisti.

      Torno a dire che i poeti, perché poeti, comunque gli vada sono sempre persone libere. Questo è la ragione e il senso del loro canto, fin anche della loro esistenza. Rimprovera chi non scrive da persona libera, aiuta chi non si rende conto… provaci con ogni poesia che scrivi. Anche con le più stupide:

      Il titolo del brano.

      Piove? Mettetevi sotto questo ombrello.
      Anime inquiete. Muovete il bacino, scimmie fate all’amore
      seguite il ritmo dateci dentro; il corpo sa dove muoversi
      gli fa bene come l’acqua alle montagne; seguite il fiore
      che corre nel fiume; che porta al mare una nota sto-
      nata, fuori tempo massima apertura, urlo!

      Piaciuta?

      Allora guardami ma senza guardarmi. E io non ti vedo.
      Tu sei me fuori di me per il vestito rosso fuoco. Tu le mie braccia, tu la morbidezza dei miei fianchi sulla campana a morto
      dei tuoi lunghi capelli.

      Lenta sera. Passano labbra rosse sull’autostrada.
      Gli occhi della femmina indagano tagliando il burro come stella.
      Pausa. E ora tenete la damigella per le dita mentre ruotate come dervisci
      ricoperti da serpenti velenosi.
      Lento veleno.
      E’ il titolo del brano.

      May, nov 2017

      1. 1.
        Né i poeti né i non poeti «sono free». Se si guardassero attorno in questo paesaggio di macerie economiche, politiche e culturali. Pretendere poi di essere liberi *in quanto poeti* per me resta una fesseria. La libertà non *appartiene* a un gruppo sociale, a una corporazione, a una setta. Non è una * proprietà*. Il non fare propaganda « per niente e per nessuno» (in pratica non scegliere nei conflitti quotidiani o generali) non è in sé atto di libertà. Più probabile che sia un atto di difesa (a volte legittima).
        2.
        « Poesia e storia si è sempre fatta». Generico. Dai per scontato un rapporto che è stato ed è sempre carico di problemi. In poesia ( e non solo) ci sono sempre spinte potenti a rimuovere la storia (a sublimarla, a edulcorarla) a vantaggio di chi ha più potere (più “libertà” di reprimere o opprimere) e spinte ad immergersi negli eventi con la speranza di mutarli a vantaggio di chi ha meno potere, soffre, non riesce a campare in modi decenti. I vari modi di affrontare questo rapporto in contrasto tra loro e non possono essere presentati come equivalenti o quasi. Anche in poesia. Un solo esempio: i futuristi italiani ebbero poco a che spartire con i russi. Il qualunquismo si annida dunque facilmente nei giudizi spicci sulla questione. Quando poi c’è da valutare quello tra poesia e rivoluzioni, si vedono – come in questa discussione – molti mal di pancia.
        3.
        La Nuova ontologia estetica di cui si parla su «L’Ombra delle Parole» non si sa cosa effettivamente sia. Un sintomo: tu stesso, che partecipi alla discussione su quel blog, affermi che « quel che ci si mette dentro è affare di ciascuno». La mia diffidenza è motivata. Non ho più nessuna ragione seria per interloquire o entrare in polemica con te o con gli altri. Vado per la mia strada e lascio andare per la loro gli altri.
        4.
        Bastasse disprezzare la violenza per bloccarla! No comment.
        5.
        Bastasse separare religiosità da religione. No comment.

  16. Ennio usa delle cautele nel riportare le posizioni che “h[a] contrastato”: scrive di “più o meno sottintese antipatie”, non evita di etichettare come “modi allusivi e obliqui” quella che, però, “mi pare la loro posizione”. E poi scrive: “ma le differenze ci sono”. Appunto, e allora facciamo lo sforzo di esplicitare il terreno di queste differenze.
    Sul rapporto tra Poesia e Rivoluzione – ma non mettiamo *storia* come equivalente a *rivoluzione*, perchè anche coltivare il giardino non avviene fuori da qualche contemporaneità storica, né è privo di intenzionalità.
    Per me la vera domanda è: quale rivoluzione?
    Più che ipotizzare sostitutive “rivoluzioni in senso metaforico o specialistico” o “rivoluzione priva di germi di violenza” o “sostenere scelte realistiche o pragmatiche”, io metto in questione un’idea di rivoluzione come insurrezione, strettamente connessa alla effettualità militare, blitzkrieg + guerra di posizione.
    Mi riferisco qui a quella idea di Rivoluzione presente nel testo di F. Piccioni su Contropiano, riassunta nel brano che egli riporta dalla Prefazione a “Per la critica dell’economia politica” del 1859: “A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”.
    Invece, nell’articolo di P. Poggio su Sinistra in rete (due testi che Ennio ha fatto presenti recentemente, Poggio è ripreso anche da Visalli e accostato a Musto e Samir Amin): “il suo [di Marx] argomentare comporta una rottura esplicita con un caposaldo del marxismo come scienza della storia, ovvero la centralità della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, quale chiave interpretativa della dinamica storica”.
    Invece ci sono, ci sono altre strategie rivoluzionarie! Un esempio di rivoluzione che sta avvenendo – e perciò è avvenuta: “articolo della giornalista inglese Laurie Penny su Internazionale 1229. Lei pensa, come noi qui, che l’affare Weinstein segni una svolta importante nei rapporti uomo/donna […] é importante che gli stupratori abbiano nuovamente paura delle conseguenze delle loro azioni”. C’è stata una rottura, simbolica e perciò rivoluzionaria: gli stupratori-molestatori sanno che ora non possono più essere accettati, e questo anche se ci proveranno ancora. (Poi l’articolo procede su una strada di maggiore profondità: “Ma l’idea della battaglia dei sessi è fuorviante perché ci nasconde che, nella vita sessuale, *o vincono tutti o non vince nessuno*” c.vo mio, insomma invito a leggerlo http://www.libreriadelledonne.it/laffare-weinstein-sta-rivelandosi-per-le-donne-un-buon-affare/).
    E che sia una rivoluzione necessaria, il rispetto verso una umanità che non si identifica col maschio adulto e proprietario, è mostrato dalle autopsie delle giovani (14-18 anni) migranti arrivate morte sulla nave spagnola qualche giorno fa, le autopsie hanno trovato segni di bruciature e di torture, oltre a infibulazioni e una gravidanza. Non si sa ancora se le torture avvennero durante il viaggio, o quando, comunque è rivoluzione anche impedire che questo sulle donne possa avvenire ancora. E qualcosa cambia, e cambia perché c’è stata politica che ha voluto anticipato sottolineato pensato -il femminismo- proprio questa rottura, modificazione.
    Se quindi per rivoluzione si può intendere non solo quella politico/militare “insurrezione-e-poi-guerra-di-posizione”, se la necessità di uno stretto nesso contraddittorio tra rapporti di produzione e forze produttive lo stesso Marx anziano non la vedeva più tale, allora che significato viene ad assumere “Poesia e Rivoluzione”? La poesia, come l’intendenza, c’è sempre, e seguirà.

    1. Trovo ozioso e quasi pornografico parlare di rivoluzione quando quelli che avrebbero ragione di pensarla e farla (noi compresi) nei modi concreti che una vera situazione rivoluzionaria farebbe intravvedere, brancolano in un caos di idee e di reazioni istintive o di sopravvivenza. Come si vede anche da questi nostri commenti.
      Taglio corto. Per me quanti vorrebbero una « rivoluzione priva di germi di violenza » (Mayoor) stanno con la testa nelle nuvole. E lo sono anche quante pongono «la vera domanda» (che sarebbe: « quale rivoluzione?») e poi vedono « una rottura, simbolica e perciò rivoluzionaria» nelle reazioni indignate seguite all«affare Weinstein» (Fischer).
      Gli usi troppo metaforici del termine ‘rivoluzione’ aumentano la confusione. Quando poi si fanno misture di discorsi (di Piccioni, Musto, Visalli, Poggio) riguardanti il marxismo e di discorsi riguardanti il femminismo e si tira in ballo «lo stesso Marx anziano» mettendogli quasi in bocca che « per rivoluzione si può intendere non solo quella politico/militare “insurrezione-e-poi-guerra-di-posizione» ma magari anche quella di cui parla la giornalista inglese Laurie Penny, piango sui danni fatti dal postmodernismo e chiudo.

      1. – Rispetto agli “usi troppo metaforici del termine rivoluzione” basta dunque opporre “i modi concreti” che “una vera situazione rivoluzionaria…”?
        Quella che non si scorge, con modi concreti solo immaginabili. Abbiamo contraddizioni, e basta.
        – L’ondata di reazioni a certi comportamenti maschili parte solo dal caso Weinstein, ma si è allargata in modo radicale, non tutti se ne sono accorti.
        – Certe rotture simboliche sono rivoluzionarie, sì, il femminismo è una di queste.
        – Che la rivoluzione non si produca solo dallo scontro tra rapporti di produzione e forze produttive è quanto Marx cominciava a pensare, osservano in quella mistura di discorsi. Quindi io accosto anche una rivoluzione simbolica, metafora di nulla.

  17. Comunque sia, anche pensando ai poeti russi del periodo della rivoluzione, una riflessione su “quale linguaggio” dovrebbe essere importante. Quasi tutte le poesie di Majakovskij possono essere capite anche dai bambini, altre, quelle di Mandel’štam ad esempio, molto meno. Alcune di Pasternak dovrebbero piacere ai bambini, se lette prima di dormire, particolarmente quelle sulla natura. Se le capivano i bambini, a maggior ragione anche i contadini e tutta la “classe”.
    Dico questo per riflettere su aspetti del linguaggio comunicazionale, che oggi si deve poter leggere e comprendere anche in poche battute. Nel teorizzare il post-moderno, Lyotard parlò di efficacia ( già a metà anni ’70). Io mi sono rivolto alla frammentazione; a parte che mi ci ritrovo quasi naturalmente, penso anche di avere optato per una scelta critica giusta, che sento adeguata ai tempi.
    Capisco che la questione possa sembrare superficiale, solo estetica, ma senza questa si finisce col buttare via anche quel poco o tanto di buono che si avrebbe da dire.

    1. «Una riflessione su “quale linguaggio”» o sull’estetica per me ha senso e potrebbe appassionarmi quando fondata su premesse generali condivisibili. Quelle da cui parti tu e partono quelli de “L’Ombra delle Parole” sono – secondo me – molto confuse e non mi attirano.

  18. … essere “umani liberi” oggi è ben difficile e quindi anche “poeti liberi” : come liberarci dalla minaccia del macello delle armi, dal potere del capitale economico finanziario, dal potere occulto della propaganda?…in realtà di questi tempi anche un movimento di ciglia è vincolato…Anch’io penso che oggi sfidare il potere sul piano di uno scontro di forze sia assurdo e perdente perciò si dovrà trovare un altro modo per portare avanti una rivoluzione…quella d’Ottobre del 1917 trovò delle condizioni solo sino ad un certo punto favorevoli, poi entrò nell’ibrido dei compromessi, nelle forzature violente come nella logica del potere..Ma era ancora La Rivoluzione? I poeti ne vissero le varie fasi e ne furono travolti…Tuttavia furono testimoni di un sovrumano sforzo di cambiamento e del suo terribile evolversi in sconfitta…loro stessi tra le vittime…La loro poesia non potette rimanerne estranea

  19. Osservazioni aggiunte

    Tendo, nei miei interventi, ad essere, a torto o a ragione, analitico. Mi serve per non creare confusione tra concetti e situazioni diverse. Vedo che non è un metodo molto seguito ma continuerò ad usarlo. Credo – e penso che lo pensino un po’ tutti – che si possa essere – politicamente – rivoluzionari autentici e- esteticamente – poeti autentici. Ce lo mostra l’esperienza. Il dibattito nel quale sono intervenuto mi pare allora una disputa interessante solo per la famiglia dei marxisti, ex marxisti e nuovi marxisti: in una parola di una sinistra autentica. Ma è discorso storico e storicamente datato nel quale bisognerebbe introdurre qualche elemento di specificazione sia per quanto riguarda il concetto di rivoluzionario autentico sia per quanto riguarda il concetto di poeta autentico. In un suo scritto – polemico ma molto acuto – il critico Berardinelli – ponendo a confronto Fortini e Sanguineti – sostiene che il primo è tradizionale in letteratura ed eterodosso in politica mente il secondo è ortodosso in politica e avanguardista in letteratura. Non entro nel merito di tale valutazione ma condivido il metodo che sa distinguere i campi di sapere di esperienza entro i quali debbono operare i nostri concetti per acquistare valore. Si dovrebbe – poi – considerare che sia la Poesia che la Rivoluzione SEMBRA abbiano perso la loro sacralità e siano entrambe diversamente condizionate rispetto al passato. Parliamo pure di Stalin e dei poeti della sua epoca ma attenzione dobbiamo occuparci di ciò che ci riguarda ratione temporis. A volte penso che se è possibile la coesistenza di rivoluzionario e poeta
    ( opinione già espressa ) non sia possibile la coesistenza di autentico reazionario e autentico poeta in ragione – ecco la premessa- di una carica naturalmente “ eversiva “ della comunicazione poetica.

  20. Segnalo la coincidenza di un nuovo articolo di A. Visalli nel suo blog https://tempofertile.blogspot.it/2017/11/il-manifesto-del-partito-comunista-la.html#!/2017/11/il-manifesto-del-partito-comunista-la.html
    in cui mette a fronte l’idea di rivoluzione in Marx nella Prefazione a “Per la critica” (ma senza riferirsi a F. Piccioni), e le sue ultime posizioni, “poco più di un abbozzo di nuovo pensiero, una linea ancora largamente implicita, che non sarà portata avanti”, conclude Visalli.
    Ma noi invece possiamo svincolarci da una unica idea di rivoluzione “marxista”.

  21. Quindi, interpretando sommariamente: per il marxismo, poesia s’inserisce nella storia della lotta di classe, è così? Bene. Mi sembra che Ennio ci stia dentro. Io no, al più posso ritrovarmi nel pensiero di Toni Negri, se ho ben capito, quando separa marxismo da comunismo; benché questo dipenda dal fatto che non ho letto Marx come avrei dovuto, quando sembrava fosse il momento giusto per farlo. Certo che se non s’è realizzata alcuna rivoluzione in questi ultimi dieci anni in Italia… perché le condizioni di disparità credo non siano mai state così evidenti e drammatiche. Ok, aspettiamo che vincano di nuovo i nazisti; forse allora… e perché non alla fine dell’ultima guerra? e perché perché perché , orami ho capito: c’è sempre una spiegazione per tutto, come per niente.

  22. Perché i marxisti non cavalcano il dissenso che c’è oggi in Italia, perché non sanno mettere luce dove servirebbe, perché non indicano obiettivi concreti?
    Mi sono ormai fatto l’idea che, essendo idealisti, preferiscono interrogarsi sul senso delle cose, all’infinito; un po’ come gli ebrei meditano sulla bibbia, appunto, all’infinito, perché l’azione del meditare è diventata oggetto principale di religione.
    Per gli idealisti la realtà si muove con tempi ultraterreni, che vanno oltre la propria esistenza e quella degli altri. L’idealista è una persona che ha fede e speranza; ma tutto deve corrispondere al suo ideale, altrimenti l’idealista non ci sta, storce la bocca, disapprova… dirà che ” mancano i presupposti” o che l’interpretazione è sbagliata. In pratica, l’idealista non dà alcun contributo fattivo.
    Senza voler sminuire la figura di Franco Fortini, a me sembra che possa ben rappresentare l’idealista marxista di adesso. Un fatto esistenziale complicato, che non fa pensare a Majakovskij.

  23. Caro Ennio, forse mi sbaglierò ma certo non di grosso. Nei tuoi interventi continui a riferirti a Marx, marxisti etc… C’è una ragione o no ? Non era comunque un’accusa anzi un complimento perché aggiungevo il termine ” autentici ” che per me è elogiativo. E poi cosa cambia del mio intervento ? Noto invece che molte delle mie osservazioni cadono nel vuoto. Saranno sciocchezze ma bastava dirlo e non mi sarei offeso. E invece si preferisce rilevare una mia magari erronea attribuzione di paternità. Cordialmente . Giorgio.

  24. @ Fischer, Mannacio, Mayoor

    Non ha senso che sia sempre io solo a replicare alle vostre obiezioni e smetto.
    Chi ne ha avesse voglia e lo ritiene utile sviluppi autonomamente la propria posizione in un articolo che verrà pubblicato.

  25. Gentili interventisti,
    Vi invito a leggere la prefazione di Ignazio Ambrogio a “Poesia e Rivoluzione” (Editori Riuniti, novembre 1968, prima edizione) che ha come riferimento alcuni scritti di Majakovskij. Questa prefazione sviscera alcuni temi da Voi affrontati, ma con conoscenza specialistica. Ma a chi voglia conoscere davvero bene come si svolsero, dal di dentro, gli eventi della rivoluzione d’ottobre, non ha che da leggere – fra i tantissimi – sono centinaia – il libro di Viktor Sklovskij “Viaggio sentimentale” (Ricordi 1917-1922; ed. De Donato del febbraio 1966). Molti vostri dubbi o ragionamenti dei rapporti fra Poesia e Rivoluzione che Voi avete in qualche maniera espresso cozzano con ciò che scrisse Sklovskij che fu testimone oculare di assoluta fiducia come pochissimi a tratteggiare gli eventi. Leggendo questo libro – un viaggio e per giunta “sentimentale” sarete riportati indietro giorno per giorno su quanto allora davvero successe.
    Poi vi sarebbe (scelgo a caso) – se non erro sono i 7 volumi di Il’ja Grigor’evič Ėrenburg “Uomini, anni, vita” (Editori Riuniti, 1961-1966) che è altro testimone, ma secondo me meno attendibile. Ma quali testimoni migliori se non gli stessi poeti, artisti, critici di grandissimo valore, linguisti straordinari, ecc. !
    basta così.
    a. s.
    a. s.

    1. @ Sagredo

      Il libro di Šklovskij non è reperibile su Amazon, Feltrinelli, Einaudi. Pare sia in ristampa.
      Tu però che l’hai letto potresti dirci qualcosa di più.
      Ho trovato questi stralci:

      La rivoluzione
      mercoledì 10 maggio 2017
      Šklovskij, Viaggio sentimentale

      Anche affamato, l’uomo è fatto così: si affanna per decidere se sono più buoni gli scarti di ortaggi o le foglie di tiglio, si agita perfino per questi problemi, e muore così, affondando pian piano nelle sfumature.
      C’era il colera a Petrograd, in quel periodo, ma ancora non mangiavano carne umana.
      Correva voce, sì, che un postino avesse mangiato la moglie, ma non so quanto ci fosse di vero.
      C’era silenzio, sole, e fame, molta fame. La mattina si beveva il caffè di segale. Lo zucchero lo vendevano per la strada, 75 copechi la zolletta; una tazza di caffè si poteva bere senza latte o senza zucchero, non bastavano i soldi per l’uno e l’altro.
      [Viktor Šklovskij, Viaggio sentimentale, traduzione di Maria Olsoufieva, Milano, SE 1991, p. 174]

      Al piano inferiore
      martedì 2 maggio 2017
      Šklovskij, Viaggio sentimentale

      Sono colpevole di una cosa sola di fronte alla rivoluzione: spaccavo la legna in camera e questo fa crollare pezzi di intonaco al piano inferiore. Avevo ancora forza sufficiente per spaccare legna in casa di amici, sistemare stufe, aiutare giovani poeti a editare libri, rendendomi garante in tipografia. Mi stancavo moltissimo. Dormivo di giorno sul divano, coprendomi con la tigre. A volte soffrivo di non avere tempo sufficiente per lavorare, scrivevo i libri frettolosamente il tempo non bastava a studiare seriamente. Dicevo più di quanto scrivessi.
      [Viktor Šklovskij, Viaggio sentimentale, traduzione di Maria Olsoufieva, Milano, SE 1991, p. 197]

      Sulle donne
      domenica 30 aprile 2017
      Šklovskij, Viaggio sentimentale

      Devo dire che la frase meno cinica sulle donne che abbia sentito nell’esercito fu questa: «Senza una femmina, anche se il mangiare è buono, ti manca sempre qualcosa».
      [Viktor Šklovskij, Viaggio sentimentale, traduzione di Maria Olsoufieva, Milano, SE 1991, p. 197]

      Due mestieri
      giovedì 27 aprile 2017
      Šklovskij, Viaggio sentimentale

      Naturalmente non rimpiango d’aver baciato e mangiato e veduto il sole; mi rincresce d’essermi avvicinato e aver voluto dirigere un po’ il corso delle cose, mentre tutto ha seguito un itinerario stabilito in precedenza. Rimpiango di aver combattuto in Galizia, d’essermi dato da fare con le autoblinde a Pietoburgo, d’essermi battuto sul Dnepr. Non ho cambiato un bel nulla. Adesso, seduto alla finestra, guardo la primavera che mi oltrepassa e stabilisce il tempo che farà domani senza minimamente consultarmi, senza bisogno del mio permesso, forse perché non sono di qui; e penso che in questo modo avrei dovuto lasciarmi scorrere accanto la rivoluzione. Quando si piomba giù come macigni non bisogna pensare; e se si pensa, non bisogna cadere. Ho confuso due mestieri.
      [Viktor Šklovskij, Viaggio sentimentale, traduzione di Maria Olsoufieva, Milano, SE 1991, p. 162]

      Sulla guerra
      mercoledì 26 aprile 2017
      Šklovskij, Viaggio sentimentale

      È molto difficile scrivere sulla guerra. Di tutto quanto ho letto e giudicato verosimile, posso menzionare solamente le descrizioni di Waterloo di Stendhal e le scene di battaglia di Tolstoj.
      [Viktor Šklovskij, Viaggio sentimentale, traduzione di Maria Olsoufieva, Milano, SE 1991, p. 86]

      Un esempio
      mercoledì 19 aprile 2017
      Šklovskij, Viaggio sentimentale

      Dopo di lui parlò Anardovič. Il suo discorso era saturo di buona fede. Innaffiatosi fino al midollo delle ossa dell’alcool del soviet, era, beato lui, del tutto all’oscuro della gravità e della complessità della nostra situazione. Le sue convinzioni lo rendevano semplice e persuasivo. Durante un’ora di discorso non tralasciò nessuno dei luoghi comuni dei discorsi sovietici. La rivoluzione aveva impresso il proprio marchio sul suo animo. Sembrava un cristiano praticante.
      [Viktor Šklovskij, Viaggio sentimentale, traduzione di Maria Olsoufieva, Milano, SE 1991, p. 131]

      Come frutta
      sabato 15 aprile 2017
      Šklovskij, Viaggio sentimentale

      Uomini si ammucchiavano sui tetti dei vagoni come frutta in ceste ornamentali.
      [Viktor Šklovskij, Viaggio sentimentale, traduzione di Maria Olsoufieva, Milano, SE 1991, p. 47]

      Non la storia
      mercoledì 12 aprile 2017
      Šklovskij, Viaggio sentimentale

      Non voglio spacciarmi per più intelligente di quello che sono e dirò semplicemente quello che penso.
      Sarebbe bene se fossimo meno furbi e lungimiranti in politica. Se invece di cercare di fare la storia, cercassimo semplicemente di essere responsabili per i singoli eventi che la compongono, forse non ci renderemmo ridicoli.
      Non la storia si deve fare, ma una biografia.
      [Viktor Šklovskij, Viaggio sentimentale, traduzione di Maria Olsoufieva, Milano, SE 1991, p. 131]

      La maggioranza
      domenica 12 marzo 2017
      Šklovskij, Viaggio sentimentale

      La maggioranza approfittava della rivoluzione come di una vacanza inaspettata.
      [Viktor Šklovskij, Viaggio sentimentale, traduzione di Maria Olsoufieva, Milano, SE 1991, p. 40]

      L’inglese dello zio di Šklovskij
      giovedì 9 marzo 2017
      Šklovskij, Viaggio sentimentale

      Era giornalista e geografo, scriveva su Russkoe Bogatstvo sotto lo pseudonimo di Dioneo: era segretario della Società Geografica russa. I suoi libri sono tradotti in molte lingue, il più noto è Nell’estremo Nord-Est dell’Asia. Dirò due parole su di lui per dare un’idea del tipo di famiglia da cui provengo e di certi tratti di costume e della mentalità di allora. Dopo uno sfortunato tentativo terroristico dei tardi populisti, fu esiliato a Kòlyma, in una zona del tutto selvaggia. Aveva il diritto di spostarsi come voleva, purché restasse nel settentrione. Imparò la lingua degli Jukaghiri e quella dei Ciuckci, si recò all’estremo nord della regione consentita, raggiungendo località nelle quali i russi erano affatto ignorati: ci si ricordava solo di aver veduto una volta, tanto tempo prima, un uomo con i bottoni lustri che aveva gridato qualcosa in una lingua incomprensibile – evidentemente era un sergente della polizia rurale. Ed ecco che proprio questo stesso Isaak Šklovskij, sempre con la pelliccia addosso, in mezzo al gelo perenne, vivendo in capanne nelle quali il fumo esce direttamente verso il cielo da un buco e dove il fuoco non viene mai spento, si lesse tutto Shakespeare e si imparò l’inglese. In seguito, prosciolto, venne inviato dal suo giornale a Londra, con il ruolo di corrispondente. Ma a Londra risultò parlare una lingua ignota a tutti, sebbene fosse in grado di leggere qualsiasi cosa. Imparò poi l’inglese degli inglesi, ma a voce preferì sempre spiegarsi in francese.
      [Viktor Šklovskij, Viaggio sentimentale, traduzione di Maria Olsoufieva, Milano, SE 1991, p. 12]

      ( da http://www.paolonori.it/argomenti/viaggio-sentimentale/)

  26. Viktor Borisovič Šklovski. Brano di una Lettera ad Ettore Lo Gatto. In: Ettore Lo Gatto, Russi in Italia. Milano, Editori Riuniti, 1971.
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    La Puglia
    Sono stato in Italia tre volte e non mi decido a scriverne. Ne e’ stato scritto troppo e bene. In Gogol alla fine delle Memorie di un pazzo, la trojka vola nell’aria sul mondo e da una parte c’e’ l’Italia, dall’altra si vedono le isbe russe.
    L’Italia, come uno strato invisibile, e’ sotto la creazione di Gogol: cosi’ nell’antichita’, davano l’ultimo tocco alle pietre preziose, mettendo sotto di esse un foglio di metallo colorato. Cellini l’ha fatto in Italia.
    In Italia, meglio di tutto, io conosco la Puglia. Se un giorno mi decidessi a scrivere dell’Italia, comincerei il mio racconto enumerando le sue diverse regioni, la caratteristica delle singole citta’, la differenza dell’aria, l’andatura delle persone.
    In Puglia mi ha colpito la terra, spugnosa come il pane. Piu’ esattamente, non la terra, ma la pietra calcare incipriata di terra.
    Grande, antica terra con fiumi sotterranei.
    Terra, dove il bestiame pascola d’inverno, perche’ d’inverno c’e l’erba; d’estate e’ negli stalli, – cosi m’e’ sembrato.
    Ricordo gli olivi – antichi olivi, contorti come la biancheria nelle mani di una lavandaia molto forte.
    La siccita, l’odore delle stoppie, simile all’odore di pezzi intatti delle nostre sconfinate steppe, e le strane capanne di pietra – i trulli.
    Di dove derivano? Siano essi capanne di pietra di montanari o avanzi di un popolo ignoto, anche i segni, su queste capanne di pietra dai lati acuti, sono strani. E vivono essi a famiglie, come strani frutti dalle teste puntute su rami sotterranei. E in mezzo ad essi, strade pulitissime se sono cittadine, o terra arida, bassi recinti e vuoto.
    Uno spazio che da’ forma, a modo suo, ad una sua grande arte.
    I cristalli architettonici della Puglia sono originali come le sue grotte.
    E nello stesso tempo quest’arte e’ piena di chiarezza e molto legata alla terra, al paesaggio. Non e’ un’arte innestata, ma cresciuta sul posto.
    Ricordo Castel del Monte; una collina declinante intersecata da sentieri circolari; sono queste, forse, le tracce millenarie di greggi o le cicatrici di aratri, e sembra straordinariamente logico il castello ottangolare o a otto torri con volte sorprendenti e una sorprendente scultura che non si ripete in nessun altro luogo. E’ una grande arte, dalla quale dispiace allontanarsi.
    Ricordo la Bari antica: sopra una riva piatta s’innalzano edifici, ideati forse mille anni fa e che non sono affogati nella citta’ nuova.
    La Puglia non somiglia a nulla, bella d’una sua bellezza. Ha un suo odore, un suo sapore di mandorle e di stoppie e di mare.
    Ma tutto cio’ e stato da tempo.
    Io ho vissuto nella casa dell’editore De Donato. Un’altra casa vuota sul monte: grandi stanze, bello, deserto.
    Accanto, sullo stesso monte, c’era un cortile di villaggio. Sedevo sotto un albero – quest’albero dava la sua ombra pugliese, il sole la penetrava.
    Venne a me una donna dal vicino cortile e porto’ una fotografia, o piu’ esattamente, un ingrandimento fotografico di un giovane italiano in divisa militare. Anche da noi simili fotografie sono appese si muri nei kolchozy.
    La donna parlo’; a lungo non ci comprendemmo l’un l’altro, ma poi ci riuscimmo. La donna diceva:”la mamma piange, le hanno detto che in questa casa vivono dei russi. Il figlio le ha scritto l’ultima volta da sotto Stalingrado, poi egli e’ scomparso senza dare piu’ notizie. La mamma domanda: forse voi l’avete visto in qualche posto in Russia”?
    Mio figlio fu ucciso nell’ultima settimana di guerra. Io so che egli non tornera’. Io conosco i fiumi sotterranei del dolore che scorrono in un’anima rosa dal dolore.
    Piangemmo.
    Il nostro paese e’ molto grande, ma, naturalmente, nessuna ricerca ritrovera’ mai questo ragazzo.
    Lontana, bella Puglia. Qui visse Orazio, e prima di lui combatterono: qui combatterono i Normanni, e prima di loro combatte’ Annibale. In qualche luogo qui c’e’ Canne. Si, e’ qui. Forse si puo’ confondere con Cannes sulla riva del mare: la’ hanno luogo i festivals del cinema.
    Dicono che qui furono i Troiani.
    Non molti ritornano dalla battaglia. Rimangono le rovine, gli alberi che crescono sulle rovine, e forse non muta il cielo se non lo offuscano i fumi delle fabbriche di guerra.
    La donna pugliese che pianse insieme a me ci porto’ poi, ogni mattina, due uova, e le poneva sul recinto di pietra. Non prendeva denaro. Ci univa il dolore.
    Ecco, vedete, amico, com’e’ difficile descrivere un paesaggio.

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    Perché ho scritto questo?
    Quando incontrai Šklovskij a Roma, all’Associazione Italia-URSS (allora parlavo il russo fluentemente) fui preso da tremore: non capivo più quale era il Tempo reale; se quello del critico geniale o quello mio! Avere di fronte la persona che aveva guardato negli occhi e stretto la mano ai maggiori poeti e artisti russi dei primi anni ’30 del secolo passato mi sembrava inconcepibile… di lui aveva parlato forse per primo in Italia A. M. Ripellino (che invece morirà nel 1978, ben sei anni prima dello stesso Šklovskij !). E quando venni a sapere della sua esistenza dalle letture di saggi specifici e di lui tradotti (come di tanti altri testimoni di quella epoca) mi pareva di leggere di cose lontanissime, ma poi non così tanto lontano se ce l’avevo di fronte! Ecco perché a quale “Tempo” appartenevo non mi era affatto chiaro.
    Quando mi avvicinai con timore mi presentai come allievo di Ripellino e lui si fece subito triste… ma si cominciò a parlare del tempo passato e dei suoi amici poeti e artisti… mi guardava negli occhi in maniera curiosa e poi mi disse se per caso fossi pugliese – col suo intuito linguistico straordinario ! – ed io certo gli rispose che ero nativo di Brindisi, ma vissuto a Lecce.
    Gli si brillarono gli occhi poiché in quei luoghi era stato tanti anni prima e ne aveva scritto in una lettera a E. Lo Gatto, di quella terra con entusiasmo (più su ho riportato parte di quella lettera).
    Poco prima di salutarci Šklovskij prese un pezzo di carta bianco e sopra vi disegnò qualcosa e poi mise la sua firma; questo qualcosa era un cavallo, e compresi subito che si riferiva a un suo libro “La mossa del cavallo”; questo disegno me lo conservo come una reliquia.
    La nostra stretta di mano fu calorosa… non riuscivo a staccarmi dalla sua mano… i miei occhi erano umidi.
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    Caro Ennio,
    appena potrò spero di riuscire scrivere qualcosa sul suo “Viaggio sentimentale”; spero… perché sono preso dalla revisione del mio terzo volume di poesie “La gorgiera e il delirio”, che uscirà forse prima di Natale.
    abbracci
    Antonio Sagredo
    Roma, 22 novembre 2017

  27. @ Sagredo

    Con tutto il rispetto e l’ammirazione che ho per Šklovskij sul piano letterario, non riesco a capire questo suo sguardo tutto immerso sul passato e sulle somiglianze tra il paesaggio contadino pugliese e quello della sua Russia.
    Non vedo cosa pensasse della rivoluzione russa, di Lenin, di Stalin, di Trozky [Trotzky], dei problemi economici, sociali e politici che in quella prima metà del Novecento si posero in quel paese e nel mondo di allora.
    O lo devo dedurre io da queste sue parole o da altri libri suoi?

  28. Caro Ennio,
    cado dalle nuvole; come hai potuto pensare che avessi scritto soltanto per riferire due paesaggi?
    Io non ho pensato affatto a questo aspetto: ho solo riferito due testimonianze: del critico riguardo ad un suo viaggio in Puglia. E della mia riguardo all’incontro con lui avuto. Poi lontano da me d’essere un paesaggista, come p.e. le migliaia di pittori che non fanno altro che dipingere in migliaia di salse i loro paesaggi.
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    Riguardo a Stalin, dopo la morte di Majakovskij, fuggendo, nascondendosi avvisato sempre da amici fidati. la polizia segreta sempre alle calcagna: sapeva bene e troppo come andarono le cose…
    Di Lenin… era molto vicino alla posizione del poeta Aleksandr Blok, che si domandò spesso nei suoi taccuini se fosse avvenuta davvero una rivoluzione.
    Di Trockij non lo ricordo, spero di diìTi qualcosa.

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