Il Tonto e la società dello spettacolo

 

di Giulio Toffoli

Sono a fare il checkup semestrale alla Poliambulanza.
Entro e dopo aver atteso il mio turno agli sportelli mi avvio verso la zona dei prelievi. Sono lì seduto in attesa che esca sul monitor il mio numero e vedo uno, tutto scarmigliato, che cammina a larghe falcate per il corridoio con uno strano soprabito che sembra quasi un camice, bianco e lungo, con due code che si perdono nell’aria. Lo guardo bene e dico fra me e me:
“Ma sì, è lui – allora lo apostrofo ad alta voce con il classico – Ehi Tonto come va?”
Si voltano verso di me in quattro o cinque e mi guardano in cagnesco, quasi a dirmi:
“Ma chi l’ha autorizzata? A chi dà del tonto … Non si permetta …”
Per salvarmi aggiungo un: “No …, è lui che ho chiamato …”.
Infatti il Tonto si avvicina e con fare complice mi dice:
“Come mai tu qui …”.
“La stessa domanda te la potrei fare io. – gli rispondo – Per quel che mi riguarda sono i soliti esami.
Invece tu come mai in questi giorni non ti sei più fatto sentire …”.
“Ti ricordi – aggiunge mostrandomi una serie di scomode sedie dove ci depositiamo un poco come se fossimo dei carbonari – che qualche tempo fa ti ho parlato dei miei sogni. Bene sono diventati sempre più frequenti e assillanti e allora ho cercato di farmi aiutare … C’è qualcuno che qui mi ha preso in carico e si è convinto che sono un caso interessante. Per cui da qualche giorno ho messo le tende qui …”.
Che dire? Che ero stupito, che ero anche un poco preoccupato e che, come capita per quasi tutti quelli che finiscono in un ospedale, non lo vedevo granché bene.
Ero senza parole, ma è stato lui che, per nulla affaticato di raccontare delle sue traversie ad altri, mi aggiunge:
“Ricordi che ero a Scartlantis?
Non ci crederai ma qualche giorno fa il tormentone è ripreso.
Sì ero ancora io … giovane e pieno di forze, alla conquista del mondo.
Sognavo, fantasticavo? Cosa vuoi che ti dica, quello che è certo è che mi è rimasta in mente una storia come se fosse incisa a fuoco nella mia memoria.
Insomma ho vissuto una storia che non riesco a far quadrare con ciò che ricordo della mia gioventù. Ogni tanto ho l’impressione di aver vissuto due giovinezze.
Vuoi che ti racconti?”
Come faccio a dirgli che non mi sembra il luogo … che non è il momento …
Senza indugiare un secondo inizia:
“Mi trovo su un aereo. Non chiedermi nulla del pregresso. E’ tutto buio, un buio assoluto. So solo che mi sembra di essere in un film della serie Mission Impossible. Sto volando su un aereo che somiglia ad una vecchia carretta. Sobbalza senza darmi tregua. Io cerco in tutti i modi di tenere gli occhi chiusi ma poi un vortice d’aria, che ha fatto sussultare l’intera carlinga, mi ha definitivamente svegliato.
Mi guardo intorno e vedo che l’aereo è mezzo vuoto. Mi sembra di non capire nulla se non fosse che, messa a fuoco la situazione, mi sono reso conto che la mia agente siede accanto a me, Natascia, detta Nat.
La guardo e le tocco un braccio, poi aggiungo:
«Ma allora è vero che siamo in aereo. Dimmi Nat, perché è vero che tu sei Nat? Dove stiamo andando … Siamo stati rapiti. C’è stato un colpo di stato. E’ successo qualche cosa di grave …
Dove è Tamara. Senza la mia assistente non mi muovo!»
Continuo a parlare quando mi guarda negli occhi con una occhiata che ricorda in qualche modo quel gentiluomo di Iosif Vissarionovič Džugašvili e aggiunge:
«Ultimamente bevi troppo, non dirmi che non ricordi proprio nulla. Per essere uno che viene dall’Italia, dove dicono che si beva “bene”, sei rapidamente diventato una spugna capace di tenere testa ai nostri maschi più alcolizzati. Come è possibile che tu non rammenti nulla … è inconcepibile».
Non sapendo che fare cerco una mediazione e aggiungo con tono supplichevole:
«Ok ammetto, ho le mie colpe. Ultimamente non mi sarò sempre comportato nel modo migliore. Scusami ma ho un grosso vuoto di memoria. Mi puoi aiutare a ricordare. Visto che tu sai accogli benevolmente chi si avvicina alla fonte del tuo sapere … Son qui umilmente ai tuoi piedi a chiederti perdono.
In più ti aggiungo che da ora in poi non berrò neppure un goccio».
Lei mi ha guardato ridacchiando come chi, pretendendo di conoscermi bene, volesse far finta di darmi ragione, ben sapendo che non sono altro che false promesse e ha aggiunto:
«Vabbè tutto è molto semplice, siamo stati invitati a Hollywood per la premiazione degli Oscar. Sia chiaro non vinceremo nulla, ma tutto fra brodo, come si dice dalle nostre parti. A noi interessa come pubblicità per il nostro film e per cercare di vedere se ti trovo una qualche nuova occasione di lavoro anche fuori dal nostro paese. Ecco perché siamo su questo nobile destriero dei cieli».
La guardo stranito e poi mi lascio andare mentre per un tempo interminabile l’aereo si muove a balzelloni verso la magica Mecca del Cinema. Io sono rannicchiato nella mia poltrona, sempre più anchilosato mentre aspetto la liberazione da quella condizione che mi sta creando uno stato di crescente claustrofobia. Infine arriva l’annuncio liberatore. Siamo in arrivo all’aeroporto di Los Angeles.
Quest’ultima fase del volo è quella che mi ha creato sempre maggiore paura. Son lì, seduto come se mi trovassi su un letto di spine fino a che non sento che le ruote hanno toccato terra.
Superata la prova di ore e ore di volo scendiamo e ci avviamo verso il terminal dove dobbiamo mostrare i documenti e poi ritirare le valigie.
C’è qualche cosa di strano nel terminal, fin dal primo istante ho l’impressione di essere sottoposto a un continuo controllo, in una situazione di permanente stato di ispezione da parte di una onnipossente macchina poliziesca.
Seguo la mia agente che sembra un poco più spigliata di me e ci avviamo verso la verifica dei passaporti.
Qui affrontiamo il primo intoppo. Il passaporto di Nat viene guardato dall’addetto più e più volte. Sembra proprio che non lo riconosca o forse che non ne riconosca l’autenticità. In effetti Scartlantis è uno fra gli ultimi staterelli usciti dalla fase di disgregazione politica della fine del XX secolo e sulla carta geografica del mondo è grande poco più che un punticino.
Tant’è che vediamo intervenire un addetto in uniforme che chiede a Nat di seguirlo. Io non so che fare ma la fila preme alle mie spalle e mostro il mio documento che invece passa il controllo senza difficoltà. L’addetto dopo avermi chiesto per quale motivo avevo deciso di venire proprio a Los Angeles di fronte alla mia risposta: «Per la premiazione degli Oscar», mi ha gentilmente salutato augurandomi una buona permanenza.
Invece che avviarmi verso l’uscita mi preparo ad attendere che Nat esca dalla stanza dove ho visto che è stata condotta. Mi siedo e rimango lì in attesa per una buona ora. Solo allora vedo uscire la mia agente che è imbufalita. Invece che leggere ciò che è avvenuto come una normale preoccupazione da parte delle autorità poco abituate a veder venire in California una cittadina del suo paese è convinta che si tratti di un chiaro caso di discriminazione e mentre attendiamo i bagagli mi dice: «Ecco siamo alle solite. Il maschilismo patriarcale dell’Occidente non può che accoglierti in questo modo. Sono una donna e invece che trattarmi come una normale turista iniziano a indagare alla ricerca di non si sa che cosa. Solo dopo che ho fatto vedere l’invito alla premiazione e hanno telefonato e indagato si sono convinti. Non so cosa pensassero: che ero una terrorista o un qualche agente proveniente da un altro pianeta? Forse un agente di Pu… Siamo alle solite parlano dei diritti umani ma poi sono solo i diritti dei maschi …».
Non la finiva più con la sua tiritera quando per fortuna sono arrivate le valigie e anche per quelle abbiamo dovuto subire un controllo che è stato particolarmente minuzioso. Solo che noi avevamo portato proprio il minimo necessario e questo ci ha favorito.
Così dopo qualche ora siamo usciti e finalmente abbiamo messo i piedi nel regno della cinematografia. Anche se, per essere chiari, ci siamo trovati invece alle porte di una metropoli e la nostra meta era ancora abbastanza lontana. Infatti, come mi ha spiegato Nat avevano cercato per tempo un hotel che rispondesse a tutte le nostre esigenza, prima fra tutte un costo contenuto, e non lo avevano proprio trovato. I prezzi nella zona di Hollywood erano proibitivi e allora avevano ripiegato su un alberghetto situato in W. Florence avenue, ben distante dalla zona di nostro interesse e per arrivarci non potevamo far altro che prendere un taxi e farci scarrozzare in giro per la periferia di Los Angeles.
Quando arriviamo a destinazione, scesi dal taxi ci guardiamo negli occhi con un senso di evidente disappunto. Forse quelli che avevano fatto la prenotazione non avevano guardato le immagini che vengono sempre fornite per descrivere gli hotel o la primaria necessità di risparmiare li aveva condizionati ma il luogo dove avremmo dovuto passare i nostri giorni di permanenza nella città era davvero poco invitante. Si trattava di una specie di motel, con un ufficio al piano terra e poi una serie di stanze che davano su un ballatoio. Insomma non potevamo finir peggio.
Ci dirigiamo verso l’ufficio per lasciare i documenti e prendere le chiavi delle stanze e troviamo un signore in canottiera piuttosto anziano e non poco scortese che ci chiede cosa vogliamo. Mi guarda aspettando da me una risposta e quando vede che è Nat che gli parla sembra ancora più perplesso. Poi ci dà una chiave e ci indica la scala. Non ascolta neppure le nostre richieste, i nostri dubbi. In particolare Nat era convinta che ci avessero destinato due stanze ma le sue rimostranze non trovano ascolto. Alla fine la prendo per il braccio e le dico: «Cosa vuoi fare, è evidente che siamo partiti con il piede sbagliato. Meglio fare buon viso a cattivo gioco. Qui come dici tu sono tutti maschilisti e proprio non ti vogliono ascoltare».
Saliamo le scale ed entriamo nella nostra stanza, la 214.
E’ buia, c’è un che di stantio e un’aria di chiuso. Vado ad aprire la finestra e il quadro che ci si presenta non è fra i più confortanti. Il locale è piccolo, il pavimento è coperto una moquette scura piuttosto sporca. Il mobilio è ridotto al minimo. Un letto, due comodini, un tavolino microscopico e una sedia. Per fortuna che c’è il bagno, anche se pure lui non è particolarmente pulito.
Mentre io mi guardo intorno Nat si mette a ridere e sembra non smetterla più. Io non so esattamente che fare e mi vien spontaneo di chiederle: «Ma per quanti giorni dovremo restare in questa reggia?»
Vedo che si è seduta sul letto e cerca di verificarne lo stato, poi aggiunge: «A me avevano detto che ci avevano prenotato il miglior hotel della zona e che così potevamo goderci per una settimana le mirabolanti bellezze di Hollywood. Ma mi sto convincendo che i nostri amici non abbiano assolutamente l’idea della realtà di questa megalopoli e fra l’altro mi sto chiedendo se il budget che avevo preventivato ci basterà … Se devo dirti la verità sono un poco preoccupata».
«Niente preoccupazioni – le dico, nel mentre cerco il mio portafoglio e con un gesto degno di un prestigiatore tiro fuori una A.E.C.O, American Express Card Oro – come vedi siamo assicurati. Possiamo spendere senza angustie. Ora però, se non ti dispiace, sono davvero stanco. Dovremo, mi par inevitabile, condividere il letto. Io ti lascio, stacco le connessioni e dormo per un poco».
Lei mi guarda mentre mi svesto e aggiunge: «In effetti qui non c’è proprio spazio e dobbiamo farci coraggio. Buon riposo. Credo che ti seguirò. In effetti il viaggio è stato lungo e la stanchezza si fa sentire».
Quando siamo entrati nella nostra stanza era primo pomeriggio, quando invece mi sono risvegliato era ormai sera. Le ombre della notte si stavano diffondendo sul panorama che si vedeva dalla finestra. Apro gli occhi e vedo che Nat si è abbarbicata a me e continua a dormire. Decido di non disturbarla e aspettare ancora un poco.
Passata un’altra mezzora sento che inizia a muoversi e allora mi sposto, mi alzo e mi vesto. Lei mi guarda, sbadiglia e poi aggiunge: «Neanche un bacetto. Sei proprio un orso. Ma per questa sera speciale cosa mi offri di bello?»
«Tutto quello che desideri. Visto che siamo finiti in un hotel di quart’ordine spero che non abbiano pensato che potevamo mangiare in un self service per tutti questi giorni. In ogni caso questa sera ti invito io. Vediamo se troviamo qui intorno un ristorante che sia decente».
Ci stiamo preparando quando sentiamo bussare alla porta. Vado ad aprire e mi trovo di fronte due signori in borghese che mostrano una patacca con attaccato un documento identificativo, li guardo allibito e mi sento dire: «Dipartimento all’immigrazione … Possiamo entrare»
Fra me e me dico: «Sempre meglio … se il buon tempo si vede dal mattino questa permanenza nel paese “più democratico del mondo” non possiamo che concluderla con una bella esperienza nelle sue carceri».
Entrano, ci guardano e poi aggiungono: «Possiamo vedere i documenti?»
Senza aspettare un attimo prendo la nostra documentazione e gliela porgo aggiungendo:
«Sono un attore e questa è la mia agente. Siamo qui per la premiazione degli Oscar. Forse voi vi chiedete come mai siamo finiti in questo hotel, ma vi anticipo che non lo sappiamo neppure noi. L’organizzazione ha prenotato qui. Lo stesso vale per il paese da cui proviene la mia agente e da cui arrivo anch’io. Sappiamo che è poco noto ma è una promessa per il domani del cinema».
Ci guardano increduli ma, dopo che hanno confabulato fra loro, sembrano convinti. Uno dei due, che deve essere il più alto in grado, aggiunge solamente: «Forse non vi rendete conto ma questo non è proprio il luogo in cui vi dovreste trovare e anche il quartiere non è fra i più sicuri. Qui muoversi la notte non è consigliato. Siate prudenti». Poi ci suggeriscono un ristorante nei dintorni ma ripetono quasi in modo ossessivo l’invito alla prudenza.
Quando escono li seguiamo e con un gesto di gentilezza ci portano con la loro auto a destinazione. Prima di salutarci ci aggiungono che per il ritorno sarebbe stato meglio servirsi di un taxi e poi uno dei due conclude con un: «Noi non possiamo dar consigli e dirvelo è una infrazione al regolamento ma non sarebbe il caso che cambiaste hotel? Se avete bisogno di un qualche consiglio potete rivolgervi a questo numero» e ci lasciano fra le mani un foglietto tutto spiegazzato con su un numero di telefono.
Li salutiamo ed entriamo in un ristorante che almeno all’esterno si presenta come il paradiso della cucina greca. La scritta, quasi fosse parte di una catena, dice: «Da Zorbas – specialità greche».
Entriamo e andiamo a sederci in un tavolo libero, un poco appartato.
Dopo qualche minuto ci raggiunge un cameriere, volto olivastro, viso bello in carne con due gran baffoni e pancione prominente che mi guarda e poi dice: «Una faza una raza. Cosa vuoi cumpà …».
Possibile che mi abbiano già scovato?
Per provare gli parlo in italiano e mi risponde con un accento quasi perfetto, alla napoletana:
«Cosa volete. Qui è tutto fresco e fatto sul momento …» poi inizia a sciorinare il menù.
Scegliamo rapidamente e in attesa dell’arrivo del pasto ci troviamo a guardarci negli occhi e a sorridere. Le tocco la mano, ormai è appurato che questo è tutt’altro che il migliore dei mondi possibili e il buon Leibnitz può andare in pensione.
Nat sembra felice, nonostante tutte le traversie e inizia a dirmi: «Cosa diavolo facciamo? Uno viene nel paese “più democratico del mondo” aspettandosi di essere trattato nel modo più normale e semplice possibile, proprio come un cittadino qualsiasi e invece è un continuo problema, una difficoltà dopo l’altra».
«Paese che vai esperienze che fai – le aggiungo mentre ci stanno mettendo davanti un bel piatto fumante –Cosa vuoi è un paese complesso … Piuttosto mi chiedo se restare nel nostro hotel o cambiare».
Visto che è da oltre ventiquattro ore che non mangiamo un pasto decente ci gettiamo sui piatti quasi senza parlare.
Solo verso la fine Nat aggiunge: «Ormai per questa notte … poi domani facciamo un giro e inizieremo a renderci conto della nuova realtà in cui ci troviamo, allora decideremo».
Visto che la proposta mi appare ragionevole non aggiungo altro e concludiamo con un dolce e un bicchiere di passito la serata. Poi prendiamo un taxi e ritorniamo in hotel, ci attende la stanza 214.
Passiamo una notta casta e di gran sonno, abbiamo da smaltire le fatiche del viaggio.
Le luci di prima mattina hanno appena segnato l’alba all’orizzonte che sento un trillo insistente, più volte ripetuto che sembra venire dal mio telefonino. Mi volto verso Nat e le dico:
«Ma che diavolo è?»
Lei sorride e risponde: «Sì, non sapevo che fare e allora, visto che siamo qui per lavoro ho messo la sveglia. Altrimenti con uno come te ci alziamo quando ormai è sera».
La guardo e mi verrebbe voglia di mandarla al diavolo ma poi mi ricredo e dopo le abluzioni di rito usciamo a cercare un posto dove poter fare colazione. Vicino all’hotel troviamo una caffetteria che non sembra male ed entriamo. Ci sediamo avendo davanti un tavolino con il ripiano in plastica e sul bancone vediamo una serie di dolci, dolcetti, brioches, panini imbottiti e toast della più varia tipologia, tutti farciti in modo abnorme e poco invitante.
Ci accontentiamo di un semplice caffè e poi usciamo.
Con un colpo di fortuna prendiamo un taxi libero e Nat dice con tono imperioso:
«Sunset Strip, per piacere …».
L’autista sembra stupito e poi dice: «OK, turisti vero? … Rilassatevi ci vuole almeno una mezzoretta da W. Florence avenue a Hollywood».
Arrivati a destinazione ci troviamo davanti a un’ampia collezione di negozi, boutique, ristoranti, club e club rock, annunciati da innumerevoli manifesti pubblicitari enormi, coloratissimi, pacchiani. Leggendo la guida, di cui ci siamo forniti, scopriamo che questa è la parte della strada dove si trovano più facilmente rockstar, stelle del cinema e dello spettacolo. Ma già io sono una stella e non ho proprio bisogno di vederne altre, piuttosto chiedo a Nat di visitare la famosa Hollywood Walk of Fame, ovvero il percorso dove sono incastonate nel marciapiede migliaia di stelle a cinque punte in ottone che recano i nomi di celebrità onorate per il loro contributo al successo dello star system.
Solo che dopo una mezzoretta di marcia sotto il sole mi sono reso conto che in verità non si tratta altro che di un autoreferenziale mitizzazione dell’industria dello spettacolo statunitense. Gran parte di quei nomi non mi dicono proprio niente e pensare che da giovane avevo passato giornate e giornate nei cinema e credevo di conoscere tutti e tutto del mondo della celluloide.
Insomma dopo poco eravamo davvero stanchi di camminare e soprattutto io ero annoiato e infastidito.
Mi sono reso conto che Hollywood non aveva nulla, ma proprio nulla che mi interessasse. Non ci restava che vedere se la mia agente riusciva a trovare qualche cosa da fare per me. Allora ci siamo sistemati in un bar, io ho preso un giornale e lei si è attaccata al telefonino.
Dopo qualche tempo ho sentito Nat sbuffare: «Niente. Gli agganci che mi avevano indicato si sono dimostrati tutti dei flop. Dubito che troveremo qualche cosa di buono. In ogni caso ho un appuntamento nel pomeriggio. Vediamo».
Siamo andati a mangiare e poi ci siamo divisi.
Io ho deciso di passare il pomeriggio a Santa Monica in riva al mare e Nat invece doveva dedicarsi all’ingrato compito di vendermi sul mercato USA. Come avevo ben previsto nonostante il successo del nostro film la cosa era ben più difficile di quel che poteva sembrare. A Hollywood di Batraz il grande molto probabilmente nessuno ne sapeva niente o quasi e da tutti i punti di vista il nostro lavoro era una cosa minuscola se confrontata con le loro produzioni.
In ogni caso l’ho salutata e sono andato a divertirmi e rilassarmi lungo la costa dell’oceano a Santa Monica, una spiaggia bellissima, con tanto di luna park e una serie di locali uno più affascinante dell’altro.
Come se non bastasse lungo la spiaggia si potevano ammirare delle signorine, una più avvenente dell’altra, che si mettevano in gran mostra come se fossero a una sfilata di bellezza.
Che si poteva fare? Guardavo con occhio disincantato quando si avvicina una che è uno schianto e mi dice: «Mi offri qualche cosa …».
Come si fa in queste situazioni a dire di no?
«Certo. – le ho detto ma nel contempo mi sono ricordato che proprio qualche tempo prima era scoppiato partendo da Hollywood uno “scandalo sessuale” di dimensioni colossali e una femminista di quelle incattivite aveva scritto un qualche cosa che suonava più o meno così: “… Basta una testimonianza, una fotografia, una telefonata, un sms, e la vita di un uomo può rovinare come un castello di carte. Li tieni … per le palle. Per una donna è una sensazione inebriante e insieme disgustosa: ti ritrovi in mano una pistola carica …”. Che fare, forse la signorina che avevo seduta accanto mi adescava per poi ricattarmi? In più io ero straniero e ospite. Alla fine ho deciso di fare lo gnorri e le ho detto – Ok, beviamo qualche cosa. Cosa desideri?»
Abbiamo ordinato e poi parlato un poco di tutto. In particolare lei mi ha raccontato della sua vita e dei tentativi, senza successo, di trovare una qualche scrittura per il cinema o la televisione. Visto l’occasione mi sono fatto spiegare quale era stata la trafila e un poco le regole del gioco. La ragazza, che avevo scoperto chiamarsi Mary, mi aveva risposto con grande cortesia descrivendomi tutte le traversie che aveva affrontato. La difficoltà di farsi conoscere in un mondo dove la concorrenza è infinita e pur di ottenere qualche cosa molte e molti sono disponibili a compiere qualsiasi gesto.
«Siamo sul mercato – mi ha aggiunto Mary – e il mercato ha delle leggi che non hanno nulla a che fare con la morale e l’etica. Se vuoi emergere devi accettare compromessi non sempre edificanti. Ma quando ero nel mio paesino disperso nel Texas e lavoravo in un bar non dovevo lo stesso sottostare a piccoli ricatti non sempre piacevoli? Qui almeno posso sognare di avere una qualche possibilità in più che passare la mia vita pulendo i cessi nel bar del mio paesino …»
D’altronde per quasi un secolo Hollywood è stato, almeno a livello dell’opinione pubblica, il regno della trasgressione sessuale e della sregolatezza dei modelli di vita.
Il dialogo è continuato in modo piacevole e mi sono trovato solo un momento in difficoltà quando ha detto:
«Ma scusa io non ti ho già visto? Sai sono un amante della cinematografia emergente e vado a vedere tutti i film dei paesi del terzo mondo, qui li danno a ciclo continuo e a poco prezzo.
Dimmi la verità tu non è che sei Batraz: Batraz il grande.
Ho visto quel film qualche giorno fa e mi sono innamorata dell’attore principale. Una recitazione stupenda!
Avrei detto che eri proprio tu quel Batraz».
Io come Pietro ho per tre volte negato con grande fermezza, le ho aggiunto che si sbagliava e che mi confondeva … La mia professione era altra e certo il mio mondo non era quello dell’arte.
Alla fine ci siamo salutati da buoni amici, d’altronde le ho spiegato con fare reciso che ero solo un turista e un curioso.
Sono poi salito su un taxi e mi sono diretto verso il luogo dell’appuntamento con Nat.
Scendendo dal taxi mi sono reso conto che era infuriata. Mi ha rivolto un leggero sorriso e mi ha dato in mano la pesante cartella dove ha raccolto i materiali della mia carriera e il classico book con le foto.
Io per cercare di ritardare la tempesta le ho raccontato del mio incontro e del fatto che, incredibile a dirsi, ero stato notato. In qualche modo il nostro film era arrivato fin lì.
Non è bastato! Ha iniziato a inveire prima nella sua lingua e poi in inglese. Era tanto arrabbiata che qualcuno si fermava ogni tanto a guardarci … non sapevo proprio cosa fare e alla fine ho visto una panchina:
«Va bene – le ho detto – raccontami tutto. Ma sii gentile sediamoci lì che stiamo diventando uno spettacolo per tutti, non vorrei che anche qualche poliziotto iniziasse ad interessarsi di noi. Sai qui ti arrestano per un nulla. Visti i precedenti non vorrei che finissimo la nostra permanenza qui con qualche giorno in gattabuia».
Forse la prospettiva di una permanenza al fresco non la entusiasmava o forse più semplicemente perché aveva finito il repertorio Nat si è calmata e ci siamo seduti:
«Questo è proprio un paese poco dissimile da quella Babilonia di cui parlava la Bibbia …»
Per cercare di rendere meno incandescente la situazione le ho aggiunto:
«Non sapevo che tu fossi una esegeta della Bibbia, d’altronde una volta avevo letto un libro che aveva per titolo proprio Hollywood-Babilonia. Nulla di nuovo …»
«Certo per te nulla di nuovo, ma vieni tu a trattare con questi signori. Fanno ballare milioni di dollari e quando gli ho parlato della cinematografia di Scartlantis si è letteralmente messo a ridere. Poi ha aggiunto che il tempo è denaro e che non ne aveva molto per me. Allora gli ho parlato del film e di te … Mi ha fermato e si è messo a guardare su un data-base, poi mi ha aggiunto che al momento non avevano nessun interesse per prodotti che non potevano avere fortuna in USA. Allora mi sono arrabbiata e ho iniziato a inveire dicendo che non capivo come fosse possibile visto che vendevano porcherie come quelle della Marvel e facevano un mare di soldi a non fermare almeno per un attimo la loro attenzione sulla mia proposta. Mi aspettavo una reazione dura e invece si è messo a ridere e mi ha invitato a un party per questa sera. Non so che fare, questi sono strambi, un mix fra l’arguzia più fine, delle vere volpi, e uno stile da porcelloni, degno poco più che di un film porno di basso livello.
Che fare? Ho deciso che andiamo insieme e insieme lottiamo per il nostro futuro».
Cosa aggiungere se non un «Brava!» e salire su un taxi per correre in hotel.
Ci attendeva una serata di lavoro.
L’indirizzo che ci era stato dato era per una residenza nella zona di Bel Air.
Arriviamo davanti a un gran villone e ci troviamo proprio come due provinciali spaesati che si chiedono cosa ci fanno loro al centro del mondo.
C’è già da fuori uno spreco di ricchezza, una ostentazione che spaventa.
Ci avviamo a entrare e veniamo fermati da un tizio, tutt’altro che signorile, tutto muscoli ma sicuramente non uno studente del MIT, che ci chiede chi siamo e cosa ci facciamo lì.
Nat risponde a muso duro: «Siamo stati invitati dal signor ***» e dice un nome che neanche conosco.
Il tizio che ci ha fermati guarda su un foglio e sta per invitarci a tornare sui nostri passi quando in fondo a un foglio legge i nomi che gli abbiamo indicato. Ci guarda con un’aria di sospetto quasi volesse aggiungere: «Ma questi che ci fanno qui, da dove li hanno tirati fuori …».
Invece sorride:
«Ok tutto a posto, andate a divertirvi … se ci riuscite».
Superato l’uscio ci troviamo di fronte a una baraonda inimmaginabile, decine di persone che partecipano al party in una condizione di indescrivibile caos.
Ci guardiamo e quasi all’unisono decidiamo di andare verso un tavolo dove sono presenti bottiglie e bicchieri in gran quantità. Ne prendo due e uno lo offro a Nat.
Poi decidiamo di sederci da qualche parte per cercare di capire cosa fare.
Alcuni dei personaggi che ci passano davanti agli occhi sono attori famosi ma a vederli lì sembrano davvero persone qualsiasi, in qualche caso perfino mediocri fuori dall’aureola che offre la pellicola.
C’è però qualche cosa che ci lascia perplessi. Ci guardiamo e poi quasi all’unisono diciamo:
«Ma hai notato … che sembrano tutti spiritati. Son lì con il bicchiere in mano ma non parlano fra di loro. Sembrano spettri che girano a vuoto. E poi c’è anche di più, i maschi stanno fra di loro e le femmine anche. Solo pochi superano questa ideale linea che li divide».
Siamo davvero sorpresi. Hollywood la terra della libertà sessuale, dove le regole sono state, l’una dopo l’altra infrante … Quello che vedevamo sembrava indicare qualche cosa di nuovo e di imprevisto.
Allora invito Nat, sicuro della sua complicità, a giocare la carta della provocazione.
Lei se la ride e così iniziamo a baciarci.
Non lo avevamo mai fatto e la cosa sembra davvero prenderci tanto che, pur restando in una dimensione di tollerabile decenza, ci lasciamo andare. Dopo qualche momento però mi allontano da lei, invitandola ad attendermi.
Non avevo fatto che pochi passi quando Nat viene avvicinata da un nutrito gruppo di donne e una inizia a dire:
«Ma come, ci vuoi provocare? Stai attenta! Non ci piace proprio che limoni con quello lì».
«Cosa avrei fatto di male – afferma Nat mettendosi un poco sulle difensive – in fondo è il mio compagno. Ci sono qui regole speciali che non conosco?»
Una biondona un poco formosa, occhi azzurri, quasi uno stereotipo, particolarmente esagitata la guarda in cagnesco e aggiunge:
«Non fare la tonta. Come non sai? Ma da dove vieni …
Qui è l’epicentro ma il fenomeno si sta allargando su scala globale. Migliaia e migliaia, forse centinaia di migliaia di uomini in tutto il mondo in queste ore stanno tremando: uomini che hanno cercato conferma del proprio potere esercitando il dominio sulla materia prima assoluta: la carne femminile.
La nostra carne, di cui hanno fatto strame.
Ora invece si sta realizzando quello che si potrebbe forse definire un salto quantico: per la prima volta dopo millenni gli uomini non possono nascondere di avere paura delle donne.
Tutte noi abbiamo dovuto affrontare la loro arroganza, e si trascura sempre di valutare il danno microfisico prodotto dalla paura permanente di essere violate e sopraffatte, ogni stramaledettissimo giorno della vita. Se nasci donna ti tocca, sei una preda, e prima lo impari meglio è.
Ebbene, la paura è stata rispedita al mittente.
Il bandolo della matassa della lunga storia del patriarcato, che sta per concludersi, lo abbiamo in mano noi.
Ecco il nucleo del problema e tu qui che fai, ti allei con il nemico? Fai la scema o lo sei, ci saboti …»
«Da noi a Scartlantis la cosa non è percepita in forme così gravi …» risponde Nat, ma per precauzione si allontana venendomi incontro.
Non sappiamo che fare. Gli uomini sono degli automi che paiono guidati da una mano invisibile. Qualcuno ha fra l’altro trovato una scusa per andare. Allora decidiamo di avviarci a trovare il produttore che aveva dato appuntamento a Nat, che doveva essersi nascosto in qualche pertugio.
Lo troviamo dietro una scrivania stravaccato su una grande poltrona che tutto lo avvolge.
«Alla fine mi avete scovato. – dice, mentre beve abbondantemente – Avete visto lo spettacolo giù da basso? Doveva essere una festa ma è un mortorio, son lì tutti che si guardano in cagnesco.
Fino a qualche tempo fa non si parlava che di libertà, di superare i confini e abbattere vecchie abitudini e vecchi modelli. Doveva scomparire la famiglia, il matrimonio non doveva essere che un gioco, il sesso doveva essere libero e guai a chi si permetteva anche solo di parlare di un qualche limite.
Ora gli stessi che si facevano portavoce dell’epopea della libertà assoluta scoprono di essere stati tutti, chi più chi meno, diversamente violati. Non c’è signora che non abbia da narrare una molestia, una coercizione, una prevaricazione, una coartazione, una prepotenza, un sopruso e chi più ne ha più ne inventa. Dalle donne, ai gay, ai diversamente altri, nella più varia forme, c’è sempre una qualche tipologia di maltrattamento o di ingiustizia, sia essa fisica o psichica o semplicemente costruita nella mente da chi se l’è inventata, che trova nei social media una cassa di risonanza ideale. Sia chiaro qui non si parla mai di vera violenza fisica che si possa provare in modo oggettivo. C’è chi è risalito fino a trent’anni prima per recuperare un barlume di memoria. Quanto basta per sbattere il mostro di turno in prima pagina. C’è perfino chi ha chiamato in causa, sottoponendolo a una specie di damnatio memoriae, un morto! I nuovi processi si fanno per via mediatica e sono molto più duri di quelli passati in giudicato nelle aule dei tribunali.
Alla sbarra sembra essere il maschio, quasi fosse il portatore di ogni male, qualche cosa di simile a quello che chiamano il male assoluto.
Lei mi chiede di assumere un nuovo attore e io le dico che sto sognando di sostituire gli attori e le attrici che di norma scritturo con personaggi realizzati tramite le nuove tecniche informatiche e l’uso della robotica. Nel cinema di domani, ma sia chiaro un domani che è dietro l’angolo, tutti anche gli animali saranno virtuali. Così non dovrò affrontare un qualche gruppo di animalisti arrabbiati. Forse si perderà qualche cosa, dovremo trovare il modo di costruire nuovi amori e amorazzi fra simulacri umani, tanto per fare un poco di colore, ma certo si ridurranno a zero i capricci di questi privilegiati che vivono nell’oro e poi dopo decenni scoprono di aver sofferto per qualche non meglio provata forma di maltrattamento. Perché sia chiaro non sono più necessarie le prove ma basta avere una serie di testimonianze convergenti.
Qui domina ogni forma di nevrosi e ormai il numero ha sostituito l’onere della prova.
Sa che le dico: sono stufo. Mi fermo. Attendo che la tecnologia mi aiuti a riportare ordine in questo bordello. Ed in più la saluto. Ci rivedremo alla prossima mano.
D’altronde ricordi, noi passiamo ma: The show must go on».
Siamo usciti mentre metteva i piedi sulla scrivania e si stava riempiendo fino all’orlo un altro bicchiere.
Sotto continuava la solita scena, un triste teatro di statue di cera e allora abbiamo deciso che il clima non era adatto a noi.
Il taxi ci ha riportato in hotel e siamo saliti non senza aver acquistato una bella bottiglia di vino.
Ci siamo stesi sul letto e ho sentito Nat che ha iniziato dirmi:
«Vedi che aveva ragione il nostro maestro di Treviri ed anche un saggio storicamente più vicino a noi, personaggio controverso ma certamente geniale, tale Debord, Guy Debord.
Questa sera abbiamo vissuto un’esperienza indimenticabile. La prova palmare dell’estrema reificazione indotta dalla società dello spettacolo. Il sommo benessere genera odi, rancori, invidie, livori senza fine. Qualsiasi persona di buonsenso penserebbe che in quelle condizioni di agiatezza si possa essere finalmente felici ed invece si scopre che il vero volto di questa realtà è l’estrema mercificazione e il più viscerale risentimento.
Sì, sembrerà paradossale ma a Hollywood è Thanatos che domina su Eros.
D’altronde coloro che oggi protestano per le loro vite volate, serve e servi del potere spettacolare, quando anche si trovassero dall’altra parte della barricata si comporterebbero in modo diverso?
Permettimi di dubitarne. Gestirebbero le stesse dinamiche e praticherebbero le stesse forme di esercizio del potere non rendendosi conto che non sono null’altro che pedine di un Grande Gioco che li sovrasta, li plasma, li compera, li prostituisce, li usa e alla fine li abbandona, nella più parte dei casi, all’angolo di una strada.
Come uscirne?
Aveva una proposta interessante per risolvere questo busillis il vecchio Vladimir Il’ič Ul’janov, forse lo conosci. Peccato che …».
Io dovevo essere già nel mondo dei sogni e da questo mi sono risvegliato proprio mentre il televisore di fronte a me stava riportando le immagini del bombardamento di Dresda con tanto di assordante accompagnamento sonoro.
Ero madido di sudore e mi chiedevo:
«Ma perché proprio Vladimir Il’ič Ul’janov dovrebbe poter essere portatore di una soluzione a quel problema?»”.
Poi ha aggiunto guardandomi intensamente negli occhi: “Tu sai dirmi perché …”.
Proprio in quel momento ho visto apparire sul monitor il mio numero e allora gli ho stretto la mano:
“Scusa ma devo andare, mi devono fare il rituale salasso. Quando mi sarò ripreso dalla lesione cercherò di spiegartelo … per ora resta nel tuo stato di dubbio.
D’altronde, come ben sappiamo, le certezze non fanno parte della nostra faretra …”.

8 pensieri su “Il Tonto e la società dello spettacolo

  1. …in questo racconto, cosi’ apparentemente leggermente costruito, Giulio Toffoli affida le sue idee al portavoce Tonto, che le affida a un sogno dove vengono affidate a una donna sua portavoce, nella veste dell’agente Nat…In effetti l’argomento è molto delicato, soprattutto da affrontare come uomini…occorrono delle mediazioni.
    Sono d’accordo con il Tonto che la grancassa mediatica non giova davvero a nessuna causa, tantomeno a quella delle donne che, per la sua complessita’, richiede un approccio piu’profondo, intimo e di confronto…L’aver sollevato il velo sul maschilismo da ius primae noctis di alcuni ambienti di lavoro , come quello dello spettacolo, ha tuttavia anche svelato come la corsa al potere e al successo sia indistintamente perseguito da uomini e donne…Certo i primi lo detengono stretto da millenni, con i risultati che sappiamo, ma imitarli non è la via giusta per cambiare registro…

  2. Più che un sogno questo del Tonto è un’invettiva, una “cassandrata”: andate avanti così, care le mie donne, con la vostra voglia di rivalsa (“per la prima volta dopo millenni gli uomini non possono nascondere di avere paura delle donne […] ebbene, la paura è stata rispedita al mittente”) e di vendetta (“Basta una testimonianza, una fotografia, una telefonata, un sms, e la vita di un uomo può rovinare come un castello di carte. Li tieni … per le palle”), e si finirà isolati, separati.
    “Son lì con il bicchiere in mano ma non parlano fra di loro. Sembrano spettri che girano a vuoto […] automi che paiono guidati da una mano invisibile”, e il maschio -accusato in modo falsamente oggettivo di molestie, prevaricazioni, prepotenze e soprusi- incarnerà quasi il male assoluto!

    Però, invece di correre sempre in affanno, e di perseguitare l’Autore con i suoi timori, il Tonto rifletta e osservi attentamente i suoi colleghi maschi, con il loro infantile e perverso piacere di calcare la mano sul piccolo o grande potere di cui dispongono. E consideri invece come un bene per tutti, il fatto che finalmente le donne smettono di essere complici e spaventate. Si starà meglio tutti, donne e uomini, con  rispetto e amicizia, gli uni per le altre e viceversa.

  3. …Cristiana, proprio nell’intervista che tu citi, “Il dubbio”, che Lea Melandri esprime si riferisce all'”aspetto di voyeurismo e di spettacolarizzazione” che ha accompagnato la ventata di denunce mediatiche e, sempre a proposito, afferma : “..Penso che se si vuole un cambiamento profondo è necessario affrontare, in tutta la sua ambiguità, l’analisi di questo potere e anche le azioni con cui si pensa di contraddirlo, di modificarlo e di prevenirlo. Se si vuole davvero cambiare , come dicevamo negli anni ’70, deve esserci una politica radicale, che va alle radici dell’umano…”

    1. D’accordo, Annamaria. Come ho auspicato: “… E consideri invece come un bene per tutti, il fatto che finalmente le donne smettono di essere complici e spaventate”.
      Complici e spaventate, così da dover essere solo “vittime”.
      Invece, quegli atti maschili non devono più poter accadere.

  4. …certo non spaventate e questo potrebbe dipendere dalla volontà, cioè l’atto di coraggio di affrontare e rivelare ( senza per questo ricorrere a pubblicità mediatiche) certe situazioni, mentre quel “complici” può avere un significato più complesso di “vittime”, comporta riflessioni non semplici da portare avanti, che mettono in gioco i comportamenti degli uomini, ma anche quelli delle donne…se vuoi in rinforzo dove si ritaglia un potere d’ombra

    1. Perché evocare le “pubblicità mediatiche”? Non è un modo per svalorizzare le denunce di fatti reali?
      “È il contrario, esatto e speculare, di come il me too è stato commentato nel mainstream mediatico italiano. Là porte spalancate alla presa di parola delle donne, qua un muro di diffidenza. Là approvazione, qua disapprovazione sociale. Là ascolto, qua discredito: parlano vent’anni dopo ma intanto ci hanno fatto carriera, si inventano tutto senza sporgere regolare denuncia in tribunale, non sanno distinguere fra un’avance e una molestia, finiranno con l’eliminare l’erotismo dall’esperienza umana. Misoginia – maschile e femminile – a pioggia, contro qualunque evidenza: ancora l’altra mattina, di fronte alla copertina del Time, qualcuno sentenziava in prima pagina che si tratta certamente di un ripiego, e qualcuna gli faceva eco in tv che il Time era chiaramente a corto di idee e se l’è cavata così.”
      https://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2017/12/08/specchio-time-copertina-donne

  5. …non so spiegarlo ma, secondo me, i veri cambiamenti quelli duraturi non avvengono attraverso un epidermico tam tam a colpi di servizi televisivi, di riviste alla moda, ma per trasmissione profonda di convinzioni e di costumi, in un campo di rapporti umani che è come un banco di prova tra morale, desiderio, identità…e potere, forza…tutto da riassettare…ciò non esclude il coraggio della denuncia ma costruisce anche insieme un nuovo sentire

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