Il gatto e il vescovo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Giorgio Mannacio

1.
C’era una discussione continua tra mio padre e mio cugino Tommaso ( non conoscevamo all’epoca lo snobismo di Tomaso con una m sola). In verità si trattava di un parente lontano come sarebbe più corretto definire il rapporto, usando una precisa indeterminatezza. Ma la nostra terminologia genealogica non seguiva i criteri notarili del Codice civile. Bastava un matrimonio remoto o eventi simili, a volte anche soltanto la comunanza del cognome unita ad una simpatia o stima reciproche, e si entrava nella famiglia.
L’oggetto della disputa si concentrava su chi fosse veramente il personaggio le cui iniziali
(G.P. ) erano incise su due candelabri di argento ad unica fiamma di proprietà di un altro
“ parente “ lontano, il Vescovo di Mileto, ormai in pensione. Mio padre, un po’ per convinzione e un po’ per calmare gli aneliti nobiliari del cugino, sosteneva che dietro quelle due lettere si nascondeva e si rivelava un personaggio un po’ losco, un delatore che aveva permesso, nel 1815, la cattura di Gioacchino Murat (Re di Napoli ) e la sua successiva fucilazione avvenuta in un paese di mare vicino al nostro. Tommaso, invece, era convinto che G.P. fosse il Generale borbonico, autore dell’arresto e poi dell’ordine impartito al plotone d’esecuzione. La sua orgogliosa versione si fondava sul presupposto della superiorità della categoria di Generale borbonico rispetto a quella di delatore.

2.
Il Vescovo di Mileto era “un parente “ e così lo si trattava. Avevamo l’obbligo, noi fratelli e sorelle, di fargli visita in gruppo, almeno una volta al mese. Era un uomo molto vecchio, pio e senza macchie. Dell’unica sua serena debolezza – la golosità – approfittavamo perché lui, di ritorno dall’unico viaggio che si concedeva (in Piemonte, a Lurisia Terme), arrivava carico di cioccolatini al rhum, davvero eccellenti, e ce ne faceva gustare qualcuno. Io, con grande soddisfazione di mia madre (che sperava in una sorta di attrazione magnetica tra le idee delle persone e la loro vicinanza fisica) preferivo, qualche volta, andarci da solo. La compagnia degli altri mi avrebbe tolto il piacere esclusivo della scoperta di tante piccole curiosità. Il Vescovo aveva una gatto nero, morbido e solenne, di cui si mormoravano curiose abitudini. Quelli di casa erano delle vere e proprie belve con le quali non si poteva avere alcun rapporto civile. E, poi, era magnifico il percorso. Dalla canonica sistemata su un’altura si tornava in paese attraverso una ripida scalinata di pietra i cui gradini, ricchi di silice, sfavillavano al sole come piccoli punti di luce. Li scendevo di corsa, quasi in volo, saltandone, ogni tanto, qualcuno e così realizzavo molti miei sogni in cui mi vedevo e sentivo munito di ali ma in sembianze umane. Più tardi qualcuno mi disse che erano sogni a sfondo sessuale. Forse è vero, forse no. Ma che importa?

3.
In occasione della mia prima visita solitaria, il vecchio vescovo mi chiese subito di chiarirgli di chi ero figlio e, via, poi, con altre domande alle quali finiva per rispondere lui stesso elencando, tra sé e sé, intrecci familiari che non potevo conoscere. Voleva, evidentemente , verificare le mie credenziali parentali, assicurarsi che chi gli stava davanti appartenesse al suo mondo. Voleva forse anche misurare la distanza tra me e il centro di esso, noto a lui solo e importante per lui solo. Mi sembrò, quel giorno, di essere parte di un sistema planetario, un pianetino rotante intorno ad un improbabile sole. Sì, c’era – fuori e a quell’ora – una luce diffusa e struggente. A fine agosto, il giorno s’era già quasi dimezzato: un dito di luce scriveva qualche lirico greco. Ma eravamo all’estremo occidente d’Italia e la sensazione che il tramonto fosse soltanto l’attimo che prelude l’apertura o la chiusura di un sipario era più che un artificio della Fata Morgana.
Mi chiese, poi, il nome e a sentirlo, chinandosi per la sordità, sembrò soddisfatto.
Ero arrivato più tardi del solito e quindi assistetti alla cena dei due abitanti, confezionata e servita dal sacrestano dalle mani tremanti e dal piede incerto, più che un’ombra, meno che una presenza tangibile.
Era una cena frugale, composta quasi esclusivamente di avanzi.

4.
Compiuta la prima operazione (quella riguardante il Vescovo), il sacrestano pensò al gatto che se ne stava immobile in un interstizio della libreria con le pupille fisse nel vuoto. Chi guardasse non si poteva capire. Gli animali avvertono presenze e suoni non percepiti da noi umani. La ciotola di terracotta, ancor più frugale, ovviamente, di quella del suo padrone (c’erano persino rimasugli di pane intinti nel sugo), fu deposta sul tavolo e a questo accostato uno sgabello rustico di legno. Il gatto non si mosse rimanendo immobile sullo scaffale.
Vennero portati, allora, in tavola, e accesi, i due candelieri d’ argento . All’esterno, il giorno, benché tardo, era ancora vivo e, per contrasto, la luce dei ceri sembrò oscurare ancora di più, anzi che illuminare, la sala da pranzo. Solo allora le pupille del gatto si spostarono dirigendosi verso le due minuscole comete fissandole con attenzione. Dopo qualche minuto – di “ riflessione “ diremmo noi umani – il gatto, con la pesantezza di una piuma saltò a terra e poi sullo sgabello occupando il proprio posto a tavola. Cominciò così a mangiare dalla ciotola accompagnando la cena del Vescovo.
Non si vive per mangiare ma si mangia per vivere. Questo detto – con il quale i commensali di mia madre, dopo essersi rimpinzati delle sue vivande, ne commentavano la bontà – non fu certo concepito da un pensatore ma da un animale. Un “parente“ chissà quanto lontano del gatto nero che mi stava di fronte. Così pensavo uscendo. Assistetti ad altri episodi in cui le tappe rituali e le loro conseguenze si ripeterono con impressionante identità. Era d’obbligo, per me , pensare a un sistema di riflessi condizionati. Indotti da chi e da che cosa? Di questo fatto ne parlai con mio padre, una sera. Lui commentò: “ Ah, questi preti sono capaci di tutto, anche di ammaestrare un gatto: che è quanto dire“. E poi facendosi serio e quasi parlando a sé stesso aggiunse : “ Bisogna preparare per la Chiesa una fine che sia per essa più onorevole e per noi meno rovinosa “ . Scopersi, più tardi, che la frase non era sua ma di un famoso filosofo. Non ne rimasi deluso ed anzi tale scoperta mi avvicinò sempre di più a quell’uomo che mi aveva lasciato così presto. Quel giorno – ero ancora molto giovane – il senso della riflessione mi sfuggi quasi del tutto, anche se ne percepii la coerenza con l’ora incombente. Più tardi pensai – tra il serio e lo scherzoso – che solo un uomo di Chiesa , soprattutto se di alto grado, riesce a parlare col Diavolo. Che si debba dire Diavoli ?

5.
Nel testamento del Vescovo era apposto un legato in forza del quale i due candelieri mi furono attribuiti. Nel testo di esso si spiegava che per una tradizione – enunciata in minuti dettagli molto complicati – essi dovevano spettare al primo di un certo ramo della famiglia che portasse il nome di Giorgio e costui ero, per combinazione, proprio io. Il cugino Tommaso, immaginando chissà quali trame nascoste, non gradì tale decisione e tolse il saluto a mio padre. Quando – finalmente – ritornò disponibile ad incontrarlo, mio padre morì. Sarebbe stato certamente capace di convincerlo e di riprendere, con ardore ed amicizia, l’antica questione.
Il gatto migrò nella casa col sacrestano. Lui mi disse che adesso consumava i suoi pasti senza candelieri accesi, inutile accessorio secondo i principi della sua filosofia. Cosa lo aveva spinto per anni al rituale che ho descritto : magia della fiamma , compiacenza verso un vecchio canonico in punto di morte?

6 pensieri su “Il gatto e il vescovo

  1. …”magia della fiamma” scrive Giorgio Mannacio in questo bel racconto tanto ricco di significati. Forse non a caso pubblicato proprio in prossimità del natale, quando la luce conosce la sua quota minima per i terrestri per poi riprendere il suo corso di lenta ascesa. Un racconto di prima gioventù, quando si spera ancora di poter volare e la luce esercita il suo fascino ipnotico…ma a condividerne misteriosamente l’attrazione c’è anche “una gatto nero, morbido e solenne”, senz’altro megliore di certe “vere e proprie belve” umane. Nella narrazione mi sembrano molto belli certi stacchi “affettivi”, che interrompono l’ordine logico o cronologico dei fatti, come irruzioni della memoria.
    In contrasto con il potere della fiamma, della luce del giorno, che però tramontando declina nella notte, si respira un senso di decadenza e di morte, sia del vecchio vescovo che dell’istituzione che rappresenta…Un potere “aristocratico-spirituale” arrivato alla sua inesorabile conclusione…lo scrittore ricorda con struggente nostalgia il suo dialogo con un padre molto amato sul significato profondo di quanto aveva visto in canonica, sul filo doppio che legava vescovo-diavoli. Una lezione che l’anziano padre impartisce al giovane figlio, preparandolo ad accettare, con distaccato realismo, la fine di ognuno e di tutti, compresa quella di una potenza millenaria…ma anche la sua stessa, a breve. Il testo mi ha richiamato alla memoria, anche per il contesto geografico e sociale, alcune pagine del Gattopardo di T. Di Lampedusa dove si prospetta la fine del regno borbonico

  2. @ A.M Locatelli.
    Grazie per l’attentissima e partecipata lettura. A chi sarebeb piaciuta di più ? Al gatto o sl vescovo ? A me certamente. E’ stato un vero regalo di natale. Un abbraccio. Giorgio

  3. Al presente l’Autore è il possessore dei due candelabri; la seconda scena (che però apre il racconto) rimanda a una generazione precedente: il padre e un cugino anni prima litigano per motivi ideologico-politici sull’attribuzione della proprietà dei due candelabri a: un rivoluzionario-delatore filofrancese o un generale borbonico, e subito siamo spostati nella storia preunitaria tra illuminismo, laicismo e moti rivoluzionari, o signorile violenza reazionaria. La scena si allarga e siamo col vescovo, intorno a cui ruota un mondo di legami, l’infanzia dell’Autore, i mobili pesanti, le ombre, e un dito di luce, come è la luce di candele. Un servitore. La cena è sobria e rituale. Insomma, una pagina e mezza e si procede a cannocchiale da memoria a ricostruzione (e fantasia) storica, o, meglio, in una mise en abyme in cui i due candelabri sono il medaglione al cui centro si trovano gli stessi candelabri. Puro cinema. Su cui ondeggia, come il sorriso dell’ignoto marinaio, e come la dentatura del gatto dell’Alice di Disney, il balzo a tempo del gatto, preciso come una scadenza, che si acconcia al suo posto a tavola, mimetico e riassuntivo dello stile e della vita del vescovo.
    Breve racconto fulminante e chiaro, nel significato e nelle occorrenze di “luce, riflesso e riflessione”, come il frammento di Alceo.

  4. @ Cristiana Fischer.
    Cara Cristiana, anche a te grazie per l’attenzione che hai mostrato per il mio testo e per la lettura di esso. Un testo parallelo. Mi piace questo rapporto diretto e imemdiato tra quello che ho scritto e quello che su di esso mi si dice. E’ l’unico momento autentico del rapporto. Il resto è economia. Un abbraccio. Giorgio.

  5. Grazie Giorgio, mi fa piacere che tu accolga il rapporto autentico che ho avuto col tuo testo. È per questo che davvero si scrive, non solo per insegnare o diffondere, ma per comunicare.
    :-))

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