Per «POLISCRITTURE 2». Seconda parte.

Sommario.
La critica a partire dalla lezione di Marx e dal ripensamento delle esperienze socialiste e comuniste sconfitte. L’attenzione alla psicanalisi, al femminismo, agli studi post-coloniali e alla critica ecologista contro lo sfruttamento capitalistico delle risorse naturali e ambientali. L’interrogazione sul destino del pensiero e dell’azione in un Occidente capace di essere aperto ai problemi del mondo e di mettere in discussione il suo lato oscuro e colonizzatore. Il nodo mondialismo e nazionalismi. La questione cruciale delle nuove migrazioni, dei suoi effetti reali e delle contraddittorie percezioni del fenomeno da parte dei ceti popolari e dei ceti privilegiati. Il lavoro culturale, la centralità del linguaggio verbale e della dimensione linguistica (problema della neolingua, delle cosiddette ‘false notizie’ e della post-verità,ruolo dei ‘social network’, etica hacker).

Di seguito indichiamo i principali temi che saranno al centro del lavoro, del sito e dei cantieri di Poliscritture 2, nelle forme e nell’ordine che verranno poi meglio decisi nelle prossime riunioni organizzative.

1. La critica

In «Poliscritture 2» la critica al “negativo” del presente e della realtà in cui viviamo va salvaguardata e messa sempre in primo piano. Siamo ancora convinti che si debba partire o ripartire dalla lezione di Marx e dal ripensamento delle esperienze socialiste e comuniste sconfitte, ma non è facile. Non solo per le difficoltà che abbiamo di studiare e approfondire, ma per la dispersione o l’interruzione della vivace ricerca di studiosi marxisti di grandissimo valore, che negli anni ’60-’70 del Novecento era circolata anche a livello di massa e in forme divulgative serie.
Anche gli apporti ad una lettura della realtà in caotica trasformazione da parte di altre correnti di pensiero non riconducibili alla ragione meramente strumentale o tecnologica del capitalismo informatizzato – in particolare quelle della psicanalisi, del femminismo, dei cosiddetti studi post-coloniali o post-umanistici e della critica ecologista contro lo sfruttamento capitalistico delle risorse naturali e ambientali – non sono oggi facili da conoscere e da proporre in forme accessibili a quanti ci vivono accanto e sono alienati da un’industria culturale onnipervasiva e ipnotizzante.
Tuttavia, «Poliscritture 2» deve impegnarsi a trovare modi di pensare e di sentire che non cedano ai miraggi del Capitale o si adattino, visto la sua strapotenza, ad accettare cambiamenti contingenti o regionali o graduali o interstiziali o solo interiori; e si spingano, invece, coraggiosamente (il che non significa avanguardisticamente o avventuristicamente) verso un’alterità radicale, anche se per ora difficile da nominare.
Mettendo da parte le preoccupazioni per l’inattualità, l’utopismo o il velleitarismo, il baricentro ideale di «Poliscritture 2» dovrebbe essere l’interrogazione sul destino del pensiero e dell’azione in un Occidente capace di essere aperto ai problemi del mondo e di mettere in discussione il suo lato oscuro e colonizzatore.
L’analisi critica della storia nazionale italiana degli ultimi (almeno) cinquant’anni, se non dell’intero Novecento, nel suo ingranarsi dentro la storia del capitalismo occidentale e in quella dei conflitti mondiali deve essere martellante; e toccare non solo la “crisi della sinistra” (certamente non solo nazionale!) ma quella delle istituzioni repubblicane e della società italiana nel senso più ampio. Bisognerà, dunque, avere più coraggio nel pensare liberamente, utilizzando ove necessario – nei confronti di quelle istituzioni – non solo lo strumento di una integrale libertà di pensiero e di parola ma anche quello della disobbedienza civile.
Ecco un primo provvisorio elenco dei terreni e degli interrogativi da cui muovere:
– un primo ambito di lavoro potrebbe essere legato al tentativo di ragionare intorno all’attualità della ricerca marxista che si imperniava sull’analisi del sistema del capitale. Nel XXI secolo, al di là di facili mode alla Piketty, è possibile parlare ancora di capitale e di creazione del profitto tramite lo sfruttamento della forza lavoro, al fine di produrre plusvalore o tutto ciò è mutato nella sua essenza?
– quale può essere oggi l’efficacia di un pensiero materialista storico di fronte alla produzione di modelli epistemologici che hanno affermato essere tutto null’altro che un insieme di grandi narrazioni senza una qualche pretesa di verità?
– come porsi di fronte alla rivoluzione d’Ottobre, anche in modo critico, senza cadere nelle facili liquidazioni di certa pubblicistica accademica e senza adeguarsi alla miserabile ondata dei trasformisti di ogni tipo e colore che hanno semplicemente gettato quell’esperienza nella pattumiera della storia?
– si può ancora parlare di imperialismo, e se sì in che forma? L’imperialismo è stato superato dalla realizzazione dell’Impero, come vorrebbero Negri e soci, o oggi più che mai dobbiamo andare a indagare, sul terreno della attualità politica, nello spazio dei piccoli e grandi giochi della geopolitica, quali siano le caratteristiche di un fenomeno che può aver cambiato in parte il suo volto tramite forme di restyling, ma che nel suo nucleo conserva la stessa sostanza di espressione massima della rapacità del capitale?
– proprio negli ultimi due decenni, e soprattutto dal 2008 in poi, sembra riaffermarsi in modo sempre più feroce una nuova versione del neocolonialismo. Potenze che sembravano ormai destinate al tramonto, come Francia e Inghilterra, hanno mostrato i loro artigli, dando sfogo a nuove e impetuose forme di aggressività militare neppure più velata, come qualche anno fa, da retoriche di “azioni di polizia internazionale” o imposture del genere. Come porsi di fronte al neocolonialismo?

– non è forse il caso di riprendere fra le mani Stato e rivoluzione e ripensare a queste due categorie all’interno del quadro politico ed economico che stiamo vivendo? È davvero certo come vorrebbe il pensiero dominante che il concetto stesso di rivoluzione è superato e che nello stato delle cose dato nulla si può davvero mutare e al massimo possiamo pensare a qualche parziale riforma? La funzione degli stati nazionali come va riletta, in una prospettiva storica generale e in rapporto alla dialettica conservazione/rivoluzione?
– per concludere, come leggere la difficile situazione dei paesi dell’Occidente e le contraddizioni che li segnano e a cui sembra non si possano dare risposte se non di tipo difensivo e complessivamente regressivo?

2. Questo è quel mondo: mondialismo e nazionalismi
Nessuna intrapresa culturale o poetica o artistica può nascere senza una meditazione, esplicita o implicita, sul mondo che ci circonda e sulle sue trasformazioni, sia per quanto riguarda il lavoro e il significato del lavoro nella vita umana, sia per quanto riguarda lo stesso destino del pianeta e dei rapporti tra gli uomini, tra i sessi, tra le generazioni, ecc. Il mondo è pieno di contraddizioni. Ve ne sono di varia natura: uomo/donna, capitale/lavoro, dominanti/dominati, città/campagna, tra settori industriali, tra nazioni, tra Stati, tra “società aperte” e “chiuse”, tra democrazie e dittature, tra le risorse ambientali e lo sviluppo industriale, tra specismo e antispecismo, ecc. In una totalità storico-sociale non appaiono quasi mai “isolate”. Nelle varie congiunture della lotta tra le classi, però, può capitare che una occupi la scena, rivendicando una sorta di centralità, spesso dovuta anche al gioco delle mode culturali o al particolarismo dei punti di vista. È il caso in questa fase della contraddizione “mondialisti”/ “sovranisti”. Su quale lato puntare, se la puntata è inevitabile?
Per il legame (ormai però solo ideale) con la tradizione dell’“internazionalismo proletario”, apparentemente sconfitta ma non per questo da disprezzare o deridere e dalla quale molti di noi provengono, saremmo – è bene usare il condizionale – per una scelta che privilegi l’analisi e l’azione politica sul piano mondiale e non si restringa al piano nazionale. Quindi, dinanzi alla contraddizione “mondialisti”/ “sovranisti” sarebbe abbastanza naturale puntare sul lato mondialista.
L’attuale, a tratti ambiguo, dibattito su tale questione vede scontrarsi posizioni che si richiamano al globalismo-mondialismo e altre che recuperano statalismi, nazionalismi e sovranismi più o meno locali o regionali. In entrambi gli schieramenti poi si riscontrano sfumature populistiche di destra (alla Salvini) e di sinistra (alla Melenchon o alla Formenti); e spesso viene il dubbio che entrambe possano ridursi a varianti camuffate del discorso capitalistico o comunque ad esso subordinarsi.
Per compiere, dunque, una più meditata scelta a favore di quello che potremmo chiamare un “mondialismo critico”, oltre alla necessità di conoscere meglio i documenti di queste correnti contrapposte, sentiamo l’esigenza di condurre una doppia critica. Da una parte nei confronti del progressismo modernizzante mondialista e dall’altra contro le posizioni patriottico/nazionaliste/populiste, più o meno regionali.
Il primo, richiamandosi ad un improvvido illuminismo, pretende di far passare la difesa del dominio capitalistico come Progresso e Civiltà o di diffondere, a fronte dei disastri umani e ambientali del pianeta, una ecologia o un umanitarismo generico e sentimentale che rischiano di divenire «brand» per il marketing imperante. A queste posizioni si deve rispondere richiamando l’evidenza scientifica dei cambiamenti climatici in atto, che necessitano misure di radicale ripensamento dei modelli di sviluppo e di produzione energetica, specie nel nostro paese dove c’è chi prospetta una ripresa dei consumi con un nuovo ricorso fonti energetiche di origine fossile” invece che alle fonti rinnovabili; o maschera lo smantellamento del poco Welfare state conquistato dalle lotte dei lavoratori, la fame, la povertà, le migrazioni disperate e i disastri delle guerre con la fantasmagoria euforico-erotica della società della comunicazione iper-mediatica e spettacolare.
Le seconde mirano alla valorizzazione unilaterale di élites dirigiste nazionali o locali e sorvolano o tagliano fuori i problemi della emancipazione e della costruzione di società fondate su più democrazia e non su limitazioni ulteriori di quella solo formalmente esistente (erosione del principio di rappresentanza negli assetti istituzionali e nelle leggi elettorali di sempre più sedicenti democrazie parlamentari).
Un discorso simile vale anche per le posizioni degli “europeisti critici”. Non vorremmo che si finisse per supportare posizioni che sarebbe meglio chiamare dei “capitalisti europeisti critici”, perché, appunto, prendono le forme dei piccoli statalismi, nazionalismi, sovranismi promossi da capitalisti “più piccoli”.
Il capitalismo è fenomeno divenuto sempre più complesso e ha sia facce mondializzanti che nazionalizzanti o regionalizzanti; e la possibile prospettiva anticapitalista andrebbe cercata su entrambi i livelli e forse proprio nei punti dove quelle facce si articolano, sovrapponendosi e influenzandosi vicendevolmente.

3. La libertà del migrante
La questione delle nuove migrazioni è divenuta sempre più drammatica e sotto molti aspetti ormai tragica; ed è cartina di tornasole decisiva per meglio definire in concreto un nostro “mondialismo critico”.
Pensiamo, perciò, che la libertà del migrante non sia una concessione o un atto umanitario e nemmeno un semplice diritto, peraltro ampiamente calpestato. È la condizione della nostra stessa libertà, la condizione che permette alla nostra libertà di non essere falsa, doppia e cinica. Libertà di movimento, di fuga, di sopravvivenza, di pensiero; libertà di vivere in pace, lasciandosi alle spalle miseria, guerre e persecuzioni (oltre ogni distinzione tra “migranti economici” e “rifugiati politici”). Insufficiente è pure la consapevolezza di quanto sia rilevante il fenomeno delle migrazioni ambientali, per cui uomini e donne sono spinti a partire sia perché non riescono più a sopravvivere nel loro luogo di origine a causa di disastri ambientali, sia perché non hanno più accesso a terra, acqua e mezzi di sussistenza in conseguenza degli effetti del riscaldamento dell’atmosfera terrestre che provoca fenomeni meteorologici estremi, desertificazione, stravolgimento degli ambienti antropizzati. Vale per noi e vale per tutti. Per questo essa non ammette nessun compromesso. Ogni posizione che non parta da questo principio rappresenta un esempio del peggior eurocentrismo, se non di neocolonialismo, xenofobia, razzismo e barbarie.
«Poliscritture 2» deve essere contro tutti i muri, a partire da quello caduto nell’’89, passando per quelli che oggi si vogliono erigere, contro i palestinesi, contro i neri, contro i latinos, contro i migranti in generale. Qualunque ragionamento sui numeri, sulle logistiche, sull’eventuale regolazione dei flussi, viene dopo il principio fondamentale dell’accoglienza e della cura dell’altro, dello straniero, del nomade, del fuggitivo, e della salvaguardia della vita umana. Se ci sono state visioni semplicistiche o irenistiche del meticciato e della convivenza tra diversi, esse non compromettono la validità del principio secondo cui è dal confronto e dalla mescolanza, di etnie, culture e tradizioni, che può venire anche la definizione e il riconoscimento dell’identità.
Non ci sfugge, e sarà anzi al centro del nostro lavoro futuro, la necessità di contrastare passo a passo le narrazioni false e manipolatorie, fondate sulla mitologia dell’invasione, sulla paura del diverso, sulla concorrenzialità nel campo del lavoro e dei servizi, sulla possibilità di “aiutarli” o fermarli “a casa loro”, che significa semplicemente la volontà di buttarli a mare o di consegnarli ai carnefici e alle condizioni invivibili da cui fuggono.
Non va neppure ignorato, infine, il malessere che vivono soprattutto i ceti popolari e piccolo-borghesi che, in balia della crisi economica e culturalmente non attrezzati (oltre che moralmente degradati da decenni di contro-acculturazione e dal disarmo del sistema di istruzione pubblica), al contrario dei ceti privilegiati sperimentano da vicino l’invivibilità dei quartieri e la scarsità e il degrado di servizi e di alloggi, anche a causa della mancanza di serie politiche statali di accoglienza e di integrazione.

4. Il lavoro culturale
Dobbiamo distinguerlo dal più ampio mondo del lavoro della conoscenza o della conoscenza al lavoro (che riguarda tutti o quasi: cliccando su un link, e attivando senza accorgercene una rete di relazioni, profilazioni, valorizzazioni, stiamo compiendo un lavoro conoscitivo non pagato). Il lavoro culturale, in prima approssimazione, è un comparto del mondo del lavoro, caratterizzato dalla produzione di manufatti culturali, artistici, linguistici, editoriali, didattici, bibliotecari, comunicativi, performativi ecc. Il lavoro culturale non è rappresentato dal solo pensiero, ma dalla sua traduzione in prodotto, fatto o evento, quindi in merce. Tutti i lavori sono culturali? In un certo senso sì, e rivendicarne questa dignità è essenziale. Ma quel che è successo nella “società della conoscenza” è che nel frattempo anche il lavoro culturale in senso stretto ha perso ogni dignità: si è fatto discontinuo, precario, interinale e cottimistico, spersonalizzante in quanto asservito alle logiche industriali dell’‘efficienza’ e del profitto.
A «Poliscritture 2» non interessa però il discorso sindacale, pur ritenendolo della massima importanza; ma il lavoro culturale sul lavoro culturale, insomma un lavoro culturale di secondo grado, fatto di analisi dei cambiamenti che su questo terreno si sono verificati e si stanno verificando. In sede storica ci interessa vedere come la crisi del fordismo ha spostato la catena di montaggio dalla fabbrica alla società; ha prodotto caporalato intellettuale, ricattabile, flessibile e fungibile. Le categorie di intellettuale-massa, intellettuale organico, ecc., vanno interamente ripensate in funzione di questi mutamenti strutturali.
In particolare questi i temi principali che vogliamo esplorare:
a) la centralità del linguaggio verbale e della dimensione linguistica per la comprensione dei fenomeni sociali e culturali;
b) l’avvento dei fenomeni orwelliani della neolingua (intesa come una lingua semplificata, espressione del comando e diretta al comando, che non serve per comunicare ma per uniformare, e scongiurare ogni forma di pensiero divergente) e della inversione semantica (fenomeno per cui una parola o una espressione viene svuotata e forzata ad assumere il significato opposto, con una degradazione della figura retorica dell’ossimoro), come parti integranti del programma neoliberistico;
c) la denuncia delle cosiddette ‘false notizie’ e della post-verità come piena e perversa attuazione del principio che quando i fatti negano una narrazione, questa deve essere populisticamente autorizzata a cambiare i fatti e riscrivere la storia;
d) la rivendicazione del linguaggio e della cultura come beni comuni e la lotta contro una concezione della proprietà intellettuale, del copyright e del diritto d’autore come elementi fondanti di un programma culturale protezionistico, monopolistico, colonialistico;
e) l’attenzione critica al mondo della tecnica e della tecnologia applicata ai processi culturali;
f) le potenzialità del mondo digitale e i simmetrici rischi di un suo depotenziamento in un mondo “virtuale” che nega la corporeità e materialità delle trasformazioni che esso stesso ha indotto;
g) il progressivo asservimento dei ‘social network’, di cui non va comunque mai dimenticata la prevalente finalità mercantile, a uno strisciante e imperante populismo digitale;
h) lo smarrimento della rete come intelligenza collettiva e dell’etica hacker come forma di giustizia e riappropriazione della conoscenza;
i) l’odio per la democrazia (Rancière) che nutre e attraversa la cultura dominante e il suo scellerato patto con il potere economico e politico;
j) le linee necessarie per il rilancio delle politiche pubbliche di sostegno e sviluppo della cultura, a partire dalla constatazione che i beni culturali non sono commerciabili, come recita l’appello di Montanari, Settis e altri studiosi dell’agosto 2017;
k) i rapporti tra politica culturale e ricerca, non solo accademica ma culturalmente e socialmente diffusa.

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