La mano

Introduzione e traduzione di Virginia Arici   

 

 di Patricia Highsmith

Mary Patricia Plangman, meglio nota come Patricia Highsmith, nacque a Fort Worth (Texas) nel 1921. All’età di 6 anni i suoi genitori si trasferirono a New York, dove frequentò la Julia Richmond High School e il Barnard College.
Scoprì all’età di 16 anni di voler diventare una scrittrice, e fece pratica nelle riviste scolastiche.
Il suo primo romanzo, Sconosciuti su un treno, del 1950, fu usato come soggetto da Alfred Hitchcock per il suo film L’altro uomo, e il suo terzo, Il Talento di Mr Ripley, venne premiato dai Mystery Writers d’America. Tom Ripley, truffatore, assassino, “soave, gradevole e assolutamente amorale” secondo la definizione della Highsmith stessa, artista della truffa e omicida che sfugge sempre alla giustizia, epicureo e sofisticato, è il protagonista di cinque romanzi dell’autrice ed è anche il suo personaggio più noto. Oltre ai 5 romanzi di Ripley, la Highsmith ha scritto altri 18 romanzi thriller e noir, oltre a vari racconti brevi. La mano, qui tradotta, è il racconto di apertura di Piccoli racconti di misoginia, una collezione del 1974 di 17 racconti brevi, alcuni di sole due pagine, di tono macabro e oggettivo. Il tema sottostante è la sfortuna di donne e/o uomini che distruggono se stesse o la vita di altri.
La Highsmith stessa ha dichiarato di essere “interessata all’effetto della colpa sui suoi eroi”. I suoi romanzi a tinte forti, che affrontano tematiche anche scabrose, la hanno resa meno popolare negli Stati Uniti che in Europa, dove si trasferisce nel 1953. L’autrice stabilisce la sua residenza a Aurigeno, in Canton Ticino (Svizzera), dove muore nel 1995.
Il suo brindisi al nuovo anno:
A tutti i diavoli, lussurie, passioni, avidità, amori, odi, desideri, nemici spettrali e reali, all’esercito di memorie con le quali mi batto – che possano non darmi mai pace
– Patricia Highsmith, “My New Year’s Toast”, diario, 1947

Un giovanotto chiese ad un padre la mano di sua figlia, e la ricevette in una scatola – la sua mano sinistra.
Padre: “Hai chiesto la sua mano e ora ce l’hai. Ma è mia opinione che tu volessi altro e che l’abbia anche ottenuto”
Giovanotto: “Che mai vuoi dire?”
Padre: “Che mai credi che io voglia dire? Non puoi negare che io sia più onorevole di te, perché tu hai preso qualche cosa dalla mia famiglia senza chiedere, mentre quando hai chiesto la mano di mia figlia io te l’ho data”
In effetti, il giovanotto non aveva fatto nulla di disonorevole. Il padre era semplicemente sospettoso di natura e aveva una mente sporca. Il padre poteva legalmente ritenere il giovanotto responsabile per il mantenimento di sua figlia, e poteva prosciugarlo economicamente. Il giovanotto non poteva negare di avere la mano della figlia – anche se, preso dalla disperazione, dopo averla baciata l’aveva seppellita. Ma era già lì da due settimane.
Il giovanotto voleva vedere la figlia, e fece un tentativo, ma fu proprio bloccato da una barriera di commercianti. La figlia stava firmando assegni con la mano destra. Ben lontana dal morire dissanguata, stava procedendo a tutta velocità.
Il giovanotto annunciò sui giornali che lei aveva lasciato il suo letto e il suo alloggio. Ma doveva dimostrare che lei ne avesse mai usufruito. Non era ancora un “matrimonio”, sulla carta o in chiesa. Tuttavia non c’era dubbio che lui avesse la sua mano, e che avesse firmato una ricevuta che ne attestava l’entrata in possesso quando gli era stato recapitato il pacchetto.
“La sua mano in cosa?” il giovanotto chiedeva alla polizia, disperato e al suo ultimo centesimo. “La sua mano è seppellita nel mio giardino”
“E sei un criminale per soprammercato? Non solo disorganizzato nel gestire la tua vita, ma anche psicopatico? Per caso hai tagliato la mano di tua moglie?”
“Di certo no, lei non è neanche mia moglie!”
“Lui ha la sua mano, e tuttavia lei non è sua moglie!” lo derisero i poliziotti. “Che ne faremo di lui? Ha perso la ragione, forse è proprio pazzo.”
“Chiudetelo in un manicomio. E’ anche al verde, cosicché dovrà essere messo in un Manicomio di Stato.”
Così il giovanotto fu rinchiuso, e scrupolosamente la ragazza di cui aveva ricevuto la mano andava a vederlo attraverso le barriere di filo spinato una volta al mese, come una moglie coscienziosa. E come la maggior parte delle mogli, non aveva niente da dire. Ma sorrideva in modo molto aggraziato. Il lavoro di lui ora gli passava una piccola pensione, che lei riscuoteva. Il suo moncone era nascosto in un manicotto.
Il giovanotto ora provava troppo disgusto per lei per poterla guardare; egli dunque venne ficcato in un reparto ancora più sgradevole, senza libri né compagnia, e divenne davvero pazzo.
Quando divenne matto, tutto quello che gli era successo, il richiedere e il ricevere la mano della sua amata, gli divenne intelligibile. Si rese conto di quale orribile errore, crimine persino, si fosse macchiato nel chiedere una cosa così barbara come la mano di una ragazza.
Ne parlò con i suoi carcerieri, dicendo che adesso capiva il suo errore.
“Quale errore? Chiedere la mano di una ragazza? Ho fatto così anch’io, quando mi sono sposato.”
Il giovanotto, rendendosi conto di essere oramai pazzo senza rimedio, poiché non poteva mettersi in contatto con nulla, rifiutò il cibo per molti giorni, e alla fine si stese sul letto con il volto verso il muro, e morì.

5 pensieri su “La mano

  1. Non ho mai letto alcunché di Highsmith, ma a giudicare da questo suo racconto breve, e a costo di far irritare i suoi innumerevoli fan, mi sembra di non aver perso nulla. Pare la seguace tardiva d’un surrealismo di maniera, coi nessi logici e razionali omessi o bruciati a favore della sintesi, in una narrazione-apologo che non (mi) convince punto.

  2. @ Bugliani: è vero, questo racconto imperniato sulla incapacità di distinguere tra lingua e effettualità, che porta alla follia sociale e individuale, è datato. Ma la cosa più interessante di quella raccolta, Piccoli racconti di misoginia, è, appunto, la esplicitazione di una misoginia femminile in tempi di indefettibile sorellanza.
    Come scrive Margherita Giacobino sul Corriere del 26 febbraio ’17, nella 27 ora: “Assai più rara e scontrosa della sua controparte maschile, la misogina (quella vera, originale, non quella comunissima che agisce come replicante del disprezzo maschile, per misoginia interiorizzata) è colei che odia le donne per il motivo opposto al suo collega maschio, ovvero perché li incarnano fin troppo, questi stereotipi. […] Nella postfazione all’edizione italiana (2 ed.) de La Tartaruga (1984), Luisa Muraro, celebrando in questa operina il primo «compiuto documento di misoginia femminile» si interroga sulle ragioni di questo odio e conclude: «ritengo che una donna possa odiare una propria simile quando questa le rimanda un’immagine avvilita del suo sesso, al punto da farle desiderare di non essere una donna».  Mi si dirà che oggi molte ragazze rifiutano di lasciarsi determinare dagli stereotipi, o ci provano, e credo che sia vero. Ma molte altre no.”
    E questa chiarezza Patricia Highsmith alle donne nel 1975 la regalò, ed era controcorrente ed originale.

  3. ….non ho letto l racconti dell’autrice citata se non quello ora presentato, “La mano”, dove si descrive in maniera paradossale e alla lettera, quindi spiazzante per l’effetto indotto, di una dinamica piuttosto frequente nei rapporti umani…dove i responsabili del crimine-truffa sono sia un uomo che una donna alleati: il primo sadico senza scampo, la seconda sadica ma anche masochista, mentre la vittima, oggetto del raggiro, finisce per essere considerata colpevole da una società superficialmente “burocratica” e infine da se stessa, perdendo nella pazzia ogni lucidità e ragione…Almeno in questo racconto mi sembra che l’autrice più che parlare di misoginia si esprima contro una società mistificatrice e sciocca che premia le persone astute senza scrupoli ai danni dei più deboli e soli…Lo stile quasi telegrafico giova a suscitare un effetto di sorpresa macabra in chi legge

  4. @ Cristiana Fischer, il punto di vista che segnali mi mancava, ma ciò non toglie che il racconto in sé lo trovo proprio brutto-brutto

  5. Io amo di questo racconto proprio il gioco paradossale fra lettera e significato traslato che serve a spiazzare e ad alzare uno specchio che rivela molte contraddizioni presenti nei rapporti sociali più che molti saggi, come ben sottolineato da Annamaria Locatelli. Non lo trovo datato nella nostra complessa socità, e non mi sembra una narrazione-apologo, ma piuttosto una breve denuncia senza battere ciglio di alcuni comportamenti che usano le parole per nascondere fatti e che l’autrice di sicuro disapprovava, come ben sottolineato dalla citazione di Cristiana Fischer.
    Se avete l’edizione italiana, mi sembrerebbe molto attuale il terzultimo racconto della raccolta, dal titolo: La vittima, come molto bello per me è Ripley’s Game, di cui però non credo esista traduzione -e forse a ragion veduta, vista la distanza che esiste tradizionalmente fra il sentimentalismo-buonismo di molta letteratura italiana e e l’impietoso sguardo di molta letteratura di lingua inglese, fra cui anche questa autrice.

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