Padri e figli: alla Pirelli di Figline Valdarno  

Due generazioni di operai a confronto sul lavoro 

Angelo Australi

Da molto avevo in mente di scrivere per Poliscritture qualcosa sul periodico culturale che tra il 1988 ed il 1990 ho ideato e diretto al mio paese. MICROmacro, questo il nome della testata che per oltre due anni, con i suoi dodici numeri (era un bimestrale), ha incoraggiato la ricerca di un’identità del territorio nel confronto con la città e i suoi centri di produzione. MICROmacro: l’infinitamente piccolo, all’apparenza insignificante, contrapposto ai grandi temi, perché solo un’indagine del quotidiano, vivendo così distanti dall’industria culturale, poteva fotografare la realtà di una provincia in piena trasformazione. Avevo voglia di scriverne perché l’attuale crisi economica per me in realtà è qualcosa di più strutturale che ha origine proprio negli anni ottanta del secolo scorso quando, a livello di cultura di massa, al conflitto tra obbligo morale ed il suo adempimento, all’idea di partecipare tutti insieme a un progetto si è avvicendato nell’individuo quello tra il desiderio e la sua realizzazione, costringendo la ricerca, e anche la politica, a fare un passo di lato, rispetto al bisogno crescente di evasione dalla realtà. Nell’era della globalizzazione siamo diventati, nella sostanza, tutti dei piccolo borghesi che partendo da un identico bisogno, per coprire la solitudine interiore escogitiamo mille personalità che non hanno niente di autentico, di originale. Certo alla fine degli anni ottanta in pochi pensavano seriamente che l’innovazione tecnologica degli ultimi decenni ci avrebbe obbligato a vivere questo tempo schizofrenico che si concretizza solo nel presente, il computer ed il cellulare si affacciavano timidamente sulla scena, niente faceva presupporre quell’esplosione di forme di comunicazione sulla rete informatica che oggi è elemento vincolante per il nostro bisogno di socializzare.

Nei frequenti contatti con la città allora mi rendevo conto che spesso della provincia si aveva ormai un’idea fatta principalmente di luoghi comuni, le distanze nel vivere quotidiano erano state già sbriciolate e lo spazio in cui muoversi durante la giornata era infinitamente grande e infinitamente piccolo per tutti. I ritmi di lavoro erano quelli, i programmi visti alla televisione venivano assimilati in tempo reale da ogni parte del pianeta, mentre della provincia si aveva ancora l’opinione, purtroppo assecondata dalla politica, che fosse un luogo chiuso, ottuso, vincolato a un conformismo che precludeva la possibilità di partecipare ai cambiamenti di costume della società. Trovavo provinciale tutto questo, piuttosto che vivere in un paese. Lontano dalle stanze dei bottoni che governano il destino del mondo anche i nostri giovani frequentavano luoghi dove chi lavorava in fabbrica stava insieme a chi frequentava l’università o era medico o ingegnere, e i nostri anziani non piangevano affatto il mondo contadino in cui erano nati e cresciuti, pur recriminando sulla trascorsa gioventù e lamentandosi degli acciacchi. Uno spazio dove ci stanno gli uomini, mi dicevo, è sempre vivo, può dimostrare in modo più o meno intenso la sua autenticità, ma il metro di misura allora va decodificato cercando le risposte in un moto circolare e non per esclusione. Il Valdarno rispetto a una metropoli è meno che niente, ma in quel meno che niente c’era la vita delle persone e comprenderlo significava disintegrare il presente, andare al di là dei luoghi comuni. Per questo nella rivista affrontavamo in ogni numero un argomento cercando di darne più chiavi di lettura grazie alla molteplicità dei contributi, portando sulle stesse pagine il punto di vista o le storie di chi abita quotidianamente in città e chi in provincia.

Gli intenti del progetto sono esplicitamente rivelati in una breve didascalia stampata sotto la foto del gruppo della redazione apparsa nel numero 0:

“Un’epoca dove le esperienze si vivono senza seguire una linea verticale dei valori che va dal basso verso l’alto, ma piuttosto in senso orizzontale, denota come il Centro non è più quel punto luminoso che irradia stimoli e segnali nuovi verso la periferia, ma solo una fonte di distribuzione che sviluppa il suo mercato come un’impresa che ha la necessità di espandersi. Il problema non è competere con il Centro, ma cercare là dove esso si è distratto, là dove gli è sfuggito il significato della vita come registrazione di una realtà in evoluzione”.

A parte il numero zero di prova, dedicato interamente alla pubblicazione degli atti di un convegno sul poeta Eugenio Centini che era scomparso di recente e del quale avevo curato la pubblicazione di una raccolta delle sue poesie, i temi trattati sono tutti argomenti di cui ancora oggi si continua a discutere, quasi in una grottesca soluzione di continuità: Viaggio: avventura o evasione?; Pendolari del 2000; Il Valdarno come New York; Scuola e cultura; Epoca di riciclaggio; Società dell’immagine: L’ozio forzato; Campagna, verde campagna?; Ambientarsi; I ragazzi fanno Storia; Uso e consumo del tempo.

Il numero 5 era interamente dedicato al lavoro e aveva come titolo: Epoca di riciclaggio – il lavoro in una società tecnologica. Prima di passare alle testimonianze di due operai di diverse generazioni che lavoravano alla Pirelli di Figline Valdarno, da me raccolte un pomeriggio alla Casa del Popolo, riporto in corsivo l’editoriale che argomenta il tema approfondito su quel numero della rivista.

Molto spesso quando ci mettiamo a discutere sul lavoro che facciamo, e contrapponiamo il presente al passato, dentro di noi assistiamo a una scissione che ci porta inevitabilmente a maledire il presente, dove il lavoro è sempre meno svolto dagli uomini, e a constatare che appena trent’anni fa le persone, anche se lavoravano come bestie, non contavano ugualmente niente in rapporto a chi decideva il destino collettivo. Allora si pensava solo a procurarci gli alimenti indispensabili alla sopravvivenza, oggi si lavora più per il superfluo, che sembra nel benessere sostituirsi all’altra forma di sopravvivenza. Una cosa è certa, l’individuo è cambiato in rapporto a quello che fa nel tempo libero. E’ aumentato l’interesse per questo tempo libero, e sono cambiate le necessità in rapporto alla consistenza delle energie impiegate nel lavoro. La tecnologia è la molla che ha spinto il progresso in questa direzione, la tecnologia che sempre più sostituisce l’uomo, che suddivide i lavori per competenze, costituendo una scala diversa di qualifiche e di drammatiche esclusioni. In quest’ottica anche l’entrata dei giovani nel mondo produttivo viene totalmente stravolta, oggi per esempio senza un titolo di studio o una laurea, certi lavori che vanno per la maggiore non sono neanche avvicinabili, e quella soglia di entrata in questo mondo si è notevolmente allungata, da quindici ai venti, siamo passati ai trent’anni, e forse più. La disoccupazione cambia volto, e cambiano volto quei mestieri artigianali una volta tanto importanti; alcuni addirittura scompaiono.

Molti la definiscono società post-moderna, o post-industriale, quella che vede un incremento sempre maggiore dei servizi, che va di pari passo con la diminuzione della forza lavoro nei cosiddetti settori produttivi. A MICROmacro abbiamo coniato una nostra definizione: Epoca di riciclaggio. Forse perché in prospettiva, nel benessere contemporaneo non vediamo idee nuove ma solo un recupero standardizzato di vecchie formule che ad ogni passaggio contribuiscono a svuotare i valori di significato, mentre in sostanza nella vita quotidiana, ciascuno è costretto a trovarsi uno scopo.

Apriamo la porta al mondo che produce. Tutti ne facciamo parte, e tutti sentiamo di evaderne a nostro modo. Forse il riciclaggio inizia da questa sensazione di immunità che in molti credono di aver raggiunto, e altri ancora sperano di raggiungere.

 Questo il corsivo di apertura al numero, che fu veramente ricco di spunti di riflessione e di testimonianze su nuove e antiche forme di lavoro. A me parve opportuno recuperare la testimonianza di due operai della Pirelli, uno che ci lavorava da ben venti anni e l’altro, molto più giovane, anagraficamente poteva esserne il figlio, assunto da circa due.

Una breve nota sulla fabbrica: a Figline si produce la cosiddetta “Vergella”, un grosso cavo d’acciaio che viene lavorato, attraverso dei processi di trasformazione, in sottili fili utilizzati nella produzione degli pneumatici. L’azienda Cord Metallico era nata nel 1960 come centro pilota delle Industrie Pirelli SpA, con l’obiettivo di studiare la produzione di un materiale di rinforzo per l’industria del pneumatico e della gomma, arrivando nei primi anni settanta ad occupare circa un migliaio di dipendenti, oltre all’indotto, e che oggi, dopo la cessione a Bekaert SpA del 2015, si sono ridotti a poco più di trecento.

E adesso passiamo all’intervista fatta, se non ricordo male, ad aprile del 1988.

 

PADRI E FIGLI: due generazioni di operai a confronto sul lavoro alla Pirelli di Figline Valdarno

 Due operai della Pirelli si sono offerti di concederci una testimonianza sul loro rapporto con il lavoro. Osvaldo Boncompagni ha quarantotto anni, Massimiliano Becciolini ventiquattro. Proprio quello che speravamo in redazione: mettere a confronto due generazioni, due diverse storie.

La stanza dove ci sediamo il fine settimana si affolla di accanite giocatrici di tombola, ora è vuota e le nostre voci si perdono in un eco metallica. Dal salone e dal bar del Circolo ARCI Rinascita ci raggiunge il suono dei videogiochi e le voci di un’accesa discussione al tavolo delle carte. Il suono dei videogiochi non ha niente di romantico e di rilassante, ma è sempre meglio del rumore delle auto che transitano da Via Roma. Sono le sei del pomeriggio, l’ora di chiusura delle fabbriche, l’ora in cui la comunità cessa di essere produttiva e cambia volto, consuma.

 Assunzione

Osvaldo: febbraio 1969.

Massimiliano: febbraio 1986.

Osvaldo: Prima lavoravo a Firenze. Ero fonditore. Entrare alla Pirelli fu un miglioramento. Intanto non facevo più il pendolare, ma anche il lavoro che svolgevo dentro quella fabbrica, che tra l’altro non dava alcuna tutela sindacale, era peggiore di quello da svolgere alla Pirelli. Non tanto la fatica, era peggiore l’ambiente di lavoro: fumi, polvere; veramente un disastro. Dal punto di vista salariale invece non fu un miglioramento, a Firenze la busta paga era più alta che nel Valdarno.

Massimiliano: Io ho lavorato quattro anni come idraulico, qui a Figline Valdarno. Il principale aveva un carattere suscettibile, io lo stesso, sicché bastava una scintilla per litigare. Dopo quattro anni non ho più retto e mi sono licenziato. Sono stato disoccupato per un anno e mezzo. L’ufficio di Collocamento di Figline è proprio un bidone tremendo, perché praticamente gli impiegati ti fanno assumere nei posti di lavoro che vogliono loro. Poi mi convinsero in famiglia a fare la domanda alla Pirelli, cosa che avevo sempre rifiutato perché consideravo la fabbrica un’ultima spiaggia.

A dicembre feci il colloquio e le visite mediche, e mi presero. Rispetto a prima in questo lavoro ci sono i turni che un po’ mi scocciano. Economicamente qui esistono condizioni migliori, e poi la tutela sindacale; quando facevo l’idraulico eravamo tre operai dipendenti, quindi di scioperi e di assemblee non si parlava.

I primi contatti con la grande fabbrica

Osvaldo: Fui assunto alla Pirelli di febbraio e già a giugno-luglio il sindacato presentava la piattaforma per il rinnovo contrattuale. Iniziammo gli scioperi a settembre e dopo fu fatta una valanga di manifestazioni e di assemblee. Si costruì un rapporto bellissimo fra i lavoratori. Solidarietà, conoscenza, discussione. Fu un’esperienza davvero grossa, mi ha segnato e mi segna ancora.

Massimiliano: Avendo lavorato in un’azienda piccola la novità per me è stata netta. Ho cominciato a vedere che dentro una grossa fabbrica bisogna selezionarsi, bisogna mettersi dentro una corrente. Ci sono quelli di sinistra, quelli di destra, un’organizzazione che richiede attenzione quando ci sono le assemblee, o a leggere i comunicati affissi alle bacheche. Non mi sono trovato male, anche se pensavo che in un’azienda come la Pirelli ci fosse un’organizzazione un po’ più forte nell’ambito del Consiglio di Fabbrica. Mi aspettavo un sindacato che praticamente costruisse qualcosa. In due anni che sono alla Pirelli di tutte le rivendicazioni fatte mi sembra che non abbiamo ottenuto niente. E’ assurdo che il Consiglio di Fabbrica e la Commissione si riuniscano solo quando c’è qualcosa che ha turbato le parti, mentre quando va tutto apparentemente bene, non viene fatto niente. Non mi sembra un rapporto serio per una fabbrica che ritiene di essere all’avanguardia.

Osvaldo: L’analisi che fa Massimiliano è giusta, però non è stato sempre così.

Massimiliano: Io parlo per quello che ho vissuto in questi due anni.

Osvaldo: Infatti avevo il sospetto che i giovani entrati alla Pirelli negli ultimi tempi, facessero questo tipo di valutazioni. L’organizzazione dei lavoratori ora è molto evanescente, poco incisiva, saltuaria; confermo quello che dice lui. Non è stato sempre così, con il Sessantanove si iniziò una stagione che di fatto è durata oltre un decennio. Soprattutto fino al Settantacinque in fabbrica c’era una vivacità incredibile. Era un susseguirsi di richieste, di proposte che riguardavano le condizioni all’interno della fabbrica, ma anche la voglia di incidere all’esterno, nella società. Da dentro la fabbrica si pensava di esportare delle idee. I lavoratori organizzati alla Pirelli avevano contatti e possibilità di confrontarsi con quelli di altre fabbriche di Figline e del Valdarno. Addirittura esistevano dei contatti con i lavoratori della Pirelli di Milano e di altri posti; non a livello generale, certo, ma il Consiglio di Fabbrica e i rappresentanti di tutte le forze politiche. Il dibattito era vivace e acceso, ci si confrontava su tutto, le assemblee erano palestre dove discutere.

Massimiliano: Sembra passato tanto tempo.

Osvaldo: Se devo confrontare il presente con le assemblee degli anni settanta c’è un abisso. Ora non parla più nessuno. L’aspetto preoccupante è che, non tanto negli ultimi anni sono peggiorate le nostre condizioni perché il padrone ha riorganizzato lo sfruttamento del lavoro, ma il fatto che i lavoratori stessi, rispetto a prima, mi sembrano muti, indifferenti. Forse perché la gente pensa che a dire le cose non serve. E’ un impoverimento dal punto di vista della partecipazione alla vita della fabbrica, della democrazia, e culturale.

Massimiliano: In linea di massima sono d’accordo con lui. C’è stato da parte dei giovani della Pirelli un allontanamento da quelle organizzazioni che permetterebbero di stare tutti meglio. I giovani secondo me, oggi non hanno voglia di immischiarsi in quelle storie perché vedono che i risultati sono scarsi, e poi perché in questi ultimi anni il tenore di vita esterno alla fabbrica è cambiato totalmente e sono portati quasi tutti a snobbare la questione sociale. Il mondo esterno, su questo tipo di impegno, ci ha disorientati. Non pensiamo più alla politica. Io quando leggo mi sembra di sentire cento lingue. Un giorno si legge in una maniera, un giorno in un’altra; sembra diventato un casino generale, dove tutti hanno ragione.

 Il rapporto con il lavoro

Osvaldo: Per quello che mi riguarda, e che riguarda quelli che lavorano con me, il lavoro è diventato una costrizione; proprio nella cultura nostra, nel modo di accettarlo. Bisogna poi vedere rispetto al tipo di mansione che svolgono alla Pirelli altre categorie, ci sono naturalmente diverse scale di professionalità, e quindi di qualità della vita. Siamo fessi comunque a pensare che queste sei ore le buttiamo e, male che vada, dopo siamo fuori, perché in effetti il lavoro condiziona anche il resto della nostra vita. Io non svolgo qui alla Pirelli un lavoro, come dire?, professionalizzato, è piuttosto monotono, non dà soddisfazioni. Dell’attaccamento al lavoro ne sento parlare dagli operai anziani della Pirelli, ma è riferito a ciò che facevano prima di essere assunti, con un’esperienza di lavoro che era completa, non parcellizzata.

Nelle ore del turno il tempo per parlare con gli altri è quasi inesistente, e non dovrebbe esserci affatto. Da noi non ci si può muovere dal posto assegnato dal <<Gruppo>>, se uno lo fa è a suo rischio e pericolo.

Questo non avviene in assoluto, però avviene in larghissima misura. Per passare da un reparto all’altro anche solo per due minuti, è necessario in teoria un permesso aziendale. Di tempo per pensare questo lavoro ne lascia poco, comunque io un po’ mi salvaguardo. La direzione non sa che io penso altre cose, ma se faccio un errore sul lavoro viene fuori la domanda: <<a cosa pensavi?>>, per cui alla fine c’è anche un controllo sul mio cervello. Loro non fanno niente di bello per ciò che riguarda la qualità del prodotto, però a noi viene sempre chiesta, quindi che si pensi continuamente al lavoro è sottinteso dall’organizzazione vigente della fabbrica.

Massimiliano: Non c’è il tempo neanche di appoggiarsi al muro, si devono fare sei ore di lavoro che sono una corsa da quando si entra a quando si esce. A volte gli ultimi venti minuti del turno ci si permette di scambiare due parole.

Osvaldo: E a volte sono quelli dove si lavora di più.

Massimiliano: Anch’io penso un po’ a me stesso, non ce la faccio a stare sei ore a pensare alla macchina, cosa che però bisognerebbe fare perché sono macchinari abbastanza ignoranti e se non stiamo attenti c’è il rischio di farsi male, anche in modo grave. La testa non deve stare fra le nuvole, comunque qualche minuto me lo lascio.

Il tempo libero

Osvaldo: Trascorro gran parte del tempo libero con le mie due figlie, e seguo anche il mio passatempo preferito, che è la lettura. Leggo giornali, libri, riviste, ascolto un po’ di musica. Una parte lo passo occupandomi di attività sociali, ma questo sicuramente in misura minore rispetto al passato. Mentre una volta era preponderante il tempo dedicato all’attività politica e sociale, ora è quello che passo in famiglia.

Massimiliano: La cosa principale dopo il lavoro è divertirsi, e finito il mio turno di sei ore faccio di tutto perché questo sia possibile. Per fortuna oggi a Figline divertirsi è abbastanza facile. Leggo anch’io, e di tutto, escluso fumetti, che non mi piacevano neanche da bambino.

Osvaldo: Ne conosco diversi che alla Pirelli hanno la passione di leggere.

Massimiliano: Leggo soprattutto libri di storia. Mi piace la storia moderna, ma anche antica. Me l’ha messa in testa mio padre. Lui ha sempre letto. Mi portava con se dalla gente che scriveva, oppure a sentir parlare di libri. Quasi la metà del gruppo di amici con cui trascorro il tempo libero è della Pirelli, gli altri sono studenti. Io mi trovo meglio con gli studenti, con gli altri si finisce sempre a parlare della fabbrica dove si lavora.

7 pensieri su “Padri e figli: alla Pirelli di Figline Valdarno  

  1. …ringrazio molto Angelo Australi per questo bel testo che riporta alla luce una esperienza, quella della rivista bimestrale MICROmacro nata intorno agli anni ottanta, e di una testimonianza di lavoro e di vita in fabbrica nel confronto tra due generazioni…Riguardo a quest’ultima, sarebbe interessante sentire testimonianze di operai che lavorano oggi alla Pirelli di Figline Valdarno. Temo che il processo ( progresso?) di degrado già in corso si sia molto accelerato dopo trent’anni, data la quantità di acqua (inquinata) passata sotto i ponti dei nostri cervelli…Trovo anche molto interessanti le riflessioni sul centro e sulla periferia, sulla città e sulla provincia che sono attualissime, come parlare di circolarità che sa evitare l’esclusione tipica dei progetti verticali…Oggi poi, secondo me, nelle periferie e nelle province si muovono dinamiche spesso conflittuali, ma anche veri laboratori alla ricerca di soluzioni ai problemi che oggi ci affliggono

  2. Cara Annamaria Locatelli,

    purtroppo è così, il discorso degli operai in fabbrica si è molto deteriorato rispetto al periodo dell’intervista, e la fabbrica non è più Pirelli da un paio d’anni perché ceduta alla Bakaert, un’azienda belga. In questa come in altre fabbriche gli operai se la passano male, nell’incertezza del domani, ma quello che è peggio, è la distanza con le problematiche del territorio, che sembra ormai incanalato nel sopravvivere chiuso in compartimenti stagni, molto lontano dalla circolarità delle esperienze che viene ricordata nel corsivo di MICROmacro.
    Questa la colpa della politica, secondo me: non aver capito allora di dover trovare una strada alternativa a quel livellamento verso il terziario, e di aver lasciato il campo ai leghisti che invece di aprire chiusero il territorio su se stesso. Se ci ricordiamo bene, la Lega è sorta in quegli anni.
    La generazione di Osvaldo è cresciuta, lui ed altri che ho conosciuto, negli anni settanta sono anche diventati assessori al Comune di Figline Valdarno, riuscendo bene perché grazie alla cultura della fabbrica si erano fatti una visione d’insieme della realtà. Ricordo soprattutto alcune interessanti discussioni che si facevano in occasioni pubbliche alla fine degli anni ottanta, che quando si parlava di lavoro in prospettiva futura alcuni di loro chiedevano di guadagnare magari 100.000 lire in meno sulla busta paga, a patto che l’azienda assumesse dei giovani, scandalizzando di fatto i partecipanti agli incontri. Né il sindacato né il PCI li ha mai ascoltati. Forse per paura di perdere consensi. Anzi, senza forse.

  3. …caro Angelo Australi, persone come Osvaldo, penso, si erano formate intorno agli anni settanta e allora (ricordo nella mia cittadina di provincia, Lodi) erano piuttosto numerose , persone informate a un sentimento di generosità che non si vergognava di uscire allo scoperto: organizzavano iniziative di gruppo, nelle fabbriche come nella realtà cittadina, ad esempio, da noi, per migliorare le condizioni dei lavoratori pendolari…Il processo di chiusura è stato lento ma inesorabile proprio grazie alla politica e al sistema economico pubblicitario che ci sovrasta…non è di moda. Nella periferia urbana dove vivo ora per fortuna si sta muovendo qualcosa, anche tra i più giovani, anche se la realtà si è fatta ancora più complessa. La periferia urbana ingloba periferie e povertà di tutto il mondo e la sfida è più ardua

  4. Per non ridurci alla nostalgia o a parlare degli operai come fossero i pellirosse decimati da generale Custer o finiti nelle riserve come tutti gli sconfitti, penso sia utile collegare questa testimonianza di Angelo [Australi] al discorso che avevo segnalato su POLISCRITTURE FB il 21 novembre 2017 di Francesco Ciafaloni (sotto uno stralcio e il link per leggerlo interamente). Lascio anche sotto uno scambio di commenti tra me ed una signora di un social cittadino di Cologno perché le sue parole indicano bene il tipo di rimozione e demonizzazione di quel passato, che Australi ha voluto evocare con ammirazione e che dev’essere contrastato con forza.

    *

    Ennio Abate ha condiviso un link.
    2 h
    SEGNALAZIONE
    *Ecco almeno ogni tanto parlate anche di questo! [E. A.]
    Le nuove lotte
    di Francesco Ciafaloni
    http://gliasinirivista.org/2017/11/le-nuove-lotte/

    Stralcio:

    1.
    Il lavoro sembra scomparso non solo dalle vite dei giovani (e talora meno giovani) italiani ma dalla cultura, dall’economia politica, oltre che dal mondo. L’economia, dopo aver assunto il lavoro come tema fondamentale, sembra averlo dimenticato; sembra diventata, negli scritti di molti economisti e giornalisti, la scienza della ricchezza dei ricchi, che si occupa di soldi e di modelli econometrici, non di bisogni, produzione e consumo. Perché il lavoro e i lavoratori sembrino scomparsi – nei vecchi paesi industriali – è ben noto. In parte si tratta di spostamenti, di trasferimenti di attività, dai paesi del centro alla periferia, dall’Europa occidentale a quella orientale e alla Cina, dal Nord al Sud del mondo. In parte si tratta di sostituzione del lavoro regolare, con contratto, retribuzione regolare, e regolare rilevazione statistica, con quello irregolare, senza contratto e senza diritti, anche nei vecchi paesi industriali, ma soprattutto altrove. Basti pensare, anche in Italia, alle condizioni dei braccianti, immigrati e non, in agricoltura; ai piccoli esercizi commerciali, ai bar, alle trattorie; alle funzioni di intermediazione; agli incerti confini del volontariato. Oggi economisti e commentatori parlano soprattutto di redditi (anche per discutere di reddito di cittadinanza), di costo e produttività (del lavoro), di pil. Distinguono di rado tra rendite, profitti e salari, mentre questa distinzione è fondamentale per capire una società. Possono vivere di rendita i proprietari, quelli che, come scriveva Cesare Pavese, e si può dire oggi in metafora, possono “vivere del grasso della terra, e le mani tenersele dietro la schiena”. Possono vivere di profitti i proprietari che mettono i loro soldi in attività produttive o nella finanza, o che investono a credito, se gli va bene. I non proprietari e quelli che non hanno credito, la maggior parte degli uomini, devono lavorare per vivere. Se il diritto di proprietà, il “terribile e forse non necessario diritto”, come diceva Beccaria, non è limitato dai diritti del lavoro, oltre che regolato dalle leggi, se la creazione di moneta è sempre più privata e non regolata, la vita dei non proprietari diventa, torna ad essere, veramente miserabile. Le diseguaglianze diventano così grandi da rendere la libertà, personale e politica, dei non proprietari – in effetti dei non ricchi – una finzione. È vero che la proprietà, della casa, dei risparmi, è oggi diffusa in Italia; che la maggior parte degli italiani possiedono la casa dove abitano. È vero che godiamo ancora di un Sistema sanitario nazionale e di un sistema pensionistico e che perciò noi vecchi siamo tutti, più o meno, rentier. Ma si tratta della eredità di idee, lotte e scelte politiche dei decenni scorsi, che oggi non esistono più, che hanno cambiato di segno. Se si guardano i paesi che prendiamo a modello, che imitiamo – gli Stati Uniti, tipicamente – scopriamo una realtà anche peggiore della nostra. La rendita fondiaria è una vecchia e pervasiva forma di rendita. Ereditare un certo numero di alloggi, in un paese che non tassa le eredità, né piccole né grandi, come l’Italia, può rendere irrilevante l’essere disoccupato. La speculazione edilizia ha creato fortune e distrutto città. Ma, se si leggono ottimi articoli recenti sulla situazione a Londra (John Lanchester, Between Victoria and Vauxhall: The Election,“LRofB”, 1 giugno) o a New York (Michael Greenberg, Tenants Under Siege: Inside New York City’s Housing Crisis, “NYRofB”, 17 agosto-27 settembre) si può scoprire che la corsa dei prezzi, la speculazione, l’uso improprio anche dei fitti calmierati, la pressione sugli inquilini, la vera e propria criminalità nei loro confronti, superano di gran lunga ciò che vediamo in Italia. I costi scaricati sul pubblico, senza ospitare molti dei senza tetto, sono enormi; sono senza tetto per povertà molti che un lavoro ce l’hanno, perché non prendono abbastanza per pagare un affitto. Oggi i lavoratori sono isolati, tenuti insieme solo dalla rete. Il posto di lavoro in senso proprio spesso non esiste più. Il singolo lavoratore dipende formalmente dall’ultimo anello di una catena di appalti e subappalti. Deve rispettare scadenze e norme non contrattate da suoi rappresentanti. Le organizzazioni sindacali qualche volta non conoscono neppure la rete delle dipendenza; se il lavoratore è straniero non ne conoscono la lingua. Forse la difesa dei lavoratori, difficile da realizzare sul singolo posto di lavoro, non si può fare che rimettendo insieme, con le leggi, la responsabilità e il potere nell’azienda capofila. E soprattutto difendendo, nella città, i diritti dei non proprietari, per limitare e contenere l’onnipotenza dei grandi ricchi.

    Commenti

    M Grazia Magni
    Da sempre, mi è accaduto di ammirare la profondità delle analisi e , specularmente, trovare inadeguate le soluzioni. Anche in questo caso. Il mondo è profondamente mutato e sarebbe anche interessante indagarne le cause. Ma soprattutto, riproporre strategie e metodologie che non hanno prodotto i risultati che si prefiggevano, non mi pare né costruttivo né razionale. Naturalmente sono solo i miei 5 cents.

    Ennio Abate
    Innanzitutto queste analisi sono chiare e comprensibili. In secondo luogo non hanno spazio qui su Facebook e dovunque. Del lavoro e dei giovani disoccupati, precari, costretti quasi ad elemosinare nessuno ne parla. Neppure i sindacati, come scrive Ciafaloni. In terzo luogo non si capisce perché unirsi per lottare sia una “strategia” o “metodologia” fallimentare per i “non proprietari” ( che appunto non possono manco più essere denominati come lavoratori; e il perché l’articolo lo spiega benissimo). Ce n’è forse un’altra più “costruttiva” o “razionale”. Non mi pare.

    M Grazia Magni
    Infatti, l’analisi è chiara e profonda, come ho scritto. Però alla fine verrebbe da dire : “quindi ?” Definisco fallimentare la strategia indicata (che sintetizzo in lottare, nell’accezione utilizzata nel secolo breve) poiché ha evidentemente prodotto ciò che è descritto nell’articolo.

    Ennio Abate
    L’attuale eliminazione dei diritti al lavoro acquisiti con trattative e lotte e dello stesso Welfare non è imputabile alle lotte “eccessive” dei lavoratori, che risalgono purtroppo ai lontani anni Settanta e avevano un po’ equilibrato l’assoluto predominio delle direzioni aziendali perpetuatesi, malgrado la caduta del fascismo, per tutti gli anni ’50 e ’60.
    La mia opinione e quella di molti studiosi è che il fallimento fu dovuto al compromesso storico berlingueriano, che scatenò anche il tentativo disperato delle Brigate rosse di frenarlo e poi soprattutto per la ristrutturazione tecnologica del capitalismo a livello mondiale che ebbe la meglio anche sull’Urss e la Cina di Mao. E ha messo fuori gioco i sindacati e i lavoratori.
    Da dove ripartire? Ciafaloni indica la via che fu quella del mutuo soccorso dal basso degli inizi del movimento operaio.
    Ripeto la domanda: ce n’è una migliore più “costruttiva” o “razionale”?
    Se si, me la presenti e ne discutiamo.

  5. Intendiamoci, per me in quell’intervista riproposta non c’è niente di nostalgico. MICROmacro era un periodico di cultura, che quindi raggiungeva il livello politico solo per linee trasversali.
    Già quelle due generazioni di operai alla fine degli anni ottanta, anche se lavoravano in fabbrica, erano distanti anni luce, si percepisce assai bene che il vissuto quotidiano al di fuori della fabbrica aveva ormai preso direzioni e obiettivi diversi.
    Le cause sono molteplici, forse in parte c’entra il compromesso storico, ma è evidente che nel passaggio da un lavoro accettato come forma di realizzazione anche individuale ad una pausa subita nel proprio vissuto quotidiano tra un tempo libero e l’altro, l’errore di valutazione è della sinistra nel suo complesso, soprattutto da un punto di vista di approccio culturale al problema, verso una società, un sistema capitalistico e produttivo che stava cambiando con il terziario. Non è un caso se in quegli anni si inizia a creare una certa confusione anche sul ruolo scuola. I problemi a cui accenna Francesco Ciafaloni li ho presenti, ne sentiamo parlare ogni giorno, ne parlano i miei figli, nella complessità della nostra epoca non dobbiamo farci paralizzare dalla paura del futuro, ma fare lo sforzo di capire dove si sono originati, per quali cause.

  6. Il lavoro e la politica che coincidevano negli anni 60 e 70, già, come osserva Australi, si erano separati fisicamente e mentalmente un decennio dopo. Massimiliano: “Io mi trovo meglio con gli studenti, con gli altri si finisce sempre a parlare della fabbrica dove si lavora”. Noi vecchi siamo tutti più o meno rentier, scrive Ciafaloni (pensionati, eventualmente con casa propria), ma essendo vecchi siamo una categoria sociale in estinzione. Iddio protegga quelli più giovani, affidati a un ministro del lavoro che era… a capo delle cooperative! Proprio contro il nuovo sistema delle cooperative sono in corso dure lotte sindacali, a partire dagli immigrati e dai più dequalificati, che non hanno da perdere altro che le catene.

  7. Non dimentichiamo neppure che l’Italia è piena di piccole aziende a conduzione familiare: esercizi commerciali, bar, ristoranti. Qui il sindacato non entrava in passato e lo stesso accade oggi. Le forme di precarietà sono tante, per chi lavora. Il problema è che siamo nella logica che avere dei dipendenti è un costo fisso, nonostante il mercato. Ci vorrebbe un progetto di nazione e di Europa su cui indirizzare le risposte ai problemi che, in questa logica di globalizzazione, nessuno ha.

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