Una vita da lettrice

di Marisa Salabelle

Se devo pensare ai libri che hanno avuto un peso rilevante nella mia vita, devo partire dalle letture dell’infanzia. Per prima ci metto l’Odissea, che mio padre mi leggeva fin da quando avevo quattro o cinque anni. E un misterioso libro verde, che non sono mai riuscita a identificare, forse un dizionario tipo Garzantina, che esercitava su di me ancora analfabeta un grande fascino. Solo che la Garzantina è uscita per la prima volta nel 1962, mentre il fantomatico libro verde è precedente nella mia memoria, e comunque la prima Garzantina non era verde ma rossa.

Nostra madre leggeva a noi bambini Cuore e Pinocchio. Il primo, noioso in molte parti, retorico, moralista: tutti difetti largamente compensati dai terribili e meravigliosi racconti mensili. Il secondo, un capolavoro assoluto, al quale il cartone della Disney non lega neanche le scarpe.

Da quando ho imparato a leggere ho frequentato assiduamente la letteratura per ragazzi. La maggior parte dei miei libri, che andavo a comprare accompagnata dal babbo alla cartoleria vicina a casa nostra, era dell’Editrice Boschi: niente a che vedere con Maria Elena, naturalmente. Libri di formato grande, in brossura, con una copertina che tendeva ad arricciolarsi agli angoli. Altri testi erano più piccoli e avevano la copertina cartonata. C’erano i volumi della Scala d’Oro, a casa di mia nonna, la collezione quasi completa. Erano graduati per età e nella maggior parte dei casi si trattava di riduzioni. È grazie alla Scala d’Oro che ho conosciuto molti classici, che in seguito ho riletto in versione integrale. I libri per ragazzi avevano le figure, ma non molte: giusto quel po’ che bastava a incantarti e farti sognare a occhi aperti, lasciando che la fantasia aggiungesse ciò che mancava.

Io, devo confessarlo, non ho mai amato molto le fiabe. Ne ho lette tante, è chiaro, ma non ci andavo matta. La mia passione erano i romanzi strappalacrime dove un bambino orfano e povero, a seguito di varie peripezie, si ricongiungeva con la sua vera famiglia. Campione di questo genere, Oliver Twist: ma anche Senza famiglia non scherza. Non orfano ma comunque povero e destinato a morte precoce, il soldato semplice Nemecsec mi è rimasto nel cuore, insieme a un altro sventurato, ricco questa volta, ma orfano, il piccolo Humphrey di Incompreso. Posso affermare che questi romanzi hanno contribuito a forgiare il mio immaginario e la mia personalità, oltre a introdurmi ad alcuni dei topoi più abusati dalla letteratura di tutti i tempi: la morte dell’eroe, la quête, l’agnizione. Per anni ho elaborato nella mia mente scene di riconoscimento che avrebbero fatto impallidire la zia Trotwood, crollata al suolo alla vista inaspettata del nipote David Copperfield, o Luke Skywalker, quando Darth Fener gli dice con voce tenebrosa «Luke… sono tuo padre!»
Tra le letture più o meno adolescenziali segnalo Piccole donne (Natale non sembrerà Natale senza regali!), il Diario di Anna Frank, primo approccio al tema della Shoah che poi è diventato un filone consistente delle mie letture, Il buio oltre la siepe, Lo straniero di Irena Jurgielewicz, un romanzo ambientato nella Polonia degli anni ’50 o ’60, che probabilmente nessuno conosce tranne me. È la storia di due ragazze, una si chiama Pesca, e già questo mi sembrò strepitoso, l’altra Ula. Ula non ha la mamma (ancora il tema dell’orfano!) e vive col babbo che odia perché si è risposato. Lo straniero è un ragazzo misterioso che, ferito, si è nascosto sull’isolotto dove le due ragazze e i loro amici avevano costruito un piccolo rifugio…
A 14 anni, grazie alla mia capo scout Sonia, lessi Lettera a una professoressa. Ricordo vagamente una passeggiata in campagna, nel corso della quale Sonia ci lesse a voce alta alcuni brani del libro. Io, che nutrivo grossi sospetti nei confronti di quel testo, disapprovato fieramente da mio padre e dalla mia insegnante di lettere, rimasi turbata dalla lettura di quelle pagine e appena tornata a casa mi procurai il testo, che lessi avidamente. Posso dire che Lettera a una professoressa è stata una pietra miliare nella mia vita e ha orientato molte mie scelte, compresa quella di dedicarmi all’insegnamento.
E mentre andavo alle superiori… quanti ne ho letti, di libri! Alcuni imposti dagli insegnanti, altri suggeriti dagli amici, altri ancora scelti da me. Quali di queste letture sono state fondamentali? Certamente I Malavoglia, un romanzo bellissimo e terribile, che ha esercitato e tuttora esercita una grande influenza sul mio modo di scrivere. I fratelli Karamazov, che lessi dopo aver visto lo straordinario sceneggiato alla televisione. La coscienza di Zeno, dove Zeno finisce per sposare la più bruttina delle sorelle Malfenti, grassoccia e strabica proprio come me. La peste di Camus, tutti i romanzi di Graham Greene, il Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels, la Vita di Antonio Gramsci di Giuseppe Fiori, Se questo è un uomo di Primo Levi…

Il mio primo vero approccio con la poesia: la Divina Commedia, Giacomo Leopardi, Montale. L’antologia di Spoon River.

Italo Calvino, la cui scrittura chiara e limpida ha sempre rappresentato un modello per me. Di Calvino, e forse è strano, il libro che preferisco è Se una notte d’inverno un viaggiatore.
La Bibbia, letta tutta, senza saltare neanche il Levitico, impiegandoci anni, ovviamente. Della Bibbia in particolare il Vangelo di Luca, la Lettera ai Corinzi, Isaia, Osea, la Genesi.

Storia di un’anima, di Teresa di Lisieux. Per anni sono stata affascinata dalla “piccola santa”.

Via col vento, scovato tra i libri di mio padre, edizioni Mondadori, non so se Oscar, comunque tascabile: quattro volumi divorati con passione e un po’ di vergogna: anni dopo, quando uscì la versione restaurata del film, mi rifiutai di andarlo a vedere al cinema adducendo che si trattava di un’opera di basso livello artistico e letterario…

All’influenza della mia insegnante di filosofia devo la mia iscrizione al corso di laurea nella suddetta disciplina, e all’intrattabile professor Landucci devo la lettura della Fenomenologia dello spirito. In seguito lasciai filosofia e mi iscrissi a storia: una volta incontrai in treno la prof e glielo dissi, suscitando la sua ilarità. Evidentemente non mi riteneva adatta alla concretezza della disciplina storica. Invece fu subito un grande amore, che non mi ha più abbandonato. La società feudale di Marc Bloch. Il secolo di ferro, di Henry Kamen. Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, di Fernand Braudel.

Il fatto che frequentassi un gruppo cattolico e la decisione di iscrivermi a teologia dopo la laurea in storia mi hanno fruttato una serie di letture teologiche: Teologia dell’Antico testamento di Von Rad (per anni, grazie a un mio coltissimo e rozzo amico prete, avevo creduto che l’autore di questo e altri interessanti tomi si chiamasse Forràt), Dio esiste? di Hans Küng, Teologia della speranza, Teologia della liberazione… erano gli anni ’70, questa roba andava forte, prima che arrivasse Giovanni Paolo II e la mettesse al bando. Studiare teologia mi è piaciuto moltissimo ma ha contribuito ad allontanarmi dalla fede. A un tratto tutto quanto, la creazione, la Terra promessa, l’avvento del Messia, la morte e la resurrezione, mi sono sembrate storie bellissime ma fantastiche e Gesù un uomo il cui insegnamento sarebbe rimasto un pilastro nella mia vita, ma non più il Figlio di Dio venuto a salvarmi. Ho smesso di credere nella vita dopo la morte e non c’è stato più nulla da fare.
Con l’ingresso nell’età adulta, l’impatto che nuovi libri possono avere su di te diminuisce fatalmente. Ne hai già letti tanti, prima cosa. Sei già cresciuta, seconda. Leggi tante cose che ti appassionano, ti incantano, ti tengono incollata alla pagina, ma poche di queste entreranno a far parte dei “libri della vita”. Nella mole sterminata delle mie letture negli anni della giovinezza e della maturità, qualcosa spicca. Provo a dire alla rinfusa. Cent’anni di solitudine, che ha aperto la strada a molte letture sudamericane, nessuna delle quali, peraltro, mi ha affascinato quanto il capolavoro di Marquez, tranne, forse, molti anni dopo, 2666 di Bolaño. Vedi alla voce amore, di David Grossman, uno dei libri più belli, strani e originali che abbia mai letto. Autodafé, di Elias Canetti, dove il famoso intellettuale si porta tutti i libri nella testa e la sera, quando entra nella camera d’albergo, li scarica sul pavimento… Anna Karenina: lo lessi mentre aspettavo il mio quarto figlio e anche Dolly, una delle protagoniste, aspettava il suo quarto, e pensava, esattamente come me, che la vita di una donna si consuma tra essere incinta, partorire, allattare e rimanere incinta un’altra volta. Menzogna e sortilegio, di Elsa Morante, Nemico, amico, amante di Alice Munro, Tutti i racconti di Katherine Mansfield e naturalmente Jane Austen. 1984 di George Orwell, che lessi nel 1983 pensando che non potevo arrivare all’84 senza averlo letto. 1Q84 di Murakami, Sorgo rosso di Mo Yan.
Ci sono autori di cui ho letto tutto quello che hanno scritto. Agatha Christie, Ed McBain, Ian McEwan, Joseph Roth, Philip Roth. Difficile nominare un romanzo emblematico per ciascuno di loro: per Philip Roth direi Il teatro di Sabbath, il più intimo, il più trasgressivo. Per Joseph, Giobbe. Anche qui c’è l’agnizione, quando il piccolo Menuchim, il bambino ritardato e perduto, si presenta a casa di Mendel Singer e si fa riconoscere. Per McEwan, scelgo Il giardino di cemento, un romanzo bellissimo sull’adolescenza, che ho tentato di far leggere ad alcune mie classi e che ha generato soltanto scandalo e disgusto nei ragazzi.
Un capitolo a parte è quello dei libri sulla storia del Novecento, gran parte dei quali dedicati al tema della Shoah: tra questi mi hanno toccata in particolare La notte di Eli Wiesel, Sonderkommando Auschwitz di Schlomo Venezia e il meraviglioso Maus di Art Spiegelman. E ancora, fra i più recenti, Famiglia Novecento di Paul Ginsborg, La guerra verticale di Diego Leoni, L’ordine è stato eseguito di Alessandro Portelli…
Sebbene in parte destinati all’obsolescenza, fanno parte dei miei “libri della vita” anche alcuni testi sulla contemporaneità: Noi della Diaz, di Lorenzo Guadagnucci; I fantasmi di Portopalo, di Giovanni Maria Bellu; Quando hanno aperto la cella, di Luigi Manconi, sul quale ho lavorato con una mia classe; Naufragio del compianto Alessandro Leogrande, che pure ho proposto ai miei alunni.
Infine, come non includere tra i libri della vita quelli di mio fratello Maurizio? Ricordo ancora il profondo stupore col quale lessi il suo primo romanzo, Un assistente inaffidabile, e l’orgoglio che provavo nel tenere tra le mani un vero libro, col suo nome stampato sulla copertina. Per giorni non uscii di casa senza portarmelo dietro, mentre lui, com’è noto, si vergognava a tal punto che faceva grandi deviazioni pur di non passare davanti alla Libreria delle Novità, che lo aveva esposto in vetrina.
Ecco, credo di aver finito. E quanti titoli ho escluso da questa lista, e quanti probabilmente ne ho dimenticati!

9 pensieri su “Una vita da lettrice

  1. Quante belle cose, quante fantasie! Tanti titoli, tanti mondi, qualcuno lo ho attraversato, altri si aprono, laterali, ma poi si va avanti sulla strada che, dalle spalle, spinge su scogli, monti e città da attraversare, anime da confrontare. Solitudine della lettura è anche questo, gli incontri fantasmatici e reali, e quelli comuni e condivisi, ma sempre più molteplici, e anche divergenti…

    1. Vuoi dire che, però almeno la Bibbia tutti dovremmo averla letta prima di poter parlare? Che ci sono libri extratemporali e superstorici? Questo, se è quello che intendi, ci collocherebbe non solo in una “storia sacra”, ma nell’unica vera storia sacra. Bene, a me non pare.

  2. Dimmi che libri hai letto e ti dirò chi sei?
    Forse e in parte. Perché noi ci costruiamo anche “leggendo” persone comuni (o più o meno importanti) che incontriamo nel corso di una vita. E però conoscere i libri letti da una persona è un tema che mi ha sempre incuriosito. Ho già detto a Marisa [Salabelle] quanto mi colpì il libretto «Fortini leggere e scrivere» (Nardi ed. Firenze 1993), un’intervista o «conversazione protratta» (così la definirono i coautori: Fortini stesso e Paolo Jachia), che mirava proprio ad «una narrazione di libri letti, o magari letti male o mal capiti, per indicare, a chi s’interessa di queste vicende, quelle due dozzine di autori che in una vita residuano da centinaia e migliaia di letti o sfogliati o riletti o sfidati» (pag. 12). E ho aggiunto che si possono fare tante utili riflessioni sulle differenze tra le formazioni dei lettori “padri” , “coetanei” o “giovani”.
    Per un esempio di lettori “padri” prendo proprio il caso di Fortini, «liceale di famiglia piccolo-borghese fiorentina negli anni Venti e Trenta» del Novecento e poi scrittore, e seguo a volo d’uccello il filo del libro citato.
    Si parte da Pinocchio, Cuore e Incompreso della Montgomery e poi Verne (I figli del Capitano Grant, Ventimila leghe sotto i mari , Michele Strogoff) – li ho letti pure io – per passare, ai Karamazov (al ginnasio) e Martin Eden («fu un’identificazione al personaggio umile che lottava per affermarsi in letteratura e in amore senza rinnegare le proprie origini»). Poi l’amore per i vocabolari e i dizionari enciclopedici. Di Croce lesse l’Estetica e la Storia d’Italia dal 1871 al 1915, ma gli rimase estraneo Gentile («Di quell’ignoranza su Gentile ho avuto più tardi da pentirmi, quando mi sarei accorto che la sua influenza era stata vastissima e profonda fra studiosi e intellettuali»). Fra seconda e terza liceo fece letture sistematiche dei classici (mistici del ‘200/300, cronisti del Trecento: Dino Compagni, Villani; Machiavelli, lirici del Seicento, Campanella, Metastasio, Tasso). All’università: «una rilettura attenta dei primi sei libri dell’Eneide» e tutto Catullo. All’ultimo anno del liceo, leggendo correntemente il francese, «le celebri copertine bianche listate di blu e di rosso della Nouvelle Revue Française», Gente di Dublino e Dedalus di Joyce, la collezione di Lacerba (nella biblioteca Marucelliana). Poi Ossi di seppia di Montale, Allegria e Sentimento del tempo di Ungaretti. E Lavorare stanca di Pavese. Gli indifferenti di Moravia (« ma molto di più, di Moravia, amai i racconti»). Baudelaire («La lettura e rilettura integrale dei Fiori del Male vennero solo tra l’agosto e il settembre del ’35… Delle Fleurs conosco buona parte a memoria»). «Subito dopo, poco Verlaine e molto Rimbaud, trainato dal mito biografico».Tra i narratori dell’Ottocento, non Balzac né Dickens: «Seguivo… la moda di allora: il modello supremo era Flaubert» . Nei primi mesi del ’39 Guerra e pace, «che avrei poi riletto più volte», Resurrezione e Anna Karenina («ma dovevano passare cinquant’anni perché il loro messaggio mi pervenisse». Andando avanti sempre più a salti: negli anni universitari L’amante di Lady Chatterly di David H. Lawrence, Quarantuduesimo parallelo di Dos Passos, L’armata a cavallo di Babel’, Ulisse di Joyce. Proust più tardi. La persuasione e la rettorica di Michaestaedter «acquistato per caso su una bancarella». Con l’avvicinamento alla chiesa Valdese (e il battesimo «un’ora prima di un intervento chirurgico che non lasciava speranze»): testi biblici e neotestamentari, Paolo, un libretto di lettere di Cromwell.

    [continua]

  3. …bello questo scritto di Marisa Salabelle, mi ha riportato indietro negli anni alle mie prime letture e al ricordo di come il libro venisse da me soppesato, studiato come un oggetto magico in grado di riservare sorprese incredibili, magari mollarmi uno schiaffone o piuttosto una carezza…I libri non erano così inflazionati come oggi. Inoltre ricordo che in casa mia erano rinchiusi insieme a mille altre cose nella cassapanca della nonna analfabeta, che chissà da chi li aveva avuti…Con lei, la cassapanca, la nonna migrante aveva fatto il giro di due continenti…Quando si presentava l’occasione, portavo via i libri e li leggevo di nascosto perchè mi dicevano non essere per la mia età: libri d’appendice, come “Il bacio di una morta”, o “Il conte di Montecristo” o “Le mie prigioni”…La lettura dell’Idiota, propostomi da un’insegnante in seconda magistrale mi aveva quasi trasformata, avevo trovato le parole per entrare nel mondo di dentro…Una vera scoperta…L’ho riletto qualche anno fa, mi è piaciuto molto ma purtroppo non ha più esercitato su di me lo stesso incantesimo

  4. Il catalogo dei libri letti è una parte importante della propria autobiografia, certamente. Ma importante è anche conoscere la provenienza di quei libri e di come è avvenuto l’incontro. Se confronto la mia esperienza con quella raccontata da Marisa Salabelle noto subito una serie di punti in comune (ad esempio l’incontro con Pinocchio e De Amicis e altri classici della letteratura cosiddetta dell’infanzia e dei giovani), ma anche alcune, almeno tre, differenze di fondo, che riguardano: 1) il periodo (desumo dal testo che Salabelle è nata verso il 1953 o 1954, io sono del 1944, e dieci anni costituiscono una differenza notabile). 2) Il genere (le letture di una ragazza si diversificano in gran parte da quelle di un maschio). 3) Il fatto che Salabelle ha seguito un percorso regolare ed io sono invece un autodidatta.
    Traducendo queste differenze di percorso in occasioni di lettura e titoli, e lasciando perdere le letture da “adulto” (all’incirca quelle dai 18 anni in poi), posso riassumere la mia esperienza in questo modo:
    1) Ultimo di cinque figli di genitori semianalfabeti (mio padre ha frequentato solo la prima elementare e mia madre solo fino alla terza, entrambi di famiglia contadina), i primi libri che ho trovato in casa erano alcuni dei libri scolastici delle mie sorelle e dei miei fratelli, delle classi elementari e medie inferiori, che ho letto presto, durante le elementari, e che ho cominciato a raccogliere costruendo una specie di mia personale biblioteca in un ripostiglio di casa. Non ho mai capito da dove venisse questa mia passione per la lettura e, soprattutto, per la raccolta e l’accumulo di libri, che già agli inizi delle elementari provavo in senso forte, tanto che ancora oggi, nonostante molteplici traslochi e vicende personali, conservo una parte di quei libri come nucleo primigenio delle decine di migliaia che possiedo oggi.
    2) La seconda fonte di letture è quella tipica dei ragazzini del 1944: una marea di fumetti, di cui più tardi sono diventato collezionista. Alcuni di questi, come “Tex Willer”, non mi hanno mai abbandonato, e oggi ne possiedo la raccolta completa in tutte le diverse edizioni e ristampe. Ai fumetti “maschili”, avendo due sorelle maggiori che lavoravano in proprio, in casa, come artigiane magliaie, si sono fin da subito uniti i fotoromanzi (“Bolero Film”, “Grand Hotel”, “Sogno” e altri) e i romanzi rosa a dispense, molto diffusi e popolari negli anni Cinquanta.
    3) La terza fonte fu la scuola elementare. Non ricordo quasi nulla della prima elementare, se non la delicata mano della maestra che si appoggiava sulla mia nel guidarmi mentre cominciavo a tracciare le lettere dell’alfabeto sul quaderno. Ma già sapevo leggere da solo e cominciai subito a prendere in prestito i libri della biblioteca scolastica. Dalla seconda alla quinta ebbi un bravo maestro, attivista del movimento di scuola attiva che si rifaceva al Piaget e ottimo disegnatore e pittore di paesaggi e figure. Ogni giorno dedicava l’ultima mezzora di scuola alla lettura ad alta voce. Così Pinocchio e De Amicis, ma anche romanzi non scontati come quelli di Jerome K. Jerome (fra cui “Tre uomini in barca – Per non parlar del cane”) li ascoltai per la prima volta dalla viva voce del maestro. All’incirca, nei cinque anni delle elementari, lessi più di un libro alla settimana, fra cui tutto Salgari e tutto Verne e un elenco sterminato di altri libri in edizioni per la “gioventù” o in edizioni “normali”. Ricordo in particolare, oltre ai classici d’obbligo e alla serie de «La Scala d’Oro» diretta da Fernando Palazzi e Vincenzo Errante (92 volumi editi dal 1932 al 1945 e ristampati più volte), i volumi dell’enciclopedia per ragazzi curata dagli stessi autori nei quali, con suddivisione tematica e non alfabetica, trovai il riassunto di tutto, sia delle discipline del “sussidiario” (storia, geografia, aritmetica, geometria, grammatica ecc.) sia della letteratura mondiale con riassunti dell’Iliade, dell’Odissea e di molti altri classici. Il “Compendio del Palazzi”, noto poligrafo autore anche di un celebre dizionario di italiano, fu anche il mio primo dizionario, acquistato in terza elementare, sul quale il maestro ci fece esercitare a lungo guidandoci a compilare, in un grosso quaderno nero con suddivisione alfabetica tipo agenda del telefono, un “nostro” dizionario man mano che procedevamo nelle letture e nell’esplorazione della lingua italiana. Dalla biblioteca scolastica vennero anche molte letture divulgative, tipo: biografie di personaggi famosi (Giotto, Leonardo da Vinci, Cristoforo Colombo, Guglielmo Marconi ecc.), racconti di viaggi e di esplorazioni, descrizioni di costumi di popoli “primitivi” e così via. Non mancò la poesia: dal Leopardi dei canti più “semplici”, a poeti e verseggiatori come Diego Valeri, Angiolo Silvio Novaro e quelli canonici antologizzati nei libri di testo per le elementari e le medie. E, naturalmente, le favole: le raccolte dei fratelli Grimm, quella di Charles Perrault, un grosso libro di fiabe di Hans Christian Andersen (possiedo ancora le “Quaranta novelle” ed. Hoepli, 1903, traduzione di Maria Pezzè-Pascolato), una riduzione de “Le Mille e una Notte” e altro.
    Ricordo molte cose di quelle letture, ma se devo dire ciò che più ha contribuito a formarmi, mi resta difficile citare un titolo preciso perché prevale il ricordo della “fame” di libri, di ogni tipo. Posso invece citare due generi, diversi fra loro, quello dei libri di avventura (western, ma non solo) e quello dei libri di poesia, che si incrociavano nel, per me meraviglioso e “rapinoso”, gioco della fantasia. Anche l’inevitabile “Cuore” di De Amicis mi piacque soprattutto nelle pagine dei racconti mensili di tipo avventuroso, così “I ragazzi della via Pal” di Ferenc Molnár, “l’Isola del Tesoro” ecc. ecc. La poesia dell’avventura, sia nei suoi risvolti propriamente avventurosi, sia in quelli tragici, sia in quelli comici, come nel “Tartarino di Tarascona” di Alphonse Daudet. Ma anche l’avventura nella poesia, come nei poemi epici e nella Commedia di cui il maestro ci lesse e commentò alcuni brani. Ricordo la sensazione che mi suscitarono gli episodi di Eurialo e Niso dell’Eneide e Cloridano e Medoro dell’Orlando Furioso, i duelli di cavalleria in genere, i tornei della quintana, molte pagine del “Don Chisciotte”.
    Finita la quinta elementare cominciai a lavorare e, con i miei primi soldi (quel che mi lasciava mia madre della mia paga settimanale di 500 lire nel 1955), comincia a comprare libri, sistematicamente. In parte nuovi, in edicola e libreria, in gran parte vecchi. A Fano si teneva un mercato settimanale detto “degli stracciai” dove si vendeva di tutto, compresi vecchi libri spesso provenienti dallo sgombero di cantine. Io, per risparmiare, li compravo in “blocco”. Con mille lire me ne davano una cassa piena. Mi divertivo e perdevo, appena tornato a casa, ad esplorarne il contenuto. Di solito si trattava di vecchi libri scolastici e di vecchie edizioni popolari. Mediamente risalivano ad almeno vent’anni prima, ma c’erano anche libri dell’Ottocento e del Settecento e trovai anche un paio di cinquecentine. A quei tempi non c’era ancora la mania dell’antiquariato e la valorizzazione economica dei vecchi libri. Così, a 11 anni circa, cominciai due percorsi scolastici distinti, uno nelle tre classi inferiori della scuola d’arte, dove appresi un po’ d’arte del disegno, della scultura (frequentavo il laboratorio di scultura) e a fare lo scalpellino lapicida. Percorso con basso contenuto culturale e che non mi portò lontano. Il secondo è quello da autodidatta, il quale, forse non troppo stranamente, mescolava il caos del lettore libero e senza guida a quello metodico del lettore che seguiva un virtuale indirizzo scolastico. Infatti, in possesso di moltissimi libri di testo, seppure vecchi, cominciai a leggere sistematicamente storie e antologie di letteratura italiana, francese e tedesca, edizioni scolastiche di classici, non solo di letteratura ma anche di filosofia, manuali di storia, di geografia, di grammatica, di matematica, come se dovessi seguire regolarmente le lezioni di una scuola. In questo modo, fra gli 11 e i 16 anni, lessi quasi tutto quello che c’era da leggere secondo i canoni scolastici, ampliati però liberamente. Classici greci e latini, italiani, francesi, inglesi, tedeschi, spagnoli, russi, tutti in traduzioni (salvo alcuni in francese, prima lingua che studiai da solo e imparai a leggere presto) in edizioni scolastiche o in edizioni popolari (Fratelli Treves, Barion, Mondadori, Sonzogno ecc.). La fonte erano le casse di libri vecchi, la biblioteca comunale di Fano che frequentavo assiduamente, l’abbonamento alla Biblioteca Bur (la vecchia con la copertina grigia) di cui possiedo quasi tutti i circa duemila numeri usciti (inizialmente costavano 50 lire al numero). In particolare lasciarono un segno nella mia formazione la lettura del “Manuale” di Epitteto nella traduzione di Leopardi, che fece di Epitteto il mio vero e forse unico maestro, introducendomi nella filosofia e nello stoicismo, non solo come lettura e conoscenza, ma come stile di vita. Lessi poi tutto Leopardi e tutto Foscolo (e allora “parteggiavo” per Foscolo, poi cambiai idea e oggi “parteggio” per Leopardi). E, a proposito della Bibbia, la lessi integralmente in una edizione ottocentesca della prima traduzione autorizzata italiana, quella di Antonio Martini (prima edizione 1778), in molti volumi con un ricchissimo apparato di note.
    Di autori moderni, viventi, leggevo poco, tranne i riassunti dei volumi del Reader’s Digest, rivista a cui ero abbonato, alcuni volumi di storia dell’arte e alcuni libri capitati fra i vecchi, fra i quali “Ossi di seppia” di Montale, le poesie romanesche di Trilussa, l’antologia della poesia dialettale curata da Pasolini, diversi poeti sconosciuti e in genere auto-pubblicati i cui libri erano finiti al mercato degli stracciai, i libri di Caryl Chessman scritti in carcere la cui vicenda (fu giustiziato nel 1960) mi colpì molto, e poco altro.
    Insomma, le mie molte letture erano condizionate dalla provenienza dei libri, dal fatto che mi guidavo da solo, ed erano sostanzialmente ferme all’età di d’Annunzio. Guardavo indietro, più che avanti. Come i programmi scolastici.
    Quando nel 1958 terminai la scuola d’arte inferiore e cominciai la vita di un lavoratore a tempo pieno (allora a 14 anni si poteva avere il libretto di lavoro e lavorare regolarmente), diventando economicamente indipendente (versavo in casa una parte della mia paga, tenendo il resto per me), potei aprirmi di più alla contemporaneità, sia acquistando e seguendo le cronache culturali di alcuni quotidiani e settimanali (“L’Unità”, “L’Avanti!”, “Epoca”), sia iscrivendomi alla Federazione giovanile socialista e frequentando attivamente la sezione, sia frequentando un gruppo di amici, per la maggioranza studenti liceali, tutti aspiranti a diventare scrittori.
    Ciò produsse una qualche svolta nelle mie letture e fra i 15 e i 18 anni cominciai a leggere gli autori viventi, Ungaretti e Quasimodo oltre a Montale, Hemingway e Brecht, Carlo Levi, Pratolini, Bassani, Vittorini, Calvino e via via recuperando il già edito e cominciando a seguire le nuove uscite. Nello stesso periodo cominciai le letture politiche. Il primo libro fu un’antologia di scritti di Matteotti, ma seguirono subito libri di vari leader socialisti e comunisti e fra il 1959 e il 1960 i primi libri di Marx. Tanto che, pur così ancora povero di letture, nella locale sezione socialista cominciarono a considerarmi uno “studioso” e a 17 anni mi chiesero di lavorare a tempo pieno come sindacalista nella locale (di Fano) Camera del lavoro. Lo feci per due anni. Allargai il raggio delle mie letture comprendendovi libri di sindacalisti (a partire da Giuseppe Di Vittorio) e tutta quella letteratura spicciola e di “servizio” che un attivista sindacale e politico è giornalmente tenuto a leggere.
    Ma i classici, la letteratura e la poesia restavano per me il fondamento.
    All’età di 12 anni mi distaccai dal cattolicesimo e anche per me ciò coincise con le prime letture teologiche, che furono un vecchio manuale di teologia morale per gli allievi dei seminari, alcuni libri che esponevano le classiche prove dell’esistenza di Dio, un trattato di filosofia in versione cattolica e infine alcuni libri di don Giovanni Bosco. Queste letture non aumentarono la mia fede ma, insieme ad altre esperienze, contribuirono a spegnerla. Al contrario, la lettura dei mistici (i Fioretti di san Francesco, qualcosa di Caterina da Siena e altro) mi spingeva a credere, ma credere in una religiosità che usciva dagli schemi e dalle sbarre in cui le religioni rivelate rinchiudono e mortificano la fede.
    Poco dopo, a partire dal 1963, utilizzai il bagaglio culturale accumulato per sostenere, da privatista, gli esami di licenza media e poi di maturità, laureandomi in seguito prima in Pedagogia e poi in Scienze politiche. Nel 1969, dopo undici anni da che ero stato costretto ad abbandonarla, tornai a scuola come insegnante, vincitore di concorso e quindi di ruolo fin dal primo giorno. Trasferendomi da Fano a Milano. Ma questa è davvero un’altra storia.

  5. [continua]

    Sempre nel periodo precedente la guerra, frequentando Noventa, Fortini legge Sorel (Reflexion sur la violence) e poi il Trattato di sociologia generale di Vilfredo Pareto, ricavandone uno «snebbiamento dalle “illusioni di progresso”», ma lesse pure «con scarso entusiasmo» i saggi di Labriola e il Manifesto dei Comunisti di Marx («prova, questa, che i libri non basta averli e leggerli se non c’è una realtà di esperienza che ci permette di intenderli. Due anni dopo, nelle caserme [ ai primi del ’42 Fortini frequentava la Scuola allievi ufficiali], il Manifesto diventava chiarissimo».)
    Al tempo dei suoi studi universitari ( si era iscritto « controvoglia, agli studi di legge» ma seguiva un corso di Momigliano sul Purgatorio) tra le sue letture ricorda: Petrarca, Manzoni («che è sempre rimasto per me un luogo centrale della mente»), Foscolo («mal sopportato»), e poi Galeazzo di Tarsia, Michelangelo, Bembo, Tansillo, Della Casa e molte sillogi di rime cinquecentesche, che lo «introdussero al grande manierismo».
    Poi la guerra e i primi cinque mesi del 1944 a Zurigo («la mia vera università», «un turbine di scoperte»): opere di Lenin, La speranza di Malraux, Fontamara di Silone, «le prime sessanta pagine, compitate sul testo dell’Ideologia tedesca di Marx ed Engels», i verbali del processo a Bucharin, Le silence de la mer di Vercors. Gli si rivelò «un mondo che nulla aveva a che fare» con quanto conosciuto prima.
    Fra 1945 e 1947, a Milano e sposato con Ruth Leiser, c’è l’apertura a testi tedeschi dell’età di Weimar (espressionisti della Nuova oggettività, Thomas Mann); e poi, legate al suo lavoro di traduttore, le letture di Mounier, Sartre, de Beauvoir, Camus, Éluard,,Brecht, Simone Weil, intrecciate alle «letture maggiori di allora, dico fra il 1947 e il 1954: ossia Hegel, Marx, Lukács, Gramsci, Proust, Goldmann, Adorno, poi Benjamin, tutte «strettamente correlate con letture di storia dello scorso secolo e contemporanea» ( Deutscher, Serge, opere sulla rivoluzione maoista). E qui matura la sua critica dell’«antropologia protestante» :«Senza il realismo marxista non avrei capito il realismo di Tommaso d’Aquino».
    A partire dal 1960 Fortini (col senno del poi, perché parla nel 1992-93) distingue le sue letture in specie diverse: «i testi dei vicini, amici o avversari» (Luzi, Sereni, Zanzotto, Pasolini, Leonetti, Roversi, Giudici: «Sereni è il poeta che più profondamente mi ha turbato e ancora oggi mi opprime; Pasolini, quello con cui più ho conteso. Il più invidiato è Zanzotto»), quelli letti per il suo lavoro di consulente editoriale, traduttore, saggista e insegnante; e poi le «letture più libere, di piacere o rimorso oltranza appassionata, spesso di inganno volontario».
    Fra gli stranieri letti cita Auden, Williams, Plath, Char, l’antologia della poesia russa della prima metà del Novecento (Mandel’štam, Pasternak) e József, Vallejo, Machado, aggiungendo: «in verità, che insofferenza, che incapacità di attenzione verso i poeti del mio secolo, eccettuato Brecht!».
    Fra i narratori italiano contemporanei «tutto quello che veniva scritto da Vittorini, Pratolini, Bassani, Cassola, Calvino». Anche Gadda «senza per riuscire a vincere diffidenza e antipatia».
    E poi «tutto uno scaffale mentale di testi sulla Cina, che vanno dalle opere divulgative sulla sua storia a frammenti della sua letteratura antica e moderna, letti in traduzioni di inverificabile qualità»( e quindi:Il sogno della Camera Rossa, Lu Hsün, Needham, Snow, Hinton , Schurmann, Schramm).
    Delle letture proposte agli altri con intento didascalico o ‘divulgativo’» per contribuire ad un «sapere comune (anche gramsciano) e metaspecialistico» Fortini tra un bilancio amaro e fallimentare. Fin dai tempi del Politecnico egli era stato attento a questa dimensione, tipica della «pubblicistica socialista» e delle «università popolari», ma ne parla ormai con delusione. Ha perduto assieme ad altri «tempo e fatica» nell’occuparsi di manualistica, storie letterarie e voci di enciclopedie, perché tutti hanno sottovalutato «la forza disgregante e aggregante dei media»:
    «Per quasi un ventennio (1955-1975) si credé infatti possibile, in un generale disegno politico, arginare o deviare quella forza. Non eravamo del tutto persuasi che nella sua America di Minima moralia Adorno avesse profetizzato la nostra sorte. A nasconderla e rinviarla contribuirono proprio le grandi tensioni politiche fra 1967 e 1973, l’atteggiamento delle masse giovanili e il fantasma ‘cinese’». E confrontando «le scritture dell’immediato dopoguerra, diciamo “Il Politecnico”» con quelle di vent’anni successive, parla di quest’ultime come di un’illusione, un miraggio.
    La conclusione dell’intervista è, dunque, all’insegna dell’amarezza, della sconfitta e del rendiconto finale spietato da *lettore* non generico ma giudice di se stesso e degli altri ( e – credo – contenga un avvertimento ansioso a quelli – lettori anch’essi in senso pieno – a cui intendeva rivolgersi):
    «”Se non trovate interlocutori fra i vivi, cercateveli fra i mor-
    ti”, mi insegnava, or è mill’anni, Noventa, appena modificando
    il detto di Antigone e richiamando un *iter*, anzi un *descensus*
    fin troppo citato e che non è solo, come hanno voluto i moder-
    ni, quello ad Acheronte. Ma in questi anni sono attraversato,
    certe volte, da parte a parte, dallo spavento per una condizio-
    ne di errore irrimedìabile, com’è del peccatore venuto al pun-
    to. Non è una paura nuova. Non è quale ebbi certo altre volte
    in seguito a scelte politiche. Anzi, per quanto è delle scelte po-
    litiche, credo davvero di non avere proprio da pentirmi di nul-
    la e ne ringrazio la Fortuna. È invece per il modo di gestione
    dei miei ‘talenti’ ossia per il lavoro compiuto e per quello
    non compiuto. Con la chiarezza di una mano cieca che viaggi
    su di una superficie rugosa avverto quel che avrei dovuto scri-
    vere, anzi, *come* avrei dovuto farlo. E non posso farlo più né
    rimediare al già scritto. Come per la lettura, i manierismi, gli
    *usus scribendi*, in senso lato, hanno esteso il loro dominio, co-
    me certe malattie delle pietre e delle piante, occupando spazi
    sempre più grandi. Dove prima erano chiazze, oggi sono inte-
    re regioni alterate. Il sarcasmo che è nello sguardo di ogni pa-
    rola intesa alla poesia oggi mi deride da ogni rigo di prosa.
    Mi si fa più evidente l’empietà di definire altri o me attra-
    verso le letture. Non perché la storia o la leggenda di ognuno
    sia irriducibile, per suo eccesso, alle parole scritte o lette. Al
    contrario, proprio perché la vorrei (sempre l’ho voluta) dicibi-
    le, segno comune e di scambio. Il sarcasmo di cui dicevo non
    è affatto l’indicibilità, la noiosissima tiritera della ‘parola che
    manca’ e altre secolari pseudo-tragedie. È l’impossibilità di sa-
    per leggere e scrivere il nuovo ‘volgare’, il nuovo dialetto, quel-
    lo che solo apparentemente ha qualcosa a che fare con la
    lingua che ho scritta e letta da settant’anni.
    Sarebbe consolante dirmi che causa ne è l’età, la consun-
    zione dei nessi nervosi e infermità simili. Ma so che non è que-
    sto. Sotto la faccia del vecchio, ostinatamente narciso, che
    fatica a riconoscersi negli specchi, c’è ancora, grazie a lui stes-
    so, la buona certezza e incertezza di quando ero giovane. Quel
    che è irrimediabile è ben altro e ha a che fare proprio con il
    senso del dialogo mai intermesso con gli scomparsi, di cui i li-
    bri solo sono uno dei possibili sistemi di comunicazione; ed è
    quindi giusto ne parli qui. Ogni pagina, antica o recentissima,
    sacra o profana, eccelsa o volgare, mi tiene ancora, mi occu-
    pa, mi suggerisce disputa e contesa, mi fa dimenticare quel
    che ho alle spalle e dinanzi, il segnale lampeggiante che il tem-
    po sta per scadere o è già scaduto. Poi rammento e mi inter-
    rompo. E mi dico: perché fingì di essere eterno, di poter
    giungere alla prossima trasmissione settimanale? E delle paro-
    le, nelle lingue che decifri, credi di poter fare ancora vita, ve-
    rità pratica tua e di altri?
    Mi fa ripugnanza, sessant’anni fa come oggi, la sporca reli-
    gione dei poeti, dei quali sono uno, l’ascesi che consola delle
    sconfitte. Vorrei invece sapere protetto quel che ho avuto caro
    e venerato: non libri, altrui o miei, ma un modo fondamenta-
    le di attenzione, di volontà buona, amore di amore. E mi fac-
    cio ogni giorno più persuaso che quella protezione non c’è o è
    praticata da pochissimi, quasi clandestini. Da quella persua-
    sione neanche il ricorso alla ironia o al setimentalismo sa di-
    fendermi …
    Fra non molto, i libri che vedo mentre scrivo saranno di-
    spersi o spariti. Tanto meglio. Gli uffici delle case editrici to-
    glieranno la mia scheda dagli elenchi dei ‘servizi stampa’, gli
    infelici nuovi autori di voI umetti di versi cesseranno, a poco a
    poco, di ingombrare la portineria dei loro involucri. Eppure
    un’illusione permane, come di chi debba decifrare parole stra-
    niere e creda di potervi pervenire. È vero che la lingua mi si
    dissecca e disgrega. Però non ne ho altra, né ho altro. L’anti-
    ca cantilena infantile – ‘Prendi, leggi!’ – tanti secoli fa fu udi-
    ta dall’al di là del muro di un giardino di Milano e qualche
    volta a me pare intenderla su dal mio cortile di mezzo marzo.
    Milano, gennaio 1992 – gennaio 1993 »

    [fine]

  6. RIORDIANADIARIO

    APPUNTI 2 AGOSTO 1993 SULLE MIE ESPERIENZE DI LETTORE

    Cogliere le varietà dei desideri che si concentrano sulla lettura:

    1. si legge sulla spinta di un desiderio che pare naturale e non viene giudicato, perché ormai acquisito e approvato dagli altri attorno a noi: letture infantili o legate all’ideologia dell’ambiente sociale [per me cattolico a Salerno, di sinistra poi a Milano];

    2. si legge sulla spinta di un desiderio contrastato (o già abbastanza frustrato) e dunque per affermarlo: letture “proibite” dell’adolescenza (per noi adolescenti di parrocchia: L’amante di lady Chatterly); letture classificate o sentite come “secondarie” [artistiche, letterarie] nel periodo della militanza politica dopo il ’68;

    3. si legge “per dovere” (più che “in assenza di desiderio”, in base, invece, ad un desiderio di conformarsi, di essere accettati da chi ha il potere di esaminarci o di giudicarci in base a letture fatte o non fatte;

    4. non si legge, ci si proibisce anzi di leggere per auto correggersi o per delusione; perché ci si accorge della eccessiva “voracita” o della “perversione” del proprio desiderio, il quale si è diretto alla lettura in seguito a qualche sconfitta nei rapporti reali con altri, quasi in cerca di un surrogato; oppure in cerca di “strumenti” che (in astratto o per sentito dire) dovrebbero permettere di “attraversare” o “superar” o “elaborare” quella sconfitta in vista d’altro (più o meno chiaro).

    I momenti di passaggio come lettore:

    1. dalla lettura desiderata, vagheggiata, immaginata, considerata “bella”, “piacevole” da farsi (il caso del lettore vergine?) alla pratica di lettura (confusa, timida, reverenziale, innamorata, deludente, ecc);

    2. dalla percezione di sé come individuo leggente che muove da propri desideri o scopi (nella propria unicità) alla percezione di essere “lettore fra lettori” (uno tra i tanti, tra i molti) e quindi un “comune” lettore immesso in una collettività forzata, non scelta, per lo più conflittuale o ignota);

    3. da un uso incontrollato (o anche abuso) delle proprie letture ad un uso mirato e selezionato di esse in momenti precisi e contesti precisi (esami, conversazioni, dibattiti pubblici).

    Da notare. Il peso crescente della lettura nelle proprie esperienze (con l’interferenza crescente dei suoi messaggi nel proprio vissuto): se da ragazzo l’esperienza prevalente era in quanto provavi o succedeva quasi fisicamente in famiglia, con gli amici, a scuola, poi l’esperienza è anche quella di cui parla un autore attraverso un libro e che ti costringe (o aiuta) a ripensare la tua condizione, il tuo vissuto (con il rischio di trovarlo povero e limitato o con la possibilità di accettare la sfida di rapportarti a quei messaggi insoliti, strani, disturbanti, seducenti).

  7. Mi fa molto piacere che il mio articolo abbia suscitato tanti commenti così interessanti. Ho provato sorpresa e gioia nel riscontrare presso alcuni tra gli intervenuti (compreso, de relato, il grande Fortini) letture affini alle mie. Forse si tratta di un fatto generazionale: persone cresciute in periodi simili hanno fatto esperienze almeno in parte analoghe. Mi congratulo con Luciano Aguzzi per il suo percorso da autodidatta… sulla mia età ci hai quasi preso: sono del ’55… E mi ritrovo molto in alcune cose dette da Ennio nell’ultimo intervento: leggere tanto, voracemente, troppo, poi sentirsi in colpa perché ci si rende conto che leggere può essere anche un surrogato del farsi delle esperienze, buttarsi nella mischia. Grazie a tutti!

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