Costruire il Tempo

di Piero Del Giudice

Questo scritto di Piero Del Giudice  tocca temi (per es. le correnti migratorie)  presenti anche nel documento “Per Poliscritture 2” da poco pubblicato (qui, qui e qui). Con taglio, riferimenti, sottolineature ed esigenze non sempre coincidenti ma non del tutto dissimili. Spero e sollecito un serrato confronto. [E. A.]   

 Il presente e il progetto

È un periodo questo di tali possibilità di risorse disponibili e futuri immaginabili che – nonostante l’assetto sterile, renditiero, preindustriale della distribuzione della ricchezza e del potere (l’oligarchia delle 100 famiglie che detengono la metà dei beni globali) – ci sentiamo parte di una società in rapido sviluppo, in dinamico collegamento, ci sentiamo cioè trasportati e anche protagonisti di un analogo destino collettivo.

I grandi mutamenti in cui viviamo sono indotti da ciò che chiamiamo ‘progresso’ o, se si vuole, globalizzazione.

Questo ‘progresso’ rotola verso un ‘futuro’, vale a dire una successione atemporale che si basa sul saliscendi di maggiori/minori quantità di potere e di dominio. Sono gli indicatori del dominio a stabilire una temporalità, un futuro, libero da vincoli sociali e istituzionali, da norme e da regole, da intelligenza complessiva e previsione, da controlli e contromisure. Un nonfuturo  dunque.

Assunte in ogni caso le finzioni temporali di ‘futuro’ e di ‘presente’, robotica e informatica determinano un presente e disegnano un futuro in cui la ‘variante’ della forza-lavoro – la sua imprevedibile e non eliminabile soggettività – tendono ad essere escluse. Nascono per questo le ‘isole’ alla Fiat anni fa, i robot nelle catene di montaggio, l’informatica applicata alla produzione e circolazione delle merci (lettura delle forme e grandi/piccole stampanti, vigilanza e droni, telepass e autostrade, acquisti/vendite via web etc.).

Cresce e si diffonde una organizzazione del lavoro complessivo che vuole escludere l’incidente-uomo, avanza una estrazione di plus-valore che non vuole più inciampare nella malattia, nella maternità, nell’umore quotidiano, nello sciopero, nella lotta, nella umana insorgenza e autonoma intelligenza.
E più aumenta la produttività nei settori di produzione, per non parlare subito della produttività sociale complessiva, più aumenta la disoccupazione. Non c’è alcuna futura innovazione, alcuna apertura di campo (per es. green economy) che possa recuperare il gap delle fasce rese disoccupate dalla automazione. La disoccupazione indotta è la contraddizione che vive il capitale oggi più vivida.

La piattaforma – sindacale e insieme politica – per far fronte a questa inesorabile legge dello sviluppo ha due perni: tempo di lavoro e rivendicazione di salario globale

  1. la diminuzione del tempo di lavoro: nella vita di un individuo e nella giornata di un individuo.
    Si tratta dell’età di pensionamento tanto più avvicinata e liberatrice di vita tanto meglio; e si tratta soprattutto dell’orario di lavoro della giornata o settimana di lavoro. Cominciamo a proporre queste basi sindacali del discorso consapevoli che si tratta di un discorso classico – dunque limitato – che si fonda sulla nozione di tempo-lavoro come straniazione temporale(non totale) nella frazione di una giornata prodotta dal lavoro ‘alienante’. Secondo la rivendicazione delle 8 ore ci sarebbe ‘a fine turno’ uno spazio per sé, un confine tracciato alla soglia dell’oikos(della famiglia, della casa popolare Iacp, Ater, Ina…) non profanabile. Non è più così. L’oikos è stato profanato da tempo. Le cucine degli avi sono fredde, tutta la manufazione interna alla casa, tutto il tempo privato è stato sussunto dal capitale. Le parabole del grano e del loglio così proprie all’orecchio della civiltà dei campi sono oggi incomprensibili. Il lievito tanto utile è ignoto alle cucine di ceneri fredde.
    Oggi tutta la giornata, la luce e la tenebra, la presenza consapevole e il sogno, sono assoggettati al capitale.
  2. bisognerebbe parlare di un salario dovuto alla mera partecipazione/inclusionedell’individuo alla società complessa. Egli partecipa del moto continuo e infinito del rotore della società complessa ne diventa parte per il solo fatto che, con il dito indice, sfioraun bottone della tastiera touch screen(del computer, del telefono digitale, delle comunicazioni social, del controllo di produzione, di smistamento merci e persone: snodi ferroviari, aeroporti, porti…), ne assume un ruolo quando muove gli occhi sui cartelli pubblicitari, sulle indicazioni stradali, sulle prescrizioni e norme, sulle icone della città che abita e che attraversa camminandone la main street. Egli accende così un circuito del desiderio, del consumo e della offerta, diventa cittadino di una intelligenza urbana collettiva, sfrega il cerino, l’acciarino che attiva e accende la scintilla, l’energia dell’organismo complessivo.

[La graduale mescolanza di lavoro alienante e lavoro-di-partecipazione&impresa, lavoro-conoscenza, bisognerà pure affrontarla. Bisognerà cioè affrontare la grande menzogna. Conoscenza e impresa si fanno tali solo con una nuova proposta di tempo dell’umano, vale a dire di storia dell’umanità]

Di fronte ai robot, alla automazione della vita quotidiana e soprattutto di fronte al crescente spazio delle produzioni immateriali (che sono quelle della cultura applicata, sport, arte, cura del corpo, varianti della bellezza applicata – il verde, la città, l’architettura etc. – turismo, accesso conquistato nella città del lavoro fragile, eccentrico, poi la ondivaga produzione della cooperazione sociale…) conosciamo una estrazione complessiva – materiale e immateriale – di plus/valore.
Si tratta da tempo di una produttività della società complessa, di una città sociale organismo che produce-consuma in modo interdipendente, di una cittadinanza che si riconosce in plurime modalità di esistenza, città con i suoi riti collettivi, le sue cadenze, con la sua produzione collettiva di fatto, la sua interculturalità di fatto.
Ma è questa – nello stesso tempo che condizione globale di fatto – una condizione di sussunzione e di assoggettamento totale dell’individuo all’universo del capitale. È questa l’epoca di un’umanità monitorata, sotto controllo dei chip-esistenziali, ed è insieme/allo stesso tempo la maggior soglia di consorzio raggiunto dalla umanità metropolitana.
È questa l’epoca dei 100 feudatari che detengono le maggiori ricchezze del mondo, della messa in scena dei grandi cuochi (great chefs) e della fame di centinaia di milioni di persone. Della costruzione di eserciti di disperati anteprima dell’armageddon, di questuanti che inanellano geremiadi, di ghetti extramoenia e cascine e casolari di campagna abbandonati.
È questa l’epoca del passaggio dalla grande anarchia al dominio assoluto. Siamo nel varco della ‘grande anarchia’: patologie nei rapporti privati, interpersonali, intercomunitari; guerre sanguinarie in atto e tamburi di guerra insistenti per infime contraddizioni, nel macrosistema planetario.
E i rapporti tra i 100 feudatari sono regolati da ‘codici mafiosi’ [si riuniscono come mafiosi, complottano come mafiosi]. Così come nell’ascesa sanguinaria verso la guerra di Riccardo III in Shakespeare:

[«NELLA TORRE DI LONDRA

(Entrano LOVELL e RATCLIFF con la testa di Hastings)

Ratcliff: Signore, ecco la testa di quel pericoloso traditore: l’ignobile ed insospettato Hastings.

Riccardo: A quest’uomo ho voluto tanto bene che non riesco a frenarmi dal piangere…Lo tenevo per l’essere più innocuo che respirasse sopra questa terra: di lui avevo fatto il mio libro delle ore sul quale la mia anima annotava i più segreti ed intimi pensieri. Ha ricoperto sì bene il suo vizio con un lucente orpello di virtù e con un tocco sì ben levigato che, a parte quel notorio suo commercio… sì, voglio dire la sconcia sua tresca con la moglie di Shore… era vissuto…

Buckingham…immune da ogni macchia di sospetto.

Riccardo: Bene, bene, costui fu il traditore il più insidioso, il meglio camuffato che fosse mai vissuto sulla terra. Avreste immaginato o mai creduto – non fosse che noi, vivi per miracolo, lo potessimo ora raccontare – che codesto scaltrito traditore avesse complottato, qui, oggi stesso, proprio nella seduta del Consiglio, di assassinare me ed il mio nobile Duca di Gloucester?

Tutti i presenti: Oh, davvero?

Riccardo: Che! Vi meravigliate? Ci prendete per Turchi o miscredenti, a ordinar di proceder così in fretta, a spregio d’ogni legal procedura, a giustiziare un simil traditore, se a tanto non ci avessero costretto l’estrema urgenza delle circostanze, voglio dire la pace d’Inghilterra e la nostra salvezza personale?»]

La spinta comunitaria si fa evidente nei riti collettivi della civiltà urbana: il pianto collettivo nel catino colmo di pubblico dell’arena del calcio per l’addio del capitano allo sport attivo e alla squadra della città; l’affluenza record  al concerto rock e il canto collettivo di decine di migliaia e migliaia a seguire il frontman sul palco.
È questa l’epoca delle rivolte giovanili disperate-noncuranti, delle insurrezioni e della messa in campo del proprio corpo per la liberazione, una liberazione confusa, come si suole dire – lemma del tempo – una eterogenesi dei fini, “conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali”.
E per i reds l’emozionante canto dei tifosi di Liverpool You’ll never walk alone
Come sempre, a questo stadio concreto di sussunzione dell’individuo nella logica e dinamica della complessiva produttività della città capitalista, corrisponde una inedita possibilità di relazioni, una piattaforma di analoghe condizioni, di simileguaglianze, di stati di fatto, che si delinea già oggi: meno lavoro materiale, più spazi immateriali, richieste di felicità [per questa unica vita], domanda e offerta sui cosiddetti diritti esistenziali (libertà sessuale, dignità della persona etc.), consapevolezza che è collettiva la proprietà di alcuni beni-di-base: l’acqua, il cibo, l’ambiente, la salute, la casa, domanda di futuro, cioè di storia
Da questa condizione e consapevolezza ne viene una possibile piattaforma per rivendicare e ricercare, inventare e suggerire a una umanità smarrita:

  1. pensionamenti
  2. ore di lavoro ‘necessario’
  3. liberazione dalle norme e nuovi diritti
  4. nuovi soggetti, soggetti fragili, nuova dimensione della cittadinanza
  5. beni comuni/comunitari: acqua, qualità dei cibi, ambiente, casa, territorio
  6. il corpo e la salute
  7. il rifiuto della guerra, i salvacondotti, attraverso la pace, per la specie

L’individuo e il soggetto

Agire in profondità, essere anonimi, nascondere se stesso al capitale mentre ci si esercita a rendere concilianti i propri movimenti con quelli di una comunità, anzi di una classe sociale. Togliere la maschera all’impresa individuale che è sempre sopruso e allargare la maglia e la qualità della cooperazione tra uguali tendenziali.
Niente è più terribile della chiamata dalla fila del magazzeno acquisti: “date la precedenza a quello con il bastone” o, più chiaramente “portatemi su quello che canta”. Non cantare e nasconditi nelle pieghe della fila. Lode al movimento anonimo, al lavoro anonimo, al profilo in cui si entra e ci si ritrae di una classe sociale, quale proposta di guida del mondo, di utilizzo dei beni, di scelta per tutti di beni utili, di eliminazione del superfluo, di risparmio e di cooperazione tra intelligenze e energie dei più. Negare sé come individuo, sapere di sé come soggetto che si riconosce nel progetto comune. Punto di resistenza e spazio di un ‘nuovo tempo’ – una nuova cronaca, una nuova storia – questo è il fare del soggetto attraverso l’opera.
Oggi l’opera è spazio vuoto, generica prospettiva di altri spazi e altre dimensioni, quando l’indicazione è più consistente, l’opera, il fare, è un flusso. C’è la teorizzazione del flusso: nella musica, nella letteratura, nel lavoro precario, nella genericità della vita monitorata, nella irridente ripetizione dei lemmi rassicuranti, nell’assenza di futuro cioè di tempo, nell’assassinio del soggetto, nella promessa di morte ai più che fa arrancare in sordide e bestiali guerriglie i poveri del mondo tra loro, nell’avvenire affluente e opulento per i pochi…
Stabilire un punto di resistenza, per meglio dire di presenza, di dasein, del soggetto in questo flusso è di fondante importanza.
Prendiamo il collettivo nella guerra, il soldato nelle divise di tutti i soldati: è un corale per la morte/vittoria, è una assenza del soggetto.
Prendiamo il collettivo producente, assenza del soggetto e della intelligenza critica, monotonia dei gesti della vita e del movimento nell’habitat.
La presenza del soggetto è critica, non sa oggi parlare, è un vagito del mondo, ma è necessario che vada verso una consapevolezza dei processi.
La presenza sin dall’inizio ha influenza sui processi, costituisce un varco, un anti-spazio alla morte. Il soggetto sta nel flusso, vi partecipa e raggiunge – con la lotta –  una condizione di consapevolezza, diventa infine guida del fluxus.

La pesca e l’ozio

Nell’ambivalenza dei tempi che viviamo e nella finzione in cui viviamo, si direbbe che siamo alla vigilia della giornata marxiana “della pesca e dell’ozio” cui finalmente il lavoro alienante delegato al robot, qui infine la soglia cui sarebbe approdata una umanità che è stata dolente per secoli, un proletariato produttore sottomesso a vincoli spietati dalla nascita dell’industria alla produzione immateriale dell’oggi.
Non lo siamo, ci sono passaggi che non si possono ignorare. Non saremo padroni del nostro tempo (della vita) senza lotte e forse sarà una lotta estrema. Ma possiamo stabilire una piattaforma di rivendicazione, un orizzonte ‘sindacale’, una domanda e forse anche un ansioso, splendente, orizzonte culturale.

Le istituzioni che gestiscono le società ‘piene’ del nuovo millennio si muovono con paurose oscillazioni, cercano di tamponare qui e là le emergenze e aggravano i problemi. Non sembrano più in grado di affrontare società complesse.
Per es. di fronte alla disoccupazione in particolare dei giovani, aumentano l’età del pensionamento perché hanno problemi di cassa, rendendo ancora più scombinata la situazione.
Per es. di fronte alla immigrazione – che loro stesse promuovono – non possono che farne un uso strumentale, piegarla alla brutalità immediata dei propri bisogni.

Sindacati, forze politiche e anche la Chiesa nella sua espressione migliore insistono sulla richiesta di lavoro. È una richiesta retorica e demagogica. I posti di lavoro classici scompaiono. La situazione si aprirebbe a una più sensata discussione, e anche nuova, se si chiedesse una drastica diminuzione dell’orario di lavoro.

I partiti sembrano aprirsi a un riconoscimento di ‘qualcosa’: lo chiamano ‘reddito di natalità’ (essendo nato in un Paese, da genitori nati in quel Paese…), ‘reddito di dignità’, ‘reddito di cittadinanza’…Possiamo noi chiarire quale è la base materiale di questo ‘reddito’ immateriale (senza palese scambio materiale classico) e farne una base del nostro lavoro che è soprattutto attento alla fragilità del mondo.
Noi pensiamo alla cittadinanza piena, articolata, delle persone fragili, alla comunicazione tra individui ad ogni costo con ogni mezzo: non esclusi i libri distribuiti con la bibliobus di Luciano Bianciardi ai tempi di Grosseto o con le biblioteche itineranti a cavallo o distribuiti nei villaggi con le barche in Indonesia e in Vietnam.

[*** o una nuova rivista che piacerebbe fondare, spillata in carta e messa anche online: avrei più o meno un INDICE del primo fascicolo]

Possiamo pensare al rondone che torna allo stesso nido ogni stagione, alla lepre che corre sul filo dell’orizzonte nel campo dove hanno già mietuto il grano, al protagonismo del soggetto anonimo nel fluire collettivo della democrazia.

Il corpo

L’Europa ha accantonato prima e poi superato, la civiltà del corpo. E, con il corpo, la materialità dello scambio con la natura (‘ruris civitas’) e con le materie prime o elaborate (età industriale).Quando questa millenaria civiltà sia stata lasciata a bordo strada nel Continente che abitiamo è discussione in corso. La risposta, per quanto a noi, è: nella Grande guerra. È lì, quando entra nella Storia il secolo ruggente e peculiare alla vicenda storica dell’Europa (le due Grandi guerra mondiali sono in sostanza europee), che muta il discorso sul corpo e sulla materialità del corpo. I corpi contadini in trincea [corpi che tutto potevano arando i campi e seminandoli, ai camini della elaborazione dei cibi, seduti alle mense di legno nelle cucine della alimentazione materiale, negli antri delle stalle. Corpi giovani nei letti degli sposi e quei corpi più sapienti delle spelonche dei maniscalchi, dei fabbri-ferrai, tra il polline e i trucioli che si depositano nelle botteghe dei marangoni, corpi che incrociano l’universo allineandosi all’orologio ovale di piazza delle erbe a Mantova

[per tutta quella sapienza fisica – allineata alla phisis, alla natura – del corpo applicata ad altri corpi, ad altre materie. La macchina mondiale, P. Volponi]

corpi che nulla possono di fronte alla catena fordista di morte che li spinge alla macellazione. Crescono su questi corpi macellati, nella opulenza, le “città dei cannoni” (Genova, l’Ansaldo), si dispiegano sui campi di battaglia sotto il tiro delle grandi ‘Berte’ (Die grosse Berta), le nuove armi – madri di tutte le armi – nella Grande guerra. Quei corpi giovani

[“…Lì ne morì una miriade,/ e dei migliori, tra loro,/ per una vecchia cagna dai denti marci, /una civiltà abborracciata” (E. Pound)]

che aravano e seminavano il campo come amavano la donna e riproducevano figli, sono dopo la battaglia corpi amputati, o corpi sul campo a cui è stata tolta la vita. Li costringe a nuove funzioni, li strappa dalla culla ancestrale, dai movimenti millenari, la riparazione dei corpi della nuova chirurgia, la sostituzione degli arti, la deformazione somatica, le crisi psichiche dei manicomi di guerra…Le enormi fauci degli Imperi nella Grande guerra divorano i corpi. Gli imperi cadono e le democrazie nascono quando collassa la civiltà del corpo.

La gestione dei movimenti umani nel globo

Fuori dal consorzio urbano, dal luogo della cittadinanza, assistiamo alla dispersione delle comunità rurali. Si trasferiscono, tentano di assorbire lingue e culture dei luoghi dove approdano, così generandosi un processo di continua “alienazione e attesa di futuro” di masse di popolazione che abbandonano la culla ancestrale, mutano se stesse e insieme contaminano culture altre, generano spinte al conflitto con le culture autoctone e insieme pressioni, invenzioni di fratellanza. Masse in ogni caso impegnate (in una battaglia) per il futuro.

Le ondate migratorie che traversano il globo, non sono dovute alle guerre se non in piccola parte. Sono dovute alla espulsione violenta dalle campagne per l’incessante processo di centralizzazione delle proprietà e industrializzazione dell’agricoltura. I grandi pascoli espellono i piccoli contadini e anche le medie farm

[in Kenia il patrimonio bovino si è moltiplicato. Le superfici di pascolo in larghe parti del paese sono diventate aride, vengono invase le terre coltivate e le invasioni sono accompagnate da agguati, omicidi continui (v. Kuki Gallman)]

[In India, sino alla metà del secolo scorso, si coltivavano 70.000 diverse qualità di riso – coltivazioni cicliche, no/stress della terra etc. – . Oggi sono ridotte a poche decine, in enormi distese in cui si lavora con le macchine]

la terra viene aggredita  da coltivazioni intensive ed estensive e dalle estrazione di materie prime.
I villaggi rurali a proprietà impersonale vengono evacuati imbastendo vere e proprie truffe, con un po’ di danaro comperano il capo villaggio e i capi famiglia. Le terre vengono espropriate e le famiglie contadine costrette alla migrazione.  I mari sono raschiati dalle reti a strascico davanti alle coste dove le barche dei pescatori erano, un tempo non lontano, efficaci strumenti di una economia autosufficiente

[«Vanno accumulandosi in poche mani molte affittanze e grandi mandrie di bestiame […] chiese e case sono state abbattute, e una massa stupefacente di popolazione è stata privata della possibilità di mantenere se stessa e le famiglie», Karl Marx, Il Capitale, Libro I]

i governanti, i ‘Bokassa’, i Grandi mangiatori messi sugli scranni dei governi locali dalle multinazionali e dalle potenze e potentati europei, dai servizi segreti occidentali e dalla concorrenza cinese, premono con pungoli d’acciaio ai lombi le popolazioni cacciandole dalle terre, derubandole di quel poco che resta prima della morte per fame dei corpi giovani, costringendole al viaggio verso il futuro Nord-occidentale o nelle baraccopoli (Nairobi la più grande), spazi di ogni infame condizione, prostituzione di massa, terreni di coltura di ogni pandemia: dall’ hiv all’Ebola (all’ingrasso allora la sperimentazione e la vendita delle grandi farmaceutiche).

In Africa e in Asia è in atto una violenta e continua espulsione di comunità e famiglie dalla terra. La condizione generale è ancora tuttavia tra una popolazione tradizionalmente stanziale – vive nei campi e lavora la terra – e chi lavora all’estero o nella città, in industrie e servizi.  Condizione questa grande che si mescola alle pulsioni di guerra. E così, tra violente espulsioni, emergenze (siccità, pandemie), guerre, si affolla all’orizzonte della diaspora – si muove e si trasforma – un popolo di schiavi, di meticci, di sbandati, di mendici, di ladri, di ruffiani, prostitute, sovversivi.

In questa situazione i diversi idiomi e le diverse lingue sono di continuo all’abbandono del passato ancestrale – senza possibilità di ritorno – e ad un confine. Attraversano i confini. I portatori e i ricettori di questi vicendevoli mutamenti, si adattano, si alienano, si modificano, creano, inventano, perdono e si perdono, rigettano la mutazione e/o si ritrovano in una nuova dimensione/classe sociale portante, su cui si reggono gli equilibri delle società avanzate – e non ne sono consapevoli (della loro strategica importanza).

Black holocaust

Attraversano le acque, camminano sulle acque, muoiono in un mare piccolo alle porte d’Europa. La porta, la soglia.
Per quanto alla penisola italiana, dopo tre decenni di immigrazioni, le persone,  residenti in Italia, provenienti da paesi e regioni non della Comunità Europea rappresentano, oggi, il 7% della intera popolazione italiana. Saldi irrisori.
Per fare un esempio: l’emigrazione degli italiani – la ‘leggenda’ li fa emigrare dalle regioni del Sud Italia, in realtà l’emigrazione è universale, emigrano da tutte le regioni, dal Nord e dal Sud – tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento è pari ai 23 milioni di abitanti contati dal censimento del 1861 quando l’unità d’Italia.
È andato via, per non tornare, un intero Paese.

[«Ma se ghe penso alôa mi veddo o mâ,/veddo i mæ monti, a ciassa da Nonçiâ,/ riveddo o Righi e me s’astrenze o cheu,/ veddo a lanterna, a cava, lazù o Meu…/ Riveddo a-a séia Zena iluminâ/ veddo là a Fôxe e sento franze o mâ»

«Ma se ci penso allora io vedo il mare,/ vedo i miei monti, piazza della Nunziata,/
rivedo Righi e mi si stringe il cuore,/ vedo la lanterna, la cava, laggiù il Molo…/Rivedo alla sera Genova illuminata,/ vedo là la Foce e sento frangere il mare…»]

Attraversano continenti, muoiono sulle strade dell’occidente, ripetono più volte il viaggio eppure qui – come prima e prima – sono evidenti i segni della mattanza.

[« È impossibile esagerare il male della tratta. Abbiamo incontrato una donna uccisa dal padrone arabo perché non era in grado di camminare oltre. Abbiamo visto una donna legata ad un albero e lì lasciata morire. Abbiamo incontrato i corpi di uomini morti per fame » David Livingstone]

Sono portati da scafisti agli ordini di più vaste organizzazioni preposte al trasporto e all’arrivo degli schiavi per il lavoro con paghe di fame (o in attesa nei lager) così si costruisce un esercito di riserva sempre più imponente, si alimenta così la divisione e contrapposizione – costruite e alimentate sino al confronto armato – tra analoghe masse proletarie.
Come nei cargo dei negrieri che misuravano gli spazi della nave con i corpi allineati degli africani catturati e resi schiavi

[Il viaggio tormentoso verso l’America iniziava su vecchie carrette stipate fino all’inverosimile, che spesso si sfasciavano dopo appena qualche chilometro di navigazione, dove gli schiavi venivano ammassati in locali non più alti di un metro e mezzo, quasi privi di aria e luce. Qui, nudi e incatenati a due a due, compivano traversate che potevano durare anche due o tre mesi. La mortalità era altissima. Molti si ammalavano per il sudiciume, la facilità di contagio, l’alimentazione inadatta. Altri, spinti dalla disperazione, si suicidavano buttandosi in acqua. Ma venivano anche gettati in mare quando i viveri cominciavano a scarseggiare. Le rotte più seguite dagli squali per le loro migrazioni corrispondono perfettamente a quelle dei cargo negrieri dei secoli scorsi]

così su gommoni e in barconi dalle stive anguste, piene d’acqua, di odore dei corpi e di fumi del diesel, si muovono dal nord-Africa, si siedono docili e allineati, in zattere gremite sino al livello dell’acqua, i moderni schiavi, i migranti costretti alla fame di futuro, proiettati in un futuro di condizione servile, non dissimile da quella dei loro antenati. Costretti al futuro loro pensano il futuro, loro sono l’impresa, il progetto e il futuro. Loro sono la storia.

In questa condizione generale, in questo specifico movimento del capitale nel nostro tempo, in questo trauma, così come in altre traumatiche condizioni storiche, le umane correnti che passano e si insediano, cercano linguaggi e modalità di esistenza e di vita adeguati. Nuove spinte e necessità della comunicazione, lingue che reggano l’urto delle nuove dinamiche e dei nuovi contenuti. Una nuova fraternità. La piattaforma di una nuova uguaglianza.
Dobbiamo lavorare qui, per la piattaforma di una nuova uguaglianza.

 

La rivolta, il terrore

Ed è anche qui un rinnovato grido: quella della lotta e della insorgenza, dell’odio e della cieca rivolta. Segnali confusi, prove disarticolate, impacciate, fuorvianti. Possiamo ascoltare i loro vagiti e il loro grido, possiamo leggere e tradurre i loro segni

[non vogliamo essere impotenti come davanti ai segnali dei disperati della Grenfell tower a nord di Kensington: telefonano mentre muoiono, li vediamo dalle finestre sugli interni che mandano sos  agitano stracci ai vetri, accendono e spengono luci nel buio della notte, nel fumo dell’incendio – muoiono per gli affari dei costruttori edili]

sono anche quelli che ascoltiamo sos, ma di un mondo vitale, che cresce, che chiede il nostro accompagnamento.

[ 1. non è chiaro perché hanno ucciso gli studenti di Dacca? Hanno ucciso piccoli imprenditori del tessile che agivano nel sub-sub-subappalti dello sfruttamento delle operaie del settore (che cosa ci faceva a Dacca una ‘imprenditrice’ tessile di Benevento?). Va da sé ricordare come a Dacca – nell’aprile 2013 – avviene la strage annunciata delle operaie del fabbricato Rana Plaza nella periferia a fitta densità proletaria di Savar. Fingiamo che il mondo dimentichi, ma nessuno dimentica.

  1. e uno di questi due giovani disgraziati che sgozzano in una chiesa di Rouen il vecchio parroco: da dove vengono? Dalle fila disarticolate dell’esercito di Al Baghdadi e anche dal sociale. Li vediamo per la prima volta [almeno uno] a Ventimiglia, nell’ottobre 2015, attivo in una manifestazione di migranti – lì inchiodati da mesi – che protestano, mescolati a giovani italiani, contro il blocco del passo confinario.
  2. sono 35.000 i giovani foreign fighterseuropei che hanno scelto il combattimento aperto in Siria. In pratica delle Brigate Internazionali. Emulazione anche, ma soprattutto volontà di ribellione e di lotta. Con modalità truci e disorientate, occasionali ancora, i giovani – non solo migranti, europei di seconda e terza generazione – annunciano che non ne possono più.
  3. il mondo è sordo, in modo sorprendente non capisce, non intuisce, non avverte la dimensione gigantesca e tragica con cui si dimensionerà la ribellione. Per un diciottenne disturbato con il mito di Breivik che uccide 9 persone a Monaco solo rivelatore è il colloquio – un teatro dialettale (bavarese e di maschere popolari) un teatro dell’assurdo – tra questo giovane armato e un robusto anziano che lo scuote con insulti da una finestra contigua al terrazzo dell’Olympia dove si è ritirato…Siamo alla quotidianità, la dimensione del terrorismo urbano è penetrata sino alla ‘ovvietà’, eppure non ne discutiamo.
  4. il suicidio, l’immolarsi per varie e anche opposte cause e ragioni, vengono da lontano. Il suicidio è – per esempio – un evento frequente sulle navi negriere attuato spesso rifiutando il cibo o le medicine o gettandosi in mare o in altri modi: di fronte c’è la catastrofe della riduzione in schiavitù, la nakbadei popoli africani (quegli stessi popoli che oggi etc.).
    La frequenza dei suicidi è tale che gli schiavisti usano vari strumenti e metodi per costringere a nutrirsi il loro carico umano incatenato per quasi tutto il tempo del viaggio verso gli inferi della schiavitù.
    “Quando ci siamo trovati prigionieri la morte ci è sembrata preferibile alla vita e abbiamo concordato un piano tra noi: avremmo appiccato il fuoco e fatto saltare in aria la nave e saremmo morti tutti tra le fiamme” Eric Robert Taylor, If We Must Die: Shipboard Insurrections in the Era of the Atlantic Slave Trade, Se dobbiamo morire: le insurrezioni sulle navi nell’era del commercio atlantico degli schiavi, LSU press, marzo 2009, pages 288]

 

Le risposte, le proposte

E questi Bill Sanders, Jeremy Corbin, Ken Loach? Questi che parlano ai giovani dal remoto di altre generazioni. Non è problema generazionale, dunque, è possibile una trasmissione anzi un’unità di pensiero e di lotta tra più generazioni di un popolo, di una classe sociale nei suoi rappresentanti.

Non si tratta soltanto di una condizione di fatto, di nuove e generali modalità di esistenza, di una prima cultura universale che si dà e forma-occupa il pianeta, ma di un pensiero del mondo, di un pensiero di sé nel mondo, un esserci con gli altri, di una domanda di dasein: ansiosa, ripetuta.

Questi anziani predicatori della uguaglianza e della morale e quegli altri – più anziani ancora – papa Francesco, José Mujica?
Le spiritualità e le presenze di un pensiero ‘altro’ nel mondo disturbano di continuo la dimensione universale del mercato. Questi soggetti che occupano la scena in modo “sghembo” non allineato al consumo e alla imposizione di consumo, queste ‘spiritualità’ che non sembrano previste dalle religioni canoniche…

[dalle clarisse di viale Monza a Milano, al milione di cittadini turchi che camminano sotto il cartello “giustizia” mentre Erdogan prepara la morte di Stato]

Le code di giovani che si portano dietro – Sanders e Francesco – e in cui si alimentano di energia. Agitano corpi, parlano in mezzo a corpi e stanno dentro piazze, assemblee, moltitudini, antenne della eguaglianza possibile della comunicazione e del possibile scambio tra le intelligenze.

Insieme prorompenti e gentili movimenti di liberazione dei corpi che avanzano nel mondo senza temere rischi ed errori, alzano e affermano i cartelli dei diritti degli individui e di quelli collettivi – ad esistere, a vivere in concreto, scambiarsi, amarsi – tanto più veri e meno mercatali se non quando uniti nei cortei e nelle piazze – anche nel voto.
Sono i giovani che si mescolano alle file dei migranti lungo i confini d’Europa e costruiscono tunnel per il loro passaggio, conoscono i guadi dei fiumi che fanno da confine, diventano guide dei necessari attraversamenti obliqui dei nuovi popoli (indiani nativi che tracciano il racconto di una nuova Genesi). Sono in prima fila negli scontri, alzano stracci come bandiere della lotta. Giovani che si schierano alla Stazione Centrale di Milano in difesa dei migranti in passaggio. Giovani che si ribellano a Napoli contro la corruzione e il malgoverno. E curdi, donne curde, a Kobane, e donne musulmane nelle tante Sens e Malenbeeck e donne sul confine messicano dell’Impero cannibale, il confine dei femminicidi nelle pagine di 2666 di Bolaňo.
E quei Sindaci che si oppongono al potere dei grandi feudatari: i Khan, i Di Blasio, forti di una complessa società di culture mescolate, di intelligenza collettiva, di movimenti che si riconoscono nella dimensione e nella vastità, consapevoli del loro darsi nella storia che viviamo.

Queste estese lotte presenti, transeunti, mescolate a musiche e biciclette, alla quotidiana consapevolezza di apocalissi per continue estinzioni (speci e tipi, la colomba argentata e l’urogallo, il puma striato e il corvo di montagna, il luogo e l’identità) e questi futuri possibili di una cooperazione di umani, fuori da ogni fabbrica, dentro la fabbrica del mondo.

luglio-agosto 2017

11 pensieri su “Costruire il Tempo

  1. Trovo che questo piccolo/grande manifesto utopico e distopico di Piero Del Giudice si inserisca felicemente, come ha sottolineato Ennio, nelle linee di riflessione suggerite dal documento “Per Poliscritture 2″ completandolo e superandolo per molti versi. Il tono apparentemente catastrofista è ampiamente giustificato dalla tragicità della situazione e contiene comunque continue aperture e indicazioni per il riscatto e la ribellione. Anzi direi che la linea di fondo è proprio quella della lotta di liberazione in una fase completamente nuova dello scontro, i cui assi sono ben rappresentati dalla battaglia per la riappropriazione del tempo (di lavoro, di vita, di partecipazione e di fuga) e dalla rivendicazione della libertà e dei diritti del migrante, che appare, pur nell’orfanità di ogni soggetto, il nuovo possibile universale a cui riferire i frammenti sparsi dei nostri discorsi e delle nostre azioni.

    Un filo sottile ma evidente percorre questo intervento di Del Giudice, a dispetto del suo incedere frammentato e sincopato, o proprio in forza di questo – la sua forma e il suo ritmo sono organici al contenuto. Con il rischio che qualche volta il passo metaforico (pienamente giustificato dalla mescola tra politico e poetico, che credo abbia in questo sito piena cittadinanza) produca qualche infortunio, come quando si paragonano i foreign fighters dell’Isis alle brigate internazionali.

    Ciò che emerge è il nesso tra il fordismo (sconfitto nella fabbrica e vincitore nella società) e la guerra; tra il suo progetto mortuario e l’impoverimento generale delle menti e dei corpi; tra le reti a strascico e il nuovo schiavismo; tra la violenza contro gli uomini e quella contro la terra; tra il pranzo di gala degli chef e la fame del mondo; tra il tempo contingentato del lavoro precario, del salariato intellettuale e del lavoro di cura (quasi sempre femminile), non pagato e impagabile, e le lande temporali deserte della disoccupazione e del post-lavoro; ecc. Per cogliere il filo dobbiamo passare continuamente da una cosa all’altra. Leggere in filigrana.

    Ha ragione Del Giudice a sottolineare (così mi sembra) la natura mistificatoria di certi conflitti generazionali costruiti ad arte; in realtà è potenzialmente in corso una staffetta, invisa ai fautori della “morte di stato” e della distruzione del pianeta. Ha ragione anche nel disegnare la continuità e unità tra materiale e immateriale (forse con una punta di luddismo antirobotico), e il nuovo rapporto tra individuo e collettivo; dove il cyber-anonimato di massa non è solo la negazione del soggetto ma la protesta contro il suo “assassinio”. Perché, dopo aver portato a termine l’assassinio del soggetto collettivo, ora è il momento di dar la caccia anche a quello individuale. Portami su quello che canta, appunto. Ma “giù la piazza non c’è nessuno”. O forse no. È ancora a favore dei disperati che ci è data la speranza.

  2. Ho letto solo una metà del lunghissimo articolo, sia perché troppo lungo, sia perché troppo confuso, sia perché ho perso il filo e non ci ho capito più niente, affogato in un mare di parole senza logica. Posso essere d’accordo con qualche particolare o frammento, ma non con il senso complessivo, per quel (poco) che ho capito.
    Innanzitutto lo stile e il linguaggio, da miscela fra vecchio sindacalismo corporativo, rivendicazionismo sessantottino non progettuale, articolesse da giornaletti dell’estrema sinistra extraparlamentare anni Settanta, da manifesti conditi di pessima filosofia e religiosità utopica fra “gururaggini” e new age.
    Articolo profetizzante, col difetto di guardare al passato e non al futuro. Del presente e del futuro manca ogni analisi concreta, ma se ne parla utilizzando solo suggestioni personali (e/o di particolari gruppi) di varia provenienza e mai liberate da contraddizioni e astrattezze.
    A livello di linguaggio diventa un simbolo significativo l’uso del termine “Dasein”, usato due volte senza traduzione (problematica traduzione! Pietro Chiodi insegna). Ho provato a pensare alle prime cento persone che incontro uscendo di casa: il portinaio, qualche altro condomino, l’edicolante, i commessi del supermercato, il capannello di persone davanti al bar ecc. Forse solo uno o due, ma è più probabile nessuno, di questi conosce il significato di “Dasein”. Per chi scrive Del Giudice? Per i lettori di una rivista specialistica di filosofia? Ma l’articolo, però, non ha nulla di specialistico, salvo che è incomprensibile come se lo fosse. Incomprensibile non perché difficile per il suo contenuto, ma perché ermetico, oscuro.
    Per il contenuto mi colpisce, fin dalle prime righe, un vecchio pregiudizio. Del Giudice scrive: «l’assetto sterile, renditiero, preindustriale della distribuzione della ricchezza e del potere (l’oligarchia delle 100 famiglie che detengono la metà dei beni globali)». La cui verità è parziale e non tocca le realtà più nuove e futuribili, quindi più significative. Di quella lista dei cento fanno parte alcune decine di persone partite da un capitale minimo e da un laboratorio in casa, non certo da rendite preindustriali. Sembra sfuggire a Del Giudice l’enorme importanza che ha sempre avuto, ma che oggi è prevalente, il sapere e l’innovazione tecnologica. Una buona idea, un buon brevetto, può portare una persona da un capitale di zero euro a uno di milioni di euro in pochissimi anni, e ciò avviene continuamente nel mondo. Giusto? Sbagliato? Ma soprattutto da capire, analizzare e giudicare in una concreta e corretta prospettiva.
    Altrimenti, come fa Del Giudice nella parte utopica del suo articolo, ci si limita a ripetere, in qualunque modo lo si ricicli, il vecchio verbo di quella che io chiamo utopia parassitaria. Cioè l’utopia del rivendicare la redistribuzione di ricchezza senza partecipare alla sua creazione e senza nemmeno comprendere i termini economici e sociali della creazione di ricchezza. Non sarebbe ora di passare dall’utopia rivendicazionista a quella creativa e produttiva? E poi, a chi si rivolge la rivendicazione di utopia? Allo Stato? Ai 100 più ricchi del mondo? E ciò non è una insanabile contraddizione?
    L’utopia, di qualunque tipo sia, libertaria o comunista, o la si costruisce in modo autonomo, contro lo Stato, o resterà un infantile vaneggiamento di cose credute belle solo perché immaginate in modo confuso.

  3. …lo scritto di Piero Del Giudice mi sembra essere, più che un saggio o un trattato, un discorso appassionato sui problemi che oggi affliggono l’umanità e il pianeta . Un discorso a volo di rondine, ma di ampio respiro, che naviga nello spazio e nel tempo storico, cogliendo correlazioni tra passato, presente e futuro immaginabile…Un discorso essenziale, non generico, che offre molti spunti di riflessione e di approfondimento… Il tema del tempo vi è proposto in maniera molto interessante: quello lavorativo, sempre più automatizzato, che genera sfruttamento e disoccupazione e quello apparentemente libero, che comunque soggiace alle leggi del mercato. Qui si inserisce il dramma dei nostri giovani e il tono tragico mi sembra più che appropriato: siamo la prima società ( o mi sbaglio?) che divora i suoi figli, dopo averli generati…Altro tema tragico affrontato è quello della rapina sistematica e violenta della terra , per il vantaggio di pochissimi e l’impoverimento di milioni di altri esseri umani, così si arriva alle migrazioni forzate e mortali attraverso il Mediterraneo e i continenti inospitali…spettro che si ripresenta nel tempo. Non mancano aperture alla speranza, alla possibilità di progetti solidali…di un cambiamento di rotta. Si fa riferimento alla necessità della lotta. Quello di P. Del Giudice non mi sembra un utopismo sprovveduto, contrasta con un certo clima generale cinico e mistificato oppure deluso… ma è quello a cui dobbiamo rapportarci perchè in certe estreme situazioni è difficile volare alto con il pensiero…e creare una rete comune

  4. Con la funzione “trova” del menu, il lessema *temp* (tempo, temporale, temporalità) e i termini tempo di lavoro, tempo privato, tempo dell’umano, tempo della vita, in questo testo compaiono 22 volte; e *futur* (futura/i) 18 volte, ma, ha ragione Aguzzi, il testo ha il “difetto di guardare al passato e non al futuro”.
    Cos’è il futuro in questo articolo, che descrive con scene bibliche e letterarie l’attuale apocalittico capitalismo presente?
    Vuole essere un futuro di lotta e sovversione, ma gli strumenti teorici di cui si serve sono mancanti. Il futuro dovrebbe risultare dal superamento dell’alienazione (il dominio che esclude il soggetto, “la ‘variante’ della forza-lavoro – la sua imprevedibile e non eliminabile soggettività”, e sussume tutto il privato e il corpo stesso, nel capitale).
    Però Del Giudice non fa il passo avanti che è richiesto oggi a livello globale: la disumanizzazione, operata dal potere, degli eserciti di disperati che traversano il globo e si affollano alle nostre porte, disegna dall’altra parte un nuovo soggetto, annesso dal potere e sua base stessa, che è un soggetto neutro, sofisticato, omogeneo, non imprevedibile, oppure, altra faccia della medaglia, con le variazioni neoliberiste del gender. Il neutro e la moltiplicazione dei generi sono le politiche di assoggettamento degli abitanti del mondo affluente, ma Del giudice immagina solo gli obiettivi classici del tempo di lavoro e di un salario globale. Chiedo io: l’idea che il corpo è sessuato, e che la differenza sessuale è il primo motore dinamico dell’esistenza non conta, vero?
    Il futuro viene poi interpretato come una contrapposizione tra l’apocalisse o armageddon in corso, e la realtà profetica della nuova fraternità e uguaglianza (Isaia, 11, 6: “il lupo abiterà con l’agnello e il leopardo giacerà col capretto”, e Del Giudice: “la colomba argentata e l’urogallo, il puma striato e il corvo di montagna, il luogo e l’identità”). Il linguaggio religioso dà solennità, ma serve solo a introdurre il sofisma negriano della contemporanea presenza della salvezza entro il disastro.
    Che sia pura astrattezza lo mostrano anche i toni lirici con cui sono evocati “anziani predicatori della uguaglianza e della morale”, che sono stati e sono invece protagonisti di azioni di politica-politicante: Pepe Mujica, Ken Loach, Sanders, Corbyn e papa Francesco. E’ sì un testo che eccita, commuove, liscia il pelo, ma sul piano politico offre troppo poco.

  5. APPUNTI

    1.
    Il commento di Luca [Ferrieri] dà la chiave giusta per discutere di questo articolo: leggerlo in filigrana; non classificarlo come catastrofista; tener conto della sua attenzione partecipe alla tragicità della situazione mondiale; non sminuire o sbeffeggiare professoralmente le «aperture e indicazioni per il riscatto e la ribellione» .

    2.
    I temi centrali dell’articolo di Del Giudice sono: innovazioni della robotica e dell’informatica; suoi effetti immediati e in prospettiva sul lavoro; disoccupazione; migrazioni; proposta del reddito di cittadinanza. Perché rifiutarsi di discuterne? O non pronunciarsi su di essi, fermandosi allo stile e al linguaggio e senza valutare se esso è più che giustificato di fronte alla tragicità dei fatti evocati con precisione da cronista? Non si può seppellire la realtà che l’articolo tenta di interrogare sotto una coltre di luoghi comuni (« miscela fra vecchio sindacalismo corporativo, rivendicazionismo sessantottino etc») da ex- rivoluzionari pentiti.

    3.
    Davvero « Del Giudice non fa il passo avanti che è richiesto oggi a livello globale» (Fischer)? No, lo fa, perché innanzitutto tiene lo sguardo su questo livello globale mentre invece qua tutti lo abbassano all’ambito nazionale (o peggio elettoralistico). Certo parla del corpo in generale; e non dice, come vorrebbe Cristiana [Fischer], che «è sessuato» . Ma che «la differenza sessuale [sia] il primo motore dinamico dell’esistenza» è una convinzione sua ( e dei gruppi di femministe) che fatica a farsi progetto quasi quanto il discorso del reddito di cittadinanza o dell’uguaglianza. Perché, allora, separare e contrapporre i discorsi?

    4.
    Dove sta poi tutto questo utopismo? O tutta questa «utopia parassitaria»? Ho molti dubbi su l reddito di cittadinanza. Se sia una rivendicazione d’emergenza o strategica, ma se l’automazione procederà e le masse non impiegate nella produzione si moltiplicheranno, che cosa sarà di loro? Cosa c’è di « ermetico, oscuro» nel porre questo problema? E dove starebbe tutta questa ignoranza o sottovalutazione da parte di Del Giudice del « sapere e [del]l’innovazione tecnologica», se il problema degli effetti sociali (anche distruttivi!) delle innovazioni tecnologiche è posto con estrema chiarezza, mentre Aguzzi ne tace per far l’apologia del« buon brevetto [che] può portare una persona da un capitale di zero euro a uno di milioni di euro in pochissimi anni»? Dove poi si dice che gli interlocutori di questo articolo sarebbero «lo Stato» o «i 100 più ricchi del mondo»?

    5.
    E ancora: chi la vede tutta questa «religiosità utopica»? Starebbe nel ricordare con «con scene bibliche e letterarie» drammi e tragedie precise che noi di giorno in giorno annusiamo e dimentichiamo con facilità? Se vogliamo chiamare ‘religiosità’ il porre sotto occhi distratti le tragedie che il cinismo della realpolitik rimuove o delega ai potenti chiedendo di arruolarci (o con Putin o con Trump), sono senza esitazione per la religiosità utopica ( tale o supposta). Perché si può e si deve anche ragionare in modo apparentemente utopico o profetico sul *possibile* invece di fissarsi nella unica ragione della realpolitk. Mi porrei, semmai, il problema di come sfuggire ad una utopia puramente sognatrice, metafisica, estetizzante e passare ad una *utopia concreta*. E perciò, pur notando il cortocircuito utopico in certi passaggi dello scritto (come questo:« Come sempre, a questo stadio concreto di sussunzione dell’individuo nella logica e dinamica della complessiva produttività della città capitalista, corrisponde una inedita possibilità di relazioni, una piattaforma di analoghe condizioni, di simileguaglianze, di stati di fatto, che si delinea già oggi) non parlerei di «sofisma negriano della contemporanea presenza della salvezza entro il disastro» (Fischer) . Inviterei piuttosto ad indagare di più. Vogliamo o sappiamo essere più scientifici? Bene, cerchiamo dati antropologici, economici, sociologici, politici che permettano o di dare concretezza ai toni poetici e metaforici di questo scritto ( che pur hanno però una loro ragione, perché una certa poesia va presa sul serio e non confinata a passatempo) oppure critichiamo ma in modo argomentato il messaggio di fondo o la proposta politica del reddito di cittadinanza. L’utopia, presente sempre nei movimenti sociali e politici e che Del Giudice sa raccogliere, non è di per sé un ostacolo ad un approfondimento scientifico. Anzi può essere la premessa di ragionamenti più serrati e visioni più chiare. E non essendoci in mezzo a noi oggi un Marx capace di sostituire con chiara teoria queste spinte utopistiche o questo «passo metaforico», mai mi appellerei, come fa Aguzzi, al senso comune delle « prime cento persone che incontro uscendo di casa: il portinaio, qualche altro condomino, l’edicolante, i commessi del supermercato, il capannello di persone davanti al bar». Perché sono quelle che spesso non sentono e non vogliono vedere; e noi abbiamo bisogno di aprire gli occhi e vedere.

    6.
    Centrale è nello scritto il discorso (politico!) dell’eguaglianza. Fa effetto a leggere in questi giorni quanti distinguo si fanno su razze, etnie, diversità e come facilmente gli opinionisti scivolano dal riconoscimento scientifico delle diversità presenti in natura ad una loro gerarchizzazione (classista, culturale, intellettuale) per sbeffeggiare l’eguaglianza come principio e le lotte secolari per approssimarla. Anche questo problema è posto nello scritto di Del Giudice: «Dobbiamo lavorare qui, per la piattaforma di una nuova uguaglianza». E mi va bene. Aggiungo solo l’avvertimento che la riaffermazione di un valore che è stato vissuto nella storia e che però è stato sporcato dalla tragedia del socialismo non sarà facilmente riproponibile, specie ora che si è fatta nuovamente strada l’idea che sono le élites dominanti, i pochi, a fare la storia (con la guerra).

    7.
    Tutta la descrizione a pennellate larghe della tragedia delle nuove migrazioni (e i richiami alle vecchie tratte dei negrieri ai tempi della accumulazione originaria) è poetica ( in senso positivo) e coglie una realtà su cui noi come Poliscritture abbiamo tentato numerose volte di riflettere. Diciamolo: con molti contrasti anche tra di noi. Del Giudice ha una posizione limpida: «Costretti al futuro loro pensano il futuro, loro sono l’impresa, il progetto e il futuro. Loro sono la storia.»; « Sono portati da scafisti agli ordini di più vaste organizzazioni preposte al trasporto e all’arrivo degli schiavi per il lavoro con paghe di fame (o in attesa nei lager) così si costruisce un esercito di riserva sempre più imponente». Torniamo a parlarne.

    8.
    Alla fine un elenco di miei dubbi, che spero di poter chiarire nella discussione:

    – per una tendenza di Del Giudice ad assolutizzare dei processi in corso più contraddittori di come forse gli analisti a volte li presentano (siamo in una « una condizione di sussunzione e di assoggettamento totale dell’individuo all’universo del capitale»»; siamo nell’«epoca di un’umanità monitorata, sotto controllo dei chip-esistenziali»; siamo di fronte alla «maggior soglia di consorzio raggiunto dalla umanità metropolitana»; siamo nell’ «epoca dei 100 feudatari che detengono le maggiori ricchezze del mondo, della messa in scena dei grandi cuochi (great chefs) e della fame di centinaia di milioni di persone»);

    – per il riferimento ad una indeterminata moltitudine, di cui i migranti sarebbero la figura oggi più visibile, con un elogio abbastanza generico « al movimento anonimo, al lavoro anonimo, al profilo in cui si entra e ci si ritrae di una classe sociale, quale proposta di guida del mondo, di utilizzo dei beni, di scelta per tutti di beni utili, di eliminazione del superfluo, di risparmio e di cooperazione tra intelligenze e energie dei più»; e col rischio di sottovalutare che essa è ostaggio di poteri forti e mass media e che le élites domianti, sempre più sciolte da riferimenti ad essa, tendono a incarnare figure di Capi dai connotati fascisti o stalinisti;

    – per un po’ di retorica corporale e giovanilistica di certi passaggi: « Insieme prorompenti e gentili movimenti di liberazione dei corpi che avanzano nel mondo senza temere rischi ed errori, alzano e affermano i cartelli dei diritti degli individui e di quelli collettivi – ad esistere, a vivere in concreto, scambiarsi, amarsi».

    – per un certo ridimensionamento della guerra come causa di migrazioni («Le ondate migratorie che traversano il globo, non sono dovute alle guerre se non in piccola parte. Sono dovute alla espulsione violenta dalle campagne per l’incessante processo di centralizzazione delle proprietà e industrializzazione dell’agricoltura») anche se in altri passaggi Del Giudice sembra correggere questo giudizio; mentre sul discorso sull’espulsione delle comunità rurali, che è indubbiamente un fenomeno storico tipico dell’ascesa del capitalismo e dell’industrializzazione (anche stalinista e anche nella Cina del dopo Mao), mi resta da capire quanto Del Giudice si avvicini alle tesi di P.P. Poggio (https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/11230-roberto-finelli-i-germogli-della-nuova-societa.html#comment-2312);

    – per certi echi di comunitarismo («La spinta comunitaria si fa evidente nei riti collettivi della civiltà urbana») o l’accenno ad un ‘ progetto comune’ (al posto del comunismo, oggi innominabile(?); tema su cui mi ero impegnato col commento alla voce ‘Comunismo’ di Fortini e che è rimasto interrotto.

    – per certe spinte del discorso più verso l’antropologico che il politico («L’Europa ha accantonato prima e poi superato, la civiltà del corpo).

  6. Il problema che mi pongo è quello della lotta *qui*, nel mondo occidentale, ceto medio con la sua cultura egualitaria in restringimento, ma movimenti di massa femminili. Qui la cultura dominante spinge avanti un soggetto neutro e individualizzato, qui quindi il corpo sessuato rappresenta vera contraddizione.

  7. * A rafforzare autorevolmente quanto scritto stamattina nel mio commento («Inviterei piuttosto ad indagare di più. Vogliamo o sappiamo essere più scientifici? Bene, cerchiamo dati antropologici, economici, sociologici, politici che permettano o di dare concretezza ai toni poetici e metaforici di questo scritto ( che pur hanno però una loro ragione, perché una certa poesia va presa sul serio e non confinata a passatempo) oppure critichiamo ma in modo argomentato il messaggio di fondo o la proposta politica del reddito di cittadinanza.») e a conferma dell’importanza fondamentale di costruire una “nuova civilizzazione” che non respinga i migranti trovo stasera questo calibratissimo saggio di Luigi Ferrajoli, di cui propongo gli stralci per me più importanti. [E.A.]

    SEGNALAZIONE
    (DALLA BACHECA FB DI FRANCO CALAMIDA)

    Il fenomeno migratorio quale banco di prova di tutti i valori della civiltà occidentale
    di Luigi Ferrajoli
    http://www.lasinistrainzona.it/index.php?option=com_content&task=view&id=1485&Itemid=70

    1.
    Qualunque politica razionale in materia di immigrazione dovrebbe muovere dal riconoscimento di un dato di fatto irreversibile: il fenomeno migratorio non è un’emergenza, ma un fatto strutturale e inarrestabile, che coinvolge ormai centinaia di milioni di persone, è in crescita costante ed è destinato a svilupparsi indefinitamente. Attualmente, secondo i dati relativi alla fine del 2015, i migranti nel mondo sono 244 milioni (il 41% in più rispetto al 2000). In Italia sono 5.800.000, cioè il 10% della popolazione (il doppio rispetto al 2000); in Germania sono ben 12 milioni e 9 milioni nel Regno Unito. In Europa sono 76 milioni (erano 56 milioni nel 2000) e negli Stati Uniti sono 47 milioni.
    Ovviamente queste cifre sono destinate ad aumentare. Sì capisce perciò che se prevarranno le attuali politiche di esclusione, non certo in grado di limitare il fenomeno ma solo di clandestinizzarlo e drammatizzarlo, l’Occidente rischia il crollo della sua identità. L’Europa, in particolare, non sarà più l’Europa civile dei diritti, della solidarietà, dello Stato sociale inclusivo, delle garanzie dell’uguaglianza e della dignità delle persone, bensì l’Europa dei muri, dei fili spinati, delle disuguaglianze per nascita e dei conflitti razziali.
    2.
    C’è poi un’altra ragione specifica che fa della questione immigrazione e della scelta dì campo in favore dei diritti dei migranti una questione assolutamente centrale per qualunque organizzazione sindacale che assuma il lavoro come valore e il rispetto e la tutela dei diritti dei lavoratori migranti come tutt’uno con la propria ragion d’essere. Essa consiste nel fatto che i migranti, sempre più numerosi, sono oggi i lavoratori più deboli sul mercato del lavoro: i più oppressi, i più discriminati, più di quanto sia mai avvenuto in passato. Certamente il fenomeno dell’immigrazione non è nuovo. Sempre le diverse generazioni della classe operaia sono state formate e alimentate da altrettante generazioni di migranti. Sempre il proletariato è stato formato dai diversi flussi migratori: dall’emigrazione dalle campagne alle città nell’Inghilterra del Settecento e del primo Ottocento; dall’emigrazione irlandese e italiana negli Stati Uniti, tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento; da quella dal Sud al Nord dell’Italia nel nostro secondo dopoguerra. Sempre i nuovi venuti sono stati oggetto di discriminazioni, di soprusi e di sfruttamento e messi in concorrenza con il vecchio proletariato, volta a volta mobilitato contro di loro da spinte e sentimenti xenofobi e razzisti. Ma oggi la novità della messa fuori legge, della clandestinizzazione e della penalizzazione dell’immigrazione irregolare rischia di compromettere ben più radicalmente l’identità democratica dei nostri paesi. Si è creata una nuova, assurda figura sociale dalla quale questa identità è vistosamente contraddetta: quella della persona illegale fuori legge solo perché tale, priva di diritti perché giuridicamente invisibile e perciò esposta a qualunque tipo di vessazione, destinata a identificare un nuovo proletariato discriminato giuridicamente e non più solo, come i vecchi immigrati, economicamente e socialmente.
    3.
    le politiche e le leggi italiane ed europee contro l’immigrazione ignorano totalmente sia il carattere strutturale e inarrestabile del fenomeno migratorio, sia la loro contraddizione con i valori, primo tra tutti il lavoro, su cui si fonda la nostra democrazia costituzionale. Queste leggi si basano su una discriminazione per ragioni di identità: sull’esclusione dei migranti come persone di per sé ontologicamente illegali, fuori legge, non-persone (Dai Lago 1999). E valgono perciò a confortare, ad assecondare e a fomentare, per l’interazione che sempre sussiste tra diritto e senso comune, gli umori xenofobi e il razzismo endemico presenti nell’elettorato dei nostri paesi.
    4.
    C’è infatti un nesso biunivoco tra integrazione e uguaglianza giuridica e, inversamente, tra disuguaglianza nei diritti e percezione di chi non ha diritti come disuguale e inferiore. È sempre stato così: nei rapporti dì classe tra padroni e operai, nei rapporti di genere tra uomini e donne, nei rapporti tra cittadini e stranieri immigrati. Sempre, ieri l’inferiorità della donna e del proletario, oggi l’inferiorità dell’immigrato, sono state legittimate e insieme assunte a giustificazione e a fondamento della mancanza di diritti. Si è trattato di una legittimazione incrociata: dell’idea dei soggetti più deboli come inferiori a opera della disuguaglianza giuridica, e della disuguaglianza giuridica a opera della percezione razzista o classista o maschilista dei soggetti più deboli come inferiori. Come l’uguaglianza e la comunanza nei diritti sono un fattore di educazione civile, sollecitando la percezione del diverso come uguale, cosi la disuguaglianza giuridica genera l’immagine dell’altro come inferiore naturalmente perché inferiore giuridicamente.
    5.
    È un circolo vizioso. Proprio perché sfornito di diritti, l’immigrato viene avvertito come antropologicamente disuguale. E questa percezione razzista, a sua volta, vale a legittimarne la discriminazione nei diritti. Quanto maggiore è l’emarginazione sociale prodotta dalla discriminazione giuridica, tanto maggiore è la sollecitazione di leggi razziste dirette a promuovere il consenso, non già benché razziste ma precisamente perché razziste. Fomentare a livello sociale la rivolta contro i migranti è del resto una sperimentata strategia di cattura del consenso: la strategia populista, convergente con gli interessi e con le politiche liberiste, consistente nel ribaltare la direzione del conflitto sociale orientandolo non già verso l’alto ma verso il basso, non più quale lotta di classe di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma quale conflitto di chi sta in basso contro chi sta ancora più in basso.
    6.
    Questo conflitto velenoso contro i soggetti più deboli del consorzio sociale, alimentato dal razzismo istituzionale espresso dalle leggi contro l’immigrazione, è il riflesso di una nuova, radicale asimmetria tra «noi» e «loro» che vale a sostituire, nei processi di formazione delle identità collettive, le vecchie identità e soggettività di classe. Questa asimmetria, formalizzata da queste leggi, si manifesta nella difesa dei nostri tenori di vita, della nostra sicurezza e delle nostre incontaminate identità culturali anche a costo della morte di milioni di esseri umani, avvertiti come «diversi» e quindi nemici, o criminali o comunque inferiori. Ne risulta confermata la lucida diagnosi del razzismo formulata da Michel Foucault: ancor più che la causa, il razzismo è l’effetto delle oppressioni e delle violazioni istituzionali dei diritti umani; è la «condizione», scrisse Foucault (1998, p. 221), che consente «l’accettabilità della messa a morte» di una parte dell’umanità. Intanto, infatti, possiamo accettare che decine di migliaia di disperati vengano respinti ogni anno alle nostre frontiere, che vengano internati senza altra colpa che la loro fame e disperazione, che magari affondino nel tentativo di approdare nei nostri paradisi democratici, in quanto questa nostra accettazione sia sorretta dal razzismo.
    7.
    Questo ruolo del razzismo, del resto, ha una portata generale essendo il medesimo in qualunque altra discriminazione per ragioni di identità personale. Intanto possiamo tollerare che nei paesi poveri milioni di persone muoiano ogni anno per la mancanza dell’acqua o del cibo, o per malattie non curate, in quanto consideriamo tutti costoro come inferiori. Non a caso il razzismo è un fenomeno moderno, sviluppatosi dopo la conquista del «nuovo mondo», allorquando i rapporti con gli «altri» furono instaurati come rapporti di dominio e occorreva perciò giustificarli disumanizzando le vittime perché «diversi». Che è il medesimo riflesso circolare che ha in passato generato l’immagine sessista della donna e quella classista del proletario come soggetti inferiori, perché solo in questo modo se ne poteva giustificare l’oppressione e lo sfruttamento. Ricchezza, dominio e privilegio non si accontentano di prevaricare. Rivendicano anche una qualche legittimazione sostanziale.
    8.
    Questo razzismo si è sviluppato, in Italia come in molti altri paesi europei, su due livelli che meritano di essere analizzati separatamente: il livello della legislazione, in contrasto con la Costituzione repubblicana, e il livello dell’amministrazione e delle prassi, che è a un gradino ancora più basso di illegittimità, essendo in contrasto con la stessa legislazione ordinaria. Le leggi e le prassi espresse da queste politiche – dalla criminalizzazione della stessa condizione di immigrato irregolare alle centinaia di ordinanze e circolari persecutorie, fino ai centri di identificazione e di espulsione — compongono un cumulo di illegalità istituzionali che mina alla radice i fondamenti della nostra democrazia. Il loro scopo è mettere di fatto fuori legge l’immigrazione, condannarla alla clandestinità e perciò privare i clandestini di ogni diritto ed esporli a ogni forma di oppressione e di sfruttamento. I loro tragici effetti sono le migliaia di persone che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le nostre coste, vittime della disumanità del nostro governo, immemore della lunga e dolorosa tradizione di emigrazione del nostro paese.
    9.
    A livello legislativo si è prodotta la rottura più vistosa: il diritto di emigrare, che fino a quando servì a giustificare le colonizzazioni fu teorizzato dalla cultura occidentale, come vedremo più oltre, come un fondamentale principio del diritto internazionale, si è capovolto nel suo contrario, essendo stato il suo esercizio, in Italia, tramutato in reato dalla legge n. 94 del 2 luglio 2009. È stato questo il punto più basso della storia istituzionale della nostra Repubblica. La criminalizzazione degli immigrati clandestini e la creazione della figura della «persona illegale» hanno segnato un salto di qualità nella politica di esclusione e provocato un gravissimo mutamento di paradigma del diritto penale. Con questa legge — sicuramente la più indegna della storia della Repubblica – per la prima volta dopo le leggi razziali del 1938 è stato penalizzato, con l’introduzione del reato di immigrazione, non un fatto ma uno status, quello appunto di immigrato clandestino, in violazione di tutti i principi basilari dello Stato di diritto in materia penale: in primo luogo del principio di legalità, in forza del quale si può essere puniti solo per ciò che si è fatto e non per ciò che si è, per fatti illeciti e non per la propria identità; in secondo luogo il principio di uguaglianza, che esclude ogni discriminazione «di condizioni personali e sociali» e quello della (uguale) dignità delle persone; infine i princìpi di offensività e di colpevolezza, dato che la mancanza o anche la perdita del permesso di soggiorno a seguito, per esempio, del licenziamento non è affatto un comportamento dannoso e meno che mai è ascrivibile alla responsabilità dell’immigrato, la cui sola colpa è di essere uno straniero irregolarmente residente in Italia.
    10.
    Non solo. È stata affidata la competenza per questo reato ai giudici di pace: per diffidenza verso i giudici togati, o peggio perché questa materia, che investe la vita e la dignità delle persone e i loro diritti fondamentali, è stata considerata di secondaria importanza. È stata prevista, per chiunque a titolo oneroso dia alloggio a uno straniero che sia privo di titolo di soggiorno al momento della stipulazione del contratto di locazione, la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e la confisca dell’immobile, così condannando gli immigrati a non avere un tetto. È stato allungato da 2 a 6 mesi il tempo di permanenza dei clandestini nei centri di identificazione ed espulsione, i cosiddetti Cie. Infine le norme apertamente razziste di triste memoria nel nostro paese: dal divieto dei matrimoni misti, se l’immigrato non ha un permesso regolare, agli ostacoli per le rimesse di denaro alle famiglie, fino al divieto – ed è la norma più odiosa – per i privi di permesso di soggiorno di iscrivere i figli all’anagrafe; con il pericolo che questi, non essendo riconosciuti, possano essere dati in adozione e sottratti alle loro madri, la cui sola alternativa sarà il parto clandestino e la clandestinità dei loro figli.
    11.
    La cosa più sconfortante è che queste leggi razziste non sono bastate a soddisfare le pulsioni razziste presenti nella società e nella pubblica amministrazione. Sono state violate, dalle prassi amministrative, anche queste leggi, pur crudelmente discriminatorie, a opera di un fitto sottobosco normativo e persecutorio, fatto da un lato dalle circolari del ministro dell’interno e, dall’altro, dai cosiddetti «patti territoriali per la sicurezza» e dalle centinaia di ordinanze emesse dai sindaci, soprattutto nei Comuni governati dalla Lega
    12.
    La vita di un essere umano viene così travolta dall’assenza di un timbro o di altre banali e di solito inutili formalità e affidata all’incertezza e all’arbitrio. Ovviamente tutte queste misure sono in via di principio suscettibili di impugnazione, per violazione di legge, davanti alla giurisdizione amministrativa. Ma è chiaro che l’immigrato — per ignoranza, per il costo del contenzioso o anche solo per i tempi ristretti imposti dalle scadenze — non è certo in grado di far valere i suoi diritti violati.
    13.
    ultimo, dolente capitolo: quello dei «centri di accoglienza» istituiti dalla legge Turco-Napolitano n. 40 del 1998 e giustamente ribattezzati «centri di identificazione e di espulsione» dalla legge n. 125 del 2008. Questi centri, nei quali gli immigrati possono oggi essere reclusi fino a tre mesi, sono luoghi di detenzione e segregazione di persone che non hanno fatto nulla di male, ma che vengono private di qualunque diritto, senza neppure le garanzie che caratterizzano la stessa pena della reclusione carceraria, a cominciare dal ruolo di controllo svolto dalla Magistratura di sorveglianza e, prima ancora, dalla garanzia all’habeas corpus stabilita dall’art. 13 della nostra Costituzione sulla competenza dell’autorità giudiziaria in ordine a qualunque limitazione della libertà personale. Ogni possibile abuso o vessazione che in essi si verifica resta perciò fuori dalla visibilità e dal controllo giurisdizionale.
    14.
    Tutte queste norme – come per esempio quelle che si preoccupano di impedire i ricongiungimenti familiari, o che accrescono gli anni richiesti per ottenere la carta di soggiorno, o che aggravano le complicazioni burocratiche per il rinnovo del permesso, o che disciplinano le espulsioni senza prevedere il contraddittorio e quindi senza riguardo per le ragioni dell’immigrato – non sono solo espressione di sadismo legislativo. Esse esprimono l’immagine dell’immigrato come «cosa», non-persona, il cui solo valore è quello di mano d’opera a basso costo per lavori troppo faticosi o pericolosi o umilianti: una risorsa, dunque, per l’economia nazionale, un ottimo affare per gli imprenditori, un risparmio nei costi della formazione della forza lavoro — tutto, fuorché un essere umano, titolare di diritti al pari dei cittadini.
    15.
    Le campagne contro gli immigrati si intrecciano così con quelle sulla sicurezza, assecondandole ed essendone assecondate, insieme ai pregiudizi e a luoghi comuni che le une e le altre, facendo leva sulla paura, valgono a rafforzare. Ne risulta un immaginario razzista, che vede negli immigrati dei potenziali criminali, dei nuovi barbari e, insieme, una minaccia alla nostra cosiddetta identità culturale e nazionale. La costruzione di questo immaginario, peraltro, non corrisponde solo a un pregiudizio razzista. Serve anche a costruire identità nemiche; a mobilitare l’opinione pubblica, soprattutto quella dei soggetti più deboli, nei confronti di soggetti ancor più deboli; a cambiare il senso comune intorno alla devianza e al diritto penale, sollecitando l’allarme sociale non già contro i delitti dei potenti – le corruzioni, i peculati, le grandi bancarotte, le devastazioni dell’ambiente – bensì contro il piccolo spaccio di droga, gli scippi, i furti e in generale i delitti di strada commessi da immigrati irregolari, che non a caso riempiono le cronache televisive non meno delle carceri.
    16.
    Ebbene, dobbiamo essere consapevoli che le politiche e le leggi prodotte da questo razzismo istituzionale possono solo aggravare tutti i problemi che si illudono di risolvere. Mentre non saranno mai in grado di fermare l’immigrazione, avranno come unico effetto l’aumento esponenziale del numero dei clandestini e della loro emarginazione sociale, inevitabilmente criminogena: spingendo gli immigrati nell’illegalità, esse le consegnano al controllo delle mafie, accentuando disuguaglianze ed esclusioni e, con esse, l’odio e la rivolta del resto del mondo nei confronti dell’Occidente, con l’inevitabile seguito di violenze e terrorismo. È infatti evidente che la condizione di debolezza e di inferiorità degli immigrati, tanto più se clandestini, finisce inevitabilmente – come insegna l’esperienza di tutti i fenomeni migratori, primo tra tutti l’emigrazione italiana negli Stati Uniti nella prima metà del secolo scorso — per spingerli nell’illegalità, alla ricerca della solidarietà e della protezione di altri immigrati, soprattutto connazionali, e di consegnarli, magari, al controllo delle mafie. Sempre, infatti, le politiche di esclusione e repressione anziché di inclusione e integrazione equivalgono a potenti fattori criminogeni: giacché sempre, in società segnate come le nostre da disuguaglianze crescenti, quanti sono esclusi dalla società civile e legale sono esposti a essere inclusi e disposti a farsi includere nelle comunità incivili e criminali; da sempre le organizzazioni criminali e incivili sono a loro volta disposte a reclutare e a includere quanti sono esclusi e criminalizzati dalla società civile. Soprattutto, poi, trattare i migranti islamici come nemici equivale oggi a un regalo al terrorismo jihadista, che precisamente come «guerra santa» si autorappresenta e legittima i suoi assassini.
    17.
    Per comprendere in tutta la loro gravità gli effetti perversi di queste politiche di esclusione, primo tra tutti la corruzione del senso comune e la regressione razzista delle nostre identità nazionali, è utile andare indietro nel tempo, alla concezione originaria, agli inizi dell’età moderna, del fenomeno migratorio. Di solito l’idea delle frontiere chiuse viene ritenuta, nel senso comune, come l’espressione, ovvia e scontata, di un legittimo diritto dei paesi di immigrazione, una sorta di corollario della loro sovranità, concepita come qualcosa di analogo alla proprietà: «Questa è casa nostra», è l’idea corrente, «e non vogliamo, a tutela della nostra proprietà e della nostra identità, che vi entri nessun estraneo». Giova allora ricordare che questo senso comune xenofobo – che è il principale responsabile delle attuali politiche, dirette demagogicamente a interpretarlo, ad assecondarlo e, di fatto, ad alimentarlo – è in contraddizione vistosa non solo con tutti i conclamati principi della nostra tradizione liberale, dall’uguaglianza ai diritti umani e alla dignità della persona, ma anche con il più antico diritto naturale, oggi dimenticato e rimosso dalla nostra coscienza civile, ma proclamato alle origini della civiltà giuridica occidentale: lo ius migrandi, ossia il diritto, appunto di emigrare.
    18.
    È chiaro che questo diritto fu fin dall’inizio viziato dal suo carattere asimmetrico. Benché formalmente universale, era di fatto a uso esclusivo degli occidentali, non essendo certo esercitabile dalle popolazioni dei «nuovi» mondi, a danno delle quali, al contrario, servì a legittimare conquiste e colonizzazioni. Tuttavia lo ius migrandi – il diritto di emigrare dal proprio paese, e conseguentemente il correlativo diritto di immigrare in un paese diverso – è da allora rimasto un principio elementare del diritto internazionale consuetudinario, fino a essere consacrato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948: «Ogni individuo», stabilisce l’articolo 13, 2° comma della Dichiarazione, «ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese». E lo stesso principio è stato ripreso da quasi tutte le Costituzioni, inclusa quella italiana, che nell’art. 35, comma 4, stabilisce che: «La Repubblica riconosce la libertà di emigrazione».
    19.
    Quest’asimmetria, che di fatto faceva del diritto universale di emigrare un diritto dei soli occidentali a danno delle popolazioni dei nuovi mondi, si è oggi rovesciata. Dopo cinque secoli di colonizzazioni e rapine non sono più gli occidentali a emigrare nei paesi poveri del mondo, ma sono al contrario le masse di affamati di quei medesimi paesi che premono alle nostre frontiere. E con il rovesciamento dell’asimmetria si è prodotto anche un rovesciamento del diritto.
    20.
    Questa feroce durezza delle politiche italiane ed europee in tema di immigrazione sta producendo la perdita di identità dell’Europa: non più l’Europa dei diritti che fino a pochi anni fa costituiva un modello per i progressisti di tutto il mondo, ma un’Europa divisa, disuguale e depressa, debilitata politicamente e moralmente, avvertita come ostile da parti crescenti delle popolazioni, nuovamente in preda agli egoismi nazionali, ai populismi xenofobi, alle rivalità, alle recriminazioni, ai risentimenti, ai rancori, alle paure e alle diffidenze reciproche. L’Unione europea era nata per porre fine ai razzismi, alle discriminazioni e ai genocidi: non per dividere e per escludere, ma per unificare e includere sulla base dei comuni valori dell’uguaglianza, della solidarietà e dei diritti fondamentali di tutti. Oggi essa sta capovolgendo quel ruolo. Con le politiche inflessibili di austerità imposte ai suoi membri anche a costo della demolizione delle garanzie del lavoro e dei diritti sociali e con la cancellazione dell’ultimo e più rilevante tratto unificante dell’Unione rappresentato dalla libera circolazione delle persone nell’area Schengen, negata di fatto dai controlli blindati alle frontiere, l’Unione europea sta mettendo gli Stati membri gli uni contro gli altri e all’interno degli Stati i ricchi contro i poveri, i poveri contro i migranti, i penultimi contro gli ultimi. Sta moltiplicando, con le leggi contro l’immigrazione, le disuguaglianze di status, per nascita, tra cittadini optimo iure, semi-cittadini più o meno stabilmente regolarizzati e immigrati clandestini, ridotti allo status di persone illegali o non-persone. Sta, soprattutto, mettendo in atto una gigantesca omissione di soccorso e un nuovo genocidio, sia pure per omissione: quello dei migranti che fuggono dalle guerre, dal terrore e dalle loro città ridotte a cumuli di macerie, che in migliaia ogni anno affogano in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa e in centinaia di migliaia si affollano ai nostri confini contro barriere e fili spinati, lasciati al freddo e alla fame, dispersi e malmenati dalle nostre polizie.
    21.
    Ovviamente la prospettiva di un superamento delle frontiere e di un’effettiva universalizzazione dei diritti fondamentali può apparire oggi un’utopia. Ma nei tempi brevi ciò che si richiede è almeno la consapevolezza dell’illegittimità delle nostre pratiche di discriminazione e di espulsione sulla base dei nostri stessi principi e, insieme, della contraddizione nella quale si trova oggi, con i suoi principi, l’intera Europa, che dopo avere per secoli invaso il mondo con le sue conquiste e le sue colonizzazioni, sfruttando, depredando e producendo miseria e genocidi, oggi si chiude come una fortezza assediata, negando agli extra-occidentali quello ius migrandi che all’origine della modernità aveva impugnato contro di loro. D’altro canto, se è vero che l’effettiva universalizzazione dei diritti umani ha oggi il sapore di un utopia giuridica, dobbiamo anche riconoscere che la storia della civiltà è anche una storia di utopie (bene o male) realizzate.
    22.
    La vera opposizione non è perciò tra realismo e utopismo ma tra realismo dei tempi brevi e realismo dei tempi lunghi. Intendo dire che l’ipotesi più irrealistica è oggi che la realtà possa rimanere indefinitamente così com’è: che potremo continuare indefinitamente a basare le nostre ricche democrazie e i nostri agiati e spensierati tenori di vita sulla fame e la miseria del resto del mondo e che la disuguaglianza possa continuare a crescere indefinitamente. Tutto questo non può, realisticamente, durare. Benché irrealistico nei tempi brevi, il progetto di un costituzionalismo internazionale basato sull’uguaglianza di tutti gli esseri umani, già disegnato dalle tante carte sovranazionali dei diritti, rappresenta, nei tempi lunghi, la sola alternativa realistica al futuro di guerre, distruzioni ecologiche, fondamentalismi, razzismi, conflitti interetnici, attentati terroristici, crescita della fame e della miseria che proverrebbe dal suo fallimento.
    23.
    le migrazioni e il nomadismo crescente della popolazione mondiale — per migrazioni necessitate, ma anche per migrazioni non forzate – non potranno non ridisegnare gli spazi della politica e del diritto, disancorandoli dagli spazi nazionali ed espandendoli agli spazi transnazionali. E non potranno non porre all’ordine del giorno il problema politico della costituzionalizzazione della globalizzazione: che non può consistere nell’accettazione della globalizzazione soltanto dei mercati e dei capitali — in breve nell’odierna sostituzione alle sovranità degli Stati della sovranità anonima, impersonale e irresponsabile dei mercati finanziari — ma deve essere assunta nei tempi lunghi, e prefigurata fin da ora, come il terreno di una necessaria rifondazione della politica, del diritto e della democrazia sulla base dell’uguaglianza nei diritti di tutti gli esseri umani, a cominciare dal diritto di libera circolazione sul pianeta. Sotto questo aspetto possiamo ben dire che il popolo dei migranti è il soggetto costituente di un nuovo ordine mondiale e, al tempo stesso, dell’umanità come soggetto giuridico. Sarà il popolo meticcio dei migranti che forse produrrà un nuovo mutamento di paradigma della democrazia, basato sull’integrazione e sull’uguaglianza di tutti gli esseri umani: dalle democrazie nazionali alla democrazia sovranazionale e cosmopolitica. L’alternativa, dobbiamo saperlo, è un futuro di regressione globale, segnata dallo sviluppo della disuguaglianza – della povertà e della ricchezza – e, insieme, dalla crescita dei pericoli di catastrofi ecologiche, di guerre e di terrorismi.

  8. Entro la popolazione del nostro paese, e il fatto non riguarda solo noi, c’è un vero e proprio *popolo*, quello del populismo.  Un *popolo* fatto di gente superflua, e di tanti vecchi considerati mangiapane a tradimento, succhiasoldi dal sistema sanitario, responsabili di aver votato partiti che assicuravano il magico welfare di pensioni trasporti istruzione e media quasi gratuiti. Questo *popolo* di incolpati, di scrocconi, di sopravviventi al di sopra dei loro mezzi grazie alla generosità di uno stato di manica larga, ha ormai profondamente introiettato l’idea di dover vivere nelle pieghe, senza chiedere troppo, di non farsi notare, di tacere… tranne che nelle forme anonime e collettive degli schiamazzi popolari – meglio nei media e nei social che nelle vie e nelle piazze – delle frecciate velenose e corali, del basso continuo dello scherno cinico e indifferente.
    In realtà, vecchi e superflui, ormai hanno imparato a convivere con il potere dei grandi ricchi, quello dei grandi amministratori, con il loro servidorame prepotente e maligno. Da tanto hanno rassegnato le armi al capitalismo, si sono accomodati a sopravvivere, senza rompere le scatole, eppure… sono di troppo, lo sanno e resistono solo a non farsi eliminare.
    Il razzismo popolare (di questo *popolo*) è fatto di sfaccettature: paura che venga tolto il pochissimo che è stato lasciato, perché deve essere condiviso con bisognosi come e più di noi; sospetto per i bisogni di cui i bisognosi sono portatori, forse ostentati più che reali; sospetto anche di collusione tra i bisognosi e i signori dominanti, in un’opera di sostituzione, dato che gli impoveriti tuttavia non vogliono essere spodestati da quel poco che hanno e rimpiazzati con i bisognosi nuovi.
    Come? Dando forza ai tribuni della plebe che li rappresentano, e combattono i grandi che spadroneggiano, grazie ai grandi numeri di voti di cui sono titolari nei nostri sistemi democratici di elezioni universali. Non contano scelte ideologiche o progetti di estinzione del capitalismo, basta che frenino un po’ gli appetiti divoratori degli sfarzosi signori del mondo, basta magari anche che qualche dignitario di terzo o quarto livello venga impiccato, basta un po’ di cosmesi e qualche regolare distribuzione di sportule.

    L’articolo di Ferrajoli, è vero, dice chiaramente che il diritto di colonizzare e i diritti liberali nascono perversamente collegati. Ma crede anche che i valori di uguaglianza e libertà, iscritti in tutte le carte costituzionali europee, abbiano la capacità di sussistere per loro stessi.
    In realtà sono anche stati i lavoratori (quelli oggi precarizzati e minacciati di degrado) a sostenere per secoli l’espansione coloniale, insieme a quella dei diritti.
    Ferrajoli vede che al razzismo ormai emerso danno sostegno leggi e pratiche amministrative vessatorie che sanciscono una “discriminazione per ragioni di identità … i migranti come persone di per sé ontologicamente illegali, fuori legge”, ma non collega il razzismo con le regole economiche e politiche della UE, con il capitalismo finanziarizzato che crea impoverimenti e ineguaglianze.
    Il suo discorso vola tra le pagine e non vede quello che invece vedono i *popoli* del populismo: che l’importazione di migranti è un attacco ai residenti e una generalizzazione di conflitti. Come definire “calibratissimo” un articolo che si impegna per l’uguaglianza giuridica in nome dei valori ma non si occupa dei declassamenti e delle divisioni che questi *popoli* patiscono?

  9. “Il suo discorso vola tra le pagine e non vede quello che invece vedono i
    *popoli* del populismo: che l’importazione di migranti è un attacco ai
    residenti e una generalizzazione di conflitti. Come definire
    “calibratissimo” un articolo che si impegna per l’uguaglianza
    giuridica in nome dei valori ma non si occupa dei declassamenti e delle
    divisioni che questi *popoli* patiscono?” ( Fischer)

    Mi pare un’obiezione debole e inviterei a leggere più attentamente quanto scrive Ferrajoli. Non è che “non si occupa affatto dei declassamenti etc” ma pone una questione cruciale e generale, ad esempio qui:

    “Ovviamente la prospettiva di un superamento delle frontiere e di un’effettiva universalizzazione dei diritti fondamentali può apparire oggi un’utopia. Ma nei tempi brevi ciò che si richiede è almeno la consapevolezza dell’illegittimità delle nostre pratiche di discriminazione e di espulsione sulla base dei nostri stessi principi e, insieme, della contraddizione nella quale si trova oggi, con i suoi principi, l’intera Europa, che dopo avere per secoli invaso il mondo con le sue conquiste e le sue colonizzazioni, sfruttando, depredando e producendo miseria e genocidi, oggi si chiude come una fortezza assediata, negando agli extra-occidentali quello ius migrandi che all’origine della modernità aveva impugnato contro di loro. D’altro canto, se è vero che l’effettiva universalizzazione dei diritti umani ha oggi il sapore di un utopia giuridica, dobbiamo anche riconoscere che la storia della civiltà è anche una storia di utopie (bene o male) realizzate.
    22.
    La vera opposizione non è perciò tra realismo e utopismo ma tra realismo dei tempi brevi e realismo dei tempi lunghi. Intendo dire che l’ipotesi più irrealistica è oggi che la realtà possa rimanere indefinitamente così com’è: che potremo continuare indefinitamente a basare le nostre ricche democrazie e i nostri agiati e spensierati tenori di vita sulla fame e la miseria del resto del mondo e che la disuguaglianza possa continuare a crescere indefinitamente. Tutto questo non può, realisticamente, durare. Benché irrealistico nei tempi brevi, il progetto di un costituzionalismo internazionale basato sull’uguaglianza di tutti gli esseri umani, già disegnato dalle tante carte sovranazionali dei diritti, rappresenta, nei tempi lunghi, la sola alternativa realistica al futuro di guerre, distruzioni ecologiche, fondamentalismi, razzismi, conflitti interetnici, attentati terroristici, crescita della fame e della miseria che proverrebbe dal suo fallimento.

  10. …il bello (!) è che loro, i paesi ricchi, non solo hanno riconosciuto per sé stessi nei tempi passati lo ius migrandi per i propri poveri e in seguito quello di colonizzare paesi più poveri o meno difesi, ma se lo concedono ancora, sotto mentite spoglie di collaboratori umanitari di popoli e governi che mai hanno richiesto il loro aiuto, come gli italiani in Niger oggi, i francesi in Mali o i cinesi in molte aree della’Africa del sud Sahara…Da noi invece si cavilla all’arrivo dei migranti, si respinge oppure si adottano sistemi di integrazione organizzativi sbagliati ( volutamente sbagliati?) che fanno pesare il riassetto di una comunità sui penultimi in fatto di bisogni disattesi…il “popolo” del populismo di cui parla Cristiana

  11. Non intendevo obiettare al discorso di Ferrajoli, egli stesso riconosce la natura impura dei valori e dei diritti, portato anche di interessi ben poco egualitari e valoriali.
    Il suo discorso, fino a due tre decenni fa ideologia condivisa dalla più parte degli insegnanti in ogni ordine e grado, da parte sostanziosa della magistratura, da un’opinione pubblica avanzata e colta, oggi arranca come pensare comune, perché i portatori di quei pensieri sono diminuiti in valore assoluto, e in molti sono scoraggiati dopo la svolta politica degli ultimi decenni. Non per nulla Ferrajoli fa un passaggio rivolto ai sindacati, dal mondo del lavoro dovrebbe e potrebbe ripartire un pensare di lungo periodo.
    Chi legge Ferrajoli non sono più i formatori e sostenitori di una diffusa ideologia di massa, liberale e egualitaria, perché quel ceto medio del lavoro e delle professioni si è ridotto. Abbiamo invece il vasto affresco di Del Giudice “tremate il tempo è vicino”, dove i “politici” diventano “anziani predicatori della uguaglianza e della morale” invece che i politici-politicanti che in realtà sono.
    Di visioni a lungo e a breve ne abbiamo parecchie, ma di politici che agiscono con una visione? Ferrajoli scrive: “Questa feroce durezza delle politiche italiane ed europee in tema di immigrazione sta producendo la perdita di identità dell’Europa: non più l’Europa dei diritti che fino a pochi anni fa costituiva un modello per i progressisti di tutto il mondo, ma un’Europa divisa, disuguale e depressa, debilitata politicamente e moralmente, avvertita come ostile da parti crescenti delle popolazioni, nuovamente in preda agli egoismi nazionali, ai populismi xenofobi, alle rivalità, alle recriminazioni, ai risentimenti, ai rancori, alle paure e alle diffidenze reciproche […] sta mettendo gli Stati membri gli uni contro gli altri e all’interno degli Stati i ricchi contro i poveri, i poveri contro i migranti, i penultimi contro gli ultimi”.
    Ecco, per *questo* c’è bisogno di politica. (Che non è Bonino con piueuropa.)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *