Tutto ciò che denota benessere

 

di Alessandro Scuro

L’ambigua sinonimia stabilitasi tra tecnica e tecnologia è significativa dell’equivoci rapporti che l’uomo intrattiene oggi con entrambe. Il dominio onnipresente e totalizzante della tecnologia si fonda sulla convinzione che il miglioramento delle condizioni dell’umanità dipenda in maniera esclusiva dallo sviluppo incondizionato della tecnica, e che ogni altra forza, ogni altra facoltà e capacità umana sia pertanto subordinata a questo unico obiettivo. Laddove essa trionfa, le forze dell’immaginazione e altre facoltà che Mairena indicava come fondamentali dell’uomo (attenzione, concentrazione, contemplazione, speculazione…) perdono la loro influenza sui pensieri e sulle azioni degli uomini, e il loro intervento si rivela non solo irrilevante ai fini del progresso, ma addirittura controproducente o dannoso.
La tecnica si è rivelata senz’altro, con il tempo, la più peculiare delle capacità umane, ed ha permesso all’uomo di appagare con fatica sempre minore e maggior profitto le proprie necessità; strumento nelle mani dell’uomo, ausilio, estensione di un corpo limitato, essa si è confermata come l’abilità umana di adoperare e combinare elementi esterni per soddisfare le proprie esigenze. Ad oggi lo sviluppo della tecnica ha raggiunto livelli tali che i bisogni elementari dell’uomo hanno ormai ricevuto la massima soddisfazione, e bisogni ulteriori, indipendenti dalla natura umana, si sono ormai sovrapposti ad essi. Indispensabile all’uomo per nutrirsi, ripararsi e difendersi, garanzia di sopravvivenza e sussistenza, la tecnica è ormai in grado di offrire soluzioni articolate e sofisticate ad ogni necessità umana, ed è in questo senso ammissibile affermare che ad ogni avanzamento della tecnica corrisponde un miglioramento delle condizioni umane. Se si intende però per benessere una condizione di equilibrio del corpo e dello spirito, per confutare tale affermazione, prima di esprimerla superficialmente, per consuetudine, sono necessarie però alcune considerazioni preliminari. Intesa nel suo senso più vasto, liberata dall’isolamento e dalla supremazia che le si attribuiscono, la tecnica non è né l’ostacolo, né tanto meno un sostituto delle forze dell’immaginazione; essa né è invece il veicolo, uno strumento di scoperta e sperimentazione; il risultato, la realizzazione del sapere acquisito e al tempo stesso, il suo superamento, la sua espansione in direzioni imprevedibili e incalcolabili. Non è all’accumulazione della conoscenza che la tecnica si riferisce in origine, ma alla sua trasmissione; essa non corrisponde soltanto all’applicazione pratica di conoscenza acquisite, ma è invece parte attiva del processo della conoscenza. Rivelatrice di orizzonti inediti, generatrice di possibilità nuove, la tecnica include nell’ambito del possibile quel che si riteneva fino al momento impensabile. La tecnica che avanza in un’unica direzione, garantendo un’efficienza via via maggiore, presenta come esclusivo un aspetto parziale della sua natura, eretto a fine ultimo dell’evoluzione umana, ma ad una tecnica che garantisce all’uomo, sul piano materiale, un tenore di vita incomparabile con quello dei secoli precedenti, dovrebbero corrispondere capacità intellettuali raffinate, accresciute di poteri straordinari. È proprio qui che il discorso della tecnologia falla e manifesta le sue omissioni.
La tecnologia ha permesso all’uomo di compiere quel che prima gli era impossibile, o che gli costava sforzi immensamente maggiori e prosegue oggi imperterrita sull’identico cammino. Da ciò dopotutto deriva il suo successo incontrastato e non si può restare indifferenti di fronte ai cambiamenti che l’introduzione, lo sviluppo, la diffusione massiva e l’aggiornamento continuo delle cosiddette “nuove tecnologie” ha comportato in relazione alle facoltà mentali dell’uomo, prima fra tutte la memoria. Va notato, però, che il rapporto tra l’avanzamento della tecnologia e lo sviluppo delle facoltà dell’uomo si basa su una proporzione inversa, e che il risultato non gioca di certo a favore di queste ultime.
Abbagliato dai prodigi della tecnica e dal suo sviluppo vertiginoso, Paul Valéry fantasticava di una futura società per la distribuzione della realtà sensibile a domicilio. Nel breve testo intitolato La conquista dell’ubiquità (1928) veniva evocato un futuro molto prossimo in cui immagini, suoni e altre manifestazioni sensibili sarebbero state proiettate, con una celerità istantanea, in ogni casa, in risposta ad un semplice gesto, come già accadeva con l’energia. Non è un caso che Benjamin ne abbia scelto un brano come incipit del suo saggio più conosciuto (L’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica), poiché in quei pochi paragrafi sono riassunti gli stessi timori che Jochmann espresse un secolo prima di lui e che a tutt’oggi non hanno trovato soluzione. Nel tempo trascorso da allora la tecnologia ha esteso il proprio dominio ad ogni ambito della conoscenza ed ha mutato le proprie forme da architetture chiassose e ingombranti ad oggetto di uso quotidiano e diffuso, da dotazione indispensabile di ogni focolare moderno a protesi individuale indispensabile. La tecnica non è più mero strumento nelle mani dell’uomo, ma il suo sostituto.
La tecnologia misura la capacità tecnica in termini di efficienza, e raggiunge il suo massimo grado nel momento in cui, per il suo uso, non viene richiesta nessuna conoscenza né abilità. Da un lato l’uomo necessita di conoscenze sempre minori per usufruire della tecnologia, il cui uso si fa via via più intuitivo, mentre una praticità di utilizzo e una multifunzionalità crescente lo esentano da prestazioni fisiche particolari; ma più l’utilizzo si fa agevole, tanto più il funzionamento si fa invisibile, indecifrabile e irriproducibile manualmente. Va pertanto di pari passo con il declino dalle sue capacità pratiche, dalle sue abilità, la regressione delle facoltà intellettuali dell’uomo e delle forze dell’immaginazione, rese superflue dalla tecnologia.
Benjamin inizia il saggio su Jochmann evidenziando l’importanza di considerare l’opera umana, oltre che in seno alla contemporaneità in cui fu prodotta, in relazione alle conoscenze anteriori che essa elabora e trasmette, e che rappresentano un tutt’uno con le conoscenze ulteriori che essa sa suscitare. La memoria non è il fotogramma sbiadito di un’epoca che fu, che non può più essere e che mai più sarà, ma la testimonianza viva, il ricordo attivo di un passato colmo di presentimenti. Le parole di Jochmann risuonano oggi amplificate rispetto all’epoca in cui vennero espresse e assillante si fa l’eco del suo dubbio: che cosa  accadrà quando l’uomo avrà consegnato ad elementi esterni ogni conoscenza e come potrà accedere ad essa quando avrà delegato alla tecnologia ogni sua facoltà ogni sua capacità? Non gli saranno allora di nessun conforto le comodità della vita moderna allora, quando non sarà più padrone né delle sue azioni né dei suoi pensieri. Viene da chiedersi se saremmo ancora in grado di vivere, o di sopravvivere semplicemente, senza la tecnologia, o se le nostre capacità si rivelino già insufficienti per poterne fare a meno ed è per questo motivo che appaiono sempre meno incomprensibili e irragionevoli le parole di Daniil Charms «Tutto ciò che denota benessere mi ha sempre ispirato diffidenza».

3 pensieri su “Tutto ciò che denota benessere

  1. …mi vengono in mente tanti giovani, ma non solo, che “smanettano” dalla mattina alla sera: quante nostre abilità umane, fisiche e spirituali, si atrofizzano nel frattempo? L’uso, ma soprattutto l’uso sfrenato della tecnologia ( che oggi sembra irreversibile) ci trasforma in handicappati, niente a che vedere con i “diversamente abili” per natura, fosse anche i seguito ad incidenti, i quali, secondo me, filtrano da se stessi altre modalità di rapportarsi al reale, assai interessanti, se non fosse per la società delle mode. Mi domando anche a chi può giovare la sostanziale ignoranza e uniformità a cui andiamo incontro e penso che sia sempre il potere di pochi sui moltissimi…Allora il benessere a volte non è come svendere la primogenitura per un piatto di lenticchie? Ringrazio Alessandro Scuro

  2. Per quanto possa sembrare strano, non si trova, nei dizionari e nelle enciclopedie, una definizione dei termini «naturale» e «artificiale» capace di dirci qual è la differenza e il confine fra le due condizioni o nature. Si trovano molte accezioni di questi termini usati come aggettivi, ma non definizioni dell’uso sostantivato. Bisogna pertanto cercare la risposta nei labirinti della elaborazione filosofica. E se naturale è ciò che è relativo alla natura, bisogna prima di tutto chiedersi che cosa è natura e che cosa è artificio. La domanda è difficile e la risposta incerta. Se partiamo da una definizione primitiva, del tipo: è naturale ciò che esclude ogni intervento della tecnica; ne deriva che è artificiale ciò che esclude ogni intervento della natura. Se poi proseguiamo dicendo che la tecnica è un insieme di conoscenze, risorse e mezzi che condizionano il comportamento, differenziandolo dal comportamento che, per natura, avremmo se non possedessimo quelle conoscenze, quelle risorse e quei mezzi, siamo costretti a constatare: 1) anche gli animali, in quelli in cui è più evoluta la struttura biologica e sociale, possiedono nozioni e, quindi, condizionamenti tecnologici (nozioni e comportamenti appresi per trasmissione culturale e non appartenenti al patrimonio genetico e all’istinto); 2) natura e artificio si mescolano sempre, in modo spesso inestricabile, e il prodotto dell’artificio diventa, col tempo, un abito indossato come se fosse naturale; 3) l’uomo, ormai da milioni di anni e non solo da poche decine di migliaia, ha innestato su una base naturale, assai simile a quella degli altri primati, una catena di comportamenti e condizionamenti tecnologici che, prima e gradualmente, lo hanno allontanato dalla natura (e il processo continua), poi lo hanno portato a «umanizzare» l’ambiente in cui vive, che vuol dire a trasformarlo artificialmente, a farne un ambiente ricco di tecnologia, un ambiente in cui il risultato del sapere tecnologico prevale sulla naturalità e sui comportamenti spontanei.
    Di conseguenza la lamentela di Annamaria Locatelli: quante «nostre abilità umane, fisiche e spirituali, si atrofizzano nel frattempo»? è vera, ma non riguarda solo i giovani (e i vecchi) che smanettano tutto il giorno, ma anche gli ominidi che scheggiavano la selce e cacciavano gli animali con armi primitive. Anche loro, già a quell’altezza temporale, avevano perduto tante abilità naturali che prima possedevano, basta confrontare i loro comportamenti e le loro capacità con quelli dei cugini primati rimasti interamente all’interno della natura. Ma se hanno perso abilità (se l’uomo continua a perdere abilità), altre abilità nuove via via acquista e il processo di controllo e di dominio della natura, della propria e di quella dell’ambiente, continua.
    In questo quadro si colloca il discorso sul potere della tecnologia. Enorme e continuamente in crescita.
    Per lunghissimo tempo è stato un potere che ha potenziato le facoltà naturali dell’uomo, rendendolo più abile nella caccia, più forte e distruttivo nella guerra, più produttivo nell’agricoltura ecc. Poi la tecnologia si è impossessata dell’economia ed ha sopraffatto l’uomo, diventando, da strumento, a elemento guida (o quasi). In seguito si è impossessata della politica e ora quasi ogni problema che una volta si poneva in termini religiosi, o etici, o filosofici, o naturali (per l’appunto), si pone in termini tecnologici, cioè è diventato un problema da affrontare e risolvere con la tecnologia e non in altro modo.
    Pertanto, chi controlla la tecnologia controlla la vita degli individui e delle società, molto più del capitalista che controlla la ricchezza economica o del politico che controlla il potere legislativo e amministrativo. Ma, come ormai quasi cento anni di filosofia critica della società tecnologica ci dicono (si veda anche l’elaborazione di Emanuele Severino in proposito), la tecnologia ha una sua logica interna che non si lascia dominare nemmeno dai tecnologi e da chi li paga. Ciò che tecnologicamente è possibile, prima o poi si farà, è la convinzione di fondo. Nessun altro potere al di fuori del potere intrinseco alla logica tecnologica potrà fermarne il cammino, nel bene e nel male. Potrà creare diversivi, ritardi, deviazioni, ma non fermarlo.
    E lo verifichiamo ogni giorni. Ogni giorno di più gli spazi delle nostre scelte (libertà, volontà, eticità) si riducono perché «è così» e non altrimenti. Dire che la tecnologia è solo uno strumento che si può usare, ma anche non usare, è un sofisma, perché la scelta non è mai fra un sì o un no, ma fra un sì a un tipo di tecnologia e un sì a un altro tipo. La scelta è all’interno dei condizionamenti tecnologici, non all’esterno. Salvo che non si decida di tornare ai tempi precedenti l’età della pietra, ai tempi della naturalità nel suo pieno vigore.
    Come dice un verso del «Maometto secondo» di Rossini, la pace e l’amore è una dolce servitù (detto dalle donne dell’harem di Maometto II), ed anche il dominio della tecnologia per i più è diventata una dolce servitù. La tecnologia, come scrive Alessandro Scuro, «ha permesso all’uomo di appagare con fatica sempre minore e maggior profitto le proprie necessità», e ne siamo diventati dipendenti, schiavi. Ma quel che è peggio non è la dipendenza dalla tecnologia, se la tecnologia fosse davvero neutra e non interferisse con la libertà degli individua, ma è la dipendenza dalle forme di organizzazione sociale che la tecnologia di fatto impone o almeno condiziona molto da vicino. La globalizzazione, ad esempio, è un fatto positivo se vuol dire più relazioni umane, culturali ed economiche fra gli abitanti dell’intero pianeta, ma diventa un fatto negativo se vuol dire omologazione, distruzione delle differenze culturali, dipendenza da un unico o da pochi poteri centralizzati, repressione di tutti i comportamenti individuali non omologati, non “corretti”. Magari una repressione “dolce”, senza violenza palese, ma non meno forte e pesante e distruttiva.
    La tecnologia s’impadronisce degli individui e li trasforma in esseri artificiali, incapaci di vivere la loro naturalità senza le mille appendici tecnologiche. E oltre agli individui, impone le proprie applicazioni a ogni forma di relazione e di organizzazione sociale. Così l’intera società diventa un essere tecnologico, incapace di sopravvivere senza l’apporto degli specialisti che sanno usare le tecnologie sofisticate. E i tecnici diventano più importanti dei capitalisti (imprenditori e/o speculatori) e dei politici, diventano la vera classe dirigente dell’umanità. A essi imprenditori e politici si rivolgeranno sempre più spesso e da essi dipenderanno.
    Come reagire, senza rifiutare ciò che di buono la tecnologia offre, ma immaginando un futuro non di dolce servitù ma di autentica libertà?
    Questa è una sfida che – incrociando questo articolo e i commenti relativi all’articolo precedente di Piero Del Giudice – la politica della “sinistra” (ma io preferisco dire la politica di chi ama la libertà e la giustizia) deve affrontare, e che invece non affronta, perché ritardata in vecchi schemi di opposizione rivendicazionista ferma all’uso di categorie ottocentesche o, per la “sinistra di governo”, perché contenta di partecipare al potere interno alla dolce servitù.
    Le critiche di Ennio Abate al mio commento a Piero Del Giudice sembrano trascurare del tutto ciò che io ho detto per soffermarsi sull’interpretazione fuorviante di aspetti marginali. Non è ora possibile rispondere in dettaglio e con ampiezza, per cui mi limito a un solo esempio.
    Del Giudice usa il concetto (o categoria, o nozione) di plus-lavoro. Ma non si capisce se lo usa in senso economico, con un preteso valore anche quantitativo, in relazione al correlato concetto di plusvalore, o se lo usa solo in senso indicativo ed etico. Nel primo caso il concetto è sbagliato, come hanno dimostrato oltre un secolo di studi di economia. Non esiste una relazione quantitativa e proporzionale fra lavoro e valore (e profitto). Un capitalista può far lavorare cento operai per 60 ore alla settimana alla paga di 5 euro al giorno e trarne minor profitto di un altro che ne fa lavorare dieci a 30 ore alla settimana alla paga di 50 euro al giorno. Ciò perché sono altri gli elementi che determinano il valore (il prezzo di vendita) del prodotto / merce e quindi del profitto. E l’innovazione tecnologica è un elemento determinante della differenza.
    In senso descrittivo ed etico, invece, si può certamente affermare che 60 ore alla settimana sono troppe, che c’è del plus-lavoro distruttivo della dignità umana.
    Il concetto marxiano di plus-lavoro, quando non si limita a porre solo un’istanza morale, non ci aiuta né a capire né a risolvere i problemi. Occorre ripensare la politica in modo del tutto diverso e porre i problemi della libertà, delle scelte libere e volontarie e delle scelte etiche (secondo il principio di non aggressione) al centro dei progetto presente e futuro. Se non è così, allora davvero, a parte piccoli dettagli di arredamento e di stile personale, non c’è e non ci sarà differenza fra le cosiddette sinistre e le cosiddette destre.

  3. “E i tecnici diventano più importanti dei capitalisti (imprenditori e/o speculatori) e dei politici, diventano la vera classe dirigente dell’umanità» (Aguzzi)

    Questa affermazione è di chiaro impianto heideggeriano (non a caso Aguzzi fa riferimento a Severino) ed è la prova che egli si muove entro una cornice di pensiero che si è disfatto della lezione di Marx. Questo rende particolarmente difficile e faticoso il confronto tra noi che qui commentiamo.
    In più Aguzzi accenna a questioni davvero complesse e non facili da padroneggiare, sulle quali è difficile sbrigarsi con un breve commento. Comunque dico la mia.
    Non credo che « la tecnologia si [sia] impossessata dell’economia ed [abbia] sopraffatto l’uomo, diventando, da strumento, a elemento guida (o quasi). In seguito si è impossessata della politica».
    Credo, invece, che chi «controlla la tecnologia» ( e la vita) fa pienamente parte del dominio *capitalista*, il quale non viene esercitato affatto soltanto mediante il controllo della «ricchezza economica» o soltanto del « potere legislativo e amministrativo», ma anche di quello *militare* e conoscitivo ( intelligence, ecc).
    È illusorio (per me) pensare che la tecnologia abbia « una sua logica interna che non si lascia dominare nemmeno dai tecnologi e da chi li paga». Qui verrebbe utile approfondire un concetto di Marx fondamentale: «“Il capitale non è cosa, ma rapporto sociale”».
    Aguzzi sembra dimenticarlo e intendere la Tecnica appunto come “cosa”, lasciandosi sfuggire che essa fa parte appunto del dominio capitalistico e rivela che i rapporti sociali in cui si sviluppa in modi stupefacenti ( e con effetti distruttivi!) sono *capitalistici*.
    Se, come egli scrive, «un capitalista può far lavorare cento operai per 60 ore alla settimana alla paga di 5 euro al giorno e trarne minor profitto di un altro che ne fa lavorare dieci a 30 ore alla settimana alla paga di 50 euro al giorno», la differenza non viene spiegata semplicemente dall’«innovazione tecnologica» ma piuttosto e in modo ben più fondamentale dal fatto che tale innovazione avviene proprio in *rapporti sociali capitalistici* e ne porta il marchio.

    P.s.
    Questo assolutizzare la Tecnica per mettere fuori dal discorso i *rapporti sociali capitalistici* fa oggi il paio con un’altra assolutizzazione cui si dà il nome di Finanza ( o finanziarizzazione). Va dato merito a G. La Grassa, al di là delle conclusioni teoriche e politiche che poi ne trae, di aver sempre tenuto presente questo punto dell’analisi di Marx.

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