1.8 da “Parole beate”

di Antonio Sagredo

Pubblico in ritardo questa poesia  che Antonio Sagredo ha inviato in dono “ai Poeti e Poetesse per l’anno 2018” perché ho voluto prima sondare l’ “oscurità” dei suoi versi con un mio tentativo d’interpretazione e  ponendogli  domande che forse anche i lettori di Poliscritture gli porrebbero. Ne è uscito uno scambio tra  me e lui che mi pare abbia una certa originalità e mostra il fecondo  braccio di ferro tra un lettore non passivo o solo compiacente e un poeta, che pur va per la sua strada.  Nell’Appendice ho indicato in rosso  i miei appunti e in nero quelli di Sagredo.[E. A.] 

 

a carlos gavito, il tanguero che balla il silenzio e la morte

 

E una sera di vigilie
Quando cessarono tutti i tramonti e le attese
E le aurore perdute nella notte conobbero la luce e l’onde
Nell’oscurità come sentieri inespugnabili alle spume
Io non seppi più se nate e dove le sorgenti
E mi trovai in un millennio come in un cortile al centro
Di un ponte gli spazi e i tempi: inesistenti, e amortali.

E nell’istante della creazione fra parola e parola
O ponti, una volta arcobaleni!
Ballano il silenzio e la morte un passo dopo l’altro,
Come in un tango che intreccia e tacchetta una condanna lenta
A due corpi appassionati: virtuosi sguardi e vuoti scellerati!
E nella destinazione ognuno s’affossa nell’essere
Ch’era stato e che mai era stato un essere altro!
E s’annulla il moto di una visione in ogni dove
Di uno spettro che non ha nostalgia dell’umano.
Labbra e palpebre sono un misero traguardo
Che già ai viventi abbandonammo quando la soglia
Era in tutte le rovine e le perdite una gioia preesistente
E ogni cosa e ricordo noi lasciammo insofferenti
All’inquietudine dell’oblio.

Orfani di tutte le maschere e le danze,
Noi che avviluppati nei mantelli abbiamo scordato i nostri volti
Umani questo abbiamo voluto, per questo abbiamo
Vinto la rovina! Questo smarrirsi è la vita, ma non su
Questa Terra!

Avanzavo, e con le dita tagliuzzavo le maschere e i volti che mi somigliavano.
E ad ogni passo un volto, e una maschera a ogni altro passo!
Non volevo essere io in tutti i passi, in quest’io che mi inquieta dalla Nascita,
E che ancor prima m’hanno stampato un calco
E marchiato come un agnello in fiamme
Quasi fossi celebrato da millenni il mio avvento!
Come in un mattatoio questa nascita che non ha radici!
Questo ha dissipato la mia materia e il sangue
E la ragione!

Così su Saturno o altrove possiamo rinascere davvero nuovi
Come se a numeri infiniti un numero altro
Non infinito o la sua negazione
Sarebbe leggerezza
E poi essere lieve come uno dei qualsiasi numeri nei cristalli dei fiocchi
Di neve e sciogliersi,
forse così la partenza, gli arrivederci e gli addii
Lievezza, ovunque.

Non ci sono più ai crocicchi barocche lacrime,
Non c’è più Oriente.
Nessuno agiterà le banderuole ad ogni pietra miliare,
Nessuno i metallici galletti sui merletti consunti delle torri sveve.

Che armonia possedere in sé un altro canto!
Spazio che divorando altro spazio s’infiamma
Amore che sfiorendo s’innamora di nuovo Amore.
Celebrare la leggenda è dar vita alla Vita,
Non è nemmeno una nostalgia
Se né un bambino o un vegliardo la ricorderanno.

 

Appendice

Caro Ennio,

questo ottavo componimento fa parte di una raccolta titolata PAROLE BEATE del febbraio 2016; di certo è l’ultima raccolta; avrei realizzato poi altri cinque o sei componimenti; e poi basta! Decisi d’un tratto che non avrei più composto nulla, e ordinai alla Poesia di andarsi a trovare un altro poeta molto più giovane di me. Bisogna saper finire e trovare il momento propizio per farlo. Il rischio era quello di ripetersi ostinatamente, di diventare banale; seguii l’esempio del poeta boemo Otokar Brezina tra i pochissimi grandi europei tra ‘800 e ‘900 (oggetto della mia tesi) che dopo più o meno 10 anni decise di finire e non correre quel rischio. Non ci vuole coraggio: giunge il momento (e non certo per esaurimento… che potrei iniziare di nuovo a comporre, se me lo impongo; ma perché? – tutto è stato dato, o quasi).

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Dunque mi poni in grande imbarazzo (non verso di Te), ma verso me stesso, perché mi è difficile ritrovare le fonti, e non solo; quel che volevo dettare in quel momento coi diversi significati/significanti e altri accidenti di sensi e non sensi mi è davvero difficile. Già in passato Ti ho scritto questo; ma ci proverò anche stavolta, nonostante le decine di interrogativi che mi poni (e per me è troppo razionale per rispondere a siffatti quesiti). Come un rivedersi allo specchio con un volto non mio o addirittura deformato; e la lucidità va a farsi fottere!

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Strofe 1

«balla il silenzio e la morte»… scuota, agita ? rende movimento

Il componimento è dedicato al tanguero Carlos Davito (vedi il video in internet dove balla con Marcela Duran: sublimi entrambi! ) – appunto ballano insieme il silenzio e la morte, cioè se la morte e il silenzio dovessero ballare danzerebbero soltanto il tango; e altri assolutamente no!)

Ho talvolta cercato di imitare il ritmo del tango anche in altri componimenti.

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«una sera di vigilie» al plurale? Non solo la vigilia classica per noi, di Natale?

Quando si dice vigilia per pigrizia e accidia si pensa soltanto a quella di Natale: è un grave errore; qui assolutamente non è Natale! – è una sera di vigilia qualunque di qualsiasi giorno dell’anno, quindi vigilia di ogni sera di ogni giorno: sera di vigilie: una sera qualsiasi raccoglie tutte le vigilie di un anno! (più o meno come in Joyce in solo giorno tutto l’anno – questo autore tante volte dice di vigilie!)

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Ma se vigilia è attesa, perché l’associ a un «quando» indefinito, in cui «cessarono tutti i tramonti e le attese»… e «tramonti» perché?

La vigilia di per sé non chiarimento e luce allo stesso tempo, è il contrario: nebulosità; si è in attesa perché qualcosa non è chiaro, non è definito; e non si distinguono più i tramonti e le stesse attese non sono più tali, perché fanno parte di una vigilia che tutto offusca, anche lo stesso sentimento dell’attendere. Tutte le fasi del giorno e della notte sono indefinite: la distinzione non è più possibile. La stessa aurora si è smarrita e non sa a quale fase temporale appartiene tanto che le è dato di sapere solo della luce indefinita (ma quale? della notte o del giorno?)

Qui il ritmo del tango è approntato e il poeta è guidato dai passi e dal tacchettio: non ha altri riferimenti.

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« Nell’oscurità come sentieri inespugnabili alle spume»  è o no la prosecuzione  del sintagma precedente?  Se si, andrebbe inteso: E le aurore perdute nella notte conobbero la luce e l’onde/ Nell’oscurità cioè…l’oscurità è luogo di conoscenza?

E « come sentieri inespugnabili alle spume»? cosa potrebbero essere questi sentieri? E quel «come» quale relazione o paragone stabilisce?

e l’onde (qui è il rumore dei marosi: il suono, la nota che si ripete).

Le spume dei marosi cercano di superare o penetrare quei sentieri che l’oscurità as/segna e de/forma e sono talmente impercorribili che non è possibile comprenderli e quindi per espugnarle… il poeta è già preso dalle frenesie scaturite dal silenzio(uomo)e dalla  morte (la donna) che sono ballati : questa danza conduce non è condotta… il poeta non sa più le nascite e le sorgenti… non sa più il cominciamento perché non sa più quando finirà (“io non seppi più…”)

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 Dopo questo “preludio” cosmico (?) compare l’«io»… sembra non sapere « se nate e dove le sorgenti » (della vita?). che dice  di essersi ritrovato «in un millennio» ( un tempo lunghissimo e indefinito…).. e questo  stranissimo  cortile collocato «al centro/ Di un ponte»? E gli spazi e i tempi: inesistenti, e amortali.?

 La prima strofe assembla tramonti, notte e aurore e onde in spazi e tempi «inesistenti» e introduce un  io

“E mi trovai in un millennio come in un cortile..” allude a un verso di Pasternàk:
Nella sciarpa, proteggendomi col palmo,
attraverso lo sportello griderò ai bambini:
“miei cari, qual millennio,
è adesso nel nostro cortile?”
 
Così la Cvetaeva (riportata da Ripellino) ha messo in risalto questa sua sonnambulità e dice:

Non si ricorda di se stesso e d’improvviso a volte si sveglia, e allora sporgendo la testa fuori dallo sportellino, cioè sporgendola nella vita, ma, che meraviglia, non è un professore di Marburgo, strampalato, non è un cantore di cupole, ma è uno che ha la voce addormentata e dall’alto sporgendosi dall’abbaino nel cortile dice: Miei cari, qual millennio è adesso nel nostro cortile?”.

È la sonnambulità forse la chiave: i due tangueri sono dei sonnambuli che ballano e ballano, e non sanno la fine, non sanno nemmeno come e dove hanno iniziato a danzare.

Come noterai, Ennio, mi sposto per associazioni continue e disparate – in tempo e spazio –, per questo la conoscenza è fondamentale al poeta; se non avessi saputo questi versi del poeta, come avrei potuto continuare e trovare stimolo?

Di un ponte… gli spazi e i tempi:  inesistenti, e amortali.

Ponte?  – Dovresti leggerTi – se non conosci -anche il poema “Il Ponte” dell’americano Hart Crane.

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 Strofe 2 

Si comincia a  capire che si parla  di un io creatore? Di un poeta alle prese con il suo atto creativo?

Di un poeta alle prese con il suo atto creativo? Che getta  ponti… ma una volta erano arcobaleni .. «fra parola e parola»

E chi sono questi che Ballano il silenzio e la morte un passo dopo l’altro? i ponti? Gli arcobaleni? O esseri non nominati? Qui la scena è presa da costoro (?)… è facile associare immagini di ballerini di tango e pensare  che quel tango  intreccia (nel senso di  tesse?)  e tacchetta (come a ribadire  coi tacchi) una condanna per chi? «due corpi appassionati»? gli stessi dei ballerini? Che sono forse «il silenzio e la morte». Quindi: il silenzio e la morte ballano «nell’istante della creazione fra parola e parola»? e  a chi va riferito quell’«ognuno»? al silenzio e alla morte? Si potrebbe intendere che il silenzio e la morte incombono sui due corpi dei ballerini di tango? Si parla di «destinazione». Destinati a cosa? Al silenzio e alla morte? E di fronte a tale destinazione (o destino?) questo  affossarsi (mettersi nella fossa? o rifugiarsi nella fossa?) sembra suggerire un ritrarsi  nel passato? Nel proprio vissuto passato? Che  è solo quello, unico (e che mai era stato un essere altro!)
« E s’annulla il moto di una visione in ogni dove / Di uno spettro che non ha nostalgia dell’umano»… A questo punto  si annullerebbe il moto ( il ballo?  Il moto dei ballerini?)… ma si tratta del «moto di una visione»? E tale visione sarebbe «in ogni dove», cioè esplorerebbe ogni luogo esistente o disponibile? O si deve intendere che il moto e la visione vanno attribuiti ad «uno spettro che non ha nostalgia dell’umano» e cioè s’è distaccato dall’umano?

I versi successivi fanno pensare a questo distacco dal vivente e dai viventi…che- qui si passa al plurale.. noi (?) «abbandonammo», quando? Quando la soglia ( quale? Di cosa?) «era tutta in rovine»

 Nessun creatore.

«destinazione».  Qui intendo ‘destinazione’ soltanto nel senso  del Libro dei Morti egiziano

« E s’annulla il moto di una visione in ogni dove / Di uno spettro che non ha nostalgia dell’umano»… a questo punto  si annullerebbe il moto ( il ballo?  Il moto dei ballerini?)… ma si tratta del «moto di una visione»? e tale visione sarebbe «in ogni dove», cioè esplorerebbe ogni luogo esistente o disponibile? O si deve intendere che il moto e la visione vanno attribuiti ad «uno spettro che non ha nostalgia dell’umano» e cioè s’è distaccato dall’umano?

Di questo ho già detto quando scrivevo dei “vuoti scellerati” legati ai passi del ballo, ecc.

Spettri che danzano, ectoplasmi, ecc.

Per questi “Labbra e palpebre sono un misero traguardo

‘Soglia’ è termine che uso molto spesso nei versi poiché per me sono l’inizio o/e la fine di un qualcosa che non so, indefinibile

Ma anche la soglia non ci preserva dalla salvezza, come dalla rovina, e dietro di esse forse gioie preesistenti, per cui siccome fummo insofferenti all’abbandono d’ogni cosa e ricordo anche l’oblio per questo si inquietò.

plurale… è tempo di coinvolgere altri, lo stesso ballo è “fatto” in due, poi altri ballano, poi altri circoli, avviluppamenti, ecc.  – mi ricorda il poeta russo A. Blok in un suo dramma lirico Balagančik (il Baraccone) – anche in questo lavoro appariva la Morte, il suo velo (la soglia!), il suo disvelamento, ecc.

Come noterai gli agganci più che culturali sono cultuali e poetici.

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Strofe 3

Si parla di un noi senza (orfani) più maschere e danze (gioie carnevalesche?) avvolti (avviluppati) in mantelli (ma anche intricati da, confusi da…) e senza più volti (identità?)… ma quale la rovina che hanno vinto? Si sono smarriti ( e la vita in ciò consisterebbe..) ma non su questa Terra ( da collegare alla sua polemica con il terrestre :  «penso che sia giunto il momento di mirare la Terra da un altrove lontanissimo)»

Per il poeta Tommaso-Riccardo, un amico morto troppo giovane “le maschere si somigliano”: non conosciamo altre maschere. E di queste ignote ne siamo orfani…

Ma qui c’è lo stacco. Per il fatto che ancora saremo capaci di andare oltre (su Saturno p.e.) abbiamo vinto la nostra rovina sulla Terra, che ci voleva distruggere (l’umano intendo), per cui è preferibile smarrirsi altrove.

Se vogliamo vivere ancora è possibile oramai su altri mondi.

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Strofe 4

una sorta di processo liberatorio  o ribellistico.. un togliersi ( anzi un tagliuzzare ancora più distruttivo) maschere o volti che somiglino a un io che non vuole più essere io…perché gli è stato imposto.. riferimento a una figura  che ha a che fare col Cristo?

Sì, c’è il riferimento al Cristo, come ad ogni profeta del passato che oramai insensato per noi che volgiamo lo sguardo altrove; su altri pianeti o terre dell’universo non esistono divinità e profeti.

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Strofe 5

una volontà di rinascita (su Saturno)… diventare un numero (qualsiasi) ( o uno dei tanti cristalli contenuti in un fiocco di neve..)

Strofe 6

scomparsa di un mondo noto (lacrime, Oriente, banderuole , metallici galletti ( in funzione di banderuole!-

 stracci comunque.

……………………………………………………………………………………………………………..Strofe 7

immagini di metamorfosi e  rinascita…

si, ma non più sulla Terra!

 

 

 

 

 

 

12 pensieri su “1.8 da “Parole beate”

  1. Un momento centrale di “A carlos gavito, il tanguero che balla il silenzio e la morte”, componimento di A. Sagredo scritto nel febbraio del 2016 ed inserito nella raccolta delle “Poesie beate” come uno dei suoi ultimissimi impegni, si specifica come una poetica dello «stacco», come un’ode del passaggio, un canto per il ponte che separa («E nell’istante della creazione fra parola e parola / O ponti, una volta arcobaleni»). Stacco, volo, suono assolutamente eterosessuale («Che armonia possedere in sé un altro canto!»). Lo specifica il Poeta quest’Altro, ma è lampante: si tratta del mistero del nutrimento amoroso, cantico dei cantici («dar vita alla Vita»). Alleggerimento – viene chiarito ancora – solo saturnino («Così su Saturno o altrove possiamo rinascere davvero nuovi / Come se a numeri infiniti un numero altro / Non infinito o la sua negazione / Sarebbe leggerezza / E poi essere lieve come uno dei qualsiasi numeri nei cristalli dei fiocchi / Di neve e sciogliersi, / forse così la partenza, gli arrivederci e gli addii / Lievezza, ovunque»). Perdersi puro, in un semplicissimo andare a fondo dell’umano. Avvitarsi su di sé senza far leva su nessuna astrazione demiurgica («E nella destinazione ognuno s’affossa nell’essere / Ch’era stato e che mai era stato un essere altro!»). Nessuna esaltazione del gesto che non sia anche durata. Durata che però non cede. Durata che resiste nel suo stesso essere esposta alle voglie ascetiche dell’umano, alle intemperie dello spazio e del tempo, alla voglia di infinito e di incenerimento. Durata animale più che umana. Durata che ha le zampe impuntate come un bestia da soma, di contro alla fune dello sguardo che tira la sua prospettiva rinascimentale o la sua retorica barocca del ripiegamento. Invece «lievezza» ovunque senza più voglia di nascosto, amore senza turbamento («Amore che sfiorendo s’innamora di nuovo Amore»), assurdità allo stato puro di un asino che vola, che si slancia verso impensabili bassezze («Non ci sono più ai crocicchi barocche lacrime, / Non c’è più Oriente. / Nessuno agiterà le banderuole ad ogni pietra miliare, / Nessuno i metallici galletti sui merletti consunti delle torri sveve»). Un chiasmo tra il cosmismo russo e l’orfismo americano della prima parte del novecento sprigiona la forza politica scientifica visionaria di questa scrittura, perché la danza dell’umano si slancia allora verso «nessun creatore» che sia evidentemente – aggiungerò – privo di un corpo scritturale (‘destinazione’ – ‘volo’ – da intendersi «soltanto nel senso del Libro dei Morti egiziano» avverte il Poeta), un qualcosa semplicemente da vedere. No. Niente da vedere, niente da sapere («Come in un tango che intreccia e tacchetta una condanna lenta / A due corpi appassionati: virtuosi sguardi e vuoti scellerati!») Ignoranza d’oro però, ritorno afroditico di luce non voluta («E le aurore perdute nella notte conobbero la luce e l’onde / Nell’oscurità come sentieri inespugnabili alle spume»). Il silenzio («l’uomo») balla con la sua morte («la donna»), sicché questa rovina del silenzio che inizia alla danza ripulisce la scrittura da ogni traccia di desiderio pensato – per esempio – come inconscio primosurrealista (in un malcompreso freudismo). La nostalgia qui non è infatti dell’umano, e Saturno – ovvero il non su questa Terra – è segno di una disantroporfizzazione interna a questa scrittura. Oltre la negazione e il suo cattivo infinito (in questa luce nera non tutte le vacche sono nere). La si continui pure a chiamare nostalgia questo atrabiliare sentire dopo l’uomo, ma non è nemmeno nostalgia, come questo Saturno di cui parla il Poeta nemmeno è Saturno (che sarebbe pur sempre parametrato al pianeta Terra secondo quella generalissima figura retorica di spostamento semantico che è la negazione e le sue molteplici manifestazioni, sempre loquaci, troppo loquaci). «Se né un bambino o un vegliardo» – che certo semplicemente uomini non sono – potrebbero ricordare questa melanconia, quest’altro spazio, è solo allora che il silenzio può mettersi in ascolto della musica e muovere i suoi primi – ultimissimi – passi:

    «[…] E s’annulla il moto di una visione in ogni dove / Di uno spettro che non ha nostalgia dell’umano. / Labbra e palpebre sono un misero traguardo / Che già ai viventi abbandonammo quando la soglia / Era in tutte le rovine e le perdite una gioia preesistente / E ogni cosa e ricordo noi lasciammo insofferenti / All’inquietudine dell’oblio. / Orfani di tutte le maschere e le danze, / Noi che avviluppati nei mantelli abbiamo scordato i nostri volti / Umani questo abbiamo voluto, per questo abbiamo / Vinto la rovina! Questo smarrirsi è la vita, ma non su / Questa Terra!»

    Un momento del commento provocato da E. Abate ribadisce la centralità del passaggio di “A carlos gavito, il tanguero che balla il silenzio e la morte”:

    «[…] stracci comunque […] sì, ma non più sulla Terra!»

    In amore ci si ciba di stracci sulla Terra, da vivi, romanticamente. Ma su Saturno, e cioè in «Amore che sfiorendo s’innamora di nuovo Amore» ci si ciba di stracci non semplicemente da vivi, ma da-vivi-che-ricevono-«Vita». Con un invito alla danza si chiudeva anche “Chi piangerà il secolo trascorso e questa decade?”:

    «[…] / Odiate la vita, la vita… vita…vita…vita…vita… ita …ita… ta-ta-tà!»

    Il componimento, scritto a Vermicino fra il 3 e il 4 gennaio del 2011, inserito prima in “Poesie inattuali”, poi nella quarta parte della raccolta “Capricci”: “Poesie dell’anno inattuale – 2011”, infine nel programma del convegno romano del 21 giugno 2017 “Per una idea di Europa. Il concetto di “cittadinanza” alla prova dell’inter-cultura”, andava a costituire parte integrante del “Manifesto per una filosofia dell’inter-cultura”, un work in progress a cui avevamo dato il là, nel 2013, insieme a S. Valente, all’interno degli insegnamenti di Terra d’arte. E allora, inter-cultura come esperienza di soglia e di quest’aggiunta di Vita alla via. Esperienza di eccesso. Sì, perché gli agganci della scrittura di Sagredo più che culturali sono inestricabilmente cultuali e poetici. Egli deve così chiarire all’amico attorno a “A carlos gavito, il tanguero che balla il silenzio e la morte”: «‘Soglia’ è termine che uso molto spesso nei versi poiché per me sono l’inizio o/e la fine di un qualcosa che non so, indefinibile. Ma anche la soglia non ci preserva dalla salvezza, come dalla rovina, e dietro di esse forse gioie preesistenti, per cui siccome fummo insofferenti all’abbandono d’ogni cosa e ricordo anche l’oblio per questo si inquietò […] plurale… è tempo di coinvolgere altri, lo stesso ballo è “fatto” in due, poi altri ballano, poi altri circoli, avviluppamenti, ecc. […] mi ricorda il poeta russo A. Blok in un suo dramma lirico Balagančik (il Baraccone) – anche in questo lavoro appariva la Morte, il suo velo (la soglia!), il suo disvelamento, ecc. Come noterai gli agganci più che culturali sono cultuali e poetici».

    Leggiamo ora le prime due quartine di “Eredità”, una poesia più antica, scritta a Roma e a Vermicino tra il 6 e il 27 settembre del 1999, e riproposta nel 2015 in “Poliscritture.it”:

    «Mai conoscerò gli spazi che mi sono dati, / solo le latitudini del tuo cordoglio. / L’idioma e gli eventi che mi guidano ai misfatti / sveleranno il cerebro intarsiato dai tuoi occhi».

    «Non offrirò più istanze a un Dio estremo, / il ferrigno secolo è già morto sulla soglia. / È una fede che sopporto prima della mia rovina, / per te decreti il futuro e i rintocchi».

    Il 17 giugno, nello spazio dei commenti avevo inserito uno scritto che ho appena riletto, in occasione di quest’altro nuovo commento. Mi ero chiesto come intendere, nella scrittura di Sagredo, la natura del poeta. Chiamavo quello di Sagredo un discorso sulla decadenza, e vi ritornavano le figure della soglia e della rovina. Chiudo questa mia nota rinviando dunque a quello spazio (https://www.poliscritture.it/2015/05/02/il-poeta-e-la-sua-rovina/). Mi accorgo solo ora che Ennio Abbate mi aveva risposto e mi aveva posto alcune importanti questioni. Mi scuso con lui di non avergli riposto ancora. Lo farò quanto prima. Grazie

  2. ….dell’amico e poeta eccelso Antonio Sagredo non finirò mai di tessere le lodi fino all’incredibile.
    Positivo il commento del Bianchi e a tratti scavato fino a raggiungere il midollo dei versi sagrediani, e spero ne seguiranno altri, specie delle critiche e poetesse Locatelli e Fischer dalle quali mi attendo l’equilibrio e la misura critica adeguate che le distingue.
    Come loro sono una fortissima sostenitrice del Poeta. Spero che in specie i poeti lombardi (e poi tutti gli altri da/di ogni dove) siano onesti con Sagredo, e che sentano il dovere di celebrarlo, mettendo da parte le gelosie e le invidie e riconoscendogli quel primato che gli spetta da tantissimo tempo: cosa difficile il “riconoscere” tanto sono miserabili.
    L. T.

  3. La Tomei ha esagerato a scrivere “eccelso”; credo sia dovuto al grande affetto amicale;
    bisogna stare attenti ad usare gli aggettivi. Comunque resta Antonio Sagredo un poeta con cui i futuri poeti dovranno fare i conti, inclusi i critici letterari più agguerriti.

  4. Ha fatto bene Michele Bianchi a ricordare quel post del 2015 e i commenti che lo seguirono perché sono la dimostrazione di due cose: 1. che sono uno dei pochi che ha preso sul serio la poesia di Sagredo fin dai suoi inizi; 2. che, malgrado riserve e resistenze, i commentatori di Poliscritture hanno letto con rispetto e partecipazione i suoi testi, mai riducendosi ad assecondarne certe sue pose o semplicemente a sopportare le sue a volte viscerali e mai argomentate stroncature di tutta la poesia italiana contemporanea.
    Se ci si pone come lettori-critici, però, è bene precisare che tipo di lettori si è. Non mi pare utile limitarsi al plauso generico o alla parafrasi di accompagnamento dei testi di Sagredo.
    Vorrei, perciò, ancora far notare il fondo nicciano del lessico del commento di Bianchi (Perdersi puro, in un semplicissimo andare a fondo dell’umano; Durata animale più che umana) e sottolineare – per capirci non per testardaggine polemica – che egli va in direzione opposta al mio tentativo di mettere coi piedi per terra l’oscurità della poesia di Sagredo, d’interrogarla (ad es. cosa s’intende per « perdite una gioia preesistente»?), invece di intascarla sbalorditi o respingerla e basta.
    Avevo dichiarato questa mia posizione proprio nel post del 2005:
    «Di fronte agli enigmatici versi di Sagredo ho teso fin dall’inizio ad una affannosa ma caparbia interrogazione. Pur sapendo di muovermi da altra poetica e altra visione delle cose. Non ho certamente la pretesa di venire a capo o di spiegare questa poesia. Ma non sopporto gli atteggiamenti che si limitano o al servo encomio o al plauso stupefatto e accondiscendente o al rifiuto e alla svalutazione a priori di tale enigmaticità. Interrogarla invece senza tregua (certo, nei limiti di tempo che mi riconosco) mi pare indispensabile. Anche per mostrare dove essa rischia la retorica della oscurità (come altra poesia rischia quella della chiarezza, della comunicazione e della banalità)» (https://www.poliscritture.it/2015/05/02/il-poeta-e-la-sua-rovina/)
    L’ho riconfermato con il dialogo/confronto che ho tentato ora a distanza di tre anni. E attendo la risposta alle domande che allora feci per poter continuare la riflessione.

  5. – La prossima volta mi metterò il frak, il cilindro e la marsina! –
    così la Morte mi disse, come una scosciata accattona sui gradini infedeli
    d’una chiesa sconsacrata… aveva il pudore infantile come quello
    di una fossa appena scavata per una vergine in gramaglie.

    Va bene – le risposi – va bene, io amo il livido lusso premortale
    e non ho la libido del lavoro! Per questo il settentrione è osceno:
    pensa in calcoli, non in miracoli! La bettola è la chiavica
    del suo essere-non-essere, il resto è sterminio da consumare!

    Il custode della follia cerca un futuro – non ci sarà!
    La follia del custode cerca una risurrezione – non ci sarà!
    Cos’è questa corsa in avanti che ci riporta indietro,
    forse perché non la vita è mortale, ma la morte, si?

    La risposta a una domanda inaccessibile è una risposta.

    antonio sagredo

    da “Oriana” > Roma/Vermicino, 13/25/29 ottobre 2010

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    Se l’Ospizio del Silenzio celebra la disfatta della Solitudine,
    come una maschera può tradire la propria parrucca di ciniglia?
    È l’origine del trucco che deforma la gorgiera dello specchio
    quando ha tremule ciglia come le imposte dell’Obitorio.

    E quando il sangue recita il flusso e il battito è alla soglia del suo morire
    sull’umida panchina non hai una risposta inaccessibile alla mia rovina.
    L’infanzia che mi hai dato in contumacia è fedele alla menzogna,
    innocente è il boia: ha il cristallino opaco per miseri massacri.

    E sono libero da sogni epicurei e dal censimento di un futuro
    che il mio corpo nega ai nastri trionfali e a un carro funebre,
    ma sulla via consolare disdegna il mio passo affilato di stiletto
    e consuma il mio benestare per un ricatto alle mie stupite ossa!

    E non c’è un accordo tra il verme e la mia fuga clandestina
    se il commiato è un lascito alla mia licenza di cantare e ricantare…
    forse che a mezzanotte le campane esangui dal suono illuminate
    hanno mutato una pozza di miseria in macabro prodigio!

    antonio sagredo

    Vermicino, 18/23 novembre 2010

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    Fui invitato ad una fittizia esistenza dal Tribunale della Memoria.
    Centinaia di poeti mi strinsero gli occhi quasi fossero le Mani ossute
    di celebri pianisti che a un corteo funebre, in falsetto, polvere di note
    spargevano per creare una nuova armonia tra nastri funebri in lacrime.

    Se ne veniva giù a blocchi la mia coscienza come un desolato ghiacciaio
    che a strati albini e antichi a ogni complesso irrisolto un tonfo cantava
    l’azzurro orrore, e come una disfatta sollevava l’assurdo stendardo di una
    altezza inaccessibile… Psiche, beffarda, mi mostrava i cariati denti analitici.

    Perché dunque se ne va, verdastra, come una veronica la sua vita?
    Come fosse suo il pentagramma dei desideri e dei sogni, quella
    grafica insanguinata per la passione della sua castità – non confessata!
    E dal divano una puledra come anelli portava i miei occhi, al patibolo.

    Antonio Sagredo

    Maruggio-Campomarino, 22 luglio 2014

    (ore 00.60- mattino del 22 luglio 2014)

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    le mie risposte inaccessibili, per ora, sono tre; e quanto basta
    A.S.

  6. Da decenni ormai mi chiedo se una poesia non debba essere, non dico traducibile, di più: immediatamente comprensibile in ogni altra lingua.
    Se non sia cioè forma, logica interna, meccanismo cerebrale, articolazione di un pensato avvertimento, esposizione di certezze esperienziali, affermazioni, dubbio, domanda, l’interrogazione sostanziale, il trionfo della precarietà! Che quindi, quel nodo vitale, chiunque può riconoscere, oltre la lingua. In cui le parole sono astri, o isole.

    1. L’oscura arborea vegetazione di parole e di memorie, liane di radici e di miceti che sotterranei collegano – agli appassionati di micologia saprofitica – mentre l’aria è percorsa dalle spore, sugli oceani di acque sterili di vite ossigenate – così è ridotta oggi la scrittura: isole dei beati senza quasi più acqua né risorse, isole della Pasqua che mirano altrove l’invisibile. La poesia senza parole, inutile di gonfie immagini come i canotti di Jannacci, la poesia vuota di pure forme a cui mi riferivo, e quella piena di venti di Sagredo, sono forse – così un filosofo – il bilico tra il pieno e il vuoto che non pesano, non hanno oggi più che mai alcun peso.
      La storia e la ragione, un non immaginabile futuro.

  7. …enigma a enigma…Il poeta Antonio Sagredo vuole rimanere inaccessibile oppure chiede di essere avvicinato per altre vie, sebbene diverse risposte alle domande poste nell’intervista di Ennio Abate, abbiano aperto degli squarci di luce sulla comprensione del testo…e pertanto mi sono sembrate importanti. Devo dire che nella poesia “Parole beate” ho apprezzato alcuni passaggi: stacchi improvvisi che aprono al silenzio, alla musica o al canto…Dopo aver fatto scorrere lo sguardo su realtà “indicibili”: “E mi trovai in un millennio come in un cortile al centro/ Di un ponte gli spazi e i tempi inesistenti, e amortali” dove avviene una sorta di sospensione del respiro e della parola”…E nell’istante della creazione fra parola e parola/ O ponti, una volta arcobaleni”, segue una ripresa di una forma di vita umana, nel movimento ” Ballano il silenzio e la morte un passo dopo l’altro come un tango…” E di nuovo altri stacchi quando il poeta si fa “Orfano di tutte le maschere e le danze/ …Con le dita tagliuzzavo le maschere e i volti che mi somigliavano…”. Passaggi verso una spogliazione totale di sè…Centrale mi sembra comunque l’immagine della danza macabra d’amore, come l’ultimo baluardo umano…

  8. “Centrale mi sembra comunque l’immagine della danza macabra d’amore, come l’ultimo baluardo umano…”
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    Gentili Annamaria e Cristiana,
    leggendo due dei tre drammi lirici del poeta Alexandr Blok e cioè: “Il piccolo baraccone” (Balagancik) e “La sconosciuta” (Neznakomka) – ovviamente già tradotti da parecchi decenni (in internet alcune informazioni) – quanto Voi avete scritto si ritrova puntuale, specie la frase virgolettata che ho ripreso.
    Ho avuto la fortuna di essere uno degli attori che recitarono nei due drammi nel 1971 e 1974, a Roma: il primo dramma al Teatro Abaco d’avanguardia di Mario Ricci e il secondo al Politecnico Teatro.
    I due lavori teatrali ebbero in A.M. Ripellino (questo anno sono 40 anni che ci è mancato, e stiamo preparando una gioiosa festa per il 21 di aprile) un direttore registico d’eccezione e i suoi allievi (compreso me) letteralmente si divertirono e furono felici rendendo felice lo slavista che era già molto malato.
    Nell’intervista che mi fu fatta molti anni dopo le due rappresentazioni raccontai quei due eventi teatrali e altro (chiedete a Ennio Abate che dovrebbe averla); poi alcune foto vedrete digitando “foto di A. Sagredo”.
    Bene hai detto Annamaria di “danza macabra d’amore”.
    Antonio Sagredo

  9. Da antica e fedele amica del poeta Antonio Sagredo resto meravigliata di come mai i poeti lombardi – e dico i notissimi – non riescono a scrivere commenti sul poeta su questo blog. A parte le poetesse e critiche, che sanno il fatto loro poiché sono anche eleganti nello scrivere le loro impressioni, e i commenti “eroici e pertinenti” di Ennio Abate, devo dire che l’assenza dei lombardi scrivieri è singolarmente inquietante per mancanza di critica. Non sanno più confrontarsi con altri poeti, sono soltanto autoreferenziali, si scambiano premi ricchi a non finire, i loro editori son contenti.
    L’intruso Sagredo, il demone lirico, dotato di possanza e del sublime (Squarotti nella corrispondenza col poeta) non è ben accetto – lui so che è felicissimo per questo poiché, mi ha detto, la sua Poesia non è poesia di cortile e di stazzo maleodorante.
    Auguro all’amico poeta la distruzione dei suoi nemici.
    P. A.

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