Appunti politici (13): “La storia intorno alle foibe” a cura di Nicoletta Bourbaki

Loška Dolina, Slovenia meridionale, il 31 luglio 1942. Soldati italiani fucilano Franc Žnidaršič, Janez Kranjc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič ed Edvard Škerbec, cinque abitanti del villaggio di Dane presi in ostaggio qualche giorno prima. Nell’Italia degli ultimi anni, un’interpretazione frettolosa e “capovolta” di questa foto ne ha innescato la proliferazione virale in rete e sui giornali, sino a farne l’illustrazione per eccellenza di articoli sulle foibe e le vittime italiane della “violenza slava”.

10 febbraio, Giorno del ricordo. E ricordati di questo e ricordati di quello, ma «senza conoscere la catena di eventi che scatenò reazioni di tal genere, non è possibile dare una chiave di interpretazione corretta a quegli avvenimenti e il Giorno del ricordo, anziché essere un’occasione di riflessione storica, rimarrà esclusivamente uno strumento politico» (Piero Purini). Ascoltate gli storici prima di parlare. Del resto anche se avete una malattia (e l’ignoranza o la dimenticanza metaforicamente un po’ lo sono) vi rivolgete al medico o al primo che passa per strada? In  questo post, come faccio di solito su POLISCRITTURE FB, ho selezionato gli stralci  per me più significativi di  un lavoro encomiabile per la serietà con cui tratta la questione delle foibe. E’ apparso l’anno scorso (10 febbraio 2017)  su “Internazionale” e che potete leggere per intero qui. [E. A.]

GIORNO DEL RICORDO

La storia intorno alle foibe

Nicoletta Bourbaki, gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico

10 febbraio 2017 11.28

https://www.internazionale.it/notizie/nicoletta-bourbaki/2017/02/10/foibe

1.

Quando si parla di foibe, sul confine orientale la storia sembra cominciare a Trieste nell’aprile 1945. Retrocedendo, al massimo si arriva in Istria all’indomani della caduta del fascismo, il 25 luglio 1943. A essere amputato dalle ricostruzioni è soprattutto il continuo, violento spostamento a est del confine orientale d’Italia, con conseguente “italianizzazione” forzata delle popolazioni slavofone. Un processo cominciato con la prima guerra mondiale, portato avanti con fanatismo dal regime fascista e culminato nel 1941 con l’invasione italotedesca della Jugoslavia.

I crimini commessi dalle autorità italiane durante la guerra nei Balcani – stragi, deportazioni, internamenti in campi sparsi anche per la nostra penisola – sono un enorme non detto. La rimozione alimenta la falsa credenza negli “italiani brava gente” e al contempo delegittima e diffama la resistenza nei Balcani e lo stesso movimento partigiano italiano.

2.

Se si scostano i pesanti drappeggi scenici di una propaganda che separa le culture, descrive appartenenze nazionali certissime e indiscutibili, alimenta le “passioni tristi” del rancore e del revanscismo, il “confine orientale” si rivela – per citare il titolo di un importante libro dello storico Piero Purini – un mondo di “metamorfosi etniche”, identità multiple e continui spostamenti di popolazioni, dove i confini tra le identità sono instabili e indeterminati. Anche la frontiera postbellica tra Italia e Jugoslavia, oggi descritta come un solco invalicabile, in realtà rimase sempre porosa, permeabile, mutevole.

3.

Sul confine orientale, la storia trasformata in olocausto

Di Federico Tenca Montini

Le vicende del confine orientale nostrano furono assai frequentate dai mezzi d’informazione nazionali almeno fino al 1954. Lo dimostra, tra i vari contributi dedicati all’argomento, la mole di scritti sulle foibe e la questione di Trieste apparsi sulla stampa locale lombarda, raccolti nel 2008 da Antonio Maria Orecchia in La stampa e la memoria. Il fatto che la questione sia passata di moda con il ritorno di Trieste all’Italia nel 1954 si deve principalmente alla considerazione che simili argomenti erano ormai privi di sbocchi politici: gli effetti della ricostruzione e del boom economico erano ritenuti più appetibili dei ricordi di guerra.

La fine del blocco sovietico e i nuovi irredentismi
Le cose sono cambiate, appunto, sul finire degli anni ottanta, principalmente come effetto dell’agonia del socialismo reale in Europa orientale. Nel passaggio da una retorica basata sull’internazionalismo all’incontrastata affermazione di logiche centrate sullo stato-nazione si verifica quasi contemporaneamente l’unificazione della Germania e lo scioglimento delle compagini federative ex socialiste di Cecoslovacchia e Jugoslavia. Subito, poiché l’equilibrio politico disegnato dalla conferenza di pace di Parigi appare suscettibile di ulteriori revisioni, si attivano gli irredentismi. In Germania si valuta brevemente la possibilità di rinegoziare il confine con la Polonia, prima che il confine esistente, tecnicamente provvisorio dal 1945, sia accettato formalmente con una serie di trattati tra il 1990 e il 1991.

3.1.

Ma in che modo gli eventi storici legati ai confini orientali sono entrati nel discorso pubblico? Ancora una volta, le traiettorie di Italia e Germania mostrano importanti tratti di convergenza.

Entrambi paesi invasori di territori situati a oriente e organizzati in deboli stati di recente formazione, entrambi sconfitti in guerra, Italia e Germania subirono la vendetta dei popoli che avevano invaso, con alcune differenze. Se l’esodo dei tedeschi si misura sulla scala dei milioni, nel caso degli esuli istriani si può parlare di circa 250mila persone. I tedeschi furono cacciati dalla Cecoslovacchia con i provvedimenti emessi dal presidente Edvard Beneš ben prima del colpo di stato comunista del 1948, mentre nessun provvedimento di espulsione riguardò la minoranza italiana in Jugoslavia, a cui in buona parte fu consentito di optare per la cittadinanza italiana e il trasferimento nella madrepatria dalle clausole del trattato di pace del 1947.

3.2.

nella categoria di “esodo istriano” sono inclusi movimenti di popolazione avvenuti in circostanze e situazioni diverse, dall’evacuazione forzata di Zara a seguito dei bombardamenti alleati ai trasferimenti clandestini a quelli operati legalmente e in forma variamente organizzata attraverso le opzioni, il tutto lungo un periodo più che decennale.

Il corollario naturale della trattazione pubblica di questi argomenti è l’incertezza, se non l’esagerazione, sul numero delle vittime. Gli “espulsi” tedeschi variano, nei rapporti dei mezzi d’informazione, da cinque a venti milioni, con una congettura sul numero delle vittime fissata attorno ai due milioni e mezzo. Nel caso italiano il numero degli esuli varia da duecentomila a 350mila, cifra citata nella maggior parte dei casi, mentre le stime degli “infoibati” variano a seconda dei casi da alcune centinaia – il numero dei corpi che secondo le ricerche disponibili è stato effettivamente individuato sul fondo delle grotte carsiche – a diverse migliaia di italiani che persero variamente la vita in territorio jugoslavo dopo l’armistizio.

Poiché il concetto di “infoibamento” è per lo più utilizzato in maniera simbolica, stime ancora più elevate sono state calcolate da ambienti militanti includendo anche tutti i soldati italiani caduti e dispersi in territorio jugoslavo per i più vari motivi, al punto che nel volume Albo d’oro di Luigi Papo, il tenente colonnello Cuiuli, comandante del campo di concentramento fascista di Rab/Arbe, morto suicida in stato d’arresto a seguito dell’insurrezione dei prigionieri del campo dopo l’8 settembre, risulta tra le vittime delle foibe. Nel cimitero monumentale costruito in prossimità del campo è ancora possibile osservare una frusta uguale a quella con cui amava picchiare personalmente gli internati.

3.3.

Tanto in Italia quanto in Germania l’interesse giornalistico verso le storie riscoperte non si estende alle opere storiografiche che trattano l’argomento da un nuovo punto di vista o a partire da nuove acquisizioni archivistiche. Sebbene esistano lavori di buon livello scientifico usciti negli ultimi anni, questi, quando non sono osteggiati, non ricevono solitamente grande pubblicità, mentre sono in genere reclamizzate pubblicazioni di carattere sensazionalistico o libri di ricordi personali di testimoni diretti, dei loro discendenti nonché semplici ammiratori.

3.4.

In Italia […] si è optato per l’istituzione di un’apposita giornata commemorativa, il Giorno del ricordo, il 10 febbraio. La giornata è stata introdotta dalla legge numero 92 del 30 marzo 2004, per iniziativa del secondo governo Berlusconi. Solo quattro anni prima, il precedente governo di centrosinistra aveva reso l’Italia uno dei primi paesi a commemorare le vittime della shoah il 27 gennaio, anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata rossa, ben prima che le Nazioni Unite, con la risoluzione 60/7 del 2005, incoraggiasse tutti i paesi a fare lo stesso.

Al di là del diverso orientamento politico dei due governi, vi sono altri elementi che indicano una sorta di complementarietà tra le due date, in una tendenza che sembra accodarsi alla condanna dell’Unione europea degli opposti totalitarismi

3.5.

nella formulazione definitiva della legge del Giorno del ricordo, approvata ad ampia maggioranza, è importante il ruolo di quel settore della sinistra ex comunista che accettò di buon grado l’occasione di segnare una cesura rispetto alla propria storia politica nonché sottolineare la propria adesione a quel neopatriottismo che negli ultimi anni stava prendendo il posto della discriminante antifascista messa in crisi dalla partecipazione dell’ex Msi al governo.

3.6.

Alcuni comuni fanno economia celebrando il Giorno della memoria e quello del ricordo in un unico evento posto a metà tra le due date

Questa critica è peraltro emersa durante la discussione della legge, quando il deputato Franco Giordano, tra i pochi a votare contro, disse che “non si può dedicare una giornata della memoria, al pari del 25 aprile e di quella dell’Olocausto, in quanto stiamo parlando di fenomeni che non sono assolutamente equivalenti e la proposta di renderli equivalenti […] in realtà allude ad un processo di revisionismo storico che cambia la natura dello Stato e della Costituzione antifascista”.

3.7.

L’impianto di celebrazione della shoah, così ben strutturato e declinato in prodotti d’arte di qualità spesso elevata, tanto da essere divenuto patrimonio della cultura di massa e del senso comune, esercita, proprio in virtù del suo successo, un indubbio potere attrattivo sul tentativo di reclamizzare uccisioni e persecuzioni, nonostante queste abbiano spesso poco o nulla a che spartire con quelle commesse da Hitler e dai suoi volenterosi collaboratori di varie nazionalità. Non appena ci si accinge a raccontare una qualsiasi storia di massacri e persecuzioni, quindi, l’estetica della shoah emerge quasi naturalmente e procede a livellare per vaghi nessi associativi vittime di cui viene esaltata l’innocenza, la giovinezza e il candore a prescindere dalla natura della persecuzione subita, mentre i carnefici vengono nazificati.

Uno degli effetti di questo appiattimento si produce al livello iconografico, ed è il motivo per cui le fotografie sono usate in maniera indifferenziata: i profughi francesi che scappano dai nazisti diventano esuli istriani, immagini di fosse comuni naziste valgono per l’holodomor (la grande carestia ucraina del 1929-1933). Le didascalie cambiano, ma stranamente il crimine ritratto è quasi sempre fascista.

3.8.

Si diceva di un modo nuovo e “nazionale” di guardare alla storia in un certo numero di paesi, sia ex fascisti sia tra quelli in via di transizione dal comunismo. Nel 1989 Franjo Tuđman, l’aspirante leader di un paese, la Croazia, che si candidava a rientrare in entrambe le categorie, pubblica un libro indicativamente intitolato L’assurdità della realtà storica. Il volume è una raccolta di riflessioni vagamente filosofiche sul ruolo della violenza nella storia, in cui, tra le altre cose, viene posta in dubbio la consistenza numerica delle vittime ebraiche nel corso della seconda guerra mondiale, sia al livello europeo sia in Jugoslavia.

Mentre l’élite politica croata cercava di liberarsi della pesante eredità del regime fascista di Pavelić, in Italia e in Germania, oltre alle “riscoperte” di cui si è detto, cominciava a manifestarsi un interesse nuovo anche per il comportamento degli alleati durante la seconda guerra mondiale. Negli eccessi più noti, come l’incendio di Dresda – ma si pensi anche alla recente insistenza, in Italia, sui bombardamenti di Zara –, tale comportamento viene considerato su un piano simile a quello delle atrocità nazifasciste, collocando tutti questi eventi nella categoria molto generica di una guerra in cui i partecipanti, tutti e senza distinzione, si sarebbero macchiati di crimini analoghi.

L’elevazione dei crimini nazisti – crimini contro l’essenza innata delle persone – a una categoria di ordine superiore, a crimine terribile e inedito, a orrore tramandato agli eredi politici (e perfino biologici) di chi lo ha compiuto o più semplicemente a precetto morale centrale della nostra civiltà, ha coinciso con l’inizio di un periodo storico che ha conosciuto l’espansione dei diritti civili e l’emancipazione e integrazione di ampie quote di umanità oppressa – si pensi all’emancipazione politica delle donne e alla decolonizzazione.

La sostanziale negazione dell’unicità di questi crimini, confusi in una variegata schiera di pretesi genocidi tra cui le vendette postbelliche ai danni di italiani e tedeschi, le sofferenze patite da determinate categorie sociali e politiche nei paesi comunisti e i crimini degli alleati occidentali nel corso della guerra scatenata dalla Germania e dai suoi sostenitori, rischia di ripristinare un antico ordine del mondo in cui la storia è accettata come un naturale susseguirsi di violenze e sopraffazioni

3.9.

In questo senso non può che preoccupare una recentissima dichiarazione di Björn Höcke, politico tedesco del partito populista di destra Alternative für Deutschland (Afd), in prima linea contro rifugiati e immigrati. Parlando non a caso a Dresda ha affermato che “la Germania deve smetterla di sentirsi colpevole e operare una svolta nel modo di ricordare il periodo nazista” e che i tedeschi sarebbero gli unici ad aver “costruito un monumento alla vergogna nel cuore della loro capitale”, riferendosi al Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, eretto nel 2005 a Berlino.

4.

Il prequel del Giorno del ricordo. La Venezia Giulia dalla prima alla seconda guerra mondiale

Di Piero Purini

Non è possibile affrontare i temi del Giorno del ricordo senza prima analizzare il contesto in cui l’esodo e le foibe avvennero e senza conoscere la complessità umana e nazionale del “confine orientale”. Per fare questo è necessario fare un salto all’indietro ed esaminare la situazione del territorio che all’inizio del novecento era chiamato Litorale austriaco.

Il Litorale (Küstenland in tedesco, Primorska in sloveno e croato) si trovava alla confluenza delle tre macroaree linguistiche più grandi d’Europa: la neolatina, la germanica e la slava. Di conseguenza la popolazione era mista, con zone a maggioranza slovena (il vasto territorio a est e a nord di Gorizia, il Carso triestino, il nord dell’Istria), italiana (il centro di Trieste, gran parte della costa istriana, il Friuli orientale e la Bisiacaria – cioè la zona del monfalconese), croata (l’interno dell’Istria). Erano presenti anche numerosi gruppi minoritari (romeni, serbi, ebrei, greci, cechi, armeni): il gruppo più consistente era quello tedescofono, presente soprattutto nelle città medie e grandi.

4.1.

La sconfitta dell’Austria-Ungheria produsse una vera e propria metamorfosi nella composizione etno-linguistica del territorio: già nei giorni precedenti l’arrivo delle truppe italiane si verificarono i primi incidenti con vittime slovene. Le nuove autorità italiane presero una serie di iniziative che via via resero più difficile la permanenza di coloro che non erano italiani e ostacolarono il ritorno degli sfollati di nazionalità slovena, croata o tedesca: ai reduci dell’esercito austriaco fu permesso di restare nel Litorale (ormai ufficialmente ribattezzato Venezia Giulia) solo se nativi del territorio, mentre quelli di altre nazionalità dovevano trasferirsi oltre la linea di demarcazione. Ciò significava che tutti i non italiani immigrati di recente e anche sloveni, croati e tedeschi residenti nella regione ma malauguratamente nati altrove dovevano andarsene. In seguito fu previsto l’arresto per coloro che ancora non avevano ottemperato all’ordinanza e da dicembre scattarono forme di internamento per i reduci ancora presenti sul territorio.

Anche i civili non italiani cominciarono a subire pressioni: circa 800 insegnanti e sacerdoti, considerati il veicolo più pericoloso del nazionalismo slavo e croato, furono internati, altri furono espulsi. Provvedimenti del genere furono adottati anche per ex prigionieri di guerra austriaci in Russia, ritenuti potenziali bolscevichi.

Nel pubblico impiego si verificarono cambiamenti radicali: buona parte dei funzionari dell’apparato burocratico asburgico e degli organi imperiali di pubblica sicurezza partirono negli ultimi giorni di guerra o subito dopo. Molti addetti all’ordine pubblico non italiani furono trasferiti nel corso del 1919 nel neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni in base a un accordo tra i due governi. Migliaia di persone lasciarono la Venezia Giulia, portando in alcune zone a un vero e proprio spopolamento: addirittura dalla sola Pola vi fu un esodo che coinvolse da venti a venticinquemila individui, nella maggioranza persone legate alle attività del porto militare.

La comunità tedesca fu particolarmente colpita: le sue scuole furono chiuse (e trasformate per dileggio in caserme), circoli e giornali dovettero sospendere le attività, si verificarono epurazioni e licenziamenti nei posti di lavoro, ci furono delazioni nei confronti di persone che in ambito familiare e privato continuavano a parlare tedesco e atti intimidatori per spingere i tedescofoni ad andarsene in Austria. La vox populi dell’epoca parlò di 40mila persone emigrate da Trieste soprattutto a Vienna e a Graz.

Anche verso la Jugoslavia si verificò un flusso di partenze (che continuò anche per tutto il ventennio fascista) di sloveni e croati che trovarono più opportuno lasciare la zona invece di rimanere nelle proprie case. Alcune organizzazioni di aiuto ai profughi fornirono la prima assistenza a questi profughi e crearono strutture di accoglienza: nel marzo del 1919 gli emigrati dalla Venezia Giulia in Jugoslavia oscillavano già dalle 30 alle 40mila persone (di cui 15mila alloggiate in campi profughi). Nella sola Lubiana erano presenti quasi cinquemila profughi dichiarati, ma tra questi non era conteggiato chi non si era rivolto a organizzazioni ufficiali.

4.2.

Negli anni del fascismo l’immigrazione ebbe nuovo impulso a causa della politica fascista di italianizzazione dei nuovi territori, ormai definita ufficialmente “bonifica etnica”. Tra il 1918 e il 1931 furono 128.897 gli italiani immigrati nella Venezia Giulia, dei quali 63.932 concentrati nella provincia di Trieste e 49.009 nella città, dove risiedevano dunque i due quinti dell’intera comunità italiana immigrata. Nel 1931 un abitante su sette risultava essersi stabilito nella Venezia Giulia dopo la guerra.

4.3.

La politica di bonifica etnica del fascismo non si attuò solo con l’immigrazione di italiani, ma soprattutto con la snazionalizzazione, l’assimilazione e la spinta all’emigrazione degli “allogeni” o “alloglotti”. Sloveni e croati della Venezia Giulia nel corso del ventennio fascista videro l’annientamento di tutte le iniziative economiche e culturali delle due minoranze. Nel giro di pochi anni le banche e gli istituti assicurativi di proprietà slovena e croata furono chiusi o assorbiti da istituti nazionali, i circoli e le istituzioni culturali soppressi, la stampa e l’editoria sospese, l’uso dello sloveno e croato vietato nei tribunali e negli uffici pubblici.

Ai contadini sloveni e croati che avevano ottenuto prestiti pubblici per l’aiuto postbellico furono aumentati talmente i tassi di interesse da costringerli a svendere le proprietà allo stato, che poi provvedeva a riassegnarle, a prezzo stracciato, a coloni italiani neoimmigrati. La “riforma Gentile” portò alla chiusura di tutte le scuole con lingua d’insegnamento non italiana, mentre i simboli delle due comunità furono distrutti. L’episodio più significativo fu l’incendio del Narodni dom, la casa del popolo che rappresentava il cuore culturale e simbolico delle comunità slovena, croata e ceca di Trieste, dato alle fiamme il 13 luglio 1920 in una delle prime “imprese” degli squadristi giuliani.

Le violenze colpirono istituzioni e singoli individui: scuole, circoli, giornali, negozi e studi professionali furono devastati dagli squadristi; intellettuali, attivisti o anche persone comuni colpevoli solo di esprimersi nella loro madrelingua furono brutalmente malmenati o addirittura assassinati dai militi fascisti. L’organista sloveno Lojze Bratuž, colpevole di dirigere un coro sloveno, fu ucciso dagli squadristi facendogli bere olio per motori; altre volte i fascisti spararono contro gli elettori che si recavano alle urne o contro operai in sciopero.

4.4.

Lo sloveno e il croato furono cancellati addirittura dalla toponomastica: i nomi delle località slovene e croate furono modificati in lingua italiana, traducendoli (il monte Snežnik, da sneg, neve, divenne monte Nevoso), italianizzandoli per assonanza (Hrastovlje, bosco di querce, divenne Cristoglie) o addirittura inventandoli ex novo (Ricmanje divenne San Giuseppe della Chiusa). A volte furono fatti errori marchiani, come nel caso del monte Krn, italianizzato come monte Nero, confondendo il termine krn (mozzo, tronco) con črn (nero). Inoltre fu avviata una campagna per il cambiamento dei cognomi e nomi “allogeni” e la loro “restituzione” in italiano (spesso chi manteneva il cognome slavo non aveva accesso al posto di lavoro). Anche per i cognomi si procedette con traduzioni (Kovač=Fabbri, Lisjak=Volpe) e con assonanze (Kocijančič – Canciani, Jamsek – Giani). Come nel caso dei toponimi si verificarono episodi grotteschi: Smerdel (da smrditi, puzzare) divenne alternativamente Smeraldi oppure Odorosi; il cognome sloveno Starec (vecchio) divenne il fascistissimo Starace.

Molte famiglie smisero di esprimersi in sloveno e croato per adottare l’italiano; l’impossibilità di frequentare scuole dove si imparassero le due lingue staccò definitivamente numerosi giovani dal proprio ambito culturale d’origine. Altri scelsero di andarsene: circa centomila alloglotti lasciarono il Litorale tra le due guerre per dirigersi soprattutto in Jugoslavia, Argentina, Brasile, Francia, Belgio, Austria, Egitto. In Jugoslavia e in Argentina sorsero delle vere e proprie colonie di sloveni del Litorale che comprendevano decine di migliaia di persone.

4.5

Contro la politica di bonifica etnica e le violenze fasciste nacquero movimenti clandestini di resistenza nazionale. I più importanti furono il Tigr – acronimo di Trieste, Istria, Gorizia e Fiume (Rijeka) – e Borba (Lotta) che attuarono azioni e attentati contro simboli e istituzioni legate alla politica di bonifica etnica fascista. Per piegare questi gruppi e per intimidire la popolazione fu impiegato il tribunale speciale per la difesa dello stato, una magistratura fascista istituita dopo l’attentato del 1926 a Mussolini, che non prevedeva né ricorsi né appelli. Il tribunale speciale fu largamente impiegato dallo stato contro gli sloveni e i croati: i processi a loro carico furono 131, gli anni di carcere irrogati a residenti nella Venezia Giulia 4.893 (il 17 per cento delle condanne complessive emesse dal tribunale in tutta Italia), le condanne a morte 33 su 42 totali, le condanne eseguite 23 su 31.

4.6

Durante e alla fine della seconda guerra mondiale si svolsero episodi di violenza che una certa vulgata istituzionale, attraverso il Giorno del ricordo, ha trasformato in eventi a sé stanti: le “foibe” e l‘“esodo”. Ma non sono eventi a sé stanti, non possono essere estrapolati da una situazione storica di violenza e di sopruso che continuava da oltre vent’anni. Per non parlare dei crimini avvenuti durante l’occupazione della Jugoslavia, di cui tratteranno in questo speciale altri studiosi.

Senza conoscere la catena di eventi che scatenò reazioni di tal genere, non è possibile dare una chiave di interpretazione corretta a quegli avvenimenti e il Giorno del ricordo, anziché essere un’occasione di riflessione storica, rimarrà esclusivamente uno strumento politico.

5.

Persecuzioni, crimini fascisti e resistenze nei Balcani e nella Venezia Giulia, 1920-1945

Di Anna Di GianantonioCarlo Spartaco CapogrecoEric GobettiNicoletta Bourbaki

Una conversazione con gli storici Carlo Spartaco Capogreco, Anna Di Gianantonio ed Eric Gobetti.

5.1

Eric Gobetti. Ho forti perplessità sui tentativi di creare una “memoria condivisa”, cosa oggettivamente molto difficile in situazioni di violenze estreme e di lunga durata. Ritengo più logico un riconoscimento dei rispettivi torti e delle rispettive memorie, senza necessariamente condividerne gli assunti o trovare una, spesso impossibile, mediazione. Fatta questa premessa, il lavoro della commissione [*una commissione mista storico-culturale italo-slovena, che ha presentato la sua relazione nel 2000. Lo scopo dichiarato era ricostruire i processi storici che, nel periodo 1880-1956, influenzarono i rapporti tra italiani e sloveni, per poter avviare nuove relazioni tra i due stati] ha rappresentato un enorme sforzo, portato avanti con estrema abilità diplomatica e nobili obiettivi di pacificazione delle memorie […]

5.2

Carlo Spartaco Capogreco. Infatti, la mancata diffusione della relazione da parte dell’Italia non depone bene. Soprattutto considerando la discutibile impostazione impressa dall’Italia, alcuni anni dopo, alla legge sul Giorno del ricordo. In questo senso, come scrissi nel 2007 in occasione della polemica intercorsa tra gli allora presidenti di Croazia e Italia, Mesić e Napolitano, il modo in cui era stata scritta la legge istitutiva di questa commemorazione finiva per consolidare una lettura degli eventi storici sospesa in un ambito metastorico privo di sfondo nazionale e internazionale. Al di là di ogni altra considerazione, aggiungo solo che nelle “leggi memoriali” sulla shoah (2000) e sulle foibe (2004) l’omissione del contesto storico e, perfino, del termine “fascismo” non aiutano gli italiani di oggi a “fare memoria” realmente.

5.3

Anna Di Gianantonio. Si è tentato di trovare dei punti di equilibrio, dei punti di contatto incontrovertibili tra italiani e sloveni, in base all’idea che gli italiani hanno sbagliato con il fascismo e gli sloveni con le foibe, ma non so quanto possa reggere dal punto di vista storico questo tentativo di contemperare le varie responsabilità. Ultimamente un filone storiografico mette in discussione il rapporto causa-effetto nella storia. Certamente i fatti storici hanno un’evoluzione più complessa dei processi chimici o meccanici, eppure il fascismo e la guerra hanno determinato le vicende al confine orientale in misura tale che risulta impossibile pensare che non abbiano avuto conseguenze nel 1945. Non mi pare che si possano accusare gli sloveni degli abusi da essi stessi subiti durante il ventennio. Al contrario, al razzismo antislavo tipico di queste terre si è accennato pochissimo, lo si è molto edulcorato, quando invece per loro è stata una cosa durissima. Questo razzismo si spiega in primis con una ragione sociale. Fino alla metà dell’ottocento, infatti, gli slavi occupavano i posti più bassi e più umili nella gerarchia sociale.

Tutta la cultura italiana legge lo slavo come l’Altro, compreso Scipio Slataper, che pure era una delle persone più attente alle implicazioni sociali del “problema slavo”. Nel suo libro Il mio Carso dipinge gli slavi come rozzi contadini senza cultura e senza storia.

6.

Esodo e foibe. Separare ciò che appare unito

Di Jože PirjevecNicoletta BourbakiSandi Volk

Intervista con gli storici Jože Pirjevec e Sandi Volk.


Nicoletta Bourbaki.
 Ogni anno si sente ripetere dai mezzi di informazione che gli infoibati tra 1943 e 1945 furono almeno diecimila, e si parla spesso di un genocidio della popolazione italiana paragonabile alla shoah per crudeltà se non per i numeri. È credibile tutto ciò? Ci può dare una stima attendibile del numero di persone uccise nella Venezia Giulia dalle forze legate alla resistenza Jugoslava, nel corso di esecuzioni collettive, tra il settembre 1943 e il maggio-giugno 1945? Queste vittime sono tutte “infoibate”?

Jože Pirjevec. Per quanto riguarda i morti in Istria dopo l’8 settembre 1943, il numero è stato frequentemente gonfiato. Penso che al massimo si possa parlare di 400 – 500 vittime.

Relativamente alle persone decedute a causa di tutte le forme di violenza – arresti, deportazioni, “infoibamenti” – dopo il 1 maggio 1945, secondo la storica slovena Nevenka Troha le vittime nella zona di Trieste sarebbero state 601. Claudia Cernigoi fornisce cifre leggermente più basse e parla di 498 morti. Sempre secondo Troha, nella zona di Gorizia morirono 901 persone, in Istria e a Fiume 670. Per queste ultime zone, determinare il numero dei morti risulta più difficile. Sono circa 2.200 morti, ai quali dovremmo aggiungerne alcuni altri, sebbene non ci siano a disposizione dati precisi. Per esempio, il 12 maggio 1945 intorno a Ilirska Bistrica i partigiani jugoslavi catturarono diverse migliaia di soldati tedeschi, e secondo alcune fonti almeno una parte di loro fu uccisa sommariamente. In totale dunque circa tremila, tremilacinquecento persone, circa due terzi delle quali di nazionalità italiana, per lo più soldati inquadrati in formazioni che, a diversi livelli, collaboravano con gli occupanti tedeschi.

6.1.

  1. Quali persone furono uccise, e in quali contesti? Si parla di foibe istriane, dell’occupazione di Trieste nel maggio del 1945, di deportazioni…
  2. Si tratta di situazioni molto diverse. Dopo l’8 settembre 1943 l’Italia crollò, l’amministrazione statale scomparve, l’esercito italiano e le forze dell’ordine si dissolsero. Di conseguenza, in Istria si verificò una sorta d’insurrezione popolare, fondamentalmente anarchica, che si manifestò con assalti a municipi, tentativi di distruggere i registri erariali e così via. Negli stessi giorni, però, si formarono in Istria le prime formazioni partigiane, composte da croati, ma anche da italiani che manifestavano il loro odio nei confronti della borghesia locale.

I maggiorenti fascisti erano già fuggiti, quelli rimasti erano pesci piccoli legati al regime: piccoli borghesi, commercianti, professionisti, maestri di scuola. Molti di questi vennero arrestati e concentrati in varie località, nella maggior parte dei casi in base alle decisioni degli organi centrali del movimento partigiano istriano, ma non mancarono episodi di vendetta personale. In seguito, come emerso dalle ricerche dello storico croato Darko Dukovski, un tribunale di guerra svolse indagini sugli arrestati e una settantina di persone fu condannata a morte. Nelle zone dove i fascisti avevano attuato repressioni più feroci contro la popolazione la reazione popolare fu ancora più radicale.

6.2

  1. Riguardo alle foibe triestine e goriziane e alle deportazioni, abbiamo visto che negli avvenimenti del 1943 le vittime appartengono alla borghesia dei paesi istriani. Invece nei fatti del 1945 le vittime chi sono?
  2. Negli ultimi giorni di guerra quasi tutti i nazisti fuggirono, cercando di raggiungere l’Austria o la Germania. In loco rimasero i collaborazionisti. Quando la quarta armata dell’esercito jugoslavo liberò e occupò Trieste e Gorizia, si scatenò una caccia all’uomo diretta contro quelle persone. Diverse cause convergevano in quella vicenda: da una parte la volontà di controllare e neutralizzare i possibili avversari, dall’altra ragioni di vendetta personale, di rivalsa. Si verificarono pure episodi di saccheggio, perché le nuove autorità non erano in grado di controllare la situazione.

6.3

  1. Si accusano spesso i partigiani jugoslavi di avere infoibato molti dirigenti e partigiani del Comitato di liberazione nazionale di Trieste, è vero? Perché le forze legate alla resistenza jugoslava, compresi diversi reparti formati da partigiani italiani comunisti, si scontrarono con le forze della resistenza italiana “moderata”?
  2. La resistenza italiana – che oltre a essere appunto “moderata”, era anche numericamente modesta – non fu in grado di comprendere che la frontiera stabilita nel 1920 a Rapallo era ormai obsoleta. Pensava ancora di poter conservare il vecchio confine, che privava la nazione slovena di un quarto del suo territorio. Quei “liberali” italiani riconoscevano i molti torti subiti dagli sloveni durante il fascismo, e assicuravano che in futuro i rapporti interetnici nella zona sarebbero stati più corretti, ma non erano disposti ad accettare una frontiera diversa tra Italia e Jugoslavia. Men che meno, l’idea di Trieste jugoslava.

Per questo motivo i rapporti tra le due resistenze furono conflittuali fin dall’inizio: alcuni esponenti della resistenza moderata, non molti per la verità, furono arrestati e rinchiusi nelle prigioni dell’Ozna, la polizia segreta della Jugoslavia. Vi rimasero per qualche mese e alla fine del 1945 alcuni furono fucilati.

6.4

  1. Perché fin dall’immediato dopoguerra in Italia si comincia a parlare di foibe? E perché questo termine diventa così carico di significati simbolici?
  2. Bisogna dire innanzitutto che l’idea della voragine in cui sono gettati i nemici ha qualcosa di orrido, di spaventoso, è molto efficace nel colpire emozionalmente ed evocare paure primordiali.

Da un punto di vista politico, invece, in una situazione in cui la questione del confine orientale era ancora aperta, le forze di destra – non tanto la politica ufficiale, ma piuttosto i giornali ed i fascisti che si erano riscoperti “democratici” – sfruttarono a fondo le “foibe”, elaborando una narrazione che colpisse l’immaginario collettivo.

6.5

  1. La foiba di Basovizza è stata proclamata monumento nazionale perché vi sarebbero stati gettati i cadaveri di centinaia se non migliaia di persone. Su quali basi si afferma ciò?
  2. Su nessuna, per quanto mi risulta. Io ho visto i documenti statunitensi e britannici su Basovizza. Appena presero il controllo di Trieste, dopo il 12 giugno 1945, gli alleati furono sollecitati dalle forze politiche italiane a effettuare un’esplorazione della foiba. Nei primi giorni dopo la ritirata jugoslava ci furono alcune esplorazioni. Ricerche più concrete cominciarono alla fine di luglio o all’inizio agosto, e si protrassero fino alla fine di novembre. Nella voragine furono trovati i resti di 150 persone, tutti soldati tedeschi e un civile, oltre a carogne di cavalli. Tra la fine di aprile e l’inizio del maggio 1945, infatti, Basovizza fu teatro di intensi combattimenti tra tedeschi e partigiani. A scontri finiti era necessario liberarsi il più presto possibile dei nemici caduti e delle carogne degli animali, gettando tutto nella fossa più vicina. Non si trattava di una foiba naturale, tipica del Carso, ma del pozzo d’ingresso di una miniera di carbone, mai entrata in funzione. Da tempo era utilizzata dagli abitanti della zona come discarica, e in due o tre casi era stata teatro di suicidi. Sembra che anche fascisti e nazisti vi abbiano gettato i corpi dei loro avversari per sbarazzarsene.

Statunitensi e britannici svolsero una ricerca molto approfondita, cercando di individuare le vittime basandosi sulle uniformi. In particolare cercarono i bottoni, perché da essi si poteva capire a quale formazione appartenessero le vittime. Nonostante l’impegno profuso nella ricerca – speravano di poter sfruttare la vicenda a fini politici contro la Jugoslavia comunista – non riuscirono a trovare praticamente nulla oltre a quanto già citato. Negli anni successivi furono fatti altri sopralluoghi da speleologi triestini e anche dall’esercito italiano. Il risultato è stato nullo.

6.6

  1. È corretto a suo parere parlare di “negazionismo” in merito alle foibe come si fa riguardo alla shoah?
  2. È offensivo, francamente. Per il libro sulle foibe che ho pubblicato con Einaudi nel 2009 insieme ad alcuni collaboratori, sono stato accusato di essere un negazionista, alla stregua di David Irving, lo studioso che nega la shoah. Ma io non nego affatto le foibe: ne contesto l’uso politico e l’entità delle cifre riportate. Si tratta di conoscere la verità storica e inserirla in una realtà oggi lontana e difficilmente comprensibile nella sua drammaticità. Non va dimenticato che in ogni paese dove c’è stata la resistenza, a guerra finita ci furono episodi di repressione analoghi, anche feroci. Ma dove si sono ammazzati tra connazionali – italiani che uccidevano italiani, francesi che uccidevano francesi, norvegesi che uccidevano norvegesi… – la questione è stata lasciata cadere nell’oblio. Nelle nostre terre, dove sloveni, croati, serbi, jugoslavi hanno ammazzato italiani, ovviamente la vicenda è stata coltivata e sfruttata da coloro che hanno interesse che i rapporti tra i nostri popoli non migliorino.

6.7

Nicoletta Bourbaki. Parliamo dell’esodo dai territori ceduti dall’Italia alla Jugoslavia al termine della seconda guerra mondiale. I numeri dei profughi sono nebulosi e non c’è completa chiarezza nemmeno sull’arco temporale. Perché?

Sandi Volk. Perché quei numeri servivano allo stato italiano alla conferenza di pace, quale dimostrazione dell’attaccamento della popolazione all’Italia e proprio per questo sono numeri inattendibili. La verifica più facile, rispetto al numero canonico di 350mila, consiste nel prendere e sommare le cifre fornite per le varie ondate: da Zara e da Pola, ipotizzando che se ne siano andati tutti gli abitanti censiti nell’anteguerra, rispettivamente 21.372 e 32mila; da Fiume 38mila, e si tratta della stima più alta; dalla zona B del Territorio libero di Trieste 40mila (anche in questo caso è la stima più alta); dai territori annessi alla Slovenia dopo il trattato di pace, cioè dalla parte orientale e settentrionale dell’ex provincia di Gorizia, 21.322. Il risultato è 152.694 persone.

Anche i numeri del censimento effettuato dall’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati (Oapgd, più conosciuta come Opera profughi) agli inizi degli anni cinquanta sono tutt’altro che affidabili. L’Opera profughi reperì 140.091 persone con la qualifica ufficiale di profugo rilasciata dalle prefetture e 4.553 profughi deceduti dopo l’emigrazione. A questi furono aggiunte 46.260 persone non materialmente reperite, verosimilmente emigrate all’estero, e altre 10.536 persone che non avevano avuto la qualifica di profugo ma che, a dire dell’Opera profughi, “non potevano essere escluse”, compresi i familiari acquisiti dopo l’emigrazione. In questo modo l’Opera profughi è arrivata a “censire” 201.440 profughi ai quali ha però aggiunto 50mila persone “presumibilmente” sfuggite al censimento, arrivando così a 250mila profughi.

Questo tipo di “censimento” è alla base di tutte le ancor più fantasiose quantificazioni successive.

6.8

  1. Per quale ragione si associano le foibe all’esodo, pur essendo fenomeni distinti?
  2. L’esodo è presentato come conseguenza di un tentativo di genocidio degli italiani in quanto tali. Le foibe, appunto. L’argomento degli intenti genocidi dei partigiani nei confronti degli italiani fu utilizzato dalla classe dirigente italiana dell’Istria già all’indomani l’8 settembre 1943, per cercare di ottenere un intervento angloamericano in Istria. Era chiaro che il movimento partigiano non le avrebbe mai consentito di conservare – o riprendere – il potere. Al contrario, come dimostrava quanto stava accadendo in Italia, l’arrivo degli angloamericani avrebbe garantito all’élite italiana dell’Istria il mantenimento del suo ruolo sociale e politico. Perciò i maggiorenti istriani cominciarono a inviare al governo del Regno del Sud, a Brindisi, una serie di relazioni, petizioni e appelli in cui si descrivevano gli intenti sterminatori degli “jugoslavi” e si preannunciava la partenza in massa della popolazione italiana. Fu anche sulla base di quelle comunicazioni che nel 1944 il governo Bonomi cercò di fare pressione sugli alleati – che le respinsero – perché sbarcassero in Istria, e di organizzare in segreto – la cosa fu tenuta nascosta ai partiti di sinistra nel governo, ma fu scoperta da Togliatti – l’alleanza tra X Mas e formazioni Osoppo contro l’esercito popolare di liberazione jugoslavo al momento del crollo tedesco.

L’esodo preannunciato fu di fatto organizzato dopo la fine della guerra, quando già a margine della conferenza di pace il ceto dirigente istriano cominciò a pianificare l’emigrazione della popolazione in caso di assegnazione dei territori contesi alla Jugoslavia, e a progettare il suo insediamento nel goriziano e a Trieste. Anche la Democrazia cristiana triestina si impegnò a insediare a Trieste il maggior numero possibile di profughi dall’Istria, per rafforzare il campo dei sostenitori del ritorno della città all’Italia, in quel momento inconsistente a livello numerico.

6.9

  1. Si dice che gli italiani d’Istria scelsero di andarsene per rimanere italiani e al tempo stesso che furono obbligati ad andarsene in quanto italiani: cosa c’è di vero – o di falso – in queste affermazioni? Quale fu il destino di chi scelse di rimanere?
  2. Chi rimase si trovò in una situazione in cui da gruppo dominante passava a gruppo minoritario. Sebbene la Jugoslavia si facesse vanto delle numerose minoranze che vivevano al suo interno, compresa quella italiana, e garantisse agli italiani posti negli organismi rappresentativi e nelle istituzioni politiche, ci furono anche spinte alla “slovenizzazione” o “croatizzazione”, con i diritti garantiti sulla carta alla minoranza italiana applicati in maniera molto diseguale.

Quanto alle interpretazioni citate, si tratta dell’ennesima semplificazione a uso politico. Se ne andarono italiani, sloveni e croati, come attestano le stesse organizzazioni dei profughi. Anche perché il diritto a optare per la cittadinanza italiana non era legato alla nazionalità, bensì alla “lingua d’uso italiana”.

6.10

  1. Qual è il ruolo dei Cln di Pola e Fiume nell’esodo dalle rispettive città? E quale fu l’atteggiamento dell’Italia rispetto a questi trasferimenti da Pola e Fiume, che sono un po’ diversi rispetto agli altri?
  2. Il Cln di Fiume fu il primo a usare apertamente l’invito all’esodo come strumento di lotta politica con il quale convincere gli alleati ad assegnare la città all’Italia. Ma, a parte qualche volantino, ebbe poco peso reale. Il Cln di Pola, invece, era un’organizzazione probabilmente maggioritaria in città, interlocutrice ufficiale del governo italiano e con in mano le leve del potere politico. Di fatto, decretò e organizzò l’esodo, sempre per convincere la conferenza di pace che quelle terre dovevano tornare all’Italia, nella speranza che ciò potesse accadere magari a lungo termine. Il governo italiano mise a disposizione del Cln di Pola denaro, trasporti e posti dove alloggiare gli emigrati, senza però un piano preciso per il loro insediamento definitivo. I profughi furono dunque sventagliati per tutta Italia in situazioni di alloggio e sanitarie pessime, in ex campi di concentramento, caserme, edifici abbandonati, campi profughi, spesso insieme ai profughi dalle ex colonie africane – che erano molto più numerosi – e agli sfollati causati delle distruzioni belliche. Nonostante la retorica sui loro meriti patriottici, molti rimasero in quelle condizioni per decenni. L’ultimo campo profughi fu chiuso alla metà degli anni settanta.

6.11

  1. Il nome Comitato di liberazione nazionale di solito è associato alla lotta antifascista. I Cln di Fiume, di Pola e dell’Istria sono coinvolti nella lotta antifascista?
  2. No, nascono dopo la fine della guerra. Durante la guerra, in Istria i Cln praticamente non ci sono. Quello di Pirano e quello di Isola sono gli unici di cui abbia conoscenza, ma la loro attività fu pressoché insignificante. Tutti gli altri Cln sono nati, come dicevo, dopo la guerra e avevano come obiettivo il mantenimento di quei territori all’interno dello stato italiano. Facevano anche attività clandestina: raccoglievano informazioni di tipo giornalistico, che venivano passate a Radio Venezia Giulia, e di tipo spionistico, che passavano ai servizi segreti. C’era anche un’attività di tipo “militare” (sabotaggi, eccetera), ed è uno degli aspetti meno studiati di questa vicenda.

6.12

  1. L’orientamento politico dei profughi era determinante?
  2. Direi discriminante per poter accedere ai sostegni e agli aiuti dello stato. Per avere la qualifica di profugo, che dava diritto all’assistenza (aiuti economici, accesso al campo profughi, assistenza all’infanzia, ai giovani e agli anziani, impiego, assegnazione degli alloggi), si doveva passare per apposite commissioni al livello provinciale, di cui facevano parte, con ruolo decisivo, le organizzazioni dei profughi. Chi era considerato “non abbastanza italiano” non otteneva la qualifica. Va anche detto che non tutti i profughi erano ritenuti ugualmente meritevoli o affidabili per le iniziative di “rafforzamento dell’italianità” e di bonifica politica di zone ritenute “calde”. Spesso ai profughi le commissioni chiedevano anche di fornire informazioni su conoscenti e altro, e non tutti erano disponibili a farlo. I “cominformisti” istriani, cioè i comunisti che nel 1948 si schierarono con Stalin contro Tito e poi si rifugiarono in Italia, spesso nemmeno si rivolsero alle commissioni. E in queste ultime ci fu chi propose di non dare loro nessun tipo di assistenza. Alla fine, ai cominformisti fu concesso unicamente l’alloggiamento nei campi.

7.

Il viaggio continua. Possibili percorsi di approfondimento

Di Nicoletta Bourbaki

Per questo speciale abbiamo camminato nelle terre attraversate dal confine orientale d’Italia guardando al di là dell’Adriatico. Abbiamo incontrato sette autori le cui ricerche ci hanno colpito per la capacità di far luce su aspetti poco noti, o per l’originale sguardo multidisciplinare e sovranazionale. Accanto ai loro saggi ne aggiungiamo alcuni altri per chi voglia proseguire su questo cammino, valorizzando anche lavori scritti da storici stranieri. Per ogni proposta spieghiamo cosa ci ha indotto a selezionarla nella vasta letteratura scientifica disponibile sul tema. Molto infatti si è scritto in Italia in proposito, talora con risultati molto validi, ma spesso rimane da superare la ritrosia a varcare letteralmente il confine e confrontarsi con l’altro.

Ecco perché ci sembra inevitabile, pur con tutti i limiti del caso evidenziati nelle interviste, partire da Relazioni italo-slovene 1880-1956. Il testo è stato
approvato all’unanimità il 27 giugno 2000 dalla commissione storico-culturale italo-slovena, costituita nel 1993 sotto l’egida dei ministeri degli esteri dei due paesi e formata da storici sia italiani sia sloveni. Purtroppo, la relazione non ha avuto in Italia alcuna diffusione ufficiale. Lo scritto è lungo 30 pagine ed è liberamente scaricabile in diversi formati.

Per una carrellata visiva sulle medesime vicende sipuò guardare Meja – guerre di confine, documentario di Giuseppe Giannotti, prodotto da Rai Educational nel 2008, della durata di 58 minuti. Realizzato con il supporto scientifico del Centro di ricerca e documentazione storica e sociale Leopoldo Gasparini di Gradisca d’Isonzo (Go), è stato presentato in pubblico nel 2011 e infine trasmesso su Rai Storia nel 2016. Il video intervalla le immagini dell’epoca e le interviste ai testimoni con l’intervento di storici di diverse nazionalità, affrontando le vicende del confine orientale dal 1918 alla firma del trattato di Maastricht. Qui è suddiviso in 4 puntate di 12-15 minuti.

Entrando in biblioteca proponiamo un percorso cronologico, a partire dalle tematiche analizzate in questo speciale.

Rolf Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955 (il Mulino, 2009). Dalla costruzione dell’identità nazionale, al nazionalismo come forma di rappresentanza politica, al fascismo, all’occupazione nazista, alla lotta partigiana e alla nascita della Jugoslavia socialista: la storia politica e sociale del confine orientale vista da uno storico tedesco che conduce un’analisi comparativa tra la storiografia italiana, tedesca e slovena.

Piero Purini, Metamorfosi etniche: i cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria (1914-1975) (Kappa Vu, 2014). I bruschi sovvertimenti demografici sul confine orientale cominciano con la grande guerra. Questo saggio segue attraverso fonti italiane, tedesche, inglesi, slovene e croate tutti gli spostamenti di popolazione nell’area dal 1914 fino alla firma del trattato di Osimo nel 1975, pacificazione finale di un’area soggetta a svariati traumi correlati ai diversi scenari politici internazionali.

Marta Verginella, Il confine degli altri: la questione giuliana e la memoria slovena(Donzelli, 2008). Il libro di Verginella, professoressa ordinaria di storia del diciannovesimo secolo all’università di Lubiana, racconta la storia del litorale sloveno in maniera empatica e originale, conducendo il pubblico italiano alla scoperta delle ragioni dell’altro.

Milica Kacin Wohinz, Alle origini del fascismo di confine: gli sloveni della Venezia Giulia sotto l’occupazione italiana 1918-1921 (Fondazione Sklad Dorce Sardoc, 2010). La storia della comunità slovena della Venezia Giulia dall’annessione del territorio all’Italia fino all’invasione della Jugoslavia: dalle promesse tradite da parte delle nuove autorità italiane, alle violenze fasciste, alla snazionalizzazione forzata, all’emigrazione, alla nascita del movimento antifascista sloveno.

Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943) (Bollati Boringhieri, 2003). Le politiche di occupazione italiane in Europa durante la seconda guerra mondiale sono inquadrate come parte integrante del progetto imperiale fascista. Con un occhio particolare alle vicende della Grecia e dei Balcani, Rodogno rende esplicito il progetto di sfruttamento economico alla base dell’espansionismo italiano nell’Europa orientale, e descrive in modo preciso la logica tipicamente coloniale con cui furono gestiti i rapporti con le popolazioni dei territori occupati.

Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Yugoslavia (1941-1943)(Laterza, 2013). L’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse, l’esplodere della violenza su base “etnica” a opera di ustascia e cetnici (sostenuti rispettivamente da tedeschi e italiani nel quadro di una concorrenza tra alleati), il sorgere e lo sviluppo della resistenza guidata dai comunisti, le rappresaglie e le politiche repressive messe in atto dal regio esercito italiano. Attraverso citazioni e documenti non si tralascia di ricostruire le motivazioni e il vissuto delle parti in lotta.

Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943) (Einaudi, 2004). Il saggio descrive le diverse forme di reclusione dei civili a opera dell’Italia fascista nella seconda guerra mondiale e tratta la storia e il funzionamento di ogni singolo campo di prigionia, sia quelli posti sul territorio italiano sia quelli nei paesi occupati, tra cui spicca per dimensioni e mortalità quello dell’isola di Arbe/Rab, destinato ai familiari dei resistenti jugoslavi.

Alessandra Kersevan, Lager italiani: pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943 (Nutrimenti, 2008). Una ricostruzione minuziosa e documentata del sistema concentrazionario italiano allestito prima e durante l’invasione nazifascista della Jugoslavia. L’opera descrive struttura e funzionamento dei lager ubicati a Gonars, Arbe, Visco, Cairo Montenotte, Renicci, Colfiorito, luoghi dove morirono di fame, stenti ed esecuzioni sommarie migliaia di civili sloveni, croati, serbi, montenegrini. Istituzioni oggi dimenticate, delle quali anche il paesaggio – come la coscienza nazionale italiana – reca pochi segni.

Galliano Fogar, Dalle aggressioni fasciste alla occupazione nazista, in Dallo squadrismo fascista alle stragi della risiera (con il resoconto del processo). Trieste-Istria-Friuli 1919-1945 (Aned-Trieste, 1974). Nella “Venezia Giulia” la resistenza e la conseguente repressione antipartigiana cominciarono già nell’autunno del 1941, dopo l’invasione della Jugoslavia. Lo stato fascista mise in moto una macchina repressiva che, senza soluzione di continuità, dopo l’8 settembre 1943 fu inglobata nell’amministrazione militare nazista dell’Ozak. Fogar analizza i vari aspetti del collaborazionismo giuliano: amministrativo, militare, confindustriale.

Karl Stuhlpfarrer, Le zone d’operazione Prealpi e Litorale Adriatico, 1943-1945(Libreria Adamo, 1979). La ricostruzione dettagliata della storia della Zona d’operazioni Litorale Adriatico basata sull’analisi della documentazione esistente in lingua tedesca.

Bogdan C. Novak, Trieste 1941-1954: la lotta politica, etnica e ideologica (Mursia, 1973). Un libro non recentissimo (la prima edizione per la University of Chicago è del 1970), scritto da uno storico sloveno poi trasferitosi negli Stati Uniti. È stato uno dei primi studi ad analizzare comparativamente la storia di Trieste basandosi su fonti italiane, statunitensi e jugoslave, riuscendo in questo modo a inserire la questione della Venezia Giulia in un contesto realmente internazionale.

Nevenka Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due stati (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2009). La storia della questione di Trieste vista dall’altra parte, cioè da quella jugoslava. Questo volume ha permesso agli storici italiani di avere una visione degli avvenimenti non italocentrica, ma con un focus privilegiato sulla situazione e le aspettative degli abitanti del territorio di lingua slovena e sulle azioni e i provvedimenti delle autorità jugoslave.

Glenda Sluga. The problem of Trieste and the italo-yugoslav border, difference, identity, and sovereignty in twentieth-century Europe (SUNY Press, 2001). Analizzata da una prospettiva postcoloniale la questione della sovranità sulla città di Trieste nel secondo dopoguerra rivela l’inadeguatezza degli strumenti della “geopolitica” e la strumentalità delle retoriche nazionali di fronte a una realtà multiculturale e plurilinguistica.

Anna Di Gianantonio et alii, L’immaginario imprigionato. Dinamiche sociali, nuovi scenari politici e costruzione della memoria nel secondo dopoguerra monfalconese(Consorzio Culturale del Monfalconese; Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 2005). La vicenda dell’esodo dei cantierini monfalconesi in Jugoslavia e del turbolento dopoguerra in uno dei centri industriali più importanti dell’alto Adriatico, raccontata attraverso le testimonianze dei testimoni diretti e dei protagonisti.

Jože Pirjevec, Foibe: una storia d’Italia (Einaudi, 2009). Una ricerca che affronta il tema delle foibe inserendolo nella narrazione della storia dei rapporti tra le diverse popolazioni dell’alto Adriatico e nel contesto del secondo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra. Il testo svolge l’analisi sia dei documenti d’archivio sia delle narrazioni che hanno sovraccaricato i corpi rinvenuti nelle cavità carsiche di significati politici e identitari.

Costantino Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941-1952) (Ombre corte, 2007). Chi furono davvero gli infoibati? Nella maggior parte dei casi si trattò di deportati e talvolta di prigionieri di guerra. Quest’opera indaga in parte sul loro destino nei campi di prigionia jugoslavi nel drammatico dopoguerra di un paese devastato, ma soprattutto consente di esplorare la più vasta tematica dello scambio di prigionieri tra Italia e Jugoslavia nell’ambito dell’escalation politico-diplomatica avvenuta tra questi due paesi e di come essa abbia influenzato anche il discorso sulle foibe.

Claudia Cernigoi, Operazione foibe tra storia e mito (Kappa Vu, 2005). Elenchi di infoibati/deportati della Venezia Giulia cominciarono a essere diffusi già durante la guerra, ritornando in auge negli anni ottanta-novanta con numeri di vittime ancor maggiori. Con una verifica accurata negli archivi, Claudia Cernigoi ha scoperto molti dati inesatti (persone ancora vive, duplicazioni, morti per altre cause, eccetera), in molti casi la collaborazione attiva con i nazisti degli scomparsi da Trieste, e ha indagato sul passato spesso torbido dei personaggi che pubblicarono queste liste. È significativo che alcuni ambienti abbiano reagito con l’accusa di negazionismo: un’accusa solitamente riferita alla negazione della shoah e per estensione a realtà scientifiche incontrovertibili, che in questo caso è stata strumentalmente rovesciata di significato e da allora è utilizzata frequentemente per chiunque manifesti un approccio critico al tema delle foibe.

Cristiana Colummi, Liliana Ferrari, Gianna Nassisi, Germano Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956 (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 1980). A tutt’oggi il punto di partenza per ogni ricerca sull’esodo istriano del secondo dopoguerra. Un’indagine sulla situazione precedente alla partenza, sulle paure reali o indotte negli istriani, sulla dinamica dell’esodo, sulle sue ragioni, sulla propaganda sia jugoslava sia italiana. In questo studio sono trattate per la prima volta con sistematicità la varie fasi dell’esodo, i problemi di quantificazione dei profughi, le loro condizioni e il loro destino una volta giunti in Italia. Recentemente l’Irsml ha digitalizzato il volume, che è oggi liberamente consultabile su Google Books.

Sandi Volk, Esuli a Trieste: bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale (Kappa Vu, 2004). Un libro che si focalizza soprattutto sulla condizione degli esuli dopo la partenza e sull’uso che fu fatto di essi da parte dei partiti di area governativa e da parte delle associazioni dei profughi per modificare gli equilibri etnico-nazionali e politici dei territori dove vennero insediati.

Gloria Nemec, Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria 1930-1960 (LEG, 2015). Alla metà degli anni novanta Nemec ha condotto un’importante opera di ricerca nell’ambito della storia orale relativamente alla comunità di un piccolo paese istriano, Grisignana d’Istria. La ricercatrice ha raccolto le testimonianze di coloro che se ne andarono nel dopoguerra ma anche di alcuni rimasti. Il puntuale confronto tra le memorie degli intervistati e una ricostruzione della storia sociale e politica dell’Istria fa emergere le complesse realtà celate dietro la scelta dell’esodo così come di quella di rimanere nel proprio paese d’origine, nonché i processi di costruzione dell’identità legati a tali scelte.

Pamela Ballinger, La memoria dell’esilio. Esodo e identità al confine dei Balcani (Il Veltro Editrice, 2010). Gli istriani, esuli e rimasti, sono stati per l’antropologa statunitense Pamela Ballinger il case study perfetto per indagare l’intreccio tra identità, memoria e frontiera. Nel saggio passa al setaccio ogni narrazione dell’esodo, sia essa pubblica o privata, storiografica o letteraria, nazionale o internazionale. Il risultato è una cartina di tornasole delle rappresentazioni date nel tempo del confine orientale, dall’irredentismo fino alla “vigilia” del Giorno del ricordo (il testo originale in inglese è stato pubblicato nel 2003).

Federico Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico (Kappa Vu, 2014). La ricostruzione di come il tema “foibe” è stato ed è trattato nel dibattito pubblico e sui mezzi d’informazione italiani, analizzando le semplificazioni e le distorsioni dei fatti storici in una chiave comparativa europea e rintracciando le radici e lo sviluppo delle narrazioni contemporanee.

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